AMBROGIO (Ambrosius), santo
Vescovo di Milano (374-397) Nacque verso il 330 o poco prima, da famiglia romana, e probabilmente a Treviri dove il padre, che era uno dei quattro prefetti del pretorio dell'Impero, aveva allora la sua residenza. Morto questi verso il 354, la vedova con i suoi tre figli, Satiro, Marcellina ed A., tornò a Roma, dove A. si preparò a percorrere il cursus honorum delle pubbliche magistrature. Verso il 372 o 373 per la protezione di Sesto Petronio Probo, prefetto del pretorio d'Italia, fu nominato governatore consularis della Liguria e dell'Emilia con sede a Milano. Era allora vescovo di quella città Aussenzio, nativo di Cappadocia e di parte ariana, durante il lungo episcopato del quale (335-374) la parte cattolica aveva sofferto molte vessazioni. Alla sua morte scoppiò quindi un vivo conflitto. A., che per dovere di ufficio interveniva alle riunioni, venne egli stesso eletto vescovo per acclamazione, sebbene fosse un laico, anzi non avesse ricevuto ancora neppure il battesimo. Questa elezione contraria ai canoni che proibivano l'elevazione di laici all'episcopato, fu, a quanto pare, dovuta all'entusiasmo del popolo per il suo giovane governatore, seppure non fu il risultato di un compromesso tra i due partiti. A. cercò di sottrarsi all'inaspettato incarico, ma cedette all'ordine espresso dell'imperatore ed in pochi giorni ricevette il battesimo, gli ordini e la consacrazione episcopale (7 dicembre 374).
Da vescovo di Milano, che era allora la residenza preferita degli imperatori di occidente, A. si trovò mescolato ai più grandi avvenimenti politici e religiosi del tempo, vi prese parte attiva assumendo spesso posizione di battaglia, ed esercitò una grande influenza in nome di un'autorità morale e religiosa, di cui egli si considerava in tutta coscienza come il depositario autorizzato da Dio. Morì a Milano il 4 aprile 397.
Attività politico-religiosa. - L'autorità di cui A. godette presso gl'imperatori del suo tempo, prima Graziano, poi Valentiniano II e Teodosio, mirò principalmente ad assicurare l'adozione di più severe misure contro i culti pagani, a togliere agli ariani o arianeggianti l'appoggio del potere civile e a ristabilire la pace nella Chiesa. Graziano fu il primo imperatore a rinunziare al titolo di Pontifex Maximus e con lui la legislazione romana prese quell'atteggiamento definitamente ostile ai culti tradizionali di Roma, che culminò con l'editto del 382 in cui si ordinava la rimozione della statua della Vittoria dalla Curia di Roma. L'editto provocò una forte resistenza e vive proteste da parte dei senatori pagani; ma frattanto Graziano veniva assassinato a Lione dall'usurpatore Massimo che rimaneva padrone delle Gallie, lasciando l'Italia a Valentiniano II. Simmaco, senatore e prefetto di Roma indirizzò al nuovo imperatore un'eloquentissima difesa dei culti patrî, producendo un'impressione vivissima nel circolo imperiale. A. venne alla riscossa prima con una vibrata lettera all'imperatore (Ep. XVII), poi con una minuziosa confutazione della difesa di Simmaco (Ep. XVIII). L'editto di Graziano fu confermato, ma la questione si trascinò ancora sino a che non fu più tardi risoluta da Teodosio in favore della parte cristiana. Il cristianesimo diveniva oramai la religione di stato. La difesa di Simmaco e le due lettere di A. sono documenti eloquenti della nuova situazione. Simmaco non domandava che una benevola tolleranza per la religione antica, affinché "la religione romana non fosse messa fuori dal diritto romano" e concludeva con il solito spunto apologetico delle calamità dell'Impero, quale punizione degli dei trascurati e rinnegati. Ma su questo punto di facile confutazione A. appunta i suoi strali e la sua ironia; al paganesimo implorante tolleranza, egli rinfaccia la sua intolleranza sanguinosa verso i cristiani nel passato; giustifica la confisca delle proprietà delle istituzioni religiose pagane con l'affermare che neppure la chiesa cristiana domandava possessi temporali, poiché quanto essa possedeva era in realtà dei poveri. Ma, soprattutto, A. ricordava all'imperatore il suo dovere di cristiano e lo minacciava d'incorrere in sacrilegio se avesse annuito alla richiesta di Simmaco. Tutto il programma religioso-politico della Chiesa medievale si trova già in germe nelle parole di Ambrogio.
Le due successive missioni diplomatiche affidate ad A. presso l'usurpatore Massimo (la prima nell'inverno del 383-384, la seconda generalmente assegnata al 386-387, ma avvenuta forse nel 385), ebbero scopo puramente politico. Si trattava di persuadere Massimo a non invadere l'Italia, lasciandola al fanciullo Valentiniano II sotto la tutela della madre Giustina. Non pare che A. ottenesse molto dall'usurpatore (Ep. XXIV). Nel 388 Massimo invase l'Italia e conquistò Roma, ma, sopravvenuto Teodosio dall'Oriente, fu battuto e massacrato dai soldati ad Aquileia.
Nonostante questi servigi resi a Valentiniano II, A. durante il 385 ed il 386 dovette sostenere fierissime lotte con la corte che favoriva il partito ariano. L'imperatrice Giustina era rimasta attaccata alla confessione semi-ariana di Rimini e la corte era piena di generali e di funzionarî di origine barbara ed ariani. Ripetuti editti imperiali durante quei due anni, specialmente all'avvicinarsi delle feste pasquali, ordinavano che si consegnassero alcune basiliche agli ariani. Il rifiuto energico del vescovo e i tumulti del popolo fedele ad A. ne impedirono l'esecuzione. Le basiliche furono invase dalla popolazione, che vi si accampò per giorni affine d'impedirne l'ingresso ai soldati, e non valsero né esortazioni, né minacce, né arresti in massa per vincerne la resistenza. A., sfidando il potere civile, commentava frattanto al popolo passi dei libri sacri (Ep. XX) e teneva occupata la moltitudine, specialmente nelle lunghe ore di veglia, col canto d'inni e salmi a cori alternati, usanza già praticata in Oriente e che da allora divenne comune anche nelle chiese occidentali. La fermezza di A., che non esitava a negare in modo assoluto ogni diritto del potere civile d'intervenire nell'amministrazione della Chiesa (Ep. XXI), finalmente vinse e l'imperatore, che non osava far mettere le mani addosso al vescovo tanto popolare, cedette. Le relazioni tra Teodosio ed A. furono sempre improntate a mutua stima e grande rispetto; ma in due occasioni A. non esitò a censurare l'imperatore e a domandare riparazioni. In Callinico, città dell'Osroene, erano scoppiati tumulti durante i quali, sembra ad istigazione del vescovo, una sinagoga giudaica venne incendiata e distrutta. Teodosio ordinò che si punissero i colpevoli e che si riedificasse la sinagoga a spese del vescovo. Ad A. ciò parve un insulto alla Chiesa cristiana e in una lettera all'imperatore (Ep. XL) qualificava di sacrilegio l'ordine di usare il patrimonio della chiesa (del vescovo) per edificare una sinagoga. E poiché Teodosio, convinto dell'equità del suo giudizio, non cedeva, un giorno A. pronunziò in chiesa alla presenza dell'imperatore una violenta invettiva contro i giudei esclusi dalla grazia e dalla redenzione per la loro cecità, e ricordò energicamente a Teodosio i benefici ricevuti da Dio e dalla Chiesa (Ep. XLI, alla sorella Marcellina). L'editto fu ritirato. Con ciò A. incitava la legislazione romana ad adottare regolarmente misure restrittive contro tutta una classe di cittadini non cristiani. Il secondo incidente fu quello del massacro di Tessalonica ordinato da Teodosio in un momento d'ira, al ricevere la notizia che durante un tumulto il governatore ed altri funzionarî imperiali erano stati assassinati. La lettera di A. a Teodosio (Ep. LI) è un documento nobilissimo di coraggio e di alto senso morale. Vi si denunzia l'enormità della repressione che aveva fatto tante vittime innocenti e dell'imperatore stesso un reo di grave peccato da espiarsi pubblicamente prima di presentarsi all'altare. Per otto mesi Teodosio resistette, ma, avvicinandosi il Natale, domandò la riconciliazione, si sottomise ad una penitenza pubblica e fu riammesso alla comunione. Il racconto dello storico Teodoreto, col drammatico incontro dell'imperatore e di A. dinanzi alla porta della basilica e le impressionanti umiliazioni pubbliche a cui Teodosio si sarebbe sottomesso, sembra in gran parte leggendario; ma ciò nulla toglie al valore morale e storico dell'episodio.
Uomo di governo e spirito pratico, A. fu un fedele sostenitore delle istituzioni politiche dell'Impero, ma in lui le virtù romane erano illuminate dalle ragioni superiori dello spiritualismo e della morale cristiana; ed egli non esitò mai a sostenere di fronte ai sovrani, e con straordinaria fermezza, i diritti della legge divina e di quella ecclesiastica. Sebbene invocasse qualche volta l'appoggio del potere civile, come nel caso degli orientali, si può dire che in massima A. ripudiasse ogni ingerenza di esso in affari ecclesiastici e condannasse i costanti abusi che di tale ingerenza facevano i vescovi. Ridonda pure ad onore di A. l'avere rifiutato ogni comunione coi vescovi che avevano portato innanzi la corte dell'imperatore Massimo la causa di Priscilliano, provocandone la condanna a morte, e l'avere deplorato lo spargimento di sangue per divergenze dottrinali.
Governo ecclesiastico. - Tra le grandi figure di vescovi del sec. IV quella di A. è una delle più cospicue per lo zelo instancabile nell'adempimento della sua missione. Le lotte e le controversie dottrinali contro eretici e dissidenti, la formazione morale del clero, l'istruzione religiosa del popolo, la direzione delle anime dedite all'ascetismo, la restaurazione e fabbrica di nuove basiliche, la regolarizzazione della liturgia, il culto dei martiri e la cura dei poveri, degli orfani e dei bisognosi, furono il campo in cui A. lasciò tracce profonde della sua attività. Il suo epistolario è ricco d'informazioni a questo riguardo. Da esso apprendiamo (Ep. XXII) il famoso episodio della invenzione dei corpi dei santi Gervasio e Protasio, avvenuta proprio quando i torbidi di Milano per la questione delle basiliche reclamate dagli ariani aveano raggiunto il periodo più acuto. Le agiografie del tempo sono piene di racconti di visioni rivelatrici di luoghi dove corpi di martiri giacevano ignorati; e, come osserva il Duchesne (Hist. anc. de l'Église, II, Parigi 1907, p. 554) A. divenne abilissimo in tali scoperte e così più tardi trovò a Bologna la tomba dei santi Vitale ed Agricola e di nuovo a Milano quelle dei santi Nazario e Celso. Ma l'attività di A. si esercitò anche fuori dell'ambito della sua chiesa. Non di rado egli prese l'iniziativa in affari di ordine generale e la sua autorità era così rispettata, che a lui, più ancora che ai vescovi di Roma, si rivolgevano quanti cercavano che la Chiesa riorganizzasse i proprî ordinamenti e mettesse riparo al processo di disgregamento prodotto dalla crisi ariana. All'opera di restaurazione della Chiesa occidentale A. prese parte vivissima; impedì l'elezione di vescovi arianeggianti, altri ne fece deporre, e fu l'anima di parecchi sinodi, tra cui quelli di Aquileia (382?), di Roma (387), di Capua (391): uno ne convocò egli stesso a Milano, in cui fu condannato Gioviniano per i suoi attacchi contro la verginità. Il suo interessamento si estendeva a tutte le chiese ed egli non risparmiava consigli e suggerimenti, esortazioni e minacce e soprattutto non lasciava passare occasione per distogliere gl'imperatori dal favorire coloro che a suo giudizio nuocevano alla Chiesa. Si occupò vivamente anche degli affari della Chiesa orientale sebbene il suo intervento in cose, di cui evidentemente era male informato, riuscisse in fondo più dannoso che utile alla pace. L'appoggio dato a Paolino, contro il vescovo Melezio di Antiochia, l'errore commesso nel sostenere anche per poco la causa del malfamato Massimo detto il Cinico, pretendente alla sede di Costantinopoli contro S. Gregorio di Nazianzo e il suo successore Nettario, non fecero che acuire il risentimento degli orientali contro l'intervento degli occidentali, che nulla capivano della situazione vera di quelle chiese e che stranamente diffidavano della sincerità di quel gruppo di vescovi capitanati dai grandi Dottori cappadoci, i quali si sforzavano di ristabilire la concordia dopo tante tragiche lotte e dolorose scissioni.
Attività letteraria. - Quale autore di trattati dottrinali e morali, A. è annoverato tra i grandi dottori della Chiesa latina. Al tempo della sua elevazione all'episcopato, egli difettava intieramente di preparazione teologica e, come dice egli stesso, si trovò nella necessità d'insegnare prima ancora di avere imparato. Imparò presto e bene; ma sia per il carattere pratico della sua mentalità, sia perché tutto preso dalle esigenze del governo ecclesiastico, A. non fece opera originale di speculazione teologica e di esposizione morale. Più che altro, egli fu un divulgatore. I suoi trattati teologici non sono che collezioni di sermoni predicati al popolo e poi raccolti e messi insieme da lui stesso per istruzione ed edificazione dei fedeli. Gli scritti ambrosiani si possono classificare in esegetici, dogmatici, morali-ascetici, a cui bisogna aggiungere una non larga collezione di orazioni specialmente funebri, l'epistolario e gl'inni liturgici. Dei trattati esegetici ce ne sono pervenuti una ventina, quasi tutti sul Vecchio Testamento, il più esteso e più noto dei quali è l'Hexaemeron in sei libri (sui sei giorni della creazione: Genesi I-II, 4).
Degli altri diamo i titoli: De Paradiso; De Cain et Abel; De Noe; De Abraham l. II; De Isaac et anima; De bono mortis; De fuga saeculi; De Jacob et vita beata, l. II; De Joseph patriarcha; De patriarchis; De Helia et ieiunio; De Tobia; De interpellatione Job et David; Apologia prophetae David; Enarrationes in XII Psalmos davidicos; Expositio in Psalmum CXVIII; Expositio evangelii secundum Lucan, l. X.
A torto si è creduto che A. fosse l'introduttore del metodo allegorico nell'esegesi latina; però non vi è dubbio che egli ne sia stato il gran divulgatore (v. allegoria). Poco derivò dai teologi latini suoi predecessori, ma attinse in larga copia dai teologi greci dai quali trasse non solo il metodo, ma anche il contenuto dottrinale dei suoi trattati. Filone e Origene furono gli autori principali a cui attinse A., mettendo pure a larga contribuzione Ippolito e specialmente Basilio, l'Hexaemeron del quale egli spesso riproduce e parafrasa nel suo trattato dallo stesso titolo. Dominato da preoccupazioni di ordine pratico ed ansioso di trarre dai testi sacri ogni sorta d'insegnamenti positivi per istruzione del popolo, A. usò e abusò del metodo allegorico, e servì di modello ai teologi latini posteriori. Molto pure derivò dagli scrittori profani, greci e latini, ch'ebbe familiari; così nell'Hexaemeron, a proposito della creazione degli animali, si dilunga a descriverne i costumi ed il simbolismo, specialmente degli uccelli, attingendo molte nozioni da Plinio, da Eliano e dai poeti, e creando così il modello a cui si ispirarono anche nell'ordine della trattazione gli Specula, in cui i teologi medievali descrissero l'universo e ne spiegarono il complicato simbolismo.
Delle opere dogmatiche di A. ci restano un trattato De fide, scritto nel 378 e poi rifatto nel 381, per uso dell'imperatore Graziano, tre libri De Spiritu Sancto, dedicati allo stesso, ed un trattato De Incarnationis dominicae sacramento, scritto nello stesso periodo. Più che altro sono affrettate compilazioni fatte sui trattati dogmatici (specialmente per il De Spiritu Sancto) di Atanasio, Basilio, Didimo il Cieco, Gregorio di Nazianzo ed Epifanio. S. Girolamo, che indubbiamente aveva dei rancori contro A. (riflettendo forse in questo suo atteggiamento l'irritazione del circolo romano di papa Damaso contro l'inframmettenza di A. in affari che erano al di fuori della sua giurisdizione ecclesiastica), nella prefazione alla sua traduzione del trattato di Didimo, dedicata appunto a papa Damaso, diede un giudizio molto severo sul De Spiritu Sancto: "Preferisco farla da traduttore di lavori di altri, anziché, come fanno certuni, da cornacchia disgustosa che si adorna delle penne altrui. Lessi poco fa il lavoruccio di un tale (A.) sullo Spirito Santo, e, come dice il poeta comico, ex graecis bonis, vidi latina non bona. Nulla di dialettico in esso, nulla di virile, nulla di convincente" (Patrol. lat., XXIII, c. 103). Ciò non ostante i trattati dogmatici di A. hanno una grande importanza nella storia della teologia latina, perché da essi i teologi occidentali derivarono in larga misura formulazioni dottrinali e processi di esposizione, caratteristici nella tradizione teologica. A questa classe di scritti si possono aggiungere il breve trattato De mysteriis, esposizione catechistica, in cui attraverso faticose parafrasi di testi biblici A. spiega il contenuto simbolico del rituale, e il trattato De paenitentia (commento al Salmo XXXVII) diretto contro i sopravviventi novazianisti che negavano alla Chiesa il potere di riconciliare i peccatori.
Il trattato De officiis ministrorum rappresenta il primo tentativo di una sintesi dell'etica cristiana dedicato, giusta il titolo, al clero, ma di fatto a tutta la società cristiana. In questo lavoro, A. segue da vicino il De officiis di Cicerone, non solo nel piano generale dell'opera, ma anche nelle idee e spesso nelle espressioni, accomodando l'insegnamento stoico a quello biblico e della tradizione cristiana. Come è stato osservato (Thamin, Saint Ambroise et la morale chrétienne au IV siècle, Parigi 1895), A. prese dalla morale stoica, di cui Cicerone era stato l'interprete eloquente, una serie di nozioni, quali la distinzione tra la ragione e le passioni, l'argomento del bene supremo, la classificazione delle virtù, la distinzione tra doveri primarî e secondarî, il valore attribuito al giudizio della coscienza, ecc. Però in A. queste nozioni sono compenetrate da uno spirito ben diverso e illuminate da ragioni superiori, ignote a Cicerone, e sanzionate con efficacia nuova.
Di carattere morale-ascetico sono parecchi trattati di A., concernenti specialmente la verginità (De virginibus ad Marcellinam, De virginitate, De institutione virginis, Exhortatio virginitatis, ecc.) presentata come la virtù essenzialmente cristiana ed esaltata con immagini e parole eloquenti quale istituzione divina. La continua ed entusiasta propaganda di A. per la verginità provocò l'accusa ch'egli condannasse il matrimonio, e perciò contribuisse allo spopolamento; egli si difese riconoscendo l'ordinamento divino nel matrimonio. D'altra parte egli invitava a riflettere che là dove spesseggiano le vocazioni verginali s'addensa e s'accresce provvidenzialmente la popolazione. Con ciò, come è stato argutamente osservato (Ricerche religiose, IV, 1928, p. 185), A. scambiava ingenuamente l'effetto con la causa. La sua celebrazione della verginità e l'esempio della sua vita stessa, che fu tutta un nobile saggio di austerità e di pietà, contribuirono molto alla cristallizzazione nella tradizione cattolica latina di certi principî ascetici che influirono non poco in seguito sull'intiera disciplina ecclesiastica.
Le orazioni funebri (in morte del fratello Satiro, di Valentiniano II, e di Teodosio) sono tra i migliori esempî dell'eloquenza latina del sec. IV; in esse A., pur usando abilmente di tutte le risorse dell'arte retorica, dà libero sfogo a sentimenti, affetti e reminiscenze personali, intrecciandovi considerazioni filosofiche, religiose e morali sulla morte e sulle vicende della storia umana. L'epistolario di A. comprende 91 lettere, parecchie delle quali però sono rapporti o scritti di origine non epistolare. Esse costituiscono un documento storico di primaria importanza, sia per la biografia di A., sia perché, data la partecipazione di lui ad affari religiosi e politici, sono anche una fonte importante per la storia del tempo.
Non ultima fra le attività di A. fu la sua contribuzione all'innografia cristiana. Abbiamo già accennato come, durante i conflitti per il possesso delle basiliche in Milano, A. tenesse occupato il popolo che faceva la guardia col canto di salmi e di inni. Egli stesso ne compose parecchi; ma degl'innumerevoli inni che nelle raccolte vanno sotto il nome di ambrosiani soltanto una dozzina possono sicuramente attribuirsi a lui. Sono scritti nel metro classico (dimetro giambico) però, sebbene i versi siano strettamente quantitativi, la loro struttura mostra molta affinità con quella della poesia ritmica. Composti con lo scopo pratico di esporre la dottrina cattolica in modo da colpire l'immaginazione popolare, questi inni possiedono allo stesso tempo ammirevoli qualità: semplicità di frasi, evidenza d'immagini e fervore evangelico. Essi servirono di modello, ed A. può a ragione considerarsi come il padre della innologia liturgica latina.
Iconografia. A Milano e alla Lombardia appartengono le più antiche rappresentazioni di S. Ambrogio. Sono: un ritratto in mosaico nella cappella di S. Satiro della Basilica Ambrosiana, attribuito alla fine del V secolo, raffigurante il Santo senza nimbo e senza attributi; l'Altare d'oro della stessa basilica, illustrante in dodici riquadri episodî della sua vita; un'immagine clipeata, in stucco, della fine del secolo XII; le sculture del ciborio e infine il mosaico dell'abside, nel quale, annessi alla figurazione principale, sono due riquadri illustranti il sogno del Santo in occasione del seppellimento di Martino vescovo di Tours.
S. Ambrogio ha per attributi il libro, perché Dottore della Chiesa, l'alveare, simbolo di eloquenza e allusivo alla leggenda (non esclusiva di A.) illustrata nel paliotto d'oro e forse negli affreschi di Masolino in San Clemente a Roma, che ad A. bambino delle api iniettassero senza pungerlo il miele; il flagello, che la leggenda variamente riferisce all'episodio della penitenza imposta a Teodosio, o alle vittorie del santo contro gli ariani o all'aiuto da lui dato ai Milanesi in una battaglia del 1339. Il più antico monumento che lo rappresenti con il flagello è una scultura in Sant'Ambrogio di Milano, del sec. XIII.
Ediz.: La prima edizione critica fu quella dei benedettini di S. Mauro, S. Ambrosii Opera, ad mss. codd. Vatic. Gallic. Belg. etc. emendata, studio monachorum S. Bened. (J. du Friche e Nic. Le Nourry), voll. 2, Parigi 1686-1690, riprodotta in Patrologia latina, XIV-XVII P. A. Ballerini ne curò una nuova edizione in sei volumi (Milano 1875-1883) usando anche, ma con poco discernimento, manoscritti della Biblioteca Ambrosiana. Nel Corpus scriptorum ecclesiast. latin. di Vienna sono apparse sinora le opere esegetiche (vol. XXXII, in 3 parti, per cura di C. Schenkl, 1897-1902; vol. LXII, 1923 e vol. LXIV, 1922, per cura di M. Petschenig). Per la cronologia delle opere vedi M. Ihm, Studia Ambrosiana, in Jahrbücher für klass. Philol., suppl. XVII, 1890.
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