Anastasio I, santo
Successe a papa Siricio. Il Liber pontificalis menziona la sua origine romana, il nome del padre, Massimo, e la durata del suo pontificato in tre anni e dieci giorni; di A. ricorda poi un decreto concernente il dovere dei presbiteri di ascoltare la lettura del vangelo stando in piedi a capo chino ("curvi starent"), una costituzione "de ecclesia", altrimenti sconosciuta, la costruzione di una basilica, "quae dicitur Crescentiana, in regione II, via Mamurtini, in urbe Roma", di incerta identificazione (cfr. Le Liber pontificalis, p. 218; Ch. Pietri, pp. 474-76).
L'ubicazione della basilica "Crescentiana" è controversa dato che l'indicazione "in regione II" potrebbe riferirsi sia alla numerazione augustea sia a quella ecclesiastica. Il titulus è stato ipoteticamente localizzato al Quirinale, dove esisteva forse un "vicus Mamuri" o "Mamurtini", ed anche presso la chiesa di S. Sisto Vecchio, vicina alle terme di Caracalla, dove è attestato il "titulus Crescentianae" (Lexicon Topographicum Urbis Romae). Il Liber pontificalis riferisce inoltre di alcune disposizioni atte a regolare gli appelli dei chierici africani alla Sede romana, motivandole con la presenza di manichei a Roma, il numero delle ordinazioni presbiterali, diaconali ed episcopali effettuate e infine la sepoltura "in cymiterio suo ad Ursum pileatum", cioè nel cimitero di Ponziano sulla via Portuense, con la data relativa. A. fu sepolto nell'area subdiale del cimitero, come testimonia l'itinerario altomedievale Notitia ecclesiarum: "Tunc ascendis et pervenies ad sanctum Anastasium papam et martyrem" (Codice topografico).
Alcune tra le notizie fornite dal Liber pontificalis hanno suscitato perplessità e studi, soprattutto la cronologia relativa alla permanenza di A. sulla sede episcopale, che oggi viene generalmente stabilita, come si vedrà, tra il 27 novembre del 399 e il 19 dicembre del 401 o, meno probabilmente, 402. Di A. si hanno tre lettere che testimoniano il suo coinvolgimento nella controversia origenista specialmente in relazione alla traduzione del De principiis operata da Rufino, coinvolgimento peraltro attestato anche da Girolamo il quale, scrivendo a Demetriade, ricorda l'impegno di A. nella lotta contro l'eresia (cfr. Girolamo, ep. 130, 16; cfr. anche ep. 97, 4). A. infatti aveva ricevuto da Teofilo di Alessandria l'invito a condividere la condanna pronunciata contro le opere di Origene dal sinodo di Alessandria del 400. Avendo forse poca dimestichezza con la questione, egli convocò un sinodo a Roma a cui invitò Rufino, che non si presentò (cfr. Girolamo, Apologia contra Rufinum III, 20-1), e in cui furono condannate le controverse tesi origeniane; in seguito scrisse a Simpliciano, vescovo di Milano (ep. 2, in P.L., XX, coll. 73-6; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 276; la lettera è riportata pure da Girolamo, ep. 95), esaltando l'azione di Teofilo e invitando il collega a proibire la lettura dei libri di Origene: in tale contesto A. faceva notare anche la posizione della Chiesa di Roma come ricollegantesi al "princeps apostolorum" e "gloriosus Petrus" e alla sua fede. Il papa rilevava inoltre la funzione di Eusebio (di Cremona), latore della lettera, il quale aveva sottoposto alla sua attenzione alcuni "capitula blasphemiae" da lui estratti dalle opere di Origene e concludeva comunicando di averli già personalmente condannati e di unire nella condanna anche altre eventuali tesi origeniane "cum suo auctore" (ep. 2, 3).
Inviò poi anche a Venerio, che nel medesimo anno, il 400, succedette a Simpliciano nella sede episcopale di Milano, una lettera in cui, dopo aver ricordato i difensori del Credo niceno che avevano patito per la loro opposizione alla dottrina ariana (tra cui il vescovo di Roma Liberio), chiese una analoga opposizione da parte di tutti i vescovi contro Origene per condannarlo con la sua dottrina. In questa lettera, inoltre, è fatto esplicito riferimento alle indicazioni ricevute da parte di Teofilo, in termini tali da rendere evidente come A., prima delle sollecitazioni pervenutegli dal collega alessandrino, non avesse avuto conoscenza delle dottrine contestate, e forse nemmeno del nome del loro autore, e si basasse quindi su quanto Teofilo riferiva di aver letto negli scritti di Origene ("refert se legisse libros quondam illius, qui dictus est, Origenis, in quibus sunt tantae blasphemiae in legem divinam vel in evangelium Christi Domini nostri [...]"; la lettera fu pubblicata e definitivamente attribuita ad A. da J. van den Gheyn, pp. 1-12; P.L., Supplementum, I, coll. 791-92; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 281*; Clavis Patrum Latinorum, nr. 1639).
La terza lettera di A. è una risposta a Giovanni, vescovo di Gerusalemme, che gli aveva chiesto un parere su Rufino (ep. 1, in P.L., XX, coll. 68-73; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 282). Questi aveva già indirizzato al vescovo di Roma una apologia per difendersi dalle accuse sul suo conto che Girolamo e i suoi amici avevano diffuso in Italia (cfr. Rufino, Apologia contra Hieronymum I, 19; Girolamo, Apologia contra Rufinum I, 12) e in tale scritto aveva inserito anche una propria professione di fede circa la Trinità, l'incarnazione, la risurrezione, il giudizio e la condanna del diavolo, l'origine dell'anima, ritenuta identica a quella professata nelle Chiese di Roma, Alessandria ed Aquileia e predicata a Gerusalemme, e si era dichiarato non difensore di Origene ma suo semplice traduttore, e neppure il primo (cfr. Rufino, Apologia ad Anastasium). A. rispose al vescovo di Gerusalemme distinguendo tra la condanna di Origene, che ribadì, e il giudizio sulle intenzioni di Rufino nel redigere la sua traduzione: su questo secondo aspetto egli si astenne dal pronunciarsi rimandando il giudizio a Dio sulla base di 1 Re 16, 7. Secondo Girolamo (Apologia contra Rufinum III, 20-1) A. mandò anche lettere in Oriente per mettere in guardia nei confronti della traduzione rufiniana del De principiis (Regesta Pontificum Romanorum, nr. 284*). Altro intento che A. perseguì fu quello di instaurare uno speciale rapporto con il vescovo di Tessalonica, Anicio, allo scopo di legare quella sede episcopale a Roma in un tempo in cui l'Illirico orientale, di cui Tessalonica faceva parte, era divenuto prefettura dell'Impero d'Oriente e quindi era facile subisse l'influenza ecclesiastica di Costantinopoli: fonte di questi fatti è il suo successore, papa Innocenzo, che scrivendo ad Anicio menzionerà l'attività di A. in questo senso (ibid., nr. 275*; cfr. Innocenzo, ep. 1). A. fu in ottimi rapporti con Girolamo, il quale interpretò la brevità del suo episcopato come un segno che Roma non meritava un vescovo così insigne (cfr. Girolamo, ep. 127, 10) e lo definì "uomo di ricchissima povertà e di sollecitudine apostolica" (vir ditissimae paupertatis et apostolicae sollicitudinis, ep. 130, 16).
Si ha notizia anche di un rapporto epistolare con Paolino di Nola nel corso del quale A., subito dopo la sua ordinazione, mostrò il proprio affetto per i vescovi della Campania; si intrattenne poi con Paolino stesso in occasione di un suo viaggio a Roma per la festa degli apostoli; in seguito lo invitò, nonostante Paolino fosse ancora solo presbitero, per l'anniversario del suo pontificato ("natalis") che A. era solito celebrare con altri vescovi: il Nolano rileva come il papa non si fosse offeso delle scuse che egli gli aveva inviato per giustificare la sua assenza e avesse accolto benevolmente il suo discorso di saluto (cfr. Paolino, ep. 20, 2; Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 273*-74*).
A. ebbe anche relazioni con gli africani per quanto concerne il donatismo. Nel giugno del 401 i vescovi riuniti in un concilio a Cartagine, constatando la difficoltà di reperire membri del clero, decisero di inviare un loro rappresentante da papa A. e dal vescovo di Milano Venerio per chiedere che quanti fossero stati battezzati in età infantile dai donatisti e fossero poi passati alla Chiesa cattolica potessero essere ammessi nel clero (cfr. Concilia Africae a. 345-a. 525, pp. 194-96), questione su cui un precedente concilio africano del 397 aveva consultato papa Siricio e il vescovo di Milano Simpliciano (ibid, p. 186). Il 13 settembre dello stesso anno un documento conciliare africano attesta che i vescovi avevano ricevuto da A. lettere in cui venivano esortati a non venir meno alla lotta contro il donatismo (Regesta Pontificum Romanorum, nr. 283*).
Non risulta se A. avesse accolto o meno le precedenti richieste degli africani ma, dato il silenzio del testo conciliare al riguardo, ciò sembra improbabile. In questo successivo concilio, quindi, i vescovi, dopo aver dato lettura dell'epistola di A. e aver manifestato la propria gratitudine, decisero di inviare lettere ad altri fratelli nell'episcopato e soprattutto ad A. per rendere nota la necessità che l'Africa aveva, per la pace e l'utilità della Chiesa, di consentire che i chierici donatisti che volessero tornare alla Chiesa cattolica, previo il consenso del vescovo del luogo, fossero reintegrati nel clero (cfr. Concilia Africae a. 345-a. 525, pp. 198-200). Non è noto se tale messaggio sia stato effettivamente inviato al papa né se il papa abbia risposto. È certo però che poco tempo dopo, nel 417, Agostino, scrivendo al tribuno Bonifacio, presenta la reintegrazione dei chierici donatisti nella loro dignità ministeriale come prassi consueta, resasi necessaria per il ricupero dell'unità della Chiesa, anche se non perfettamente corrispondente alla norma ecclesiastica, e richiama un sinodo romano del tempo di Ceciliano e Donato che avrebbe deliberato nel senso di un mantenimento nell'ordine clericale per i chierici che fossero passati dal donatismo alla Chiesa cattolica (cfr. Agostino, ep. 185, 10, 44-7; cfr. anche Id., Contra Cresconium II, 11, 13; 12, 14).
Di dubbia autenticità è una lettera di risposta che A. avrebbe scritto ai vescovi della Germania e della Burgundia in cui si ordina "apostolica auctoritate" che durante la lettura del vangelo i presbiteri e tutti gli altri presenti si dispongano in piedi e a capo chino, si proibisce di accogliere nel clero quelle persone provenienti d'Oltremare (cioè dall'Africa) sulle quali la Sede romana abbia già espresso il proprio parere, a meno che non rechino con sé un attestato sottoscritto da cinque o più vescovi, e si chiede di non accogliere i manichei che la lettera attesta essere presenti nella città di Roma (cfr. Appendix ep. 1, in P.L., XX, coll. 75-7; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 277); e tutto ciò in conformità con la testimonianza del Liber pontificalis. Ma, se da una parte la lettera si dichiara scritta sotto il consolato di Arcadio e Bautone (e ciò porterebbe a datarla all'anno 385 e cioè quattordici anni prima dell'inizio del pontificato di A.), dall'altra è stato osservato che una buona parte del testo corrisponde a quanto si trova scritto nella seconda lettera di papa Leone I a tutti i vescovi d'Italia (cfr. Leone, ep. 7, in P.L., LIV, coll. 620-22): in tal caso il riferimento consolare risulterebbe fittizio.
A. morì probabilmente il 19 dicembre 401 (v. L. Duchesne, Le Liber pontificalis, p. 211, anche se E. Caspar, pp. 285, 600, data la morte al 402). La sua memoria liturgica viene celebrata il 19 dicembre, se ci si attiene alle indicazioni del Martyrologium Hieronymianum, mentre il Martyrologium Romanum, seguendo il Liber pontificalis, la pone al 27 aprile.
fonti e bibliografia
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