ANTONINO Pierozzi, santo
Figlio di ser Niccolò e della seconda moglie di lui Tommasa di Cenni di Nuccio, nacque a Firenze, nel 1389. Il Morçay (S. Antonin..., Paris 1914, p. 13, n. 1) assegna criticamente la data di nascita a un giorno tra il 25 marzo e il 1 apr. 1389. Al fonte battesimale gli fu imposto il nome di Antonio, poi mutato dall'uso in quello di Antonino; a sei anni orfano di madre rimase affidato alla educazione severa del padre, notaio fin dal 1362, Più volte consigliere e proconsolo della sua arte (nel 1388, 1396, 1408), onesto e religioso, anche se preoccupato della sua professione e meticolosamente curante dei propri interessi economici.
Fino dai primi anni, A. mostrò un carattere riservato, e, per l'età, inconsuetamente grave ed austero, come apparve, forse, anche agli amici d'infanzia, dai quali ne ebbe notizia, in seguito, il suo più informato biografo, Francesco da Castiglione.
Frequentò - forse - la scuola di S. Trinità, di cui fu discepolo anche Paolo Toscanelli. La frequenza della chiesa di S. Maria Novella gli offrì l'occasione dei primi colloqui con Giovanni Dominici, il discepolo di s. Caterina da Siena, tenace assertore di una profonda riforma della Chiesa e dell'Ordine domenicano. Il giovane gli si presentò, nel 1404, e chiese di entrare nell'ordine.
Il Poccetti, seguendo i primi biografi, rappresentò la scena in uno degli affreschi dipinti nel primo chiostro di S. Marco, ma sbagliò nel porvi come sfondo il convento di Fiesole in costruzione; esso venne edificato solo nell'anno 1406.
Il Dominici, quantunque colpito dallo zelo di A., gli consigliò di tornare di lì a un anno. La conferma della vocazione avvenne tra il gennaio e il febbraio 1405 (secondo la ricostruzione della cronologia antoniniana fatta criticamente dal Morgay); al più tardi il 12 febbraio di quell'anno, A. entrò a far parte, come novizio, del convento di Cortona, nel quale si osservava la regola nella sua primitiva purezza; vi passò l'anno di noviziato e vi conobbe il beato Pietro Cappucci, altra figura di zelante frate riformato. Il noviziato ebbe termine prima del 12 febbr. 1406, ma egli restò a Cortona fino al 17 maggio, e alla Pentecoste del 1406 partì con tre compagni per il convento di Fiesole che era stato fondato dal Dominici da poco tempo, con l'appoggio del vescovo Altoviti, al fine di raccogliere in un sol luogo quanti avessero inteso dedicarsi a una perfetta osservanza della Regola domenicana. Avanti di poterne occupare le celle (29 sett. 1406), A. e i compagni dovettero abitare per qualche tempo nel vecchio romitaggio di S. Girolamo e, successivamente, nell'infermeria che era stata costruita subito dopo la cappella. Questi primi mesi di una vita di stretta osservanza furono allietati dai frequenti incontri col Dominici, fino a quando (febbr. 1407) quest'ultimo fu chiamato da Gregorio XII a Roma.
In questi annì A. seguì anche gli studi preparatori alla consacrazione sacerdotale. Ben presto, però, la comunità fiesolana sentì il contraccolpo degli avvenimenti del grande scisma. Avvenuta a Pisa l'elezione di Alessandro V, i figli spirituali del Dominici non vollero distaccarsi da Gregorio XII e lasciarono Fiesole per il convento di Foligno (luglio 1409). Nella nuova residenza A. rimase fino all'aprile del 1414 (è citato in numerosi atti notarili folignati di questo periodo), con un breve intervallo nei primi mesi del 1413, quando è segnalata da un altro documento la sua presenza in Cortona, forse per ricevervi il sacerdozio, essendone quello appunto il tempo.
Il graduale attenuarsi dei contrasti col generale dell'Ordine, fautore di Alessandro V, il mutamento della situazione generale con la convocazione del concilio di Costanza e, infine, lo scoppio di una pestilenza che ridusse a tre soli i frati di Foligno (A. fu fatto vicario; altro indizio dell'avvenuta ordinazione sacerdotale), costituirono le premesse necessarie per un ritorno di questi ultimi (autunno 1414) nel convento di Cortona, da poco (1411) passato, con la città, sotto il dominio fiorentino, e, quindi, sotto l'obbedienza di Giovanni XXIII. Gli osservanti domenicani, tra i quali era venuto a trovarsi nuovamente fra' Pietro Cappucci, poterono, tuttavia, continuare indisturbati la propria vita di rigoroso ascetismo e mantenere frequenti rapporti con Gregorio XII e col Dominici.
Finalmente, la composizione dello scisma permise alla comunità profuga di prepararsi a far ritorno nel convento di Fiesole (13 luglio 1418). Non vi tornò A., che, dal 1418 al gennaio 1421, è ricordato da molti documenti notarili come priore del convento di Cortona dal quale poté passare a Fiesole solo nel 1421, ancora come priore, restandovi fino al 1424. Un campo sempre più vasto si aprì all'esercizio del suo zelo a vantaggio di una riforma dell'Ordine, quando - sulle orme di quanto era stato deciso, nel 1417, nel capitolo di Strasburgo - il capitolo di Metz (1421) deliberò di rendere obbligatorio per ciascuna provincia monastica l'esperimento già positivamente riuscito in Toscana con l'istituzione di un convento riservato ai frati osservanti, e decise di creare nell'Ordine la carica di Vicario generale dell'Osservanza; fra' Tommaso del Regno, chiamato a ricoprirla, chiese ad A. di aiutarlo come ispettore. In tale qualità egli si recò nel 1424 a Napoli, per dirigere la comunità di S. Pier Martire. Nei sei anni di permanenza in quel convento, A. vi restaurò la vita regolare e svolse fra i fedeli una intensa opera di direzione spirituale.
Nel 1430 egli divenne priore del convento romano della Minerva, ove aveva vissuto s. Caterina da Siena. A. ordinò che, ne fossero riesumate le spoglie, ne raccolse le ossa in un'urna di marmo, che fece collocare presso la cappella del Rosario, nella chiesa del convento. Alla Minerva certamente si trovava quando vi ebbe luogo il conclave da cui uscì eletto Eugenio IV; in questo periodo fu impiegato come auditore generale della Rota. Era impegnato in questa molteplice opera, quando, con lettera del 28 maggio 1437, il generale dell'Ordine, fra' Bartolomeo Texier, lo nomino vicario dell'Osservanza per tutta l'Italia, carica che egli esercitò fino alla nomina ad arcivescovo di Firenze.
In questi anni la biografia di A. è legata alla vicenda delle origini dei nuovo convento di S. Marco e alla fondazione di una comunità osservante in Firenze. Nel 1435, col favore di Cosimo e di Lorenzo di Giovanni de' Medici, fu finalmente possibile ottenere da Eugenio IV la cessione ai domenicani del vecchio convento dei Silvestrini (chiesta, invano, fino dal 1418), Posto in fondo alla Via Larga (bolla del 21 genn. 1436); i frati, che già da Fiesole erano venuti provvisoriamente (1435) nel convento di S. Giorgio in Oltrarno, si trasferirono (1436) nella nuova sede. A. dopo un breve soggiomo fuori Firenze, vi rientrò nel 1437 e prese il governo del convento, dapprima col suo personale ascendente, quindi (1439) con l'ufficio di priore, succedendo in tale carica a fra' Cipriano e conservandola fino al 1444. Egli fu assorbito dalla vigilanza sui lavori intrapresi da Michelozzo e finanziati da Cosimo il Vecchio per rinnovare il convento e la chiesa di S. Marco, e si preoccupò soprattutto di conservare l'originario spirito di povertà dei frati.
Incoraggiò l'Angelico a dipingere gli affreschi rappresentanti la vita di Cristo; accettò la donazione (1443) della biblioteca già appartenente a Niccolò Niccoli, regalata da Cosimo il Vecchio al convento e collocata nella sala costruita da Michelozzo; permise anche a fra' Giuliano Lapaccini di sovrintendere alla cura dei manoscritti, mentre fra' Benedetto, per suo incarico, si dedicò a miniare i messali, i corali e gli antifonari della chiesa, la cui edificazione era intanto giunta presto a compimento per mezzo dell'aiuto finanziario del Medici.
Nello stesso tempo, A. ottenne da Eugenio IV (giugno 1442) la bolla che erigeva in parrocchia la chiesa di S. Marco e impegnava i frati alla predicazione. Il periodo del priorato fiorentino coincise anche con i lavori del concilio di Firenze. A. non ne fece parte ufficialmente, né, sembra, vi ebbe la funzione di teologo consultore; ma, certamente, fece del convento di S. Marco un accogliente centro di dibattiti preliminari alle discussioni conciliari. Continuò, intanto, nella direzione spirituale delle anime, tra le quali ebbe più vicine la vedova di Baldaccio di Anghiari, Annalena di Galeotto Malatesta, e la cognata di Cosimo il Vecchio, Ginevra de' Cavalcanti, moglie di Lorenzo di Giovanni de' Medici. Per ordine di Eugenio IV esercitò anche la vigilanza su alcune Compagnie di laici (della Purificazione, di S. Raffaele, di S. Giovanni evangelista, di S. Nicola del Ceppo), e altre quattro ne fondò, per favorire la devozione dei fedeli. Entro il giugno 1444 aveva già ceduto il priorato a fra' Giuliano Lapaccini, e tornò a dedicarsi agli impegni di vicario dell'Osservanza. Non trascurò, tuttavia, del tutto le necessità delle due comunità di Fiesole e di S. Marco, ottenendo da Eugenio IV la bolla (29 sett. 1445) che ne separò gli interessi materiali. La ripresa delle peregrinazioni come vicario dell'Osservanza, fu ancora una volta, e definitivamente, interrotta dalla sua nomina ad arcivescovo di Firenze.
Morto, nel 1445, Bartolomeo Zabarella, Eugenio IV, incerto nella scelta tra i candidati propostigli dalla signoria, dai canonici di S. Maria del Fiore e da influenti cittadini, sembrò in un primo tempo favorevole a inviare a Firenze un proprio familiare, Francesco di Padova; ma si lasciò indurre (come narrano i biografi Francesco da Castiglione e Jacopo Lapini, e convengono il Milanesi, Opere di G. Vasari, Firenze 1878, II, pp. 516-517, e il Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Firenze 1902, p. 254, n. 3) a scegliere A. - che del resto ben conosceva fin dai tempi del Concilio di Firenze - dalla appassionata presentazione che della spiritualità di lui gli fece l'Angelico, in quei giorni impegnato a dipingere la cappella del SS. Sacramento. La bolla di nomina (9 genn. 1446) raggiunse il frate mentre era in viaggio verso Napoli. L'umiltà lo spinse in un primo tempo alla fuga in Sardegna, per non essere costretto ad accettare; ma il nipote Pietro lo indusse a ritornare a Siena per considerare meglio la cosa; un ordine di Eugenio IV lo fece dirigere direttamente verso Fiesole, ove stette ancora in dubbio per tutto febbraio, nonostante le esortazioni del cardinale Domenico Capranica; finalmente (1 marzo 1446) accettò. Fu consacrato nella chiesa del convento il 12 marzo dai vescovi Federighi e Medici; il 13 ebbero luogo le solenni cerimonie tradizionali per la presa di possesso della diocesi.
L'arcidiocesi di Firenze offrì ad A. un ambiente più vasto per lo svolgimento della medesima azione di riforma. Le vicissitudini dello scisma avevano favorito il rilassamento dei costumi nel clero e nel laicato, provocando anche gravi danni economici. A. ridiede regolarità alla gestione dei beni della mensa arcivescovile, vendendo o permutando i possedimenti (1447, 1450, 1452), e accrescendone (1456) la consistenza; analoghi provvedimenti prese a vantaggio delle parrocchie impoverite. Oltre al clero secolare della sua diocesi, egli sorvegliò assiduamente i grandi monasteri maschili (come Vallombrosa) e, in virtù dei poteri di metropolitano, anche le diocesi di Pistoia e di Fiesole (è importantissimo il rapporto sulle condizioni della Chiesa pistoiese, compilato dopo la visita pastorale effettuata nel 1451). Nei confronti dei chierici e dei laici colpevoli non esitò a chiedere l'aiuto del braccio secolare; intervenne anche di persona, non arretrando di fronte alla pena di morte, come nel caso (6 maggio 1450) del medico Giovanni Cani, convinto reo di eresia e di magia. Per venire incontro alle miserie del suo popolo, tuttavia, si decise a sospendere, nel 1456, la percezione della decima speciale per la crociata, pur sapendo che quel tributo stava molto a cuore al papa Callisto III.
Tra i più gravi doveri egli sentì quello di curare la difesa della immunità del clero; dalla signoria fiorentina ottenne la liberazione del tesoriere di Eugenio IV Francesco di Padova (20 agosto) arrestato nel 1446 nella casa di campagna dell'arcivescovo per rappresaglia contro il papa.
All'inizio del 1447 A. era ancora una volta a Roma, nei giorni in cui (11 gennaio e 7 febbraio) i tedeschi chiesero perdono a Eugenio IV e, con il cosiddetto "concordato dei principi", abbandonarono la causa di Felice V. Il papa morì (23 febbraio) con l'assistenza spirituale di A., che fu presente anche ai lavori del conclave dal quale fu eletto (6 marzo) Niccolò V e in cui egli stesso ebbe voti, quantunque non facesse parte del Sacro Collegio. Il nuovo papa lo trattenne a Roma per averne consiglio; Vespasiano da Bisticci dice che gli offrì anche la berretta cardinalizia.
Ma A. accettò, invece, l'incarico (22 marzo) delicato di inquisitore sugli abusi commessi dai percettori di una decima straordinaria sul clero fiorentino concessa da Eugenio IV a favore della Repubblica; punì i responsabili pur senza aggravare lo scandalo con provvedimenti inopportuni e impulsivi. La Repubblica lo rispettò sempre, favorita in questo atteggiamento anche dalla particolare propensione dei Medici - e di Cosimo in particolare - verso di lui; lo elesse (19 apr. 1455) infatti, a capo della ambasceria gratulatoria inviata (16 maggio-14 giugno 1455) al nuovo papa Callisto III, che costituì un successo personale del presule. Tuttavia, la freddezza dei Fiorentini nei riguardi dell'idea di una crociata disgustò il papa, il quale - se mai gli fu riproposta la concessione del cappello cardinalizio ad A. - certo non volle largheggiare in manifestazioni di benevolenza verso il presule di una città che era a lui ostile.
L'aspetto più caratteristico - sul piano politico - del presulato di A. è, però, quello costituito dai suoi rapporti con la consorteria politica medicea e con Cosimo il Vecchio in particolare. Il Medici, per quanto avesse favorito col suo mecenatismo il convento prediletto di A., non riuscì a conquistarsi l'adesione politica del frate e poi del vescovo. A., d'altra parte, se accettò l'amicizia del Medici, non fece nulla che dichiaratamente ne assecondasse l'ascesa al potere. Già nel febbraio 1442, chiamando a raccolta i dodici ben noti cittadini fiorentini con cui diede vita all'attività caritativa dei Provveditori de' Poveri vergognosi (che tutt'ora, col nome di Buonuomini di S. Martino, continuano la loro opera di beneficenza, seguendo puntualmente la regola dettata dal fondatore), egli aveva inteso rivolgere l'attenzione dei Fiorentini proprio verso i bisogni di quanti, già appartenenti al ceto dirigente, erano stati privati delle loro fortune in conseguenza della lotta politica.
Ma la questione che provocò il raffreddamento dei rapporti tra A. e la consorteria dirigente medicea - se non addirittura tra lui e Cosimo il Vecchio - fu quella del voto palese o segreto negli scrutini. Per la prima volta, nel 1449, era stato proposto nei consigli che gli "imborsatori", nel predisporre i nomi degli inclusi al sorteggio per le cariche pubbliche di maggior rilievo politico (Signori, Collegi, ecc.) votassero palesemente. A. intervenne, allora, con discrezione, come si desume dalla lettura degli atti ufficiali; la sua opposizione, però, non era dovuta a scelta politica vera e propria, ma piuttosto a radicate considerazioni di ordine morale, quelle stesse che egli avrebbe espresso nella Summa moralis (III, tit. IV, Cap. IV), a proposito del peccato mortale commesso da chi viola il giuramento di fedeltà agli Statuti del proprio Comune. Quando, perciò (21 luglio 1458), il gonfaloniere Luca Pitti rinnovò la proposta liberticida del voto palese, l'arcivescovo non esitò a scrivere di suo pugno e a fare esporre alla porta delle chiese principali una lettera (26 luglio 1458) in cui, richiamando i cittadini all'osservanza degli Statuti così come erano stati giurati, condannava di fatto la rivoluzione politica che si voleva operare. Né disarmò dinanzi alle minacce e alle scoperte prese di posizione dei medicei (28 luglio); solo mediante l'espediente costituzionale liberticida della convocazione di un "Parlamento" (11 agosto) la fazione medicea riuscì a superare la crisi provocata dalla presa di posizione del presule. Il govemo, tuttavia, non manifestò risentimento contro A.; lo incaricò, anzi, di presiedere (28 ag. 1458) la delegazione inviata a Roma per fare omaggio al nuovo papa Pio II (19 agosto); il 10 ottobre l'arcivescovo parlò lungamente - quantunque fosse già sofferente - al pontefice dei suoi doveri di capo della cristianità in ordine alla crociata e alla riforma della Chiesa. Amicissimo del papa (che ne lasciò un ritratto elogiativo nei Commentaria), fu chiamato a far parte (secondo Francesco da Castiglione) della commissione incaricatadi attuare il progetto di riforma della Chiesa preparato dal cardinale di Cusa. Tuttavia, Pio II, preso dalle cure della crociata, lasciò cadere tale programma di riforma; il 25 apr. 1459 il pontefice era già a Firenze, occupato nelle trattative politiche; A., ritornato in sede, era gravemente ammalato, nella casa di campagna di S. Antonio del Vescovo presso Montughi (distrutta in occasione dell'assedio del 1529). Morì il 2 maggio 1459; aveva fatto testamento il 30 aprile, lasciando solo duecento scudi ai nipoti Pietro e Giovanni dell'Ossa e per di più con l'obbligo di darne parte ai poveri appena possibile.
Ai funerali, che Pio II e la signoria vollero sontuosi e a spese pubbliche, il più significativo omaggio fu reso alla salma dai poveri che accorsero a migliaia per salutarlo e pregare. Il 10 maggio fu sepolto in S. Marco. Adriano VI (31 maggio 1523) lo proclamò santo, ed esortò i Fiorentini a erigergli un sepolcro degno di lui. Ma solo nel 1589, a spese di Averardo e di Antonio Salviati, il Giambologna eresse in S. Marco la cappella che ne accolse il corpo, ivi traslato il 9 maggio 1589 con una solenne processione. Nel 1838, l'arcivescovo Minucci e il padre generale dei domenicani, Giacinto Cipolletti, sollecitarono dalla S. Sede la proclamazione di A. a dottore della Chiesa; desiderio che allora non ebbe accoglimento, ma venne attuato nel 1960 da papa Giovanni XXIII, in occasione delle onoranze centenarie tributate da Firenze a s. A., dichiarato compatrono, con S. Zanobi, dell'arcidiocesi. Al Verrocchio è costantemente attribuito dalla tradizione il busto che del santo raffigura i tratti ascetici, in concordanza con la maschera mortuaria oggi conservata in S. Marco; il Dupré ne scolpì la statua che nel 1859 fu collocata sotto gli Uffizi, in occasione del quarto centenario della morte. L'Angelico lo aveva ritratto negli affreschi della cappella del SS. Sacramento in Vaticano, che fu distrutta da papa Paolo III.
Opere e dottrina: Un disegno, sia pure rimasto soltanto abbozzato, è possibile distinguere nella produzione di A., per quanto concerne le due opere maggiori, la Summa Theologiae e il Chronicon: esse dovevano essere le parti principali di una trattazione complessiva che avrebbe dovuto esporre la teoria morale e l'illustrazione storica del vivere umano, nella prospettiva cristiana. L'ampiezza che, singolarmente, presero e l'uso separato che di esse si fece, facilitò la distinzione con la quale vennero diffuse e conosciute.
La Summa theologiae o, come venne anche significativamente chiamata, Summa moralis, fu scritta tra il 1440 e il 1459. A differenza da quella di s. Tommaso, cui per altro, e per l'importanza e per la diffusione grandissima che ebbe, si riconnette, è più testimonianza di uno sforzo analitico-sistematico in campo etico, che non costruzione coscientemente originale che si contrapponga in una sua posizione di autonomia di fronte all'opera dell'Aquinate, verso la quale è comunque largamente debitrice. La Summa, infatti, nella scia di quella che doveva essere una tradizione dei domenicani fiorentini, è anzitutto opera destinata all'istruzione dei confessori e dei predicatori, coloro che erano a più diretto contatto con i vivi problemi del mondo laico fiorentino, e non solo fiorentino. Questa considerazione, che nasce anche dalla semplice visione della disposizione interna della materia, è per altro essenziale a comprendere lo spirito dell'opera: "Aviditate tamen et suavitate tractus veritatis, precipue moralis sapientiae ex his quae mihi occurrerunt legenda pauca recollegi mihi grata... Quae autem iudicavi apta ad materias predicationum et audientiam ad confessionem et consolationem in foro animarum accepi a doctoribus pluribus in theologia vel jurisperitis" (Summa Theologiae, I pars, prologus in I partem).
Le auctoritates esplicitamente ricordate sono numerose, e possono dare un'idea abbastanza precisa sia degli orientamenti, sia, soprattutto, del metodo compilatorio della Summa: Agostino, Ambrogio, Gerolamo, Gregorio, Crisogono, Basilio, Isidoro, Anselmo d'Aosta, Bernardo di Chiaravalle; Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca; tra i "moderni", s. Tommaso "quem omnibus prepono in suis dictis", Alberto Magno, Pietro della Palude, Innocenzo V, Vincenzo di Beauvais, Bonaventura, Alessandro di Hales, Niccolò da Lyra, Bartolomeo da Brescia, Raimondo di Pelliort, Pietro d'Ancarano, Lorenzo Ridolfi (quest'ultimo per la parte, importante più d'ogni altra, relativa alle questioni di etica economica). In questo quadro di interessi e di cultura teologico-canonistica, si dispone l'ampia materia della Summa, che il Mandonnet poté definire: "le premier ouvrage qui ait embrassé l'étude de la théologie morale sur un plan aussi étendu" (cfr. Dict. de Théol. Cath., I, 2, col. 1451). Alla linea Creatore (= Dio) - creatura (= uomo) - Redenzione (= Chiesa), che è presente nella Summa tomistica, fa riscontro una disposizione dei testi scelti a illustrare l'etica cristiana, di netta tendenza antropocentrica. Così illustrata la teoria psicologica tomistico-aristotelica, con ampio e caratteristico ricorso all'esegesi biblica, e considerati i vari tipi di peccato, il discorso di A. si attarda nell'esposizione dei fondamenti morali del vivere cristiano, in tutta la prima parte, comprendente venti titoli, trattati in novantadue capitoli: de lege in comuni; de lege aeterna; de lege naturali; de lege mosayca; de lege evangelica; de lege quae dicitur consuetudo; de lege canonica; de lege civili; de privilegiis in communi, ecc. E in quest'insistenza - che si traduce poi in uno squilibrio dell'intera trattazione - sugli aspetti giuridici in cui si può concretare l'etica cristiana, è agevole cogliere un atteggiamento sostanzialmente diverso da quello di Tommaso, che si mantiene, nella trattazione morale, fisso allo schema delle virtù teologali e cardinali e ad un'esegesi sobria e stringata. La seconda parte della Summa antoniniana, in dodici titoli, analizza i peccati capitali, i voti e le restituzioni: ed è indubbiamente la più interessante storicamente per l'abbondanza della casistica menzionata, che fornisce un'adeguata idea del costume quattrocentesco.
Testimone del suo tempo, pur nello specchio riflesso della meditazione morale - non mai, però, in un'atmosfera di intellettualistico distacco - A. offre, allo studioso dei problemi di etica economica, insieme con Bernardino da Siena, un quadro analitico della casistica elaborata da canonisti e da teologi - ma più i primi che i secondi sono presenti nella Summa, a questo proposito - in relazione alle varie attività economiche che la società fiorentina vedeva pullulare in sé stessa.
Rispetto alla tradizionale e copiosissima letteratura scolastica sull'argomento, la posizione di A. non presenta, anche in questo punto, aspetti di particolare originalità, sia per visioni sintetiche di tutti i problemi di etica economica - la reductio ad unum della casistica antiusuraria non fu mai raggiunta nella trattatistica medievale - sia per particolari inasprimenti o addolcimenti, a seconda dei casi, delle proibizioni previste per singole attività che "sapessero di usura". Collegata l'usura al peccato di avarizia - e anche questo è tratto tradizionale - e condannatala in linea di principio, A. indugia a esaminare le singole pratiche che, nell'evolversi quotidiano degli affari, nascondevano forme di guadagno e intenzioni speculative che la morale medievale avvicinava all'usura; la vendita a termine, le vendite di census, i tassi di interessi dei monti di pietà e dei monti di Stato, i contratti di soccida, i depositi bancari, i vari tipi di cambio, manuale, per litteras, siccum. La dipendenza da s. Tommaso è, anche per questa parte, rilevante e a volte come nel caso della vendita a termine, la discussione delle obiezioni e delle risposte, parte proprio dall'esposizione - riportata integralmente - del pensiero dell'Aquinate. Si fa' tuttavia, strada, sia pure con timidezza e con le riserve dettate da una coscienza morale che tollera, senza volere ancora apertamente ammettere (frequentemente A., dopo aver esposto il parere contrastante di teologi e di canonisti, intorno a una "quaestio", preferisce consigliare come più sicuro atteggiamento l'astensione da una pratica) la pressione irrefrenabile della vita economica; si fa strada, in tutto questo, l'idea del particolare valore che ha il denaro dell'uomo di affari, per il quale è sempre valido il principio del lucrum cessans: come anche da parte di Bernardino, si riconosce il valore del capitale in quanto denaro destinato a investimento per attività mercantile (cfr. Summa theologiae, II, Art. I, cap. VII ed. Venetiis 1582, p. 302 A.).
L'acquisto di un debito aggravato a prezzo basso è altresì ammesso, come invece non lo è, in opposizione al parere di Lorenzo Ridolfi, quello del census. Ma forse i tratti più caratteristici della sistemazione antoniniana in materia sono dati dai pareri circa i cambi e, più ancora, circa i depositi bancari. Ammesso il gioco della fluttuazione in due piazze diverse nel cambio per litteras, perché non esclude una possibilità negativa per l'operatore - anche se ovviamente assai improbabile - A. si oppone energicamente al cambium siccum, che egli, come del resto la maggioranza dei moralisti, assimilava senz'altro al mutuo usurario; e si oppone altresì con forza - a differenza di alcuni contemporanei - all'interesse maturato per un deposito bancario. Segno, a un tempo, di un'estrema resistenza del principio aristotelico della fondamentale sterilità del denaro in quanto tale (non v'era alcuna trasformazione, come invece nell'investimento mercantile, nel mero deposito bancario del denaro) e di una tendenza a confluire verso il sicuro investimento bancario del capitale liquido della società del tempo.
Non prive di un certo interesse e di originalità, per quello che di veramente originale può esservi nell'opera di s. A., la terza e la quarta parte, rispettivamente in trentadue e sedici titoli, trattanti della Chiesa, dei sacramenti, degli stati di vita dei cristiani e delle virtù cardinali, della grazia e doni dello Spirito santo; circa la terza parte va notato che l'esame degli stati di vita è fatta in vista soprattutto dei possibili peccati in cui possono, per così dire, professionalmente cadere gli appartenenti ad essi; e se un interesse è offerto da questa sorta di rassegna della società fiorentina ed europea quattrocentesca - si deve notare che acquista particolarmente importanza, pur nel tono pianamente espositivo della Summa, il titolo terzo, De dominis temporalibus, in relazione ai rapporti tra i vari re dell'Occidente cristiano e l'imperatore e alla lotta contro i Turchi, prima della caduta di Costantinopoli esso è forse rappresentato più dalla possibilità di conoscere delle opiniones communes, moderate e piene di buon senso (non per nulla "Antoninus consiliorum"!), che da ardite tesi etico-politiche. E sarà altresì da notare che, in atmosfera di conciliarismo, il parere di A. sembra decisamente orientato a favore della supremazia papale (ma siamo ormai nel 1448); della quarta parte va segnalato il titolo quindicesimo che, come osserva il Mandonnet, contiene una vera e propria Mariologia, introdotta e sviluppata sotto il titolo relativo alla pietà: e può avere un qualche interesse per lo storico, in questo caso, il ricordo che del movimento dei Bianchi è fatto (cfr. Summa..., IV pars, caput 2, ediz. cit., p. 290 r A), in relazione a un'apparizione della Vergine che avrebbe annunziato la morte di un terzo degli uomini, quale castigo divino a causa dei loro peccati. Una punizione che avrebbe determinato il movimento dei Bianchi e si sarebbe, però, concretata con una "pestis universalis nimia" del 1400 che avrebbe ucciso appunto "tertia pars hominum".
Ma si potrebbero moltiplicare questi esempi, che ci confermano come, in sostanza, la Summa antoniniana sia un quadro dai tratti non certamente nuovissimi, ma minuziosamente curato, per la consapevolezza di tutta una tradizione non sempre uniforme sui singoli argomenti e per l'impossibilità di limitarsi ad enunciazioni che non siano comprensive di una prassi che lo sviluppo della vita in tutte le sue manifestazioni aveva reso estremamente articolata e complessa. Nel che è facile ritrovare il prevalente interesse di A. per i problemi più tipicamente pratici ed il raffronto continuo tra l'enunciato teorico e l'esemplificazione concreta, che caratterizza la Summa di A. da quella più organicamente dottrinaria, ma anche più genericamente astratta dell'Aquinate.
A provare l'enorme diffusione e fortuna della Summa, basti qui indicare alcune delle edizioni - molte delle quali in incunabolo - che furono fatte dell'opera: Venezia 1477, 1479, 1480, 1481, 1487, 1571, 1582; Verona 1740, editori Pietro e Girolamo Ballerini, dedicata a Benedetto XIV, con Praelectiones esplicative; Spira 1477; Basilea 1502, 1511; Firenze 1741, editori Mamachi, Remedelli (la prima parte della Summa, delle due edite soltanto, con la terza del Chronicon, è edita sulla base di un autografo: cfr. S. Orlandi, Necrologio di S. Maria Novella, II, Firenze 1955, pp. 271 ss. e n. 44, p. 276). A conferma della fortuna di A. è da segnalare che alcune parti della Summa vennero estratte dall'opera generale e pubblicate a parte, sempre ad uso dei confessori e dei predicatori, sotto forma di trattazioni distinte: De excommunicationibus et censuris (Summa, III, tt. XXIV-XXV); De sponsalibus et matrimonio (Summa, III, t. I), ecc.
Il Chronicon, scritto come la Summa durante gli ultimi vent'anni della vita del santo, rientra, come anche studi relativamente recenti hanno sottolineato (J. B. Walker, pp. 149-157) in un disegno di edificazione morale, che deve completare, e lo si è già avvertito, la teoria esposta nell'opera maggiore: "presentation of examples of righteous living" (Walker, p. 149). Caratteristica di quest'opera, che ebbe fortuna pari a quella della Summa, almeno fuori d'Italia, a giudicare dalle edizioni, che, ad eccezione di quella di Venezia - 1474-1479 - dell'Opera Omnia, sono tutte non italiane (Norimberga 1484; Basilea 1491; Lione 1517, 1525, 1527, 1581-1587: quest'ultima a cura del gesuita Maturi, che l'ha annotata e dedicata al generale dei domenicani, Sisto Fabbri), è il procedere narrativo spesso interrotto da ampi profili biografici che sono stati spesso utilizzati in altre opere, com'è nel caso della biografia di Giovanni Dominici, che è entrata negli Acta Sanctorum. Sarebbe ovviamente erroneo, specie per la parte antica e alto-medievale, voler anche tentare un giudizio di merito sul valore storiografico del Chronicon, che nell'impianto (Storia universale, dalla Creazione alla seconda metà del sec. XV) e nel metodo, non sopravvanza di certo la produzione consimile medievale; è evidente un tentativo di narrazione non annalistica, dovuto, con tutta probabilità, all'influsso della contemporanea storiografia umanistica, dalla quale, per altro, A. non mutua il senso critico-filologico. Può essere anche utile, a comprendere le caratteristiche dell'opera ed il suo sistema combinatorio - per il quale l'opera del Walker, come già l'opuscolo rarissimo dello Schaube, Die Quellen der Weltchronik des heil. Antonin von Florenz, Hirschberg 1880, utilizzato dal Walker, è importantissima -, indicare le fonti della cronaca antoniniana: Antico e Nuovo Testamento; Agostino, De civitate Dei; Leonardo Bruni; Cassiodoro, Historia Tripartita; Eusebio; Eutropio; Graziano; Gregorio Magno; Elinando; Giuseppe; Giustino; Orosio; Pietro Comestor; Sigeberto di Gembloux; Suetonio; Vincenzo di Beauvais e tra i contemporanei, il Minerbetti e Poggio Bracciolini, non nominato ma utilizzato, come ha visto il Morçay (Chroniques de S. Antonin: fragments originaux du titre XXII 1378-1459, Paris 1913). E sempre il Morçay ha ravvisato nella particolare utilizzazione fatta da A. di Leonardo Bruni, conosciuto personalmente come esecutore testamentario di Niccolò Niccoli, un particolare apprezzamento verso colui che al momento del grande scisma aveva seguito le parti del pontefice romano e, massimammte, di Gregorio XII.
L'opera è tradizionalmente divisa in tre parti, che comprendono - ed è anche questo un fatto significativo - come le compilazioni canoniche e giuridiche, ventiquattro titoli, suddivisi in capitoli e sezioni. Lo schema su cui poggia la narrazione è fornito dalla tradizionale divisione della storia del mondo in sei età: alla prima ed alla seconda età è dedicato il titolo I (Adamo-Torre di Babele); alla terza, il titolo secondo (Abramo - civiltà cretese), alla quarta, il titolo terzo (Davide - Babilonia e cattività degli Ebrei); alla quinta, il titolo quarto (imperi dell'antichità - nascita di Cristo): la sesta età occupa tutto il resto dell'opera. Dal titolo V al IX, sono narrate le persecuzioni anticristiane ed il trionfo del cristianesimo; dal X al XVI, le vicende dell'alto Medioevo, con profili biografici di alcune grandi figure (s. Benedetto, Gregorio Magno, ecc.); dal titolo XVII al titolo XXI, la storia dal sec. XII allo scisma d'Occidente; nel titolo XXII, il più importante, le vicende contemporanee ad A.; i titoli XXIII e XXIV sono relativi alla storia degli Ordini domenicano e francescano. Lasciando da parte il valore critico della narrazione degli avvenimenti antichi e non contemporanei, si può osservare che A., nei confronti dei fatti di cui è stato testimone o che si sian svolti negli anni della sua esistenza, mantiene un prudente riserbo, come nel caso dello scisma, a proposito dei quale osserva che non importa tanto che si segua questo o quel papa, ma solo quello la cui elezione sia avvenuta canonicamente. Modo assai accorto di evitare un giudizio su di una materia ancora scottante, anche se ormai messa in secondo piano dal sopraggiungere delle discussioni conciliari. D'altro canto, si deve osservare con il Morçay che il solo Chronicon non può fornire, un'idea esatta dell'atteggiamento di A. verso i vari problemi del suo tempo, poiché nell'opera storica, dato il carattere compilatorio, solo raramente appare un giudizio personale: che del resto A. ha sempre cura di riferire con la riserva che esso non è pertinente alla materia storica.
Le opere minori comprendono: un Confessionale, in latino, noto anche come Summula Confessionis, diviso in tre parti: la prima, nota come Defecerunt, dalle parole iniziali, in latino, italiano e spagnolo (numerose edizioni: cfr. Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., III, col. 858, sub voce Antonin, saint, a cura di R. Morçay); Curam illius habe, in ital. Medicina dell'anima; Omnis mortalium cura, in italiano Specchio di coscienza. Questi trattati sono tutti confluiti nella Summa (non, come si credeva una volta, estratti da essa: cfr. per quest'ultima opinione, P. Mandonnet, in Dict. de Théol...,cit., col. 1452); la vicenda delle loro edizioni è assai complessa, e si rinvia, per un'esposizione analitica alle opere, specie quella del Morçay, citate in bibliografia. Le numerose edizioni attestano, d'altra parte, il carattere di manuali confessionali che essi ebbero; di carattere manualistico anche il De ornatu mulierum (cfr. Summa, II, tit. IV, capitolo V) ed il Libretto della dottrina cristiana per i putti piccoli e giovanetti, edita insieme con il terzo Confessionale volgare (Specchio di coscienza). A Dianora e Lucrezia Tornabuoni, madre del Magnifico Lorenzo è dedicata l'Opera a ben vivere, opuscolo scoperto a Firenze e pubblicato da F. Palermo nel 1858; le caratteristiche di meditazioni spirituali riscontrabili in esso hanno fatto vedere un antecedente dell'Introduction à la vie dévote di Francesco di Sales (cfr. Thiérard-Baudrillart, Une règle de vie chrétienne au XVème siècle, Paris 1921, traduzione francese dell'opuscolo di A.); nella stessa linea è la Regola di vita cristiana, scritta per la vedova di Lorenzo de' Medici il Vecchio, Ginevra Cavalcanti (1440). Si ricordi ancora il Trialogus super enarratione evangelica de duobus discipulis euntibus in Emmaus e l'epistolario, la cui raccolta più completa è quella curata da T. Corsetto, Firenze 1859 (ventiquattro lettere). Importanti per la casistica prospettata che, al solito, illumina sul costume del tempo, le Responsiones di A. a sessantanove questioni sottoposte a lui da Domenico di Catalogna (ma vedi per altre Responsiones l'articolo del Creytens in Arch. Fratrum Praedic., XXVIII [1958], pp. 149-220).
Sermoni inediti per quaresimale sono contenuti nel cod. Bibl. Naz. Firenze, Conv. Sopp., A. 8 1750, e nel cod. Bibl. Ricc., Firenze, 308.
Bibl.: Lo studio critico più accurato e completo della vita di s. A. resta ancora oggi quello di R. Morçay, Saint Antonin archevêque de Florence (1389-1459), Paris 1914, che ha utilizzato le biografie, le fonti documentarie e le opere a stampa pubblicate fino a quell'anno, integrando il materiale disponibile con il frutto di nuove ricerche archivistiche. L'ampia bibliografia che vi è elencata alle pp. XXVII-XXXII comprende nella massima parte le citazioni già fatte da D. Moreni, Bibliogr. stor. ragionata della Toscana..., I, Firenze 1805, pp. 69, 126 s., 264, 278, 359; II, ibid. 1805, pp. 63, 386, 397, 446, 486, e U. Chevalier, Répertoire,... Bio-bibliografie, Paris 1905, coll. 285 s. Un successivo, autorevole aggiornamento di essa è dato dal Padre Waltz, in appendice al profilo biografico del santo pubblicato nell'Enciclopedia Cattolica. Non è mancata, anche recentemente, l'attenzione di alcuni scrittori cattolici a proposito di s. A., ma non si può dire che essa abbia suscitato opere di carattere critico, trattandosi nella maggior parte dei casi di rielaborazioni dei dati e delle conclusioni già note. Un gruppo di scritti è dovuto a E. Sanesi, La vita di S. A. arciv. di Firenze, Firenze 1941; Id., S. A. e l'Umanesimo, in Rinascita, III, 2 (Firenze 1940), pp. 105-116; Id., L'insegnamento della dottrina cristiana in Firenze da S. A. al b. Ippolito Galantini, Firenze 1940; Id., S. A., nel vol. Santi Italiani, edito a cura di J. De Blasi, Firenze 1947. Si vedano anche P. Bargellini, S. A. da Firenze, Brescia 1947, e A. Masseron, Saint Antonin (1389-1459), Paris 1927, di intento divulgativo, come il recentissimo profilo dovuto a C. C. Calzolari, S. A. Pierozzi dornenicano, arciv. di Firenze, Firenze 1959, scritto in occasione delle celebrazioni tributate dalla città e dalla diocesi al suo antico arcivescovo. Lo stesso autore ha poi pubblicato il volume Frate Antonino Pierozzi dei Domenicani, arcivescovo di Firenze, Roma 1961, che riprende tutta la bibliografia di argomento antoniniano e contribuisce ad una maggiore conoscenza della biografia di A. con nuove accurate ricerche archivistiche. Per la ricorrenza del centenario è stato tenuto nel convento di S. Marco un ciclo di conferenze, in corso di stampa, delle quali - dal punto di vista più propriamente biografico - interessano quelle fatte da P. Brezzi e da C. C. Calzolari. Ricerche particolari interessanti S. A. sono quelle pubblicate da V. Chiaroni, Gli autografi di S. A. Pierozzi e del b. Angelico nell'atto della separazione del convento di S. Marco in Firenze dal convento di S. Domenico di Fiesole, concluso nel luglio del 1455, Firenze 1955; e da S. Orlandi, Beato Angelico. Note cronologiche, in Memorie Domenicane, 1955, fasc. I. Si veda anche S. Orlandi, Necrologio di S. Maria Novella (1235-1504), 2 voll., Firenze 1955. Per la parte dottrinale, oltre alla già citata opera del Morçay, sono da vedere le voci del Dict. de Théol. Cath.e del Dict. d'Hist. et de Géogr.Ecclés., rispettivamente a cura del Mandonnet e del Morçay; sull'etica economica, importanti le recenti opere di J. Noonan, Scholastic Analysis of Usury, Princeton 1957, A. F. Veraia, Le origini della Controversia teologica sul contratto di censo..., Roma 1960, cfr. Indice dei nomi, di L. Dalle Molle, Il contratto di cambio nei moralisti dal sec. XIII al sec. XVIII, Roma 1954, cfr. Indice dei nomi; invecchiata e superata l'opera di B. Jarret, S. Antonino and Mediaeval Economics, London 1914; per una visione in chiave "moderna" del pensiero di A. sul lavoro, v. G. Barbieri, Le forze del lavoro e della produzione nella "Summa" di S. A., in Economia e storia, VII(1960), pp. 10-36; sulle cronache, indispensabile l'opera di J. B. Walker, The "Chronicles" of Saint Antoninus. A Study in historiography, Washington 1933.