ARIALDO, santo
Nacque a Cucciago verso il 1010. Frequentò le scuole della diocesi, probabilmente la scuola della vicina pieve di S. Vittore di Varese e poi quella esistente presso la cattedrale ambrosiana. Terminati gli studi a Milano, viaggiò a lungo per completare la sua formazione culturale nelle arti liberali e nelle scienze sacre fino a diventare -secondo l'espressione di Landolfo Seniore - "artis liberae magister". Non sappiamo in quali centri di studio si fosse fermato (il Gfrórer ritiene che A. avesse studiato a Parigi, in Spagna e forse anche a Cluny) e se avesse avuto rapporti, del resto assai consueti in quel periodo per il clero n-ùlanese, con alcune zone tipiche della riforma. Le fonti si limitano a notare questi viaggi con la espressione generica "in diversis terris".
La famiglia di A. fu creduta originaria di Alzate, si che il giurista milanese Andrea Alciato lo ritenne un suo antenato, iniziando a scriverne la vita. Galvano Fiamma, seguendo Goffredo di Bussero, lo dice "de Carimate". Andrea da Strumi afferma che i genitori di A. erano "nobiles utrique natione"; Bonizone di Sutri ritiene A. "ex equestri progenie ortum"; Amolfo, appartenente e difensore della nobiltà capitaneale, afferma, invece, che egli era "modicae... auctoritatis, humiliter uptote natus". Pare che A. non fosse di famiglia di valvassori, ma di una famiglia di modesti proprietari terrieri, che non godeva di poteri giurisdizionali. A possedeva, infatti, un castagneto ed un vigneto in Cucciago e aveva fatto costruire una chiesa sul suo podere poco fuori di quel vico.
Si è molto discusso sul problema se A. debba considerarsi l'iniziatore del movimento patarinico, cioè di quella corrente riformatrice nella quale si era manifestata viva ed operante l'esigenza'di una rigida e severa vita morale del clero, specialmente nella lotta contro la simonia ed il concubinato. Benzone d'Alba, parlando di proposito delle origini dei movimenti patarini nelle città della Langobardia, ricorda come iniziatore della predicazione patarinica il diacono Arialdo.
A. aveva iniziato la sua predicazione antinicolaita nella zona di Varese, ottenendo tuttavia ben scarso successo; venne anzi invitato ironicamente a recarsi in Milano per sostenervi dinanzi a più dotto pubblico le sue dottrine sulla continenza. E A. andò a Milano, associandosi, nella predicazione contro l'immoralità del clero, Landolfò Cotta, notaio della Chiesa ambrosiana.
I motivi della predicazione arialdina, innestati su una robusta trama di versetti biblici di chiara impronta pauperistica, pregni di profonde sollecitazioni nelle quali vibravano gli echi e i rimpianti di una tradizione gloriosa, sostenuti da una forte carica emotiva, acuiti e accentuati da una parte dalla consapevolezza della bontà della propria causa, dall'altra dalla sorda accoglienza degli ambienti ecclesiastici milanesi' si possono cogliere attraverso la testimonianza di Andrea da Strumi, seguace del capo della pataria milanese. Nella Vita Arialdi dello strumese è possibile anche individuare quel nucleo teologico, intorno al quale, sopite le polemiche personali, si incentrò la successiva predicazione del diacono riformatore.
La predicazione di A. era cominciata all'i nizio o nella primavera del 1057 e pare che in un primo tempo essa fosse volta esclusivamente contro il concubinato e il matrimonio dei diaconi e dei sacerdoti. Sulle prime l'arcivescovo Guido da Velate, che non ignorava l'azione iniziata da A., sottovalutò la portata dell'avvenimento. La prima manifestazione violenta e di massa dei patarini si ebbe il 10 maggio 1057, giorno in cui la liturgia ambrosiana celebrava la festa della traslazione del corpo di s. Nazaro con una solenne processione dalla chiesa di S. Celso a quella dei ss . Apostoli. Discordanti sono i cronisti nell'attribuire le responsabilità del tumulto; secondo Landolfo Seniore sarebbero stati i riformatori a provocare il clero in processione; sta il fatto che un prete di nome Ambrogio insorse contro A., chiedendogli se si sentisse di confermare davanti a lui le accuse altrove formulate. A. rispose affermativamente: "Quod dixi, dico; quod dico, affirmo; quod affirmo, ratione competenti approbare curabo". Prete Ambrogio vibrò allora uno schiaffo ad A. rimproverandolo di pretendere di essere migliore di Abramo, di Davide e di Paolo stesso e chiamandolo ipocrita, sobillatore, falso profeta, seminatore di zi zzania. A. non si arrese e si protestò pronto anche a morire per la santità della sua causa. La notizia dell'insulto subito dal diacono riformatore trovò eco immediata in Milano ed una grande folla convenne nella piazza antistante la cattedrale di Santa Maria Iemale. Parlò A. e, al dire di Landolfo, dalla sua bocca uscì un linguaggio violento e insultante contro i sacerdoti; al dire di Andrea da Strumi parlò, invece, della redenzione umana operata da Cristo e della luce di verità trasmessa ai suoi apostoli, non nascondendo però che gli attuali ministri erano divenuti pozzi d'iniquità.
Non è da escludere comunque che, sotto la spinta degli avvenimenti, A. avesse espresso giudizi assai severi e con forte carica polemica contro il clero immorale.
A. fece allora redigere un editto, chiamato, con un termine mutuato dalla legislazione imperiale bizantina, phytacium e, mentre il popolo tumultuava minaccioso, costrinse gli appartenenti a tutti gli ordini della Chiesa milanese a sottoscriverlo e ad impegnarsi con giuramento ad osservarlo.
Questo phytacium de castitate servanda, neglecto canone, mundanis exortum a legibus - che, come sembra, allude alle disposizioni del sinodo celebrato a Pavia il 1° ag. 1022 alla presenza di papa Benedetto VIII e dell'imperatore Enrico II circa il matrimonio degli ecclesiastici - è stato accostato a quella promissio, redatta durante la legazione milanese di Pier Damiani con la quale i sacerdoti dovevano riconoscere tutte le colpe di cui erano accusati e accettare le pene previste dalle leggi giustiniance, secondo l'interpretazione data loro nella prefazione al decretum del sinodo pavese.
Il phytacium, redatto da A., scatenò la folla fattasi ora più violenta ed aggressiva non solo per fanatismo religioso, ma anche per astio e avidità: i cittadini milanesi colsero il destro per allontanare dalle. chiese, sia cittadine sia rurali, i sacerdoti ammogliati e concubinari.
Per un po, di tempo continuò indisturbata la prefficazione di A. e di Landolfo; essa verteva sulla proibizione assoluta del matrimonio per i diaconi e i sacerdoti e sull'obbligo da parte dei fedeli di astenersi dal frequentare le funzioni celebrate dai sacerdoti indegni e dal ricevere da questi i sacramenti.
Contro i capi patarini si levarono subito a tenere dibattiti e contraddittori i "majores ecclesiae... sacras scripturas et sanctiones opponentes canonicas". Landolfo Seniore parla anche di un intervento personale dell'arcivescovo Guido da Velate, il quale tentò invano di convincere i due agitatori a desistere dal fomentare discordie cittadine e dall'incitare i laici contro il clero. L'agitazione patarina, invece, continuò a Milano e si fece più aspra durante l'assenza dell'arcivescovo, recatosi nell'agosto 1057 con Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, in Germania. Il clero ambrosiano chiese, allora, un primo aiuto ai vescovi suffraganei della sede metropolitana milanese; pare, perz), che l'esito non sia stato positivo, se si rivolsero direttamente al nuovo papa Stefano IX.
Il pontefice ordinò all'arcivescovo di Milano di convocare un sinodo provinciale per porre fine all'agitazione religiosa. Guido da Velate convocò, infatti, il sinodo di Fontaneto nel territorio di Novara, probabilmente nel novembre 1057.
Sempre secondo il cronista Arnolfo al sinodo furono convocati A. e Landolfa perché si scagionassero dalle loro colpe. Ma essi rifiutarono di presentarsi, sicché dopo tre giorni di lavori il sinodo proclamò l'anatema contro i due ribelli e, quindi, si sciolse. Arnolfa prosegue nel racconto notando le reazioni di A.. e di Landolfo alle disposizioni sinodali. Si ritiene, a ragione, che da questo momento abbia avuto inizio la lotta aperta di A. e dei patarini anche contro la simonia, oltre che contro il nicolaismo. L'accusa di simonia a Guido ed ai vescovi suffraganei fu scagliata innanzi tutto come risposta alle decisioni del sinodo: gli agitatori patarini, chiamati a discolparsi, dichiararono falsi vescovi, perché eletti e consacrati simoniacamente, coloro che li avevano giudicati.
Intanto, forse nella seconda metà del 1057 - e non nel 1063-64, come alcuni hanno sostenuto, per una maldestra interpretazione di un passo di Bonizone -, poco dopo l'inizio della predicazione antisimoniaca, della quale rappresentava una naturale conseguenza in quanto cioè pratica attuazione di una liberazione dalle cose terrene, necessaria a fondare una vita di tipo apostolico, A. realizzava la vita canonica regolare nella chiesa dedicata alla Vergine e detta appunto "canonica".
La chiesa acquistata per simonia da un chierico poi convertito alla pataria si trovava sotto lo ius di un miles, pur esso ormai patarino, il quale aveva invitato A. a disporne "secundum quod Deum vellet sciret". A., a sua volta, aveva ordinato a tre chierici "fideles et casti" di riceverla.
L'organizzazione interna sia disciplinare sia liturgica, il tipo particolare di spiritualità' le stesse strutture architettoniche (tra l'altro la erezione del jubé)della fondazione arialdina, ecc., sono gli elementi caratteristici e peculiari rilevati da Andrea da Strumi e che rispondono esattamente ai principi ispiratori del movimento di riforma canonicale.
Dopo il sinodo di Fontaneto, e cioè presumibilmente nel settembre-ottobre 1057, è da porsi il viaggio a Roma di Arialdo.
Giunto a Roma, il capo della pataria milanese venne accolto dal papa; questi ascoltò le sue lamentele, l'esposizione del suo operato e le accuse mosse dai patarini contro la Chiesa milanese di persistere nel disprezzo delle norme canoniche emanate da Roma; Stefano IX si astenne, però, dal condannare l'arcivescovo Guido, pur revocando la scomunica lanciata dal sinodo di Fontaneto. La missione pontificia alla corte imperiale, composta da Anselmo da Baggio e da Ildebrando di Soana, nel suo viaggio verso la Germania, si sarebbe fermata a Milano e avrebbe sistemato i complessi problemi interni della Chiesa ambrosiana.
È da escludere che Ildebrando e Anselmo abbiano preso provvedimenti concreti durante il loro soggiorno milanese e si sarebbe inclini a credere che la loro missione non abbia determinato il trionfo delle più ardite posizioni ed istanze patariniche. Si trattò di una missione esplorativa, che in ogni caso giovò alla causa dei riformatori milanesi in quanto il movimento patarinico aveva ottenuto il pieno riconoscimento della Chiesa romana e aveva messo a fuoco, proprio alla fine del 1057, tutti i motivi per un rinnovamento della Chiesa milanese e per la realizzazione delle sue, fino allora, vaghe esigenze religiose.
A. e Landolfo, la cui linea di condotta era ormai conosciuta e non condannata da Roma, sentendosi al sicuro dal pericolo di essere nuovamente colpiti quali eretici, rinvigorirono la loro azione contro i chierici concubinari e simoniaci. Non è i rnprobabile che tra l'aprile ed il maggio 1059, certamente in ogni caso dopo il concilio celebrato da Niccolò II, A. e Landolfo rivolgessero un appello a Roma per un nuovo intervento della Sede apostolica nelle cose interne di Milano.
Da Roma, verso il settembre o l'ottobre 1059, venne inviata una nuova missione, composta da Anselmo da Baggio e da Pier Damiani; questa volta i legati papali operarono in modo più chiaro e sistematico della prima legazione. Durante questa legazione i sacerdoti colpevoli di simonia, dopo aver giurato di emendarsi e di adempiere le penitenze prescritte, furono riconciliati con la Chiesa.
Decisamente avversa fu anche l'azione di A. all'elezione - da lui ritenuta simoniaca - degli abati di S. Celso, S. Ambrogio e S. Vittore, verso la fine del 1063.
Se dobbiamo prestar fede ad Arnolfo, A. avrebbe apostrofato il nuovo abate di S. Ambrogio, Ariprando, rimproverandolo di violare i sacri canoni. Probabilmente A. intendeva riferirsi ai canoni approvati dal sinodo romano dell'aprile 1063, con cui si vietava a chiunque di assumere l'abito monacale con la speranza o con la promessa di essere creato abate di qualche monastero.
In questo periodo, forse, è da collocarsi la lettera pontificia ad A. con la quale si consigliava il riformatore milanese di tendere la mano anche agli ecclesiastici recidivi, ma di non riammetterli più nel godimento dei loro benefici per non incitarli di nuovo al peccato.
La situazione milanese, già pesante e tesa, venne a complicarsi anche per alcune questioni liturgiche, i cui motivi polemici vanno ricercati in quel piano di restaurazione e di ritorno alle origini favorito dalla predicazione e dall'azione arialdina.
A. non intendeva accettare quei giorni di penitenza i quali cadevano in periodi che, secondo la sua opinione, dovevano dai cristiani essere solennizzati con particolare gioia. Tale era il periodo che intercorretra Pasqua e Pentecoste; ora proprio nella settimana successiva all'Ascensione il rito ambrosiano imponeva il digiuno durante le litanie triduane. A. cominciò a predicare contro tale digiuno (Arnolfo carica le tinte dell'episodio interpretandolo in chiave di disprezzo della tradizione ambrosiana), finché sorse un tumulto tra i suoi fautori e gli avversari; costoro corsero a saccheggiare la canonica di A. che fu salva solo in seguito al pronto intervento di Erlembaldo e dei suoi.
Nel 1064 è forse da collocare la pubblica discussione tra A. per i riformatori e l'arcidiacono Guiberto ed il diacono Ambrogio detto Bisso per i conservatori, circa la possibilità per i sacerdoti di avere moglie. In questo dibattito A. fu attaccato anche dal prete Andrea, il quale gli rinfacciò le lotte che per sua colpa logoravano Milano.
Intanto l'arcivescovo Guido da Velate credette giunto il momento di intervenire con la forza per frenare le intemperanze dei patarini e lanciò la sospensione a divinis contro alcuni preti della canonica di Arialdo. Questi ultimi si rivolsero a Roma ed il pontefice li esortò, dopo averli prosciolti dalla sospensione, ad obbedire all'arcivescovo di Milano.
Pare che nel frattempo l'insegnarnento di A. fosse stato accolto da due chierici monzesi che si professavano suoi devoti. A. pretese che essi dessero prova della loro fede e i due iniziarono la predicazione a Monza, facendosi propagatori delle idee arialdine. L'arcivescovo Guido ordinò, allora, che i due chierici fossero presi e condotti prigionieri nel castello di Lecco. A. inscenò una sollevazione popolare. Incontratesi le due fazioni nei pressi di Monza, i seguaci dell'arcivescovo preferirono venire a trattative e promettere la restituzione dei prigionieri.
Poco prima della festa della Pentecoste del 1066, vennero recapitate per mezzo di Erlembaldo le lettere papali di scomunica da parte di Alessandro II contro l'arcivescovo Guido da Velate, colpevole soprattutto di atti di simonia.
Il giorno di Pentecoste (4 giugno 1066), presenti A. ed Erlembaldo, nella cattedrale di S. Maria Iemale, l'arcivescovo Guido, presentando la scomunica comminata dal pontefice romano come un insulto alla Chiesa ambrosiana, eccitò la folla contro i capi della pataria. Contro A. si scatenarono i chierici; egli fu percosso brutalmente, si che per la città si sparse la notizia della sua morte; i seguaci del diacono riformatore diedero, allora, l'assalto al palazzo arcivescovile e misero in serio pericolo la vita dello stesso arcivescovo.
A. venne frattanto portato nell'atrio della chiesa di Rozone e alla folla riunita numerosa e minacciosa, in quanto chiedeva vendetta contro Guido e la sua parte, parlò mostrando come gli avvenimenti della giornata fossero stati provvidenziali e come fosse necessario deporre le armi.
L'arcivescovo in seguito al tumulto lanciava l'interdetto sulla città: ciò che scosse profondamente i Milanesi, anche se sembra inverosimile quanto afferma Landolfo, circa un preteso riconoscimento dei propri torti fatto da A. in una confessione davanti al clero raccolto sotto la presidenza del primicerio. È certo, comunque, che A. lasciò la città e si recò presso la chiesa di S. Vittore all'Olmo.
Andrea da Strumi si dilunga a descrivere quelli che dovettero essere stati gli ultimi giorni del capo patarino. Questi, con Erlembaldo, un tal prete Siro e pochi altri, si sarebbe dovuto recare a Roma. Imbarcatosi a l'avia per raggiungere Piacenza la barca venne assalita; A. fu fatto prigioniero e consegnato in custodia al signore di un vicino castello favorevole a Guido da Velate. A. riuscì, però, a convincere il signore della sua innocenza e, rimesso in libertà, si rifugiò a Legnano in un castello di proprietà di Erlembaldo: quando anche la permanenza in questo castello divenne pericolosa, A. accettò l'ospitalità di un suo amico, reduce dalla Terrasanta. Per convincimento o per opportunità, l'ospite avvertì l'arcivescovo di Milano, il quale inviò alcuni sgherri ad arrestare Arialdo. Legato sul dorso di un mulo, A. fu condotto verso Angera, dove venne rinchiuso nel castello di donna Oliva, nipote di Guido da Velate (28 giugno 1066). A. fu quindi trucidato su di un'isola del Lago Maggiore.
Il suo cadavere, ritrovato casualmente il 3 maggio 1067, venne, dopo molte resistenze, consegnato ad Erlembaldo da donna Oliva e riportato a Milano. Il 17 maggio la salma di A. entrava trionfalmente in Milano per essere deposta in S. Ambrogio per dieci giorni, prima di essere tumulata in S. Celso. Successivamente venne traslata nella chiesa di S. Dionigi e alla fine del XVIII secolo in duomo.
Pare che Alessandro II annoverasse A., l'anno 1067, fra i santi martiri. La Congregazione dei Riti emise il 12 luglio 1904 decreto di conferma del culto di s. Arialdo.
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