Bonifacio I, santo
Successe a papa Zosimo. Secondo il Liber pontificalis fu di origine romana e figlio del presbitero Giocondo.
Era anch'egli un presbitero, della Chiesa di Roma, e a lui il papa Innocenzo aveva affidato importanti incarichi. B. aveva fatto parte della delegazione dei vescovi e altri chierici che Innocenzo aveva inviato all'imperatore Arcadio per sostenere la causa di Giovanni Crisostomo, delegazione a cui però non venne nemmeno consentito l'ingresso a Costantinopoli (cfr. Palladio, Dialogus 4, 1-109). Al presbitero B., inoltre, Innocenzo scrisse intorno al 415, allorché questi si trovava a Costantinopoli quale suo rappresentante, per dargli notizia delle condizioni alle quali aveva ristabilito la comunione della Sede romana con Alessandro di Antiochia dopo la vicenda del Crisostomo (cfr. Innocenzo, ep. 23). L'esperienza in questi incarichi diplomatici troverà espressione nel modo in cui B. saprà affrontare le problematiche che emergeranno nel corso del suo ministero episcopale.
Fu papa dalla fine del 418 al 422. La sua elezione al pontificato fu contrassegnata da contrasti nella Chiesa di Roma a causa della contemporanea elezione dell'arcidiacono Eulalio. Notizie sulla controversia sono fornite dalle lettere che intercorsero tra il prefetto di Roma Simmaco e l'imperatore Onorio o il patrizio Costanzo che ne aveva sposato la sorella Galla Placidia, dalla supplica che i sostenitori di B. rivolsero alla corte imperiale e dalle lettere di Onorio e Galla Placidia ad altri personaggi coinvolti nella vicenda. Si tratta di una documentazione scoperta in un manoscritto del monastero di Fonte Avellana, pubblicata per la prima volta da C. Baronio e ora conosciuta come facente parte della Collectio Avellana. Si sa dunque che subito dopo la morte di papa Zosimo, avvenuta il 26 dicembre del 418, il giorno successivo Eulalio venne eletto dai diaconi e da pochi presbiteri nella basilica del Laterano ma il 28 dicembre la parte maggioritaria dei presbiteri radunò il popolo "ad Theodorae ecclesiam", di incerta identificazione, e lì elesse B. (Collectio Avellana 14). Secondo il Liber pontificalis (p. 227), invece, B. sarebbe stato eletto nella "basilica Iulii"; sulla localizzazione di tale chiesa gli studiosi sono divisi (Lexicon Topographicum Urbis Romae, pp. 179-80). Sia B. che Eulalio furono consacrati la domenica successiva, il 29 dicembre, il primo "in ecclesia Marcelli" con l'approvazione di circa settanta presbiteri e alla presenza di nove vescovi di diverse provincie; B. fu poi condotto in S. Pietro (Collectio Avellana 14; 17). Simmaco scrisse subito ad Onorio in senso favorevole ad Eulalio (ibid. 14) e l'imperatore rispose il 3 gennaio del 419 riconoscendo la legittimità della sua elezione e decretando l'espulsione di B. da Roma (ibid. 15). L'8 gennaio Simmaco comunicò ad Onorio, in risposta alla sua lettera del giorno 3, che B. il 6 gennaio si era recato a S. Paolo per celebrare l'Epifania, in dispregio degli accordi intercorsi con Simmaco; essendo entrato con la violenza in Roma, nonostante che il prefetto glielo avesse vietato, ne fu espulso e prese dimora non lontano dalla città (ibid. 16). Si sa che anche i sostenitori di B. si rivolsero alla corte imperiale (Bonifacio, ep. 1, in P.L., XX, coll. 750-52; Collectio Avellana 17) e allora l'imperatore il 15 gennaio stabilì che entrambi i contendenti si presentassero ad un sinodo da celebrarsi a Ravenna l'8 febbraio (Collectio Avellana 18). Non essendo emerso alcun risultato da questo incontro, Onorio il 15 marzo stabilì che la vertenza fosse definita in un successivo concilio che avrebbe dovuto svolgersi a Spoleto il 13 giugno - a cui avrebbero partecipato non solo vescovi dell'Italia ma anche delle Gallie e dell'Africa (cfr. ibid. 35) - e che nel frattempo le celebrazioni pasquali ormai imminenti - giacché la Pasqua del 419 cadeva il 30 marzo - fossero svolte dal vescovo di Spoleto Achilleo, mentre sia B. sia Eulalio dovevano allontanarsi da Roma: a tal fine la corte di Ravenna si adoperò con una serie di missive inviate ai personaggi interessati (ibid. 20-8; 35). Il Liber pontificalis informa che B. andò ad abitare nel cimitero di S. Felicita, dove riposava il corpo della martire, sulla via Salaria "nova", attestando che in seguito, quando venne riconosciuto vescovo legittimo della città, costruì in questo luogo un oratorio e adornò il sepolcro della santa e di uno dei suoi sette figli, Silano. L. Duchesne, nel commentare questa notizia del Liber pontificalis, rileva che l'oratorio non è stato ritrovato ma menziona una iscrizione, riportata nelle sillogi (Inscriptiones Christianae, nr. 23394), da cui si può dedurre che B. attribuì all'aiuto della santa il successo della sua causa e ritiene possibile che fu il restauro del cimitero di S. Felicita a far nascere la notizia che B. avesse lì dimorato al tempo del suo esilio da Roma (Le Liber pontificalis, p. 229). L'unica ipotetica traccia rimasta degli interventi decorativi eseguiti da B. presso le tombe dei due martiri sembra sia da individuare in uno strato di decorazione pittorica localizzato al di sotto degli affreschi del VII-VIII secolo che coprono le pareti della basilichetta ipogea.
Eulalio non si attenne alle decisioni imperiali e prese l'iniziativa di entrare illegalmente nella città per celebrarvi le feste pasquali: la sua imprudenza determinò l'esito della controversia e cioè la sua espulsione e il riconoscimento di B. quale vescovo legittimo da parte di Onorio con una lettera del 3 aprile, giunta a Roma il giorno 8 (Collectio Avellana 33). Simmaco fece poi sapere all'imperatore che dopo due giorni, quindi il 10 aprile, B. rientrò a Roma accolto da tutta la popolazione (ibid. 34). Onorio il 7 aprile comunicò al proconsole d'Africa, Largo, l'esito della vicenda e l'annullamento del concilio di Spoleto (ibid. 35) e il proconsole ne diede notizia ad Aurelio di Cartagine (ibid. 36).
La vertenza sulla elezione episcopale a Roma si era dunque sostanzialmente risolta tramite l'intervento dell'imperatore. Ed è all'imperatore che B. stesso si rivolse in un momento in cui, il 1° luglio probabilmente del 420, trovandosi in precarie condizioni di salute e temendo lo scoppiare di nuovi disordini alla sua morte, scrisse ad Onorio (ep. 7, in P.L., XX, coll. 765-67; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 353) per chiedere, nel caso che questi avessero a verificarsi, il suo aiuto per riportare la pace se ne fosse stato richiesto dai vescovi e dai legati della Chiesa romana. Onorio rispose con un rescritto in cui disponeva che, se fossero stati ordinati contemporaneamente due vescovi, nessuno dei due avrebbe potuto essere confermato alla Sede apostolica ma si sarebbe dovuto procedere concordemente a una nuova elezione (ep. 8, nell'epistolario di B., in P.L., XX, coll. 767-69; Collectio Avellana 37). I timori di B. risultarono però infondati perché alla sua morte, avvenuta il 4 settembre del 422, la successiva elezione si svolse pacificamente giacché Eulalio, pur sollecitato dai suoi sostenitori a riproporsi come vescovo di Roma, rifiutò. Pertanto questo decreto imperiale non ebbe seguito né mai venne applicato nel corso della storia della Chiesa.
Il pontificato di B. fu contrassegnato dai suoi interventi in Africa, nelle Gallie e nell'Illirico, come attestano le lettere da lui indirizzate ai vescovi di quelle regioni.
In Africa alla morte di papa Zosimo era rimasto insoluto il problema del presbitero Apiario che era stato deposto dal suo vescovo, Urbano di Sicca Veneria, e si era allora appellato al papa che ne aveva accolto il ricorso: Zosimo aveva anche mandato in Africa tre suoi legati, il vescovo Faustino di Potenza Picena e i presbiteri Filippo e Asello, con un documento ("commonitorium") che prendeva posizione contro Urbano e chiedeva di trattare con i vescovi africani la questione degli appelli alla Sede romana - appelli che la prassi canonica delle Chiese d'Africa esplicitamente vietava - basando le sue dichiarazioni su canoni attribuiti al concilio di Nicea. I vescovi africani risposero con una lettera - che non è pervenuta ma di cui si conosce il contenuto dalla successiva epistola di Aurelio di Cartagine a B. datata 26 maggio - in cui dichiaravano di rimandare la sentenza a un successivo concilio, attenendosi per il momento alle disposizioni di Zosimo ma riservandosi di voler accertare l'effettiva presenza dei canoni da lui addotti tra quelli niceni, giacché mancavano nella copia da loro posseduta (e in realtà si trattava di canoni promulgati nel concilio di Serdica: cfr. Concilium, pp. 460, r. 1 e 462, r. 27). Questa lettera giunse a Roma dopo la morte del papa: B. dovette quindi affrontare di nuovo la questione. Il 26 maggio del 419 Aurelio di Cartagine e con lui i duecentodiciassette vescovi che partecipavano al concilio africano riunitosi il giorno precedente, il 25 maggio, inviarono a B. tramite i suoi tre legati una lettera (cfr. ep. 2, nell'epistolario di B., in P.L., XX, coll. 752-56; Gesta de nomine Apiarii, pp. 596-608; Concilia Africae a. 345-a. 525, pp. 156-61) in cui comunicavano che Apiario si era pentito, era stato riaccolto nella comunione ecclesiastica e, conservato nella sua dignità presbiterale, destinato ad altra sede. Inoltre, dopo aver ricordato sinteticamente le richieste del "commonitorium" di Zosimo, dichiaravano di aver già comunicato allo stesso Zosimo di trovarsi in accordo con lui circa la legittimità del ricorso dei vescovi a Roma e la possibilità per i chierici di trattare con i vescovi confinanti le controversie sorte con il proprio vescovo, fino a che non si fosse fatta chiarezza sui canoni niceni. Infatti, per quanto atteneva ai canoni ritenuti niceni da Zosimo, affermavano di non averli trovati in nessun codice latino e, non possedendo alcun codice greco, aggiungevano di volersi informare presso le Chiese orientali: a tal fine pregavano B. di scrivere egli stesso ai vescovi delle Chiese di Antiochia, Alessandria e Costantinopoli o anche di altre sedi per chiedere loro di mandare in Africa i canoni stabiliti a Nicea. Nel frattempo dichiaravano che avrebbero osservato le richieste del documento papale. Non si conosce la reazione di B. a questo riguardo. Egli si era invece fatto precedentemente presente con l'invio di altri due presbiteri, Dulcizio e Felice, e con una breve epistola, datata 26 aprile, indirizzata a Faustino, Filippo e Asello, in cui si rallegrava della loro incolumità (Bonifacio, ep. 2 inserita dal Migne tra quelle mai edite prima di Mansi: P.L., XX, coll. 791-92; Gesta de nomine Apiarii, p. 565; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 348; Clavis Patrum Latinorum, nr. 1649). La vicenda di Apiario ebbe un seguito con il successivo papa Celestino.
Delle questioni africane B. dovette occuparsi anche a proposito di Antonino, un semplice lettore, che per intervento di Agostino, in data imprecisata, era stato eletto vescovo di Fussala, a causa dell'improvviso rifiuto del candidato prestabilito per quella sede: ma la scelta non si era rivelata opportuna perché Antonino fu accusato dalla popolazione di varie colpe e di irregolarità economiche e di conseguenza fu deposto da un concilio locale. Antonino si appellò però, nel 422, alla Sede romana tramite il primate di Numidia e B. si comportò con cautela accogliendo il ricorso ma anche chiedendo ai vescovi africani di fargli avere informazioni sul caso: Agostino, scrivendo al successore di B., Celestino (ep. 209, 9), cita una lettera inviata in Africa da B. a questo riguardo (cfr. anche Agostino, ep. 20*, 11-12). La morte del papa lasciò però al suo successore la soluzione del problema: di fatto non si sa come la vertenza si sia conclusa, dal momento che la lettera che Agostino scrisse a Celestino per ragguagliarlo sulla questione, onde corrispondere alla richiesta di B., è l'unica testimonianza che si possiede sulla vicenda.
A seguito della scoperta di nuove lettere di Agostino da parte di J. Divjak si sa che il vescovo di Ippona aveva già operato in collaborazione con B. nel 419-420 a proposito di una controversia sorta a Cesarea di Mauritania con l'elezione del vescovo Onorio (cfr. Agostino, epp. 22*, 7, 11; 23/A*, 4-5). L'azione di B. figura poi in rapporto al pelagianesimo ma in modo piuttosto marginale. Dopo un periodo iniziale caratterizzato forse da poca risolutezza nei confronti dell'eresia (cfr. Girolamo, epp. 153, 154), quando venne a conoscenza del fatto che Giuliano di Eclano, vescovo della Campania che non aveva sottoscritto la Tractoria di Zosimo, aveva inviato ai cristiani di Roma e a Rufo di Tessalonica due lettere per sostenere la causa dei pelagiani, B. mandò questi scritti ad Agostino - che in essi veniva calunniato - chiedendogli di intervenire con una loro confutazione (cfr. Prospero di Aquitania, Contra Collatorem 21, coll. 271A-B; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 352*) e Agostino rispose dedicandogli i quattro libri del Contra duas epistulas Pelagianorum (cfr. Agostino, Contra duas epistolas Pelagianorum I, 1, 1-3; ep. 6, nell'epistolario di B., in P.L., XX, coll. 763-65). Fu inoltre forse a seguito di una sollecitazione di B. (cfr. Prospero di Aquitania, Contra Collatorem 21, col. 271A) che il 9 giugno del 419 Onorio e Teodosio scrissero ad Aurelio di Cartagine e ad Agostino chiedendone la collaborazione per attuare il decreto che sanciva la scomunica, la perdita della sede episcopale e l'esilio per tutti i vescovi che avessero rifiutato di sottoscrivere la condanna di Pelagio e Celestio (Collectio Quesnelliana 16, coll. 493-94; Agostino, ep. 201).
Fin dall'inizio del suo pontificato, peraltro breve, B. dovette occuparsi di due questioni aperte dai suoi predecessori, nelle Gallie e nell'Illirico. Nelle Gallie era rimasta sospesa la vertenza tra la sede episcopale di Arles, a cui papa Zosimo aveva concesso diritti metropolitani, e le sedi di Narbona e Vienne che rivendicavano la loro autonomia. In un primo momento, il 13 giugno del 419, B. scrisse a Patroclo di Arles e agli altri vescovi delle Gallie a proposito della questione sollevata da Massimo di Valenza, un chierico che era considerato colpevole di "crimina" e che era sempre riuscito a sottrarsi al giudizio (ep. 3, in P.L., XX, coll. 756-58; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 349): in quella occasione decretò che prima del 1° novembre del 419 si convocasse un sinodo per risolvere la vertenza, ma chiese anche che la decisione presa in quel consesso fosse a lui riferita per ricevere la necessaria conferma dall'autorità papale (cfr. ep. 3, 2). In questo caso, dunque, B. aveva affidato a Patroclo di Arles l'incarico di risolvere una questione che di fatto concerneva piuttosto la provincia di Vienne. Successivamente, però, il 9 febbraio del 422, la posizione di B. fu diversa. Patroclo aveva consacrato per la chiesa di Lodève, situata nella provincia Narbonense I, un vescovo di sua scelta e questo fatto suscitò l'opposizione del clero e del popolo e le rimostranze di Ilario di Narbona, metropolitano di tale provincia; B. diede ascolto a tale duplice protesta e scrisse ad Ilario una lettera in cui, rilevando che il comportamento di Patroclo si era svolto "contro le regole dei Padri" e richiamando i canoni di Nicea, autorizzava Ilario a recarsi nella chiesa di Lodève per far valere i suoi diritti: in tal modo B. annullava il privilegio concesso da Zosimo alla sede di Arles e ristabiliva che il vescovo di Narbona avesse diritti di metropolita alla pari del vescovo di Arles, ciascuno nella sua provincia (ep. 12, in P.L., XX, coll. 772-74; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 362).
L'altra questione che occupò a lungo B. fu quella del rapporto con l'Illirico e ciò a più riprese. Già nell'estate del 419 B. scrisse a Rufo di Tessalonica a proposito della contestata consacrazione di Perigene quale vescovo di Corinto: questi era stato precedentemente eletto vescovo di Patrasso ma, non trovando accoglienza tra i fedeli, era stato spostato a Corinto, suo luogo di origine (cfr. Socrate, Historia ecclesiastica VII, 36). Ma anche qui venne contestato per la procedura seguita, che si pretendeva irregolare in base ad un canone di un concilio orientale, e allora i suoi sostenitori, dopo aver riunito un sinodo a Corinto, si appellarono alla Sede romana. B. scrisse dunque a Rufo, a cui dice essere affidata la sollecitudine "delle Chiese poste in Macedonia e in Acaia", cioè delle provincie di Rufo e di Perigene, comunicandogli di consentire alla richiesta formulata dai Corinzi che si erano appellati a lui (ep. 4, in P.L., XX, coll. 760-61; Collectio Thessalonicensis 7; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 350). In una successiva lettera del 19 (o 4: cfr. Ch. Pietri, II, p. 1111) settembre (ep. 5, in P.L., XX, coll. 761-63; Collectio Thessalonicensis 27; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 351) B. comunicava però al vescovo di Tessalonica di voler attendere una sua risposta epistolare prima di scrivere personalmente a Perigene (ep. 5, 4; per i problemi suscitati da queste due lettere cfr. P.L., XX, coll. 758-60 e P.L., Supplementum, I, coll. 1032-33, ma anche Ch. Pietri, II, p. 1107 nn. 2, 4 e p. 1109 n. 3).
Ma la vicenda di Perigene ebbe un seguito anche negli anni successivi. Infatti alcuni vescovi della Tessaglia, scontenti della comune presa di posizione di Rufo e di B. a favore di Perigene, si appellarono al vescovo di Costantinopoli, Attico, e, per mezzo di lui, allo stesso imperatore d'Oriente Teodosio II. Questi, dal momento che le provincie dell'Illirico orientale nel V secolo appartenevano amministrativamente all'Impero d'Oriente, il 14 luglio del 421 emanò un decreto, indirizzato al prefetto del pretorio dell'Illirico, in cui si stabiliva che tutte le questioni che dovessero sorgere nelle Chiese di quella regione fossero risolte solo dopo averne data comunicazione al vescovo della città di Costantinopoli "che gode del privilegio dell'antica Roma" (Codex Theodosianus XVI, 2, 45; cfr. ep. 9, nell'epistolario di B., in P.L., XX, col. 670). Ciò significava annullare l'azione dei pontefici precedenti (Anastasio, Innocenzo, Zosimo), i quali avevano operato per la costituzione del vicariato papale sulle Chiese dell'Illirico onde sottrarle alla ingerenza di Costantinopoli, e soprattutto equivaleva a far dipendere la supremazia ecclesiastica da quella d'ordine politico. B. espresse chiaramente la sua opposizione all'editto imperiale. Egli chiese all'imperatore Onorio d'intervenire presso Teodosio II onde ottenere che gli antichi diritti della Sede romana sull'Illirico fossero ristabiliti; è quanto fece Onorio, il quale scrisse a Teodosio II una lettera (cfr. ep. 10, nell'epistolario di B., in P.L., XX, coll. 769-70; Collectio Thessalonicensis 15) che provocò una risposta da parte del collega orientale: questi dichiarò di decretare che venisse osservato quanto "recitano la prima disciplina apostolica e gli antichi canoni" e di aver già inviato ai prefetti del pretorio dell'Illirico disposizioni perché facessero custodire "l'ordine antico" (cfr. ep. 11, nell'epistolario di B., in P.L., XX, coll. 770-71; Collectio Thessalonicensis 16), anche se il decreto del 14 luglio non venne formalmente abrogato. Il cambiamento di posizione di Teodosio II è stato anche messo in relazione con il mutamento della situazione politica: la morte improvvisa, il 2 settembre del 421, del patrizio Costanzo, le cui aspirazioni alla successione imperiale avevano fino ad allora preoccupato l'imperatore d'Oriente, veniva ad appianare le difficoltà di rapporto tra Oriente ed Occidente e quindi forse a contribuire ad allentare la tensione tra le due corti.
Il papa trasse vantaggio da questa nuova situazione per ristabilire in tutto il suo vigore il vicariato di Tessalonica: inviò nell'Illirico un suo legato, Severo, "notarius" della Sede apostolica, con tre lettere. Una era indirizzata a Rufo di Tessalonica (ep. 13, in P.L., XX, coll. 774-77; Collectio Thessalonicensis 9; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 363) per sostenerlo nella lotta contro gli avversari e rinsaldarne il legame con la Chiesa di Roma e con l'apostolo Pietro (cfr. ep. 13, 1): nell'epistola B. affermava di aver mandato lettere "d'ammonimento e correzione" in Tessaglia e al sinodo riunito per discutere il caso di Perigene, sostenendo il principio che non potevano verificarsi riunioni episcopali senza il consenso di Rufo e non poteva essere ritrattato un giudizio papale e dichiarando poi solennemente che "mai poteva essere di nuovo trattato quello che una volta era stato stabilito dalla Sede apostolica" (ep. 13, 2). Inoltre B. comunicava a Rufo anche i provvedimenti da prendere circa alcuni membri del clero. La lettera fu scritta il 3 marzo (l'11 secondo i Regesta Pontificum Romanorum) del 422 e la medesima data portano le altre due epistole indirizzate, rispettivamente, a tutti i vescovi della Tessaglia e ancora a Rufo insieme agli altri vescovi dell'Illirico. La lettera ai vescovi della Tessaglia (ep. 14, in P.L., XX, coll. 777-79; Collectio Thessalonicensis 10; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 365) contiene l'energica affermazione dei privilegi della Sede apostolica che risalgono a Pietro, facendo appello anche ai canoni del concilio di Nicea: "l'istituzione della Chiesa universale fin dalla nascita si fonda sulla dignità di san Pietro". B. ne faceva conseguire che Pietro - e quindi la Chiesa romana - è per tutte le Chiese sparse per il mondo "come la testa delle sue membra" e chiunque se ne distacca "viene bandito dalla fede cristiana, non restando unito con essa" (ep. 14, 1). In questo scritto B. affermava di aver saputo che alcuni vescovi avevano tentato di staccarsi dalla comunione e dalla potestà della Sede apostolica cercando aiuto presso chi, di fatto, non aveva ricevuto alcuna maggiore autorità dalla "decisione delle regole ecclesiastiche" (ep. 14, 2) e con tali espressioni alludeva al vescovo di Costantinopoli. Di conseguenza il papa invitava con fermezza i vescovi della Tessaglia a riconoscere invece l'autorità di Rufo per quanto concerneva le ordinazioni (cfr. ep. 14, 4). La lettera a Rufo e agli altri vescovi dell'Illirico (ep. 15, in P.L., XX, coll. 779-84; Collectio Thessalonicensis 8; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 365) affrontava di nuovo il caso di Perigene e trattava il problema della convocazione a Corinto di un sinodo che esaminasse la situazione di un vescovo che la Sede apostolica aveva già stabilito per gli abitanti di quella città, considerando volontà divina il fatto che Perigene fosse divenuto vescovo nella città dove era cresciuto. B. dichiarava di non aver agito sconsideratamente, ma di aver chiesto anche il parere di Rufo. Nella lettera B. si ricollegava di nuovo all'autorità dell'apostolo Pietro e faceva derivare dall'incarico a lui affidato dal Cristo, secondo Matteo 16, 18-19, l'esigenza per il vescovo di Roma di manifestare la propria sollecitudine nei confronti della Chiesa universale, e quindi anche nei confronti delle Chiese orientali. Faceva anche riferimento ai canoni di Nicea da cui si poteva dedurre l'"ordine" tra le sedi episcopali (cfr. ep. 15, 5) e ricordava come pure in passato le più grandi Chiese orientali, cioè quelle di Alessandria e di Antiochia, avessero consultato, nelle questioni importanti, quella romana e come così si fosse comportato anche l'imperatore Teodosio I quando aveva inviato a Roma una ambasceria per ottenere il riconoscimento di Nettario quale vescovo di Costantinopoli; ricordava inoltre come in tempi più recenti, durante il pontificato di Innocenzo, molti vescovi orientali in un momento di crisi nella comunione con la Sede apostolica si fossero adoperati per ristabilire la pace (con allusione ai contrasti che seguirono alla condanna del Crisostomo). Infine B. ripeteva ai destinatari di non tornare più sulla questione di Perigene e incaricava Rufo, "al quale abbiamo affidato tutto in nostra rappresentanza" (ep. 15, 8), di risolvere, insieme con altri fratelli da lui stesso scelti, ogni successiva controversia che potesse eventualmente sorgere in quelle regioni, con l'intesa che avrebbe riferito al papa tutte le decisioni prese. Chiunque avesse rifiutato l'autorità concessa a Rufo nell'ambito delle ordinazioni episcopali si sarebbe visto bandito dalla "carità apostolica". In tal modo veniva pienamente ristabilito il vicariato papale della sede di Tessalonica.
A B. viene anche attribuita una lettera indirizzata a nove vescovi dell'Illirico, edita da P. Coustant tra quelle di Celestino I (cfr. Celestino, ep. 3, coll. 427-29; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 366; Collectio Thessalonicensis 6; P.L., Supplementum, I, col. 1033; Clavis Patrum Latinorum, nr. 1648), in cui il papa sosteneva la causa di Felice vescovo di Durazzo contro una fazione che lo aveva accusato e ribadiva i privilegi di Rufo di Tessalonica su ordinazioni, riunioni episcopali e ogni altra vertenza potesse sorgere nella provincia: Rufo, che agiva come vicario papale, avrebbe riferito a lui ogni questione e chiunque avesse ritenuto di rifiutare la sua autorità avrebbe dovuto essere considerato separato "dalla riunione dei fratelli".
Secondo il Liber pontificalis B. emanò alcune disposizioni di carattere liturgico: avrebbe vietato alle donne di toccare o di lavare i paramenti sacri o di bruciare l'incenso nella chiesa e inoltre precluso agli schiavi e ai curiali l'accesso agli ordini clericali e ordinato tredici presbiteri, tre diaconi e trentasei vescovi. La data della sua morte è fissata dal Martyrologium Hieronymianum al 4 settembre del 422, giorno in cui si celebra la sua memoria, mentre il Liber pontificalis e il Martyrologium Romanum hanno la data del 25 ottobre: la prima notizia risulta più attendibile. Fu sepolto nel cimitero di S. Felicita sulla via Salaria "nova" presso il corpo di s. Felicita martire (Le Liber pontificalis, p. 227), ma l'itinerario Notitia Ecclesiarum, descrivendo quel complesso, specifica meglio: "ibi illa pausat in ecclesia sursum et Bonifacius papa et martir in altero loco, et filii eius sub terra deorsum" (Codice topografico della città di Roma, II, p. 75). Nella biografia di Adriano I si menzionano espressamente al plurale le "ecclesiae sancti Silvani martyris et sancti Bonifatii" (Le Liber pontificalis, p. 509 n. 108). Evidentemente si tratta di tre edifici distinti: la basilichetta sotterranea dedicata al martire Silano, rinvenuta dal de Rossi, la basilica di S. Felicita nel sopratterra nei cui pressi fu edificato il mausoleo sepolcrale di Bonifacio. Dei due ultimi edifici non sono state rinvenute tracce monumentali.
fonti e bibliografia
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Per quanto riguarda la documentazione archeologica ed epigrafica si v.: G.B.de Rossi, Scoperta di una cripta storica nel cimitero di Massimo ad sanctam Felicitatem sulla via Salaria Nuova, "Bullettino di Archeologia Cristiana", 3, 1884-85, pp. 149-84 (a proposito dell'oratorio fatto costruire da B. e della sua sepoltura); Codice topografico della città di Roma, a cura di R. Valentini-G. Zucchetti, II, Roma 1942 (Fonti per la Storia d'Italia, 88); J.C. Picard, Étude sur l'emplacement des tombes des papes du IIIe au Xe siècle, "Mélanges de l'École Française de Rome" 81, 1969, p. 741 (a proposito della sepoltura di B.); Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, VIII, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, In Civitate Vaticana 1983, nr. 23394; Lexicon Topographicum Urbis Romae, I, Roma 1993, s.v. Basilica Iulii, Iuliae, pp. 179-80; s.v. Basilica Iulii iuxta forum Traiani, pp. 180-81; s.v. Basilica Theodorae, p. 188; A. Cerrito, Sull'oratorio di S. Felicita presso le terme di Traiano a Roma, in Domum tuam dilexi. Miscellanea in onore di A. Nestori, Città del Vaticano 1998, pp. 180-82.
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