Clemente I, santo
Nella lista dei vescovi di Roma fornita da Ireneo di Lione, C. (o Clemente Romano) è considerato il terzo successore degli apostoli dopo Lino e Anacleto. Ireneo afferma che C., non unico nella sua epoca, era stato a contatto con gli apostoli, tanto che la loro predicazione risuonava alle sue orecchie e la loro tradizione era davanti ai suoi occhi, e ricorda che durante il suo episcopato la Chiesa di Roma inviò ai Corinzi una lettera per farli riconciliare, rinnovando la fede e la tradizione apostolica da poco ricevuta. Eusebio di Cesarea conferma questi dati aggiungendo altre notizie: sarebbe succeduto ad Anacleto nel dodicesimo anno di Domiziano, cioè nel 92 (Historia ecclesiastica III, 15; cfr. Chronicon, ad a. 92, dove si afferma che fu a capo della Chiesa di Roma per nove anni), sarebbe stato compagno di Paolo (Historia ecclesiastica III, 4, 9) - con un probabile riferimento all'omonimo personaggio citato in Filippesi 4, 3 - insieme ad altri collaboratori dell'apostolo.
Questa identificazione risale a Origene, In Iohannem VI, 54, 279, ma non sembra sufficientemente fondata, soprattutto per motivi cronologici se si deve porre il vescovo C. alla fine del I secolo, oltre al fatto che nel passo citato Paolo sembra riferirsi a cristiani di Filippi, che non hanno alcun rapporto con la Chiesa di Roma.
Lo stesso Eusebio fornisce molte informazioni sulla lettera della Chiesa dei Romani alla Chiesa dei Corinzi, la cosiddetta Epistula ad Corinthios o I Clementis, rilevando in essa la presenza di molte citazioni di Ebrei (Historia ecclesiastica III, 38, 1; cfr. Girolamo, De viris illustribus 15), e riporta l'opinione che C. sarebbe stato il traduttore della medesima epistola neotestamentaria, scritta da Paolo nella sua lingua materna (Historia ecclesiastica III, 38, 3); Eusebio cita inoltre un passo delle omelie di Origene su Ebrei, in cui si riferiva la tradizione secondo cui per alcuni C. ne sarebbe stato l'autore (ibid. VI, 25, 13). Eusebio aggiunge che C. guidava ancora i Romani all'epoca di Nerva e agli inizi dell'impero di Traiano (ibid. III, 21), e più precisamente che cessò di vivere nel terzo anno di Traiano, cioè nel 99, trasmettendo il suo ufficio a Evaristo (ibid. III, 34; cfr. Chronicon, ad a. 99).
La tradizione che pone C. dopo Lino e Anacleto è nota anche a Girolamo, De viris illustribus 15: "quartus post Petrum Romae episcopus", ma lo stesso Girolamo ne conosce un'altra secondo cui C. sarebbe stato il successore immediato di Pietro (ibid.: "tametsi plerique Latinorum secundum post Apostolum putent fuisse Clementem"; cfr. Adversus Iovinianum I, 12; In Esaiam XIV, 52, 13-15). Questa tradizione è spesso congiunta con quella che vuole C. ordinato dallo stesso Pietro, e si legge già in Tertulliano, De praescriptione haereticorum 32, 2, nella Epistula Clementis ad Iacobum - un testo che oggi si pensa risalga alla fine del sec. III e che fa parte della letteratura pseudoclementina, nel quale tuttavia si specifica che tale ordinazione avvenne quando Pietro era in fin di vita - e più tardi nelle Constitutiones apostolorum.
È probabile che l'intento di collegare C. direttamente a Pietro trovi la sua spiegazione nel fatto che C. era stato identificato con il personaggio omonimo citato in Filippesi 4, 3, quindi davvero contemporaneo degli apostoli, e anche perché senza dubbio egli costituisce la personalità più importante tra i primi successori di Pietro.
Un tentativo di mediare le due tradizioni, quella che vedeva in Lino il successore di Pietro e quella che considerava tale C., è rappresentato da quei testi che propongono la serie Pietro-Lino-C., come le citate Constitutiones apostolorum in Oriente, il Catalogo Liberiano, le liste episcopali romane di Ottato di Milevi e di Agostino in Occidente. Ma sono attestate anche altre soluzioni. Epifanio di Salamina si chiedeva come mai un contemporaneo degli apostoli fosse subentrato solo più tardi, e non immediatamente alla loro morte, nell'episcopato romano. Epifanio ipotizza che gli apostoli possano aver ordinato chi li sostituisse nel governo della Chiesa romana mentre loro erano impegnati nel ministero apostolico, e immagina - sulla base di Epistula ad Corinthios 54, 2, in cui si esortano i più generosi ad allontanarsi piuttosto che suscitare sedizioni, divisioni e discordie, e vedendo in questo passo il riflesso di una situazione personale dell'autore - che per non suscitare problemi all'interno della comunità C. si sia astenuto dall'esercitare le funzioni episcopali finché non vi fu costretto alla morte di Pietro, di Lino e di Cleto. Quella di Epifanio non è altro che una ipotesi, ed egli stesso in definitiva afferma di non sapere se C. sia stato ordinato da Pietro o da Cleto (Panarion 27, 6, 2-7). Pur come tale, l'ipotesi fu ampliata nel Prologus alle Recognitiones da Rufino di Aquileia, il quale, volendo conciliare questa tradizione con le più antiche liste episcopali romane che ponevano Lino e Anacleto dopo Pietro, appoggiandosi sulla apocrifa Epistula Clementis ad Iacobum, in cui C. affermava di essere stato ordinato da Pietro, sostenne come un dato acquisito che Lino e Cleto avrebbero esercitato le funzioni episcopali quando Pietro, che si era riservato l'ufficio apostolico, era ancora in vita. Così Rufino poteva affermare come certo sia che Lino e Cleto avrebbero preceduto C., sia che lo stesso C. poteva dirsi successore di Pietro in quanto subentrato nell'episcopato al governo di Pietro esercitato insieme con Lino e Cleto.
Il Catalogo Liberiano stabilisce questa successione con la relativa cronologia: Lino (56-67)-C. (68-76)-Cleto (77-83). Il Liber pontificalis, nr. 4, tiene conto del sistema introdotto da Rufino e consono con le liste di Ireneo e di Eusebio, ma mantiene la cronologia del Catalogo Liberiano, creando così una contraddizione tra la successione e la cronologia: Lino (56-67)-Cleto (77-83)-C. (68-76). Come già accennato, tutti questi interventi sono motivati dalla preoccupazione di assicurare a C. un posto di prestigio nella lista episcopale romana, che però non si saprebbe dire quanto corrisponda alla realtà delle successioni episcopali del sec. I. Certo, non si può affermare con sicurezza che la lista di Ireneo, ripresa da Eusebio, Epifanio e Clemente, abbia maggiore credibilità sul piano storico. Se tuttavia C. è l'autore dell'Epistula ad Corinthios, che la critica pone ormai concordemente alla fine del sec. I, si è tenuti ad accettare per C. una cronologia più vicina a quella di Eusebio.
A questo proposito si deve ricordare che scarsa fortuna ha raccolto l'ipotesi che C. si debba identificare con il console del 95 Flavio Clemente, mandato a morte l'anno successivo da Domiziano secondo Dione Cassio e Svetonio, soprattutto perché non è affatto dimostrato, come si pretendeva in questa eventualità, che le motivazioni della condanna del console fossero di natura religiosa. Un rapporto tra C. vescovo e il console Flavio Clemente era già stato supposto esplicitamente nella Passio Nerei et Achillei, un testo di nessun valore storico, in cui C. è detto figlio del fratello del console. Non maggiore credito devono avere le notizie su C. che si ricavano dalle Pseudoclementine, secondo cui egli sarebbe stato romano (Recognitiones I, 1; Homiliae I, 1), figlio di Faustiniano, imparentato con la famiglia dell'imperatore, e della nobile matrona Mattidia, fratello minore dei gemelli Fausto e Faustino (Recognitiones VII, 8). Anche l'identificazione con l'omonimo personaggio citato nel Pastore di Erma è dubbia, potendosi ammettere solo anticipando alla fine del sec. I la composizione del Pastore. In base alla Epistula ad Corinthios, attribuita a C., si può dedurre che il suo autore fosse di cultura giudaico-ellenistica, per la conoscenza dell'Antico Testamento e di alcune opere della letteratura intertestamentaria, come per certe sue caratteristiche di stile e di composizione. J.B. Lightfoot ha supposto che C. fosse un liberto di famiglia patrizia.
Secondo il Liber pontificalis C., romano di nascita, della regione celimontana, figlio di Faustino, avrebbe esercitato il suo ministero per nove anni, due mesi e quattro giorni dal 68 al 76. C. avrebbe ricevuto da Pietro la dignità episcopale di governare la Chiesa, così come a Pietro era stata consegnata e affidata la cattedra da Cristo, e il fatto che Lino e Cleto siano nominati prima di lui è giustificato per il fatto che essi sarebbero stati ordinati vescovi per esercitare il ministero sacerdotale. La notizia gli attribuisce la suddivisione di Roma in sette regioni, affidate ognuna ad un notaio incaricato di indagare "sollicite et curiose [...] diligenter" le gesta dei martiri della propria; afferma che compose molti libri, tra i quali cita "duas epistolas, quae catholicae nominantur" e quella scritta a Giacomo, di cui però non dice espressamente trattarsi di una sua opera (ma che tale deve considerarsi nella opinione del redattore, in quanto in essa C. comunica a Giacomo gli ultimi atti di Pietro prima di morire). Afferma inoltre che procedette a due ordinazioni per un totale di dieci presbiteri, due diaconi e quindici vescovi. Sulla base del Chronicon di Eusebio, la fonte aggiunge che C. sarebbe morto martire nel terzo anno di Traiano, cioè nel 99, e sarebbe stato sepolto "in Grecias" il 24 novembre. La sua morte fu seguita da ventun giorni di vacanza. Per un personaggio come C. i dati del Liber pontificalis, se non si possono considerare storicamente attendibili, manifestano apertamente la loro origine nella letteratura e nella tradizione ecclesiastica romana. Il riferimento alla zona celimontana ("de regione Celiomonte"), come quella in cui C. sarebbe nato, riflette la relazione, ormai nel VI secolo data per certa, tra C. papa e la chiesa di S. Clemente, posta più precisamente nella vallata tra il Celio e l'Esquilino e già ricordata da Girolamo negli ultimi anni del IV secolo (Girolamo, De viris illustribus 15: "nominis eius memoriam usque hodie exstructa ecclesia custodit") e poco più tardi da una lettera di papa Zosimo (ep. I, 2: "in sancti Clementis basilica").
La connessione diretta dei resti di strutture d'età romana rinvenuti al di sotto della chiesa medievale con C. è da escludere, dal momento che sono in massima parte non anteriori al III secolo: è probabilmente contemporaneo alla testimonian-za di Girolamo un collare, oggi perduto, recante un'iscrizione graffita (Corpus Inscriptionum Latinarum, XV, nr. 7192: "tene me quia fugi et reboca me Victori acolito a dominicu Clementis" seguita dal monogramma cristologico), che costituisce la più antica testimonianza epigrafica di un toponimo cristiano legato ad un non meglio specificato Clemens. Dunque tra Celio ed Esquilino già dagli ultimi anni del IV secolo si era fissato un toponimo connesso con un Clemens, che Girolamo identificava con il papa del I secolo, ma che è forse più corretto ritenere un più tardo (sec. IV) omonimo donatore degli ambienti in cui fu ospitato un edificio o una struttura funzionale cristiana variamente denominata nelle diverse fonti (ecclesia, dominicum, basilica, titulus) secondo una dinamica simile a quella di altri tituli romani (F. Guidobaldi, S. Clemens).
L'origine romana e la paternità di Faustino non sono senza rapporto con le Pseudoclementine, in cui C. si dice romano e figlio di Faustiniano. Il riferimento alle Pseudoclementine è anche evidente nel richiamo alle circostanze dell'elezione e della ordinazione di C. da parte di Pietro, oggetto della Epistula Clementis ad Iacobum. Le due epistole cattoliche menzionate dal Liber pontificalis sono con ogni probabilità le due lettere attribuite a C. al di fuori del corpus pseudoclementino, cioè la I e la II Clementis. La divisione della città di Roma in sette circoscrizioni ecclesiastiche (rispetto alle quattordici in cui la città era stata suddivisa da Augusto) è attestata almeno dal sec. V. Il fatto che secondo il Liber pontificalis questo provvedimento sia attribuito a C. indica l'intenzione di far risalire la loro istituzione all'età apostolica, tanto più in rapporto ai sette notarii che regione per regione dovevano raccogliere i relativi gesta martyrum, al fine di conferire a questo tipo di letteratura, per la funzione dei notarii, un carattere di autenticità e di ufficialità. Per quanto riguarda gli sviluppi agiografici la tradizione del martirio di C. comincia ad essere attestata dalla fine del sec. IV con Rufino di Aquileia (cfr. Girolamo, Apologia contra Rufinum II, 17) e forse era sancita con il titolo di martyr che compare in un lacerto di iscrizione dedicatoria che si suppone risalire all'epoca di papa Siricio e i cui frammenti sparsi sono stati rinvenuti nella sistemazione medievale (XII secolo) della basilica di S. Clemente a Roma, l'antico "titulus Clementis".
Recentemente (F. Guidobaldi, S. Clemens) è stato giustamente ridimensionato il valore documentario dell'epigrafe, la cui afferenza a S. Clemente non è affatto provata. I frammenti sono stati riutilizzati due volte: in un primo tempo come lastre pavimentali (come si evince dal loro stato di consunzione); in seguito, nella chiesa medievale, come componenti della cattedra: analogamente a quanto riscontrato in altre chiese romane, l'iscrizione potrebbe essere originariamente pertinente ad un contesto catacombale. Eguale origine cimiteriale potrebbero avere i frammenti con caratteri filocaliani - dunque d'età damasiana - rinvenuti decontestualizzati nella chiesa inferiore (Epigrammata Damasiana). Nella proposta ricostruttiva dei frammenti iscritti trovati nella chiesa medievale, avanzata da G.B. de Rossi ("s[alvo] Sir[icio ep]isc[opo] eccl[esiae sanctae] Ga[---] presbyter [sancto] martyr[i Clementis h]oc vo[luit dedicatum]"), l'integrazione "Clementis" è suggerita soltanto dal luogo di rinvenimento, e non può essere considerata in alcun modo sicura.
La località del martirio di C., che nel Liber pontificalis si dice avvenuto "in Grecias", non trova riscontro nella Passio sancti Clementis, che risale verosimilmente ai secc. V o VI, in cui C. muore martire nel Chersoneso Taurico, cioè in Crimea. Questa Passio (Bibliotheca Hagiographica Graeca, nr. 350; Bibliotheca Hagiographica Latina, nr. 1848) racconta che a seguito delle conversioni operate tra molti prodigi - Sisinnio, marito di Teodora e ancora pagano, vuole spiare la moglie in chiesa, ma perde la vista e l'udito: quando li riacquista per le preghiere di Teodora, ordina di arrestare C., ma i suoi servitori si illudono di prenderlo, mentre di fatto legano e trascinano alcune colonne che giacevano per terra - C. è inviato da Traiano in esilio a Cherson, nel Chersoneso Taurico, appunto. Qui C. trova molti cristiani condannati a estrarre marmo dalle cave, e a trasportare acqua da una sorgente lontana. A seguito della visione di un agnello con la zampa alzata, C. trova un'abbondante sorgente. Crescono così le conversioni, e si edificano chiese. Traiano manda il dux Aufidiano che mette a morte molti cristiani, e ordina che C. sia gettato in mare con un'ancora al collo. I cristiani pregano perché si ritrovi il corpo del martire, e il mare allora si ritira per tre miglia: avanzando nello spazio che si è liberato si trova una chiesa con il corpo del martire e un'ancora al suo fianco. Ad ogni ricorrenza del martirio il prodigio si ripete per sette giorni, e avvengono grandi miracoli.
P. Franchi de' Cavalieri ha dimostrato che, contrariamente a quanto si pensava, la Passio latina, pervenuta in due recensioni, è quella originale, mentre la greca corrispondente ne è una traduzione. H. Delehaye ha formulato l'ipotesi, da lui stesso ritenuta un po' forzata, che una leggenda romana terminasse con la condanna all'esilio a Cherson. Qui, conosciuta la leggenda romana, si sarebbe sviluppata una leggenda locale, che, raggiunta Roma, sarebbe stata integrata nella leggenda originaria. Tutta la questione dovrebbe essere ripresa, tenendo conto di altre recensioni greche della Passio, di cui si è venuti a conoscenza successivamente agli studi di P. Franchi de' Cavalieri e di H. Delehaye. La leggenda fu comunque conosciuta da Gregorio di Tours, In gloria martyrum 35, che vi aggiunse il miracolo del bambino dimenticato addormentato dalla madre presso la tomba del santo al sopraggiungere della marea, e ritrovato l'anno successivo come se non si fosse accorto di nulla. Questo miracolo è ripreso in una omelia greca attribuita poco credibilmente a un Efrem, vescovo di Cherson (Bibliotheca Hagiographica Graeca, nr. 351). Una variante del racconto fornito dalla Passio si trova nel Menologium di Basilio, in cui si racconta che C. fu esiliato non a Cherson, ma ad Ancira, dove sarebbe morto di stenti: successivamente le sue reliquie sarebbero state gettate in mare a Cherson. Questa versione sembrerebbe rinviare a due differenti tradizioni agiografiche sull'esilio di C., o ad una confusione, da parte del compilatore della leggenda, di C. di Roma con l'omonimo martire di Ancira. Poiché in greco il nome di questa città, ᾽´Αγκυρα, significa "àncora" si è anche pensato che esso potesse mettersi in rapporto con il supplizio con cui C. muore nella Passio latina. Ma è più probabile, a questo proposito, l'ipotesi formulata da P. Franchi de' Cavalieri, secondo cui tanto la visione dell'agnello quanto il supplizio dell'ancora sarebbero la ripresa sul piano letterario di due elementi dell'antica raffigurazione musiva nel catino absidale della basilica di S. Clemente, se è vero, come si ritiene, che le attuali, risalenti al sec. XII, riproducono quelle del sec. IV: in esse dunque doveva comparire l'Agnus Dei con una zampa alzata posto su una rupe da cui sgorgano i quattro fiumi dell'Eden, e ai piedi di C. una nave, simbolo del martirio in esilio, probabilmente con l'ancora visibile (i mosaici medievali si adeguano al racconto della Passio ponendo l'ancora simbolo del martirio in mano a C. e la nave ai suoi piedi).
Nell'861 Costantino-Cirillo, fratello di Metodio, avrebbe miracolosamente ritrovato in un'isola vicina a Cherson il corpo di C. e l'ancora del martirio sotto le rovine di una chiesa, e successivamente li riportò a Roma, per depositarli nella basilica dedicata al santo. Scene della Passio e del trasferimento delle reliquie sono rappresentate negli affreschi della basilica inferiore di S. Clemente, risalenti ai secc. XI-XII. C. è ricordato come martire nel Martyrologium Hieronymianum, nel Kalendarium Ecclesiae Carthaginiensis e nei calendari mozarabici alla data del 23 novembre. La sua commemorazione a questa data passò ai martirologi medievali, a partire da quello di Beda, e quindi al Martyrologium Romanum. La commemorazione al 21 dello stesso mese attestata in alcuni manoscritti del Martyrologium Hieronymianum è solo una anticipazione della commemorazione del 23 novembre. La data del 21 novembre compare anche nel Martyrologium Romanum, per la commemorazione della passione dei ss. Celso e Clemente, ma il Baronio la desunse da fonti poco autorevoli. Nei sinassari greci la commemorazione di C. è prevalentemente il 25 novembre, talvolta il 23 o il 24 dello stesso mese. C. è ricordato nella lista dei santi apostoli e dei martiri nel Communicantes del canone della messa.
A C. è attribuita la Epistula ad Corinthios (o I Clementis). Se Ireneo di Lione si limitava a dire che durante l'episcopato di C. fu scritta la lettera della Chiesa dei Romani alla Chiesa dei Corinzi, forse già Egesippo alla metà del sec. II riteneva che essa fosse opera di C. (Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica IV, 22, 2) e Dionigi di Corinto, attorno al 170, in un passo della sua lettera ai Romani, parlava della "prima lettera che ci è stata scritta da Clemente" (ibid. IV, 23, 11). Eusebio di Cesarea non ha dubbi che la lettera, "accolta da tutti", sia stata indirizzata da C. a nome della Chiesa dei Romani (ibid. III, 38, 1; cfr. III, 16; IV, 22, 1; VI, 13, 6), e Girolamo gli fa eco in questa attribuzione, specificando che essa fu scritta "ex persona Romanae ecclesiae" (De viris illustribus 15). Il nome di C. non compare però nel testo della lettera. L'attribuzione è accolta nell'intestazione del manoscritto di Gerusalemme, Patriarcato 54 (anno 1056), che, insieme al Codex Alexandrinus del British Museum (sec. V, di seguito al Nuovo Testamento: l'intestazione della lettera è mutila), ne trasmette il testo originale. La lettera si suole designare come I Clementis per distinguerla dalla II Clementis, che i manoscritti hanno trasmesso insieme ad essa, ma che per comune consenso è considerata spuria. Occasione della lettera, che si estende per sessantacinque capitoli, è la "rivolta empia e sacrilega" (I Clementis 1, 1) che si è verificata nella Chiesa di Corinto a causa di un piccolo numero di agitatori che hanno gettato il discredito sulla comunità: più precisamente in I Clementis 44, 3-6 si specifica che a Corinto sono stati deposti i presbiteri.
La lettera, inquadrata da una introduzione (capp. 1-3) e da una ricapitolazione finale (capp. 62-65), si può suddividere in due sezioni. Nella prima (capp. 4-36), individuata nella discordia e nell'invidia l'origine dei mali che hanno colpito la comunità di Corinto, si ripercorrono i nefasti influssi di questi vizi a partire da Caino fino ai tempi più recenti, in cui hanno causato la morte di Pietro e Paolo e di molti cristiani (capp. 4-6). L'argomentazione prosegue dimostrando, con numerosi esempi tratti dall'Antico Testamento e con il riferimento agli insegnamenti del Cristo, che Dio gradisce il pentimento (capp. 7-8), l'obbedienza, la fede, l'ospitalità (capp. 9-12), l'umiltà e la mitezza (capp. 13-18). La pace è il fine che è stato proposto sin dall'inizio, come è dimostrato dall'armonia che regge l'universo, sul cui modello devono stabilirsi i rapporti all'interno della comunità (capp. 19-21). Dio colma di benefici coloro che lo temono (capp. 22-23), e tra questi benefici è la resurrezione, di cui si hanno le primizie in Gesù Cristo e che è dimostrata dall'osservazione della natura, dal prodigio dell'araba fenice, che rinasce dalle proprie ceneri, come anche dall'insegnamento della Scrittura (capp. 24-28). I modelli di comportamento sono Abramo, Isacco e Giacobbe, gratificati dal Signore e giustificati per fede (capp. 29-32); ma alla fede devono seguire le opere: si deve servire Dio come angeli, e lottare per i suoi doni. Gesù è la via della salvezza (capp. 33-36). Nella seconda parte della lettera (capp. 37-61) si ritorna sui problemi della Chiesa di Corinto. Dio, che ha creato l'ordine della natura, richiede dalle sue creature ordine e obbedienza. La disciplina militare e la mutua cooperazione delle membra del corpo dimostrano la necessità di una disciplina e della sottomissione necessarie al servizio reciproco (capp. 37-39). Si deve compiere tutto ciò che Dio ha ordinato, ognuno al proprio posto (capp. 40-41). Egli ha stabilito la gerarchia sacerdotale dell'Antico Testamento, e ha inviato il Cristo, che a sua volta ha istituito la missione degli apostoli, i quali hanno designato vescovi e diaconi, stabilendo come dovesse avvenire la successione nei vari ministeri. Per questo è deplorabile la situazione della Chiesa di Corinto, dove si depongono i presbiteri, lacerando l'unità della Chiesa invece di stare tutti uniti (capp. 42-44). Si devono evitare queste fratture, che già Paolo aveva duramente criticato (capp. 45-47). Di qui la necessità di ristabilire l'amore, la concordia e il perdono (capp. 48-50). Si devono confessare le proprie colpe anteponendo il bene della comunità a quello personale (capp. 51-52). I responsabili della sedizione dovrebbero andare in esilio, per riportare la pace tra la comunità e i presbiteri (capp. 53-55). Si deve pregare affinché i colpevoli cedano alla volontà di Dio, sottomettendosi ai presbiteri e cercando la via degli eletti (capp. 56-58). I capp. 59-61 contengono una elevata preghiera perché Dio conservi intatto il numero degli eletti. Nella conclusione (capp. 62-65) si ricapitolano i temi precedentemente trattati, si presentano i latori della lettera e si invoca la benedizione divina.
La lettera riecheggia lo stile di vari generi letterari, dall'omelia sinagogale nella prima parte, quando si argomenta sugli esempi delle virtù e dei vizi, alla diatriba cinico-stoica quando nella seconda parte si richiama la disciplina militare e la cooperazione delle membra del corpo, fino alla preghiera liturgica nei capp. 59-61. Il ricorso alla Scrittura è per lo più in funzione delle esortazioni, e per trovarvi argomenti consoni al discorso di volta in volta sviluppato. Nei capp. 32-33 il problema delle opere in rapporto alla fede è risolto nel senso che le opere seguono la fede. Dio è autore della giustificazione, ma questa non è tanto legata alla fede in Cristo, come per Paolo: essa è operata da Dio sin dalle origini del mondo, e Abramo, anziché essere considerato il prototipo del credente, è piuttosto un esempio di giustizia. In questa prospettiva non si coglie una tensione tra l'economia della legge e l'economia della fede, né si accenna al problema delle osservanze giudaiche: Israele e la Chiesa si pongono in una linea di continuità che non ha nulla di drammatico, come invece è stato nell'esperienza personale e poi nella teologia di Paolo. Dell'epistolario paolino l'autore sembra conoscere Romani e 1 Corinzi: numerosi sono i punti di contatto con Ebrei, in base ai quali si postulò nell'antichità che C. ne fosse stato il traduttore in greco, se non l'autore. Quando si riferiscono parole di Gesù l'autore riporta testi combinati che forse presuppongono una tradizione diversa da quella dei vangeli canonici. Sicuramente il mondo di pensiero della lettera, e quindi del suo autore, rappresenta un tipo di cristianesimo particolarmente vicino a quello del giudaismo ellenistico.
La lettera è un importante documento per la storia della Chiesa verso la fine del I secolo. Non è chiara la natura della sedizione avvenuta nella Chiesa di Corinto. In mancanza di una esplicita polemica dottrinale, sembra poco convincente la tesi di W. Bauer secondo cui il problema a Corinto era quello dell'opposizione di un gruppo di tendenza gnostica nei confronti della conduzione della Chiesa da parte dei presbiteri, esponenti di una pretesa ortodossia che si riferiva a Pietro e a Paolo. Per questo sembra più convincente pensare, con A. Lindemann, che il problema fosse piuttosto legato alla istituzione del presbiterato, una funzione non ancora presente a Corinto all'epoca di Paolo, e non accettata da una parte della comunità. In tal caso però lo scopo della lettera, anziché quello dichiarato di voler ristabilire l'ordine voluto da Dio e il prestigio della Chiesa di Corinto, sarebbe quello di sostenere l'istituzione del presbiterato che per Roma doveva essere garanzia di un atteggiamento filoromano (E. Norelli). Questo problema non è disgiunto dalla valutazione dell'intervento della Chiesa di Roma. Non si può consentire con quei commentatori secondo i quali la lettera sarebbe la prova di una autorità che il vescovo di Roma, nella fattispecie C., sente nei confronti di un'altra Chiesa. È vero che, in I Clementis 59, 1, l'eventuale disobbedienza alle indicazioni della lettera è considerata "colpa e pericolo non piccolo", ma tutta la lettera, che in ogni caso è scritta a nome della Chiesa di Roma e non del suo vescovo, non si richiama a nessuna autorità in merito, portando avanti invece le sue tesi con articolate argomentazioni, pur sempre per confermare un punto di vista su un problema quale quello del ministero istituzionale che doveva essere particolarmente delicato verso la fine del sec. I. Sotto questo punto di vista la lettera offre di riflesso una interessante testimonianza sulla organizzazione della Chiesa romana, quando al cap. 42, 3-5 teorizza l'istituzione da parte degli apostoli di vescovi e diaconi, mentre in 44, 4-5 sembra stabilire che il governo (ἐπισκοπή) della Chiesa è affidato ai presbiteri, lasciando intendere una certa equivalenza tra la qualifica di "vescovo" e quella di "presbitero".
Altro dato importante della lettera è la testimonianza sul martirio di Pietro e di Paolo, "le colonne più grandi e più giuste" (I Clementis 5, 2), oltre ai quali perì "una grande quantità di uomini e donne" (ibid. 6, 1). Il riferimento, per quest'ultima notizia, sembra essere alla persecuzione di Nerone: se queste vittime sono dette (ibid. 5, 1) "le generose vittime della nostra generazione", è evidente che, dopo gli esempi tratti dall'Antico Testamento, ci si possa riferire a fatti vicini anche se non immediatamente contemporanei alla data di composizione della lettera. La notizia riferita in 5, 7 secondo cui Paolo avrebbe raggiunto "i confini dell'Occidente" potrebbe alludere al viaggio di Paolo in Spagna, attestato anche dal Canone muratoriano. Quanto alla datazione della lettera, essa presuppone, in base a quanto affermato in 44, 2-3, almeno una duplice successione di vescovi e diaconi. Se i latori della lettera citati in 65, 1 si sono dimostrati "uomini fedeli e saggi che hanno vissuto irreprensibilmente tra noi dalla giovinezza alla vecchiaia" (ibid. 63, 3), ciò conferma una data più avanzata rispetto a quella degli inizi della comunità romana. Tuttavia l'argomento più probante per la datazione della lettera sembra essere quello delle "sventure e calamità" (ibid. 1, 1) che avrebbero colpito di recente la Chiesa di Roma, e che sembrano distinte dalle circostanze relative alla persecuzione di cui si parla nel passo sopra citato: questi accenni ben si adattano alle difficoltà cui i cristiani furono sottoposti negli ultimi anni di Domiziano (95-96) o negli anni di Nerva (96-98).
La lettera è nota anche in una traduzione latina che risale alla seconda metà del sec. II o agli inizi del III, in una versione siriaca e in una copta. A partire dal sec. XVII si suole far rientrare la I Clementis nel gruppo delle opere dei cosiddetti Padri apostolici, cioè di quegli autori che sarebbero stati a contatto con gli apostoli.
Tra le opere spurie attribuite a C. spicca la II Clementis. Eusebio (Historia ecclesiatica III, 38, 4) parla di una seconda lettera di C., non nota quanto la prima, in quanto gli antichi non se ne sono serviti; Girolamo, De viris illustribus 15, radicalizza questo giudizio quando dice che questa lettera "a veteribus reprobatur".
La lettera è stata tramandata insieme alla I Clementis tanto nel manoscritto alessandrino del sec. V, quanto nel manoscritto di Gerusalemme, Patriarcato 54, e nella versione siriaca. Nonostante alcuni stilemi propri della lettera, gli studiosi concordano nel ritenere lo scritto una omelia. Suddivisa in venti capitoli, essa tratta di come i credenti possano corrispondere alla salvezza ottenuta mediante il Cristo. I consigli che vi si impartiscono sono quelli di confessare il Cristo e obbedire ai suoi precetti, disprezzando il mondo, facendo penitenza, mantenendosi casti, perché solo quando nella Chiesa regneranno la verità, le buone opere e la castità potrà venire il regno di Dio.
In questo testo si presuppone la conoscenza dei vangeli canonici, ma anche di detti di Gesù extracanonici. La comunità cui lo scritto si rivolge sembra appena sfiorata da dottrine gnostiche, che di fatto non sono prese direttamente di mira. L'attenzione dell'autore è piuttosto per l'impegno etico che si assume credendo nella salvezza che viene dal Cristo. Lo scritto fu attribuito talora a papa Sotero, e fatto risalire quindi al 170 circa. Altri studiosi, a maggior ragione, hanno posto lo scritto nella prima metà del sec. II, pensando a una origine alessandrina, o corinzia, o romana o genericamente egiziana. Nel caso di una origine corinzia, l'attribuzione a C. si spiegherebbe con il fatto che si conservava nella Chiesa di Corinto insieme alla I Clementis.
A C. sono attribuite anche due lettere - le Epistulae II ad virgines - sulla verginità, indirizzate ai celibi e alle nubili, che sono conservate in siriaco e nell'originale greco solo in frammenti. La prima ha per oggetto l'esaltazione della vita continente, purché accompagnata dalle opere di carità. Vi si ricordano inoltre gli impegni e le responsabilità che si assumono abbracciando la vita continente, criticando la vita in comune di asceti di sesso diverso. Nella seconda lettera (in realtà il proseguimento della prima, che successivamente se ne sarebbe staccata) si descrive la vita degli asceti, con esempi dall'Antico Testamento e dalla vita di Gesù. Si pensa che le due lettere risalgano al sec. III, epoca in cui si cominciò a polemizzare contro la convivenza di asceti di sesso diverso: il probabile luogo di origine è la Palestina. Una versione copta dei primi otto capitoli della prima lettera è attribuita ad Atanasio.
Tra le opere tramandate con il nome di C. un posto a parte spetta alle cosiddette Clementine o, con espressione corrente, Pseudoclementine (latino Pseudo-Clementina), in quanto C. ne è considerato l'autore e il narratore in prima persona. Oggi questo scritto è conosciuto principalmente attraverso due redazioni, una in greco, nota come Homiliae, l'altra in latino, attraverso una traduzione di Rufino di Aquileia, nota con il nome di Recognitiones, del cui originale greco si possiedono pochi frammenti. Dell'una e/o dell'altra opera si conoscono poi epitomi e versioni parziali in greco, siriaco, arabo, armeno, georgiano e paleoslavo.
Le venti Homiliae si presentano come il resoconto da parte di C. delle prediche missionarie di Pietro in varie località del litorale e dell'entroterra siriaco, delle sue dispute con Simon Mago a Laodicea, e con il grammatico Apione a Tiro. La teologia degli insegnamenti di Pietro ha un carattere spiccatamente giudaizzante e presenta connotazioni gnostiche. Cristo vi appare come il "vero profeta", già incarnatosi in Adamo e Mosè: a lui spetta il titolo di Figlio di Dio, pur essendo un semplice profeta e uomo. Il cristianesimo vi figura come una forma di giudaismo depurato. Precedono le Homiliae vere e proprie una Epistula Petri ad Iacobum, in cui Pietro chiede a Giacomo vescovo di Gerusalemme che le predicazioni allegate siano fatte conoscere solo a cristiani circoncisi che intendano dedicarsi all'insegnamento, e da una Contestatio in cui si riferisce come Giacomo si sia impegnato a osservare le rigorose prescrizioni di Pietro; segue quindi la Epistula Clementis ad Iacobum in cui Giacomo è informato della morte di Pietro e della elezione di C. a suo successore. Le Homiliae sono conservate in soli due manoscritti completi, segno probabile della scarsa diffusione che hanno avuto a causa della loro eterodossia: si veda il severo giudizio di Eusebio di Cesarea sugli scritti lunghi e verbosi da poco presentati come fossero di C., che contengono i dialoghi di Pietro e di Apione e che a suo dire non conservano il carattere puro dell'ortodossia apostolica (Historia ecclesiastica III, 38, 5, ripreso poi da Girolamo, De viris illustribus 15). Il riferimento potrebbe essere alle Homiliae, che contengono le dispute con Apione non presenti nelle Recognitiones, o forse al testo da cui esse dipendono.
Le Recognitiones, letteralmente "riconoscimenti" - in quanto centrate sul ritrovamento e il riconoscimento del padre, della madre e dei due fratelli da parte di C. durante i suoi viaggi al seguito di Pietro -, hanno un carattere più narrativo rispetto alle Homiliae e una teologia meno eterodossa, presentando il giudaismo come una preparazione del cristianesimo e Gesù come il solo vero profeta. Le due recensioni delle Pseudoclementine sembrano rinviare a un testo precedente, il cosiddetto "scritto di base" (traducendo l'espressione tedesca Grundschrift, con cui era stato designato), noto probabilmente agli autori del sec. IV se non anche a Origene nel secolo precedente. È assai probabile che il quadro narrativo delle Pseudoclementine fosse dato dalle vicende di C. che, alla ricerca della verità, si mette al seguito di Barnaba quando questi gli parla di Cristo come del vero profeta. A Cesarea C. incontra Pietro e ne diventa seguace. Qui avviene la disputa con Simon Mago, che alla fine fugge a Roma. Nel corso dei viaggi al seguito di Pietro C. si reca a Tiro, a Tripoli di Siria, poi ad Antiochia dove ritroverà la madre e i fratelli, quindi a Laodicea dove incontrerà il padre, il quale si convertirà dopo un dibattito di Pietro sulla provvidenza e sul fato.
Diverse ipotesi sono state formulate sulla genesi dello scritto di base, e non si può dire che la questione abbia avuto una risposta definitiva. Poiché nella Epistula Petri ad Iacobum 1, 2 Pietro dice di inviare "i libri della sua predicazione" si pensò sin dal sec. XIX che lo scritto di base utilizzasse un testo greco dal titolo Kerygmata Petrou, la cui articolazione sarebbe potuta essere quella di dieci libri indicati in Recognitiones III, 75. Di fatto però è molto difficile appurare l'omogeneità e la consistenza dei Kerygmata Petrou, nei quali sarebbero confluiti scritti di diversa natura e provenienza: ciò è anche dimostrato dalla varietà di ipotesi formulate in proposito. Anche la caratterizzazione della peculiare teologia delle Pseudoclementine rimane un problema aperto: essa fu accostata a quella degli esseni, poi più precisamente degli ebioniti, o di una setta giudeocristiana affine a quella degli elkasaiti. Nelle Pseudoclementine il personaggio di Simon Mago adombra quello di Paolo, se non addirittura di Marcione, nel quale il paolinismo rivive con connotati molto vicini a quelli dello gnosticismo. Non c'è dubbio che l'autore sia un giudeocristiano per il quale i principi della legge dell'Antico Testamento hanno ancora valore, se depurati dalle aggiunte operate dagli anziani di Israele per istigazione diabolica. Anche sul piano formale le Pseudoclementine, pur richiamando il genere degli Atti apocrifi di apostoli, costituiscono uno scritto pressoché unico per la compresenza di elementi romanzeschi e di articolate trattazioni dottrinali. Prescindendo dalla identificazione delle varie fonti, un altro indirizzo di studi cerca di individuare lo sviluppo dell'opera. Una delle ipotesi è che, avendo per base un racconto delle dispute di Pietro con Simon Mago del tipo di quello degli Acta Petri, che si ritengono composti tra la fine del sec. II e gli inizi del III, un autore siriaco, attorno alla metà del sec. III, avrebbe composto il vero e proprio romanzo relativo alla conversione di C. e al suo ricongiungimento con i genitori e i fratelli, cui poi si sarebbero aggiunte l'Epistula Petri ad Iacobum, la Contestatio e l'Epistula Clementis ad Iacobum. Le Homiliae e le Recognitiones sarebbero state redatte sempre in Siria, le prime agli inizi, le seconde alla metà del sec. IV. Recognitiones III, 2-11 (un testo non tradotto da Rufino, ma reinserito da altri nella sua traduzione) rivela influssi ariani, anche se un nucleo sembra che facesse parte del testo originario.
Sono collegate al nome di C., solo nel titolo e in pochi riferimenti interni, le Constitutiones apostolorum (Διαταγαὶ τ˜ων ἂγίων ἀποστόλων διὰ ΚλήμεντοϚ), una importante raccolta, in otto libri, di testi a carattere prevalentemente giuridico e liturgico. I primi sei libri, che hanno per oggetto rispettivamente il comportamento dei cristiani, la gerarchia ecclesiastica, le vedove, gli orfani, i martiri, gli scismi, rielaborano in vario modo la Didascalia apostolorum; il settimo libro, dedicato alla morale e all'iniziazione cristiana, elabora nei primi trentadue capitoli la Didaché; l'ottavo libro, dedicato ai carismi, all'eucaristia, all'ordinazione e alla disciplina, ha come fonte per i primi quarantasei capitoli la Traditio apostolica (ricostruita in epoca moderna): nei capp. 6-15 è riportata la liturgia eucaristica, che si suole chiamare "liturgia clementina"; nel cap. 47 sono elencati ottantacinque canoni, tratti da concili del sec. IV. Molti altri sono i testi compilati nella raccolta, e tra questi la I Clementis e le Pseudoclementine, che forniscono un quadro di riferimento teso ad avallare l'autenticità e l'apostolicità delle Constitutiones, dettate dagli apostoli e raccolte da C. in accordo con loro (Constitutiones apostolorum VI, 18, 11). L'autore vi fa intervenire gli apostoli collegialmente e singolarmente; C. parla in prima persona solo due volte (VIII, 46, 13) e nell'ultimo dei canoni (VIII, 47, 85), in un elenco di libri del Nuovo Testamento che comprende le due lettere di C. e le costituzioni stesse. L'opera è stata redatta in Siria, probabilmente intorno al 380, da un autore anonimo. Il rinvio a C. per l'utilizzazione parziale delle Constitutiones apostolorum è passato ad un'altra compilazione canonistico-liturgica più recente, l'Octateuchus Clementinus, noto in versioni siriaca, araba e copto-bohairica, che risale probabilmente al sec. VII. È attribuito a C. anche il De duodecim diebus Veneris, costituito da un brevissimo frammento pubblicato da G. Mercati nel testo greco e nella sua versione latina: in esso si elencano i venerdì dell'anno in cui i cristiani sono tenuti a un digiuno stretto. Nelle Decretales pseudoisidoriane sono contenute cinque lettere attribuite a C. (cfr. Clavis Patrum Graecorum 1007-1008), di cui la prima corrisponde alla Epistula Clementis ad Iacobum con estratti di altri autori dei secc. V-VI.
fonti e bibliografia
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La bibl. su C. e le opere che gli sono attribuite è immensa. Si segnala qui di seguito una selezione di studi, rinviando per una informazione più completa alle singole monografie, alle voci di lessici e dizionari, agli specifici repertori bibliografici. In riferimento alle opere che vanno sotto il nome di C., si riportano tra parentesi il numero che le contrassegna in Clavis Patrum Graecorum e in Clavis Patrum Graecorum, Supplementum, dove si potranno reperire ulteriori indicazioni in partic. sulle edizioni dei testi, eventuali epitomi, rielaborazioni, e le varie versioni orientali.
Per le diverse fonti agiografiche, oltre alla Passio sancti Clementis sopra citata, cfr. Bibliotheca Hagiographica Graeca, a cura di F.Halkin, I, Bruxellis 1957³, nrr. 319-351e; ibid., Novum Auctarium, a cura di F. Halkin, ivi 1984, nrr. 319-351g; Bibliotheca Hagiographica Latina [...], I, ivi 1898-99, nrr. 1848-1857; ibid., Novum Supplementum, a cura di H. Fros, ivi 1986, nrr. 1847m-1857e.
Per le edizioni di I-II Clementis nelle più ampie raccolte di Padri apostolici cfr. Clavis Patrum Graecorum 1000.1-1000.6. Qui si segnalano O. de Gebhardt-A. von Harnack-Th. Zahn, Patrum Apostolicorum Opera, fasc. I, pt. II, Lipsiae 1876², pp. 2-110, 110-43; K. Bihlmeyer, Die Apostolischen Väter, Neubearbeitung der Funkschen Ausgabe, Tübingen 1956, pp. 35-70, 71-81; A. Lindemann-H. Paulsen, Die Apostolischen Väter, Griechisch-deutsche Parallelausgabe auf der Grundlage der Ausgaben von F.X. Funk/K. Bihlmeyer und M. Whittaker [...], ivi 1992, pp. 77-151.
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