DAZIO, santo
Non si sa quando e dove sia nato; si ignora anche il casato, essendo priva di qualsiasi fondamento la notizia che appartenesse alla famiglia Agliate, tramandata anche da Pietro Galesini nella Tabula archiepiscoporum sanctae Ecclesiae Mediolanensis, redatta nel 1570.
Da una lettera di Floriano, abate "ex monasterio Romano" e milanese di origine, si può supporre che D., prima di divenire vescovo, fosse monaco. Ma non è possibile stabilire con esattezza in quale anno sia divenuto vescovo di Milano non essendosi conservate notizie certe né sulla data della sua elezione, né su quella di morte del suo predecessore Magno. Si può comunque supporre, tenendo conto che la sua morte deve essere avvenuta nel 552e che il Catalogo dei vescovi della Chiesa milanese gli attribuisce, a seconda dei diversi manoscritti, 22 o 24anni di episcopato, sia stato eletto tra il 528 e il 530.
Il primo documento in cui D. appare come vescovo è una lettera clelle Variae di Cassiodoro, datata dal Mommsen al 535-536,mentre il Comparetti ritiene più probabile che si riferisca agli anni 536-537. In essa Cassiodoro, come prefetto del pretorio, dava il permesso a D. di prendere dai granai pubblici di Pavia e di Tortona un terzo dei panico da vendere sottoprezzo alla parte più povera dellapopolazione colpita dalla carestia.
Questa notizia permette di stabilire che anche con D. il metropolita milanese godeva ancora, da parte dei re goti, di speciali privilegi. Infatti, proseguendo una tradizione iniziata da Teodorico nei riguardi dei vescovo Lorenzo, alla Chiesa milanese era concesso tenere un proprio "negotiator", nominato dal "defensor Ecclesiae" che poteva acquistare i generi da distribuire ai poveri senza che venissero gravati delle imposte dovute dagli altri mercanti della città. I re goti finiranno per trasforinare questo privilegio, come dimostra anche la lettera di Cassiodoro, in una vera e propria funzione del metropolita milanese verso i poveri e verso tutti i cittadini nei momenti di crisi. La carestia che aveva spinto Cassiodoro a sollecitare l'intervento di D. si rivelò grave: casi di antropofagia sarebbero stati narrati dallo stesso D. in una relatio cui fanno riferimento la vita di papa Silverio nel Liber pontificalis e Paolo Diacono nella Historia Romana.
Negli stessi anni in cui la provincia della "Liguria" era colpita da questa carestia, Milano divenne il centro della rivolta antigota. Tra i fautori di questa rivolta era anche D. che. come ricorda Procopio nella Guerra gotica, tra la fine del 537e il gennaio del 538giunse a Roma con altri illustri cittadini a sollecitare da Belisario l'invio di un piccolo presidio che avrebbe, senza sforzo, staccato dal regno goto non solo Milano ma l'intera "Liguria". La missione di D. ebbe pieno successo, tanto che, nella primavera del 538, da Roma partì la spedizione che doveva raggiungere Milano e che, liberata questa città, ricevette ancho l'adesione di Bergamo, Como, Novara e di molti altri luoghi fortificati. Questa vittoria bizantina si rivelò, però, di breve durata. Nel giugno del 538Milano fu assediata dal goto Uraia e, priva di un concreto aiuto da parte dei Bizantini, nella primavera del 539 cadde in mano degli assedianti i; quali uccisero il prefetto del pretorio Reparato, fratello dei papa Vigilio e uno dei capi della rivolta. R facile supporre che proprio in questi avvenimenti e nelle sttccessive vicende della guerra greco-gotica vadano ricercate le ragioni che impedirono a D. il ritorno a Milano. Il viaggio a Roma segna infatti per D. l'inizio di un allontanamento dalla sua diocesi che si rivelerà definitivo come dimostra una lettera scritta, tra la fine del 551 e l'inizio del 552, dal clero milanese ai legati franchi che si recavano a Costantinopoli. In essa si pregano i legati di chiedere a D. che "post 15 aut 1 6annos ad suam Ecclesiam redire concedat" e "quod tam longo tempore ad Ecclesiam suam minime sit reversus".
Se le fonti permettono di determinare gli avvenimenti in cui D. fu coinvolto tra il 535 e il 538, tacciono poi almeno fino al 545-546. In questo periodo però va collocato un altro episodio che lo riguarda. Nel III libro dei Dialogi di Gregorio Magno D. è ricordato per aver liberato dalla presenza dei demonio una casa di Corinto, dove si era trovato ad alloggiare, durante un suo viaggio verso Costantinopoli. Gregorio non dà una esplicita indicazione per la data del viaggio a cui si riferisce il racconto miracoloso. Ma mentre il Moricca ritiene che sia avvenuto, con grande probabilità, negli anni 544-545 e vada quindi ricollegato alla presenza di D. a Costantinopoli in questo periodo, A. de Vogüé, sulla base degli altri episodi miracolosi a cui è legata, nei Dialogi, la narrazione relativa a D., afferma che egli doveva trovani a Corinto verso il 538-539.
Se la data del viaggio, in cui sarebbe avvenuto l'episodio ricordato da Gregorio, è incerta, è invece sicuro che D. si recò a Costantinopoli in questi anni. Era infatti in questa città quando Giustiniano nel 543-544 emanò l'editto di condanna dei Tre Capitoli. D. vide nell'atto dell'imperatore un attacco gravissimo al concilio di Calcedonia del 45 1 e alla fede cattolica; perciò, insieme con l'apocrisario Stefano e con gli altri sacerdoti occidentali presenti a Costantinopoli si rifiutò di sottoscrivere l'editto imperiale e interruppe la comunione con il patriarca costantinopolitano Menna che aveva aderito alla decisione di Giustiniano. Infine, abbandonò Costantinopoli per raggiungere papa Vigilio che era stato costretto con la forza in Sicilia dai Bizantini, alla fine del 545. D. informò il pontefice della rottura dei rapporti con Menna e sottolineò i pericoli che erano insiti nella decisione imperiale. Anche se non è possibile stabilire se D. abbia accompagnato il pontefice nella seconda parte del viaggio che lo condurrà nel 547 a Costantinopoli, è comunque certo che dal momento in cui nasce la questione dei Tre Capitoli D. sarà uno dei più convinti oppositori della decisione imperiale e affronterà, almeno dal 550 e fino al momento della sua morte nel 552, insieme con Vigilio, sofferenze e pericoli.
L'atteggiamento di Vigilio sulla questione dei Tre Capitoli, specialmente durante il primo periodo della sua permanenza a Costantinopoli, non fu fermo nella posizione di condanna, ma fu di volta in volta influenzato dalla corte imperiale o dai sacerdoti occidentali che erano i più convinti assertori della condanna dell'editto imperiale. In questo periodo non si hanno notizie su D. che, però, era sicuramente a Costantinopoli nel 550, quando partecipò, insieme con altri vescovi, al colloquio in cui Giustiniano e Vigilio decisero di convocare un concilio per risolvere la questione. Durante la preparazione dei concilio, però, crebbero notevolmente le intimidazioni di Giustiniano nei riguardi dei sostenitori dei Tre Capitoli, fino a che l'imperatore, contrariamente agli accordi presi con il pontefice, fece affiggere alle porte delle chiese una ᾠΟμολογία πίστεωζ; di condanna dei Tre Capitoli, che, poi, trasformerà addirittura in un editto.
Con questo atto si aprì il periodo più difficile nei rapporti tra l'imperatore e il papa, un periodo però in cui Vigilio prese una posizione estremamente decisa e in cui D. fu accanto al pontefice come il suo più stretto collaboratore e il suo più sicuro e valido sostenitore. Infatti quando nel 551 la delegazione imperiale consegnò a Vigilio il nuovo editto di Giustiniano, alle proteste del pontefice si unirono immediatamente quelle di D., che dichiarò di parlare a nome anche dei vescovi o Galliae, Burgundiae, Spaniae, Liguriae, Aemiliac atque Venetiac o e riaffermò la decisione di allontanarsi dalla comunione di tutti coloro che avrebbero firmato l'editto perché i Tre Capitoli erano contrari alle decisioni del concilio di Calcedoffia e alla stessa fede cattolica. Ma la ferma posizione di D. e del pontefice non riuscì a far retrocedere i vescovi orientali che avevano già firmato l'editto, tanto che Vigilio fece preparare un atto di scomunica per tutti i firmatari e l'atto di deposizione di Teodoro Askida, vescovo di Cesarea.
Il palazzo di Placidia, residenza del pontefice, non fu più sicuro né per lui né per il suo seguito: nell'agosto del 551 D. con altri dieci vescovi italiani e due africani si rifugiò con il papa nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo presso il palazzo di Hormisda. Neanche questo luogo sacro riuscì, però, a proteggere il pontefice e il suo seguito; il 14 agosto il pretore della plebe fece irruzione nella chiesa e, malmenati i prelati che tentavano di difendere Vigilio, cercò di strapparlo con la forza da quel luogo. La reazióhe del papa e soprattutto quella della folla impedirono la realizzazione del piano. Solo la mediazione di Belisario, vecchio amico di D. e del pontefice, inviato da Giustiniano per garantire a Vigilio, se fosse tornato nel palazzo di Placidia, l'incolumità, convinse il papa e D. a far ritorno nel palazzo suddetto. Malgrado le promesse, però, D. e il pontefice seguitarono ad essere sottoposti a continui maltrattamenti, mentre Giustiniano con falsi documenti cercava di screditare, in Pccidente, la figura del pontefice. Il palazzo di Placidia si trasformò per D. e per il papa in una prigione, tanto che nella notte tra il 23 e il 24 dic. 551 Vigilio e D. riuscirono a fuggire e raggiunsero, per mare, Calcedonia dove si rifugiarono nella chiesa di S. Eufemia. Ancora una volta, il 28 genn. 552, Belisario venne inviato da Giustiniano per convincere il pontefice a tornare a Costantinopoli. Ma Vigilio non accettò la proposta dell'imperatore, e il 5 febbr. 552 decise di far conoscere, attraverso un'enciclica diretta "Universo populo Dei", tutti i soprusi che aveva dovuto subire insieme con D.; nelle parole del pontefice quest'ultimo appare la personalità più importante del suo seguito e sicuramente il suo più vicino e sicuro aiuto negli ultimi gravi avvenimenti. Ottenuta poi la necessaria garanzia di sicurezza, Vigilio inviò D. a Costantinopoli, come suo rappresentante, per discutere i problemi religiosi.
Dopo questa data non si hanno più notizie di D., il cui nome non compare tra quelli dei vescovi che sottoscrissero il Constiturum di papa Vigilio nel 553. Infatti anche se Vittore Tunnense pone la, morte di D. nel 554, come ha giustamente evidenziato lo Stein, essa non può essere avvenuta che nel febbraio o nel marzo del 552. La data del 14 gennaio, ricordata nel Catalogo dei vescovi della Chiesa milanese, non può quindi corrispondere al giorno della sua morte, ma quasi certamente si riferisce alla data nella quale il corpo di D., morto a Calcedonia o a Costantinopoli, fu traslato a Milano, dove fu sepolto a S. Vittore e dove fu fatto oggetto di un culto locale.
La canonizzazione popolare di D. è testimoniata, almeno dalla prima metà del sec. X, dal carme De sancto Datio episcopo del De Christi triumphis apud Italiam di Flodoardo di Reimb. L'esistenza di questo carmen acquista un particolare valore se si considera che Flodoardo si era procurato il materiale necessario a questa parte della sua opera durante il viaggio in Italia (936-37) dove aveva potuto consultare anche i libri liturgici che vi erano in uso. Un'ulteriore conferma dell'esistenza del culto si ha in un calendario della Chiesa milanese. scritto tra il 1055 e il 1074; la ricorrenza della festa di s. D. è posta al 14 gennaio. Così è definito santo nel testo del Catalogo tramandato nel Beroldo nuovo (redatto intorno al 1262-1268). Una sua biografia è presente nel Liber notitiae sanctorum Mediolani dei primi anni del XIV secolo. La sua santità non viene messa in discussione neanche nel XVI secolo. Lo stesso Michele Sovico che nel 1549 sottopose il Breviario ambrosiano ad un attento esame delle letture aglografiche che vi erano contenute, cancellandone molte e criticando l'abitudine di inserire nella liturgia storie di santi apocrife o comunque indegne di essere lette in chiesa, si preoccupò di redigere le letture agiografiche per undici vescovi, tra cui Dazio. Così nella Tabula archiepiscoporum di Galesini e nella nuova revisione (1582) del Breviario - entrambe volute da Carlo Borromeo - D. è annoverato tra i santi della diocesi ambrosiana. Nel 1583, per opera di Galesini, sarà inserito con gli altri santi milanesi nella nuova edizione del Martyrologium Romanum. Il Bosca, pubblicando nel 1695 il Martyrologium Mediolanensis Ecclesiae, ricordava a proposito di D., che le sue ceneri, con quelle dei santi arcivescovi Protasio e Mirocle, erano state composte in una particolare arca da S. Carlo, nella chiesa di S. Vittore. A questa notizia aggiungeva che pochi anni prima, mentre era arcivescovo di Milano Alfonso Litta (m. 1679) e su richiesta del granduca di Toscana Cosimo II (m. 1621), vi era stata una transazione di sue reliquie nella chiesa di S. Frediano a Pisa. Ma la richiesta e la concessione delle reliquie di D., stando alla lettera del testo del Bosca, sarebbero avvenute tra due personaggi che non sono contemporanei. L'evidente contraddizione può, però, essere facilmente sanata supponendo un banale refuso per cui il granduca di Toscana dovrebbe essere Cosimo III (granduca dal 1670 al 1723) noto, tra l'altro, per la sua profonda religiosità. Inoltre la chiesa di S. Frediano subì, il 9 nov. 1675, gravi danni a causa di un incendio che ne distrusse il tetto. Nella ricostruzione furono aggiunte cappelle laterali con nuovi altari. Per tutte queste osservazioni, anche se il Bosca è l'unica fonte per questo episodio del culto di D., non sembra possibile privare di qualsiasi valore questa notizia. Sassi,.copiando Bosca, seguita ad attribuire la traslazione delle reliquie a Cosimo II.
Proprio la continuità del culto di D. è un'ulteriore conferma del fortissimo attaccamento dei Milanesi alla memoria di questo vescovo fautore dapprima dell'indipendenza dal regno goto e poi tenace e coraggioso oppositore dello stesso imperatore bizantiúo nell'affermazione dell'indipendenza teologica della Chiesa occidentale. Il valore simbolico che la figura di D. ha rivestito nella diocesi, ambrosiana nel Medioevo è indicato anche dalla vexata quaestio degli Annali daziani. Gli studi esistenti non hanno stabi.lito in maniera chiara se D. abbia realmente scritto degli Annali sulle vicende della Chiesa milanese, ora andati perduti, o se la loro esistenza sia soltanto leggendaria. I punti essenziali del problema si possono riassumere da un lato nelle conclusioni del Ferrai e dall'altro in quelle di Fumagalli, Muratori, Wattenbach e Bethmann. Per il Ferrai, D. avrebbe scritto degli Annali. Ad essi farebbero riferimento il passo della Vita Silverii nel Liber pontificalis e quello nella Historia Romana di Paolo Diacono, dei quali si è precedentemente parlato a proposito dei gravi episodi avvenuti durante la carestia di cui D. era stato testimone. Nell'XI secolo, poi, il cronista Landolfo Seniore dichiara di prendere come base della descrizione dell'ordinamento e degli avvenimenti più antichi della. storia della Chiesa ambrosiana degli Annales che sarebbero quelli di Dazio. Addirittura Ferrai ritiene che Landolfò li avrebbe utilizzati per tutto il primo libro della sua Historia e per parte dei secondo, trascrivendone perciò una grande quantità. Nel XIV secolo Galvano Fiamma citando le fonti di cui sì era servito per la sua Galvagnana ricorda la Chronica Datii, ma in realtà il testo a cui fa riferimento è la Historia di Landolfo, anche se, secondo il Ferrai, alcune citazioni di D. nel Chronicon maius, nella stessa Galvagnana e nel Manitolus florum sono indipendenti da Landolfo e dimostrano che al tempo del Fiamma ancora si conservava qualche manoscritto degli Annali. Infatti il Ferrai individua la circostanza della perdita di una tradizione manoscritta autonoma dell'opera di D. nella vittoria dei patarini che avrebbero distrutto la memoria di questo scritto in cui erano ricordate le origini delle antiche consuetudini e prerogative della Chiesa milanese rispetto a quella romana. Si dovrebbe, perciò, soltanto a Landolfo, tenace assertore del partito antipatarino, la sopravvivenza di parte degli Annali di D., i quali, comunque, in qualche raro manoscritto sarebbero sopravvissuti almeno fino al XIV secolo quando Fiamma li utilizzò. Secondo Fumagalli, Muratori e gli altri, invece, la reiatio di cui parla il Liber pontificalis può essere semplicemente una lettera o un racconto tenuto oralmente da D. e le citazioni di Landolfò sarebbero un falso con cui avrebbe cercato di dare l'apparenza della verità alla sua narrazione servendosi dell'antichità e del prestigio di cui era circondata la memoria di Dazio. Quello che comunque ora appare certo è che, se sono esistiti, gli Annali di D. non possono essere identificati colla Historia datiana come ha fatto il Biraghi nell'Ottocento. Nel 1848 Biraghi pubblicava, adottando il titolo di Historia datiana, un complesso di testi riferentesi al periodo più antico della Chiesa milanese, già editi nel 1725 da Muratori con il titolo di Opusculum de situ civitatis Mediolani. Biraghi faceva risalire questi scritti alla metà del VI secolo e individuava nel vescovo, che aveva spinto l'anonimo scrittore a comporre il Libellus, Dazio. Pensava, infatti, che l'opera, nata per suggerimento di. D., avesse finito per essere a lui attribuita e che quindi, questi testi fossero la. relatio ricordata anche da Paolo Diacono. Ma questa ricostruzione è totalmente inesatta come hanno dimostrato Savio, Ferrai e soprattutto come ha chiaramente indicato il più. recente editore di questi scritti, Alessandro Colombo.
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