ELDRADO (Eldradus, Elderadus, Helderadus, Hylderadus, Hildradus, Aldradus, Oldradus), santo
Provenzale di origine e di famiglia nobile ("ex Gallicana patria, que dicitur Provincia, non infimis parentibus ortus", si legge di E. nella Lectio prima del suo ufficio), fu abate della Novalesa (prov. di Torino) nella prima metà del sec. IX: precisi riferimenti documentari si hanno al riguardo per gli anni 825 ed 827.
La ricostruzione della biografia di E. è, come è stato ben puntualizzato dal Cipolla, piuttosto problematica. La fonte più omogenea è costituita dalla Vita soluto sermone scripta, il cui testo è stato edito da ultimo dallo stesso Cipolla, il quale, non potendosi rifare al manoscritto originale, risultato intrpvabile, lo ha "desunto dalla edizione principe, che ne fu fatta negli Acta Sanctorum … 1668, per cura dei Bollandisti ai quali il testo venne comunicato nel 1654 dal p. Giovanni Giacomo Turinetti, rettore del collegio dei gesuiti di Torino. Di qui passò nella edizione veneta … 1735 …, e nella edizione parigina… del 1865. Passò anche nei Mon. Hist. patr…. 1848" (Mon. Novaliciensia vetustiora, I, p. 378).
Notizie, sia pure schematiche, sulla vita di E. sono inoltre fornite da una "postilla" di mano della fine del sec. X o del principio del sec. XI aggiunta in margine all'efemeride relativa alla "depositio beati Helderadi abbatis" contenuta nel manoscritto - pure attribuibile alla fine del sec. X o agli inizi del successivo - del Martyrologium Adonis, proveniente dalla raccolta Hamilton ora conservato a Berlino, manoscritto "il quale apparteneva un tempo all'antica biblioteca della Novalesa" (ibid., p. 375). Tale "postilla", scoperta dal Cipolla, fu da questo edita per la prima volta nelle sue Ricerche, e poi di nuovo nei Monumenta Novaliciensia vetustiora come secondo degli Excerptahistorica ex martyrologio Adonis (ibid., p. 373) Terza fonte a noi nota per la biografia di E. è costituita dalle Lectiones I-VIII dell'Officium sancti Eldradi confessoris et abbatis. Scrive in proposito il Cipolla, che di questo testo liturgico ha pubblicato l'edizione critica nei Monumenta Novaliciensia: "Il tomo III del Santorale conservato nell'abbazia novaliciense, ancora verso la metà del sec. XVII, secondo che impariamo dal Rochex…, conteneva l'Officio di sant'Eldrado, che per noi viene ora soltanto rappresentato da una diligente copia dovuta a mano ignota del secolo XVII. Questa trascrizione trovasi in un fascicolo cartaceo, conservato nella busta XV dell'archivio abbaziale, presso il R. Archivio di Torino" (ibid., p. 350). Per il Tamburrino l'Officium non è posteriore al sec. X; per il Cipolla, invece, "non può essere anteriore al XIII secolo. Infatti reca un'allusione alla teca argentea di sant'Eldrado, fattura non anteriore al detto secolo" (ibid., p. 353).
Poiché sia nella Vita soluto sermone scripta, sia nella "postilla", sia, infine, nelle Lectiones dell'officio di E. compaiono intere frasi costituite da ottonari, è stata ipotizzata l'esistenza anche di una Vita rhythmica, scritta appunto in ottonari. Tale Vita rhythmica, di cui il Bethmann ha tentato una ricostruzione, da lui pubblicata nei Monumenta Germaniae historica, dovrebbe risalire alla seconda metà del sec. IX od al sec. X, ed avrebbe costituito, per il Bethmann e per il Cipolla, la fonte prima tanto della Vita soluto sermone scripta, quanto della "postilla", che delle Lectiones. Per il Tamburrino, d'altro canto, la fonte più antica sarebbe invece costituita dal cap. I della Vita soluto sermone scripta, che lo studioso attribuisce alla seconda metà del sec. IX o ai primi anni del secolo successivo. Solo in un secondo tempo e in relazione col diffondersi della fama e del culto di E., sarebbero stati aggiunti i capitoli relativi ai "miracula in vita et post mortem patrata".
Notizie su E. fornisce anche il Chronicon Novaliciense, ilcui autore (sec. XII) deve aver avuto a disposizione ed utilizzato fonti diverse per scrivere della vita, dei miracoli e delle virtù del santo "tam visis, quam auditis lectisve".
E. nacque nella antica Provincia Narbonensis ("apud Provinciales"), in una località bagnata dal "Dederadus flumen", l'odierna Durance, affluente di sinistra del Rodano. Di questa località, che le fonti chiamano "locus Ambillis, Amboliacensis oppidum, Ambelliacensis oppidum, castellum Ambelli", ignoriamo l'esatta ubicazione. Le fonti non riferiscono la data di nascita di E. né forniscono, per gli anni che precedettero il suo arrivo alla Novalesa, notizie più precise che non siano generiche attribuzioni di virtù che, secondo un canone agiografico stereotipo, si possono riassumere in austerità, pazienza, saggezza, nobiltà d'animo e d'intenti, magnanimità verso i poveri ai quali, dopo essersi fatto egli stesso povero, distribui gran parte delle cospicue ricchezze avute in eredità. Ci informano anche che mostrò sollecita attenzione verso i pellegrini per i quali fece costruire "nonnulla habitacula" e "pulcherrirnum. viridarium" nel suo paese d'origine, dove fece pure innalzare una chiesa dedicata a s. Pietro, e narrano di un suo peregrinare attraverso la Gallia, la Provenza, l'Aquitania e la Spagna alla ricerca di un luogo nel quale vigessero "monachorum regula et arctior custodia", che trovò infine, al di qua delle Alpi, nell'abbazia della Novalesa, in un momento di grande splendore della vita di quel cenobio, nel quale fu accolto dall'abate Amblulfo. Dette prova da subito di grande impegno nell'apprendimento delle regole monastiche, traendo spunto, come "prudentissima apis", dall'esempio dei migliori tra i monaci. Vi restò come semplice monaco per sette anni e, dopo la morte dell'abate Ugo, figlio forse di Carlo Magno, divenne egli stesso abate, conservando tale carica fino alla morte.
Si distinse per eccellenti doti morali: fu infatti "opulentia virtutum clarus, sapientiae affluentia compertus, exuberantia benignitatis refertus, studiosi ingenii fioribus ornatus, rosea castimoniae vigilantia tutus" (Actasanctorum Martii, cit.).
In qualità di abate di un cenobio che si caratterizzava per rilevanza politica e culturale, ebbe rapporti con i sovrani franchi, riuscendo a mantenere, grazie forse alla nobiltà dei natali, una posizione di forza nei confronti del potere temporale: fu in virtù di essa che ottenne che Lotario, con diploma del 14 febbraio 825, concedesse all'abbazia della Novalesa il monastero di Pagno, nell'odierno Saluzzese, come ricompensa dei beni che le erano stati sottratti da Ludovico il Pio in occasione della fondazione dell'ospizio di S. Maria sul Moncenisio. Sempre grazie ai suoi buoni rapporti con il potere centrale, ottenne che Bosone, inviato dell'imperatore, definisse in suo favore - in un placito del maggio dell'827 - una causa relativa ad alcuni "commanentes" di Oulx che intendevano sottrarsi alla condizione servile, facendo riferimento ad una "charta libertatis" loro precedentemente concessa.
E. morì il 13 marzo, come risulta dalla Vita soluto sermone scripta e dalla postilla al Martyrologium Adonis. Verosimilmente l'anno in cui mori fu l'840.
A diffondere la fama di santità e il culto di E. contribuirono certamente i numerosi miracoli a lui attribuiti in vita e post mortem. Tra i primi merita di essere ricordato il cosiddetto "miracolo dei serpenti", grazie al quale l'abate aveva liberato dalla minaccia dei serpenti, che infestavano la valle di Briançon, il villaggio identificato con l'attuale Monêtier-les-Bains; tra i secondi, il cosidetto "miracolo del naufragio" (iogg), con il quale E. aveva scampato da morte sicura un gruppo di crociati che, travolti da un fortunale mentre erano per mare, di ritorno dalla Terra Santa, avevano invocato la sua intercessione, dopo aver invano implorato quella di s. Nicola da Bari. Questo ultimo episodio è stato interpretato dalla critica come segno di "rivalità" tra E. e s. Nicola, una reliquia del quale era passata, con probabilità, in quegli anni, dalla Novalesa, e anche come segno di superiorità, come taumaturgo, del primo rispetto al secondo.
Dall'esame dei miracoli è possibile trarre qualche indicazione sulla tipologia del culto di E., sui ceti e sui luoghi dove esso è maggiormente attecchito: i miracoli interessano, anche in questo caso, soprattutto le classi subalterne, con netta prevalenza dell'elemento infantile e femminile (per un preciso esame degli elementi strutturali dei miracoli, vedi Tamburrino, Temi, pp. 154-157).
Della "posizione" di E. tra gli abati del cenobio novalicense e dell'alta considerazione nel quale era tenuto, fa fede, tra l'altro, la dedicazione al suo nome di una cappella, entro il recinto dell'abbazia, riferibile, per la parte più antica, alla fine del sec. IX o all'inizio del successivo, e, per la parte più recente, all'inizio del sec. XI. In essa un ciclo di affreschi della seconda metà del sec. XI (era allora abate Aldraldo di Breme), mal restaurati nel 1828, illustra scene della vita del santo: E. nel "locus Ambillis"; E. in veste di pellegrino, accolto da un sacerdos; E. che giunge al monastero della Novalesa; E. che si china per indossare l'abito monacale offertogli dall'abate Amblulfo; E. che compie il miracolo dei serpenti; E. che muore attorniato da due fratrescontristati.
La fama di E. è legata oltre che alla sua santità ed ai poteri taumaturgici che gliene derivavano, anche alla attività culturale da lui promossa durante gli anni in cui resse l'abbazia novalicense. Il suo programma culturale è sufficientemente documentato e si inserisce nel quadro della attività avviata dagli imperatori carolingi con i quali la Novalesa ebbe strettissimi rapporti.
Tra i ventuno abati che hanno retto l'abbazia, solo E. e, prima di lui, Frodoino sono ricordati per i loro meriti culturali. Significativa, a questo proposito, è la lettera inviata da E. a Floro, diacono della Chiesa di Lione, presso la quale si trovava una delle più importanti scuole episcopali del tempo; in essa Floro viene invitato a sottoporre il Salterio davidico ad un accurato lavoro di revisione critico-filologica "iuxta regulami veritatis" per riportarlo, anche attraverso la collazione con i vari codici, dei quali si sottolinea la "mendosa varietas", alla sua lezione originale "recta et probata". La richiesta di E. a Floro è giustificata anche dal fatto che il Salterio rappresentava allora, oltre che un libro di preghiere, un testo scolastico usato per gli esercizi di lettura.
La lettera di E. a Floro non ci è pervenuta, ma il suo contenuto può essere ricostruito attraverso la risposta che Floro ha trasmesso all'abate novalicense, facendolo oggetto di rispettosa riverenza e dedicandogli un carme nel quale l'autore, "Florus supplex", si rivolge a E. chiamandolo "pater optimus", e lo prega anche di svolgere una vigile opera perché ciò che con grande sforzo è stato corretto, tale possa rimanere. Alla base di tale operazione culturale sta la volontà di salvaguardare la fedeltà alla tradizione religiosa, garantendone l'unità, in linea con il programma culturale dell'impero franco, nell'ambito del quale la Novalesa si trovò rigidamente inquadrata, almeno fino ai primi decenni del secolo XI.
Gli stessi presupposti ideologici giustificano la polemica che E. ebbe con Claudio, vescovo di Torino, circa la lotta da quest'ultimo intrapresa contro il culto delle immagini sacre. (Claudio aveva infatti vietato nella sua diocesi il culto delle reliquie e della Croce, aveva fatto togliere dalle chiese le immagini dei santi e aveva proibito di pronunciarne il nome nelle preghiere).
In relazione a questa disputa è stato attribuito a E., sia pure con le dovute cautele, il frammento De imaginibus, che affronta il problema della adorazione della Croce. Il frammento è contenuto nel codice Novaliciense miscellaneo conservato nella Biblioteca Phillips di Cheltenhani ed è stato pubblicato dal Cipolla (Monumenta Novaliciensia, I, p. 443). Questa controversia iconoclasta è da inserirsi in un panorama culturale e dottrinale di vasto respiro che vide l'intervento dei maggiori esponenti della cultura dell'epoca, quali Giona d'Orléans, Eginardo, Dungal. La compilazione del De imaginibus sarebbe da mettere in relazione, oltre che con l'accusa di eresia mossa al vescovo torinese, anche con l'orientamento prevalente in Francia dove una vera e propria superstizione popolare tendeva a trasformare in idolatria il culto legittimo delle immagini sacre, distaccandosi dalla linea ortodossa fissata nel concilio di Nicea del 787.
Nulla ci è dato sapere con sufficiente certezza sulla probabile attività letteraria di E.: un generico riferimento ad essa si trova nell'espressione del Chronicon Novaliciense "in libris compositis", che potrebbe però riferirsi ad un semplice incremento del patrimonio librario dell'abbazia, la cui notevole consistenza è evidenziata nell'iperbolico numero di 6666 libri che i monaci avrebbero portato con sé quando ripararono a Torino per sfuggire alle incursioni saracene. Comunque, al di là della paternità di opere letterarie, va sottolineato lo zelo di cui E. ha dato costantemente prova nella difesa dell'ortodossia: proprio grazie a questa vigile opera pastorale gli furono attribuiti non solo i simboli propri degli abati, ma anche il bastone episcopale e le altre insegne proprie dei vescovi come risulta dal Chronicon.
Indice di omaggio reverenziale è l'esaltazione che l'autore del Chronicon fa di E., definendolo "excellentissimus pater" e dichiarando di trattare "devotissime" della sua vita, dei suoi miracoli e delle sue virtù, attraverso i quali il Signore si degnò di operare; e ancora l'atteggiamento di rispettosa devozione nei confronti di E. in cui appare ritratto "Aldradus Bremetensis abbas" nell'affresco dell'abside della cappella intitolata al santo.
Anche dopo la morte, si volle testimoniare la grandezza di E. riponendone il corpo "infra techam dignissimam", identificata dal Rochex con la "cassa di s. Eldrado" in argento sbalzato, a forma di sarcofago, conservata ancora oggi nella chiesa parrocchiale della Novalesa. Il reliquiario attribuibile per il Cipolla alla fine del sec. XIII, sarebbe invece per il Romano riferibile alla seconda metà del sec. XII. Allo stesso secolo è databile l'affresco che si trova nel chiostro dell'abbazia, e che rappresenta E. nell'atto di presentare al Cristo in trono una non meglio identificata Chiara, forse una benefattrice. Se si tiene poi conto che al sec. XII o alla fine del sec. XI (e non al sec. XIII, come in Gabrielli, Repertorio, p. 27) è databile secondo il Segre Montel il ciclo di affreschi della cappella dedicata al nome di E. alla Novalesa, si può ipotizzare una certa connessione tra tutte queste opere pittoriche e di oreficeria come riferibili o ad uno stesso committente o, più probabilmente, ad una campagna di rinnovamento che l'abbazia volle attuare in questo periodo.
Si spiegherebbe cosi, in un momento di ritrovato splendore, l'attenzione riservata dall'abbazia ad uno dei suoi più illustri abati e ad uno dei suoi più celebri santi, il cui culto è sopravvissuto nei secoli pur mantenendo un carattere strettamento locale, cosi come risulta dall'esame dei luoghi dove sono avvenuti i miracoli (Novalesa e villaggi circonvicini, zona del Moncenisio, valle di Bardonecchia, Torino, Asti). Ancora oggi alla Novalesa, nella cui chiesa parrocchiale il corpo del santo è stato trasportato nel sec. XVIII, viene celebrata, la domenica dopo il 13 marzo, la festa di E. con una solenne processione alla quale partecipano varie confraternite, gran parte della popolazione di Novalesa, di Venaus, della Val Cenischia e fedeli venuti dalla Moriana, dal Delfinato e dalla Savoia in un momento di simbolico raccordo tra gli abitanti delle terre al di qua e al di là delle Alpi, a ricordo del ruolo, in questo senso svolto dall'abbazia della Novalesa, nei momenti di maggiore splendore.
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