Eugenio I, santo
Figlio d'un certo Rufiniano, era romano d'origine: la sua famiglia risiedeva nella prima regione ecclesiastica, la "regio Aventinensis". Chierico sin dall'infanzia, salì al pontificato nell'estate del 654, in un momento drammatico per la Chiesa di Roma.
Nel giugno dell'anno precedente l'esarca Teodoro Calliopa era giunto a Roma per riprendere in mano la situazione dopo il fallimento della rivolta dell'esarca Olimpio (649-652), nella quale era stato coinvolto il papa Martino. Teodoro "Calliopa" notificò a presbiteri e diaconi una iussio dell'imperatore Costante II che ordinava la deposizione e la sostituzione di Martino, il quale era stato sempre considerato a Costantinopoli un usurpatore perché la sua elezione non era stata ratificata dal sovrano. Il papa fu arrestato il 17 giugno e condotto a Costantinopoli per esservi giudicato. Il processo ebbe luogo il 20 dicembre 653 e riguardò unicamente il comportamento del papa durante la ribellione di Olimpio. Condannato per alto tradimento, Martino fu spogliato del pallio pontificale, dichiarato deposto ed esiliato a Cherson, dove rimase fino alla morte avvenuta il 16 settembre 655. Fosse o no giustificata - i pareri degli studiosi sono discordi - la condanna consentì all'imperatore di sbarazzarsi di un deciso avversario della sua politica religiosa. Quando nel 648 Costante II aveva preteso di porre fine alla questione monotelita proibendo con un editto, il Typos, ogni discussione in merito all'attività e alla volontà in Cristo, Martino I gli si era opposto: l'anno seguente aveva infatti riunito e presieduto in Laterano un grande concilio che aveva solennemente condannato l'"impiissimum Typum" e il monotelismo al quale aderivano per altro i circoli dirigenti di Costantinopoli. La deposizione e l'esilio del papa punivano dunque anche questo affronto all'autorità imperiale, non solo, ma permettevano l'elezione di un pontefice più accomodante. Quando era ancora in prigione a Costantinopoli, Martino aveva espresso la speranza che non si procedesse all'elezione di un nuovo papa, così come imposto dall'imperatore: sarebbe stato, a suo giudizio, un atto senza precedenti. Dimenticava il caso di Vigilio, che nel 537 aveva sostituito Silverio, deposto ed esiliato per alto tradimento.
Dopo la condanna di Martino per lo stesso reato i Romani dovettero considerare vacante il seggio pontificio e provvidero a darsi un nuovo papa. Non si sa se l'esarca intervenne nell'elezione, che, in ogni caso, dovette svolgersi in un clima di paura e portò al soglio pontificio E., un chierico la cui personalità non poteva che essere gradita all'imperatore. Il suo biografo, il contemporaneo che ne scrisse la breve vita inserita nel Liber pontificalis, dipinge E. come "benignus, mitis, mansuetus, omnibus affabilis"; del resto, doveva essere di carattere piuttosto conciliante se l'imperatore ratificò senza difficoltà la sua elezione. E. fu infatti consacrato papa il 10 agosto 654. Quando la notizia giunse a Cherson, Martino non protestò. Deplorò soltanto che nessun aiuto gli venisse da Roma a conforto della sua pena, ma pregò che Dio mantenesse nella vera fede i Romani e, in modo particolare, il loro nuovo pastore. Forse le circostanze ed il carattere di E. gli facevano temere un accordo con Costantinopoli sul piano religioso. Infatti, un tentativo di riconciliazione ebbe luogo ma senza successo. Dal giugno 654 anche Costantinopoli aveva un nuovo patriarca, Pietro. Il Liber pontificalis narra che quest'ultimo inviò alla Sede apostolica una sinodica assai oscura che non si pronunciava sulla questione dell'attività e della volontà di Cristo. Il popolo e il clero di Roma manifestarono rumorosamente in quell'occasione la loro ostilità: nella basilica di S. Maria Maggiore, dove probabilmente era stata data lettura del documento, impedirono a E. di celebrare la messa finché non si fosse impegnato a respingere la sinodica del patriarca.
Di solito, il racconto del Liber pontificalis viene accostato nella letteratura critica e nella storiografia a due testimonianze che figurano in fonti relative a Massimo il Confessore, il grande teologo di lingua greca che aveva ricoperto un ruolo decisivo nella preparazione del concilio lateranense del 649 e che era stato probabilmente arrestato o allontanato da Roma nello stesso periodo del papa Martino. La prima di queste testimonianze si trova nella Relatio motionis, la relazione del primo processo contro Massimo, celebrato a Costantinopoli nel 655 o comunque non oltre l'agosto del 656. Secondo questa fonte, alti dignitari bizantini avrebbero fatto allusione ad un recente arrivo di apocrisiari papali nella capitale e ad un loro imminente accordo in materia dottrinale con il patriarca Pietro.
Il Confessore avrebbe allora osservato che l'azione dei rappresentanti del papa non avrebbe vincolato la Sede romana perché essi non erano latori di alcuna lettera di E. per il patriarca Pietro. L'altra testimonianza è offerta da due documenti strettamente collegati tra loro, che si suole datare al 655: una lettera di Massimo il Confessore al suo discepolo Anastasio e una lettera di quest'ultimo ad una comunità monastica di Cagliari a noi ignota. Nella sua lettera Massimo informa Anastasio del fatto che, stando a quanto gli avevano fatto sapere alcuni inviati del patriarca Pietro, le due principali sedi patriarcali della cristianità, Roma e Costantinopoli, erano tornate alla reciproca comunione sulla base di una formula dottrinale di compromesso. Massimo pregava perciò Anastasio di scrivere ai monaci di Cagliari, perché intervenissero nell'interesse della vera fede presso i circoli responsabili romani. Dal canto suo Anastasio, con la sua lettera, ottemperava all'incarico affidatogli; scriveva fra l'altro che gli apocrisiari romani erano stati costretti ad accettare la formula di compromesso. Secondo la maggior parte degli studiosi, gli apocrisiari romani, di cui si parla nella lettera di Anastasio, sarebbero gli stessi che vengono menzionati nella Relatio motionis. Sulla base di tale identificazione l'intera vicenda viene in genere così ricostruita: l'invio della sinodica, di cui parla il Liber pontificalis, avrebbe fatto seguito all'accordo da quegli apocrisiari raggiunto con il patriarca Pietro nel 655. I monaci cagliaritani, dal canto loro, informati da Anastasio circa la situazione realmente esistente, avrebbero messo sull'avviso i loro amici romani. Il rifiuto clamoroso della sinodica, avvenuto nell'Urbe, in S. Maria Maggiore, sarebbe stato frutto di tale intervento e dunque, in ultima analisi, dell'influenza di Massimo il Confessore. Una siffatta ricostruzione, tuttavia, è da rifiutare. Essa poggia infatti su una errata datazione della lettera di Massimo, che è da attribuire non al 17 maggio 655 - come si vorrebbe sulla base di un passo di quella lettera, frainteso nella edizione datane in P.G., XC, col. 132 A: "Πεντηκοστή", per il "Μεσοπεντηκοστή" dei manoscritti (R. Bracke, p. 68 e n. 31), confermato dalla traduzione di Anastasio Bibliotecario "Mediae Pentecostes" accolta da A. Jülicher (p. 131) e da V. Grumel (nr. 303) - ma, con ogni probabilità, al 18 aprile 658. Le lettere di Massimo e del suo discepolo non riguardano dunque il pontificato di E. ma quello del suo successore Vitaliano. Perciò nulla permette di affermare che Massimo fu all'origine del rifiuto della sinodica che indirizzò a E. il patriarca Pietro.
Può darsi che i monaci bizantini residenti a Roma avessero di loro iniziativa avvertito la popolazione. È anche possibile che si fosse già diffuso nella città ed avesse commosso un buon numero di romani il resoconto delle sofferenze patite in Oriente dal papa Martino I, che fu perciò considerato come un martire (Commemoratio eorum). D'altra parte, giacché le allusioni al compromesso dottrinale proposto dal patriarca Pietro datano al 658, niente prova che esso figurasse già nella sinodica da lui inviata a Eugenio. Il patriarca dovette allora attenersi piuttosto al divieto di tornare sulla questione della volontà e della attività del Cristo imposto dal Typos. Resta molto verosimile tuttavia che la sua lettera rispondesse all'invio da parte del papa, nel 655 (?), degli apocrisiari ai quali allude la Relatio motionis; altrimenti non si capirebbe in che modo questi sarebbero potuti entrare in contatto, e forse anche in accordo, con Pietro dopo il rifiuto romano della sua sinodica. Possiamo ammettere dunque che E. abbia fatto un primo passo prudente ma che, preoccupato di non impegnarsi troppo, abbia evitato di indirizzare una lettera al suo collega.
I suoi rappresentanti andarono oltre le istruzioni ricevute? Concordarono davvero su qualche punto con il patriarca? Non si può dire con certezza. Comunque, se pure allora furono avviati passi per una conciliazione con Costantinopoli, E. dovette rinunciare all'iniziativa sotto la pressione dell'opinione pubblica romana.
Questo irrigidimento inatteso provocò un'irritazione profonda a Costantinopoli e spinse l'imperatore a rivolgersi a Massimo (agosto-settembre 656). Si trattò dapprima d'inviarlo con un vescovo bizantino a Roma per fare da intermediario. Quindi, Costante II, persuaso che l'adesione del Confessore avrebbe portato con sé quella dell'Occidente, pretese che egli accettasse il Typos e la comunione con la sede di Costantinopoli. Di fronte al rifiuto di Massimo, due alti dignitari imperiali fecero questa minaccia: alla minima tregua concessa dai barbari - gli Arabi -, Massimo, i suoi discepoli, così come "il papa che ora alza la testa e tutti quelli che parlano laggiù [a Roma] [...] saranno fusi nel crogiolo, ciascuno nel modo che gli spetta, come è stato fuso Martino". Queste parole rivelano lo spirito che animava la corte imperiale. È dubbio, tuttavia, che l'imperatore avesse preso in seria considerazione la possibilità di far subire a E. la sorte del suo predecessore qualora - cosa improbabile - la lotta contro gli Arabi avesse registrato una pausa. Non avrebbe infatti potuto giustificare con un'accusa di alto tradimento un arresto che non avrebbe mancato di provocare disordini. In ogni caso, E. non visse che per qualche mese ancora, e la situazione si placò sotto il suo successore Vitaliano.
Oltre a quelli riguardanti le relazioni con Costantinopoli, del pontificato di E. due altri fatti possono essere ancora ricordati. Nel 654 E. diede la propria benedizione al giovane Wilfrid, il futuro santo vescovo di York che, giunto in pellegrinaggio a Roma, vi aveva appreso le Scritture e la disciplina ecclesiastica romana dall'arcidiacono Bonifacio. Inoltre, su richiesta del re franco Clodoveo II, il papa pose il monastero di Saint-Maurice d'Agaune sotto la giurisdizione della Sede apostolica, concedendogli l'esenzione da ogni altra ingerenza episcopale. Il testo di questo privilegio, così come ci è pervenuto, ha subito qualche rimaneggiamento alla fine del sec. VIII o nel IX, ma conserva tuttavia numerosi elementi del documento originale. E. morì il 2 giugno 657 e il suo corpo fu seppellito in S. Pietro. Secondo il suo biografo, egli si mostrò generoso con il clero e con i poveri e brillò per la sua santità. Fu perciò iscritto nel Martyrologium Romanum dopo aver figurato nelle aggiunte tarde al Martyrologium di Usuardo. È commemorato il 2 giugno.
fonti e bibliografia
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