GERARDO Tintore, santo (Gerardo de' Tintori, Girardus Tinctor, Girardus de Tinctoribus)
Nacque a Monza nella prima metà del XII secolo; nulla si sa dei genitori, se non che, desumibilmente dal cognome, si potesse trattare di una famiglia le cui origini erano legate all'artigianato della produzione di stoffe. Per tale ascendenza da una fascia sociale medio-bassa, si propende, con gli studi più recenti, per la denominazione "Tinctor" anziché "de Tinctoribus", con la quale è spesso ricordato. Altre ipotesi, avanzate da certa storiografia celebrativa (Bellani, p. 7; Lesmi, p. 11; Colombo, p. 19), che ascrivono G. a una stirpe nobile di origine milanese, segnalando anche il nome del padre e del nonno, non sono accettabili in quanto desunte arbitrariamente. Anche sulla data di nascita, da alcuni ipotizzata intorno al 1134 o 1135, sembra opportuno rifarsi alla fonte più antica, cui peraltro si rapportano gli storici successivi, il Chronicon trecentesco di B. Morigia che attribuisce la documentata fondazione dell'ospedale, compiuta da G. nel 1174, a un uomo ormai "maturus aetate" (col. 1085).
Certamente visse all'interno di quell'attivo ceto artigianale in piena espansione nella Monza dell'epoca, fautore dello sviluppo economico del borgo, in contatto con gli ambienti che diedero vita a nuovi fermenti di pietà popolare: la sua religiosità non stentò pertanto a crescere e a maturare all'interno dell'ambiente lavorativo e familiare. Nulla si sa dell'istruzione cui fu destinato, né in merito si apprende dai successivi avvenimenti, a completa connotazione caritativa, in piena armonia con le coordinate di quella santità maschile laica e ospedaliera (Vauchez, 1989) che ha nella Lombardia del XII e primo XIII secolo i suoi più illustri rappresentanti.
Legato alla "nuova collettività", animata da movimenti pauperistici ortodossi e non, con la volontà di attuare credibilmente e coerentemente il messaggio evangelico, pare essere stato anche G., che ebbe a disposizione mezzi in quantità tale da permettere la destinazione prima, la trasformazione poi, degli edifici paterni in luogo deputato all'accoglienza dei "pauperes infirmos" (Morigia, coll. 1085 s.), al loro sostentamento e alla loro cura, fin da anni che sembrano ben precedenti la fondazione dell'istituzione ospedaliera.
È la cinquecentesca Vita edita negli Acta sanctorum (AS) a segnalare come già dal 1162, anno di grande carestia e fame, le case di G. fossero in grado di ospitare "multi indigentes" (p. 756), ed è a questo momento che si ascrive la prima manifestazione miracolosa attribuita a G. che per soddisfare le numerose richieste di aiuto giuntegli aveva ordinato di dar fondo a tutte le provviste conservate. A tale ingiunzione il "canevarius" aveva risposto che restavano a disposizione della comunità un solo moggio di frumento e uno staio di vino; ma le dispense furono poi trovate ricolme di scorte, dopo che G. aveva ammonito il confratello di non disperare nell'intervento della provvidenza.
Già da quel momento pare quindi che la fondazione gerardiana potesse usufruire di una struttura simile a quella di altre istituzioni ospedaliere, governate da un ministro - spesso il fondatore - coadiuvato dal lavoro dei conversi laici. Ma la vera e propria istituzionalizzazione dell'iniziativa assistenziale è attestata dal 19 febbr. 1174, data di quella che viene ormai concordemente considerata come cartula fondationis - non tanto in senso stretto, ma piuttosto come regolamentazione di una realtà già da qualche tempo preesistente - e che stabiliva un patto tra l'ospedale "pauperum […] in suprascripto loco Modoetiae, ultra flumen Lambri, prope ecclesiam Sancti Ambrosii" (Frisi, 1794, II, pp. 70 s.) da una parte, e il Comune insieme con i canonici monzesi, dall'altra. Il patto, vincolante l'istituzione gerardiana sia al capitolo sia al Comune - quest'ultimo, peraltro, attestato per la prima volta da questo stesso documento -, stabiliva i termini di tale collaborazione, che si concretizzava in un censo annuo da corrispondere alla chiesa di S. Giovanni Battista, e nel diritto di advocatia sull'ospedale da parte del Comune, nonché nella compartecipazione delle tre parti all'elezione del minister e nella presenza di sei decani interni all'ospedale ma eletti dal Comune. Tale collaborazione, in vigore fino al XIV secolo, testimonia un rapporto di "obbedienza" da parte dell'istituzione gerardiana, che vincolava a doppio filo istituzioni pubbliche, religiose e a matrice laicale, nel comune intento di costituirsi l'uno per l'altro a elemento di controllo e regolamentazione. L'iniziativa di G. può essere pienamente ascritta quindi alle manifestazioni e alle attività tipiche dei cosiddetti "santi della carità e del lavoro" (Mambretti, p. 187), ma non si hanno notizie dettagliate sulle modalità di assistenza della sua fondazione, in quanto le fonti insistono in primo luogo sul fattore guida che animò tali esperienze.
La cura con cui G. accudiva i suoi assistiti è evidenziata dal racconto che vuole che egli stesso cercasse i malati indigenti e li conducesse alle sue case "ulnis suis solus" (AS, p. 756), provvedendo in seguito personalmente alle necessità di ordine pratico. Durante un'inondazione del Lambro, che lo sorprese al di là della riva del fiume, presso la chiesa di S. Giovanni Battista dove si recava spesso a pregare, traversò le acque del fiume camminando sul suo mantello, raggiunse gli edifici dell'ospedale e riuscì, con la preghiera, a evitare che l'acqua raggiungesse le stanze dei malati.
Alla consuetudine di recarsi a pregare presso la chiesa di S. Giovanni Battista è legato un altro evento miracoloso: la capacità di entrare nel tempio anche a porte chiuse, durante la notte, "divino auxilio" (AS, p. 756). La promessa di un cesto di ciliegie ai custodi della chiesa di S. Giovanni Battista, prontamente esaudita da G. nonostante si fosse in pieno inverno, avrebbe connotato anche la successiva iconografia. Secondo altri (G. Spinelli, Il culto di s. G. e le sue espressioni artistiche, in G. T.; Mambretti, p. 188) tale immagine deriverebbe dalla consuetudine, sancita da una precisa norma nella nota obituaria conservata presso il capitolo di Monza, di rifocillare i canonici convenuti alle celebrazioni commemorative in onore di G., il 6 di giugno, con un pasto e "cerasas abundanter".
Dopo una vita di dedizione completa alla causa assistenziale, "senex plenus dierum" (Morigia, col. 1086), G. morì a Monza il 6 giugno 1207.
Immediatamente la fama delle opere e dei miracoli si diffuse nel contado, grazie anche a un episodio di guarigione, solo quaranta giorni dopo la morte: tra la popolazione di Olgiate Comasco molti furono colpiti da un male denominato syncoposis e si affidarono, su consiglio di un pio eremita, alla protezione di G. di cui erano già noti i poteri taumaturgici. Dopo un pellegrinaggio collettivo, e la subitanea guarigione ottenuta dagli olgiatesi, si decretò di rendere grazie a G. reiterando il pellegrinaggio annualmente, e si provvide alla più idonea collocazione del corpo in un'urna marmorea, collocata nella chiesa di S. Giovanni Battista. Molti miracoli sancirono ulteriormente la santità di G., il quale, pochi anni dopo la morte, nella documentazione relativa all'ospedale viene spesso ricordato con le denominazioni "sanctus" e "beatus" (Bellani, p. 28), alternantesi secondo quella caratteristica fluidità terminologica tipica di un'epoca nella quale tali appellativi non possedevano ancora una determinata connotazione.
Dopo il concilio di Trento, sulla scia del generale "riordino" delle pratiche devozionali popolari anche la Chiesa ambrosiana, nella persona del cardinale Carlo Borromeo, si interessò alla venerazione che molti paesi della Lombardia riservavano a G.: dopo una prima visita pastorale nel 1566 il prelato sospese temporaneamente le pratiche cultuali in attesa di accertamenti e istituì un'inchiesta canonica per l'accertamento dell'effettiva santità di Gerardo. Nel 1582 l'indagine venne affidata a Carlo Bascapè, successivamente gli atti e la documentazione furono inviati a Roma presso Gregorio XIII, e l'anno dopo si ottenne una solenne sanzione del culto, nell'anniversario della morte di G., insieme con la concessione dell'ufficio e della messa in onore del santo, di rito doppio, per tutto il clero monzese.
Venerato come patrono minore di Monza e di altri paesi nei dintorni di Como, Milano e Varese, ricordato con tradizionali processioni e con la consuetudine di porre, nel giorno della sua festa, un'effigie sulle acque del Lambro, a memoria del miracolo della scampata alluvione, resta sempre viva la sua immagine anche nei luoghi deputati al culto: celeberrima quella conservata nella chiesa di S. Giovanni Battista, opera di Bernardino Luini, ma anche altre più antiche che ne conservano l'iconografia caratterizzata oltre che dal ramo di ciliegio, dalla scodella e dal cucchiaio di legno, simboleggianti l'attività caritativa. Le sue spoglie sono attualmente conservate nella chiesa a lui intitolata.
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