Girolamo (Ieronimo), santo
San G. (Eusebius Hieronymus), uno dei quattro dottori della Chiesa latina, sarebbe nato a Stridone (Ungheria) o in una città dell'Istria, verso il 340-345.
Ricevette una seria formazione grammaticale, filosofica e umanistica a Roma. Alla morte di Giuliano l'Apostata, nel 363, si considerava ancora un ‛ fanciullo ' che si esercitava in giuochi grammaticali: " Dum adhuc essem puer, et in grammaticae ludo exercerer, omnesque urbes victimarum sanguine polluerentur, ac subito in ipso persecutionis ardore Iuliani nuntiatus esset interitus... " (In Abacuc II III 14). Fervente discepolo di Donato, G. conservò sempre, anche negli scritti, uno stile parlato estremamente focoso, che dà un'idea di ciò che dovevano essere la sua eloquenza e la lingua latina alla fine del IV secolo. Dopo una prima giovinezza abbastanza turbolenta, si convertì (In Hiezechielem XL 5) e venne battezzato a Roma. Un tentativo di carriera giuridica a Treviri non ebbe seguito; ben presto infatti rientrò ad Aquileia, per poi raggiungere l'Oriente attraverso il Ponto, la Tracia, la Bitinia, la Cappadocia, pervenendo in Siria. Ad Antiochia cadde malato e attribuì a una visione, poi divenuta celebre, la sua definitiva conversione alla saggezza cristiana (Epist. XXII 30). Si diede allora a un rigoroso ascetismo, ritirandosi nel deserto di Calcide. In seguito alle dispute dogmatiche in cui i monaci, che abitavano in questa solitudine, si erano immischiati, invitò il papa Damaso a far luce pronunciandosi (Epist. XV- XVI). G. preferì poi abbandonare la regione e si mise in viaggio. Ad Antiochia fu ordinato sacerdote nel 378 o 379. A Costantinopoli, nel 380, incontrò Gregorio di Nazianzio che l'introdusse alle omelie di Origene su Geremia ed Ezechiele; questo fu per lui il primo contatto con le opere del grande esegeta alessandrino. Fu anche in relazione con Gregorio di Nissa. A Roma, si guadagnò la fiducia di papa Damaso in occasione del concilio romano del 382. Il pontefice l'incaricò di rivedere la traduzione latina dei quattro Vangeli; G. non si limitò a questo compito. Tutto dedito specialmente alla collazione della versione greca d'Aquila con il testo ebraico e alla composizione di opuscoli dogmatici e a lavori di esegesi biblica, si circondò, nella sua residenza sull'Aventino, di anime pie della nobiltà romana: Marcella, Fabiola, Paola, Eustochio e altre persone desiderose di una formazione scritturale e spirituale di prim'ordine. Il suo linguaggio satirico e la sua verve mordace gli attirarono - com'è logico nel mondo ecclesiastico - molte inimicizie, soprattutto perché attaccava con coraggio le sregolatezze di certi chierici e monaci. Alla morte di papa Damaso (11 dicembre 384) il suo destino era segnato. E sin dall'agosto 385, G. lascia Roma e rientra in Oriente per la Terra Santa. Va anche fino ad Alessandria per consultare l'esegeta Didimo il Cieco i cui scritti utilizzerà più tardi; infine nell'autunno del 386 si stabilisce a Betlemme. Qui, sotto la sua direzione, sorge una piccola comunità monastica. G. prosegue con fervore le sue traduzioni bibliche, i suoi commenti alle Scritture, le sue ricerche teologiche, e tiene un'importante corrispondenza. Durante il soggiorno a Betlemme si colloca l'episodio più negativo di tutta la sua carriera: dopo essere stato ammiratore dichiarato di Origene, ne diventa il denigratore più fermo, entrando in polemica con tutti i suoi amici, soprattutto con Rufino e col vescovo Giovanni di Gerusalemme. Gli ultimi anni di G. furono così assorbiti da polemiche, asprezze, risentimenti, che lasciano di lui un'impressione abbastanza strana; più polemista e controversista che maestro, G. non rientra negli schemi abituali della santità cristiana. Per giunta avversò con veemenza le dottrine di Elvidio, di Gioviniano, di Vigilanzio, di Pelagio, come pure i Luciferiani. Con ogni probabilità fu la sua duplice attività di biblista e di apologeta a meritargli l'epiteto di santo. La morte di G. avvenne forse a Betlemme nel 419 o nel 420. La sua iconografia, assai abbondante nel Medioevo, deriva più dalla leggenda agiografica che dalla sua autentica biografia. G. viene rappresentato in abiti cardinalizi - più particolarmente col cappello rosso - perché Damaso l'avrebbe creato cardinale. Il leone che l'accompagna gli fu attribuito per una confusione con la biografia del monaco s. Gerasimo. Il più delle volte, infine, viene raffigurato nelle fattezze di un vecchio emaciato, vestito in abiti leggeri, asceta e intellettuale a un tempo.
I manoscritti liturgici latini d'Occidente lo venerano in quanto " Scripturae sanctae et verus interpres et tractator catholicus " (cfr. Firenze, Biblioteca Laurenziana, Conventi Soppressi 292, ff. 147v - 148r; Roma, Bibl. - sanatense, Latino 1907, f. 251r). Anche se il seguente prefazio eucaristico tesse un elogio della sua scienza: " quem ita voluisti satiare totius scientiae ut suorum splendore dictorum, multarum suscitator fieret animarum " (Parigi, Bibl. Nazionale, Latino 15614, f. 241v; altre testimonianze medievali del culto liturgico di G. sono raccolte da R. Grégoire in " Studi Medievali " s. 3, IX [1968] 580-588), non bisogna in ogni caso sopravvalutare tale fama. " S'il est très grand comme traducteur, Jérôme, comme exégète, n'est dans une large mesure qu'un vulgarisateur " (Saint Jérôme, Sur Jonas, a c. di P. Antin, Bruxelles 1956, 16; importante anche per altre precisazioni e notizie il volume dello stesso curatore, Recueil sur saint Jeróme, ibid. 1968).
Se D. adduce per due volte l'autorità di G., ciò non significa affatto che egli abbia visto in lui il teologo o l'esegeta. Gli scritti di G. risentono alle volte della fretta e di una certa improvvisazione, anche se testimoniano un certo valore letterario. Alcune sue affermazioni di carattere teologico o derivanti dal semplice buon senso, sono entrate nell'uso comune ed è a questo titolo che D. le cita. A proposito di Catone (Cv IV V 16), D. riprende una sentenza di G., che si riferisce a s. Paolo: Certo maggiormente di te parlare non si può che tacere, e seguire leronimo, quando nel proemio de la Bibbia, là dove di Paolo tocca, dice che meglio è tacere che poco dire. Si tratta di un richiamo alla lettera-prefazione della Vulgata, indirizzata a Paolino. In essa difatti si legge: " super quo tacere melius puto quam pauca scribere " (cfr. Biblia sacra iuxta latinam Vulgatam versionem ad codicum fidem, I, Roma 1926, 33). Alcuni manoscritti attestano, in luogo di scribere, la lezione dicere, corrispondente al dire di D.; si tratta particolarmente dei manoscritti della Bibl. Nazionale di Parigi, Latino 7 (XI sec.) e Milano, Bibl. Ambrosiana, B 47 inf. (XII sec.).
La seconda citazione esplicita di G. è in Pd XXIX 37 leronimo vi scrisse lungo tratto / di secoli de li angeli creati / anzi che l'altro mondo fosse fatto. Questa è una tesi affermata due volte da G.: la prima nell'Epist. XVIII a papa Damaso, documento assai rinomato nel Medioevo e che probabilmente costituisce la fonte di D.: " Quis enim eius potest scire principium, quid, antequam istum conderet mundum, in rerum fuerit aeternitate, quando thronos, dominationes, potestates, angelos totumque ministerium caeleste condiderit " (§ 7). La seconda, nel suo commento all'epistola paolina a Tito: " Unum tempus Dei est omnis aeternitas: immo innumerabilia tempora sunt, cum infinitus sit ipse qui ante tempora omne tempus excedit. Sed mille necdum nostri orbis implentur anni: et quantas prius aeternitates, quanta tempora, quantas saeculorum origines fuisse arbitrandum est, in quibus angeli, throni, dominationes, ceteraeque virtutes servierint Deo; et absque temporum vicibus atque mensuris, Deo iubente, substiterint " (In epistulam ad Titum I 2-4). Tale dottrina è enunciata da altri autori ecclesiastici d'Oriente e d'Occidente: Origene (De Principiis III V 3), s. Giovanni Crisostomo (Homiliae in Genesim II 2), s. Gregorio di Nazianzio (Oratio XXXVIII 9), s. Giovanni Damasceno (De Fide orthodoxa II 3), s. Ambrogio (Hexaëmeron I V 19), s. Ilario (In psalm. CXXXV 8). Essa non è erronea, secondo quanto noterà s. Tommaso d'Aquino (Sum. theol. I 61 3), che si rifà all'autorità di G. e di Gregorio di Nazianzio. In effetti non sussiste alcun ostacolo teologico e biblico a una creazione degli angeli anteriore a quella della realtà terrena, anzi che l'altro mondo fosse fatto. D. stesso vedeva in questo primato temporale degli angeli una speciale manifestazione dell'amore di Dio: in sua etternità di tempo fore, / fuor d'ogne altro comprender, come i piacque, / s'aperse in nuovi amor l'etterno amore (Pd XXIX 16-18).
Tale anteriorità non implica affatto la loro eternità, dal momento che Dio solo è eterno (Sum. theol., cit.). L'argomento razionale di convenienza, perseguito dal ragionamento di D. (Pd XXIX 43-45), non fa che consolidare l'opinione di G., senza per altro provocare obiezioni sensazionali. Più difficile è precisare quali testimonianze bibliche l'autorizzano: ma questo vero è scritto in molti lati / da li scrittor de lo Spirito Santo, / e tu te n'avvedrai se bene agguati (Pd XXIX 40-42).
Gli angeli, secondo la Scrittura, sono " spiriti destinati a servire, inviati in missione per il bene di coloro che debbono ereditare la salvezza " (Hebr. 1,14); essi tra l'altro sono servitori di Dio (Job 4,18), stabiliscono un legame tra cielo e terra (Gen. 28,12), ricevono dei nomi simbolici in rapporto alla loro funzione. D. probabilmente allude all'eterna liturgia celebrata dagli angeli in onore di colui che vive nei secoli dei secoli (Apoc. 4-5), come pure al fatto che gli angeli sono incaricati di reggere il mondo (Apoc. 7,1; 14,18; 16,5), le persone e le comunità ecclesiali (cfr. Ex. 23,20; Apoc. 2, 1 e 8). Essi però sono stati creati da Cristo, in lui e per lui, che è il primogenito di ogni creatura (Coloss. 1, 15-16). Tuttavia, secondo il libro di Giobbe (38,7), essi esistono prima degli astri, poiché all'apparizione di questi ultimi, essi si misero a lodare Dio. E quest'ultimo testo è addotto da s. Basilio per affermare l'anteriorità della creazione angelica (Oratio I 2), Con ogni probabilità è a questi testi scritturali che D. si rifà per conferire maggior peso all'autorità di G.; Beatrice, suggerendoli, intendeva così rendere più sensibile quest'amore di Dio, del quale tutto il canto XXIX illustra un aspetto.