Gregorio II, santo
Nacque a Roma e fu allevato ed educato nel patriarchio lateranense, il complesso di uffici, con annesse scuole e collegi, in cui era esercitata l'amministrazione patrimoniale ed ecclesiastica del papato. Ricevuto il suddiaconato da papa Sergio I, ricoprì nel patriarchio l'importante ufficio di sacellario, e gli fu affidata la cura della "bibliotheca". Promosso al diaconato, accompagnò papa Costantino nel viaggio che questi fece a Costantinopoli nel 710. Colà ebbe un ruolo importante nelle trattative che composero il dissidio tra il papato e l'Impero bizantino suscitato dal cosiddetto concilio Quinisesto, celebrato da Giustiniano II nel 691-692. Durante il soggiorno a Costantinopoli sembra che si facesse apprezzare dallo stesso imperatore, rispondendo a quesiti su vari argomenti. Eletto papa, fu consacrato quaranta giorni dopo la morte del predecessore Costantino, il 19 maggio 715.
Le sue prime iniziative furono rivolte alla manutenzione della città di Roma. Intraprese il restauro delle mura di cinta della città, che versavano da tempo in cattive condizioni; in quest'impresa incontrò però resistenze, forse da parte delle autorità laiche che governavano la città. Roma faceva ancora parte dell'Impero bizantino, rappresentato in città da un duca, sebbene l'autorità politica e civile dei papi fosse molto cresciuta negli ultimi decenni, ed essi esercitassero probabilmente funzioni pubbliche anche fuori dal campo strettamente ecclesiastico. G. poté invece effettuare indisturbato il restauro di alcune grandi basiliche, anch'esse compromesse per la vetustà e la carente manutenzione. Rinnovò i tetti di S. Paolo, di S. Lorenzo fuori le Mura e di S. Croce in Gerusalemme, sostituendo le travi marce e risarcendo le parti già crollate; ristabilì inoltre la vita religiosa in alcuni monasteri da tempo abbandonati presso S. Paolo e S. Maria Maggiore, affidando alle comunità monastiche ivi istituite l'incarico di celebrare notte e giorno l'ufficio nelle basiliche contigue. Proseguì il rinnovamento della liturgia papale in corso dalla fine del secolo precedente, istituendo tra l'altro la messa del giovedì di Quaresima.
Queste iniziative miravano a ripristinare il decoro dei grandi edifici ecclesiastici e del culto a Roma, anche in considerazione del crescente afflusso di pellegrini che visitavano la città e le sue memorie sacre, e che in gran parte provenivano dai Regni barbarici dell'Occidente europeo, dove il culto dell'apostolo Pietro e la reverenza per il papa suo successore e vicario si erano diffusi fin dal secolo precedente. Nel 716 G. accolse a Roma il duca dei Bavari Teodo, primo pellegrino della sua gente, che veniva a chiedere l'istituzione di una provincia ecclesiastica dipendente da Roma nel suo Ducato. Nel 719 ricevette la visita del monaco anglosassone Winfrith (680-750), che chiedeva direttive e sostegno per la missione evangelizzatrice che intendeva intraprendere nella Germania ancora pagana. Il 15 maggio di quell'anno G. gli conferì autorità e poteri ecclesiastici, ribattezzandolo col nome del santo romano Bonifacio. Più tardi, il 30 novembre 722, in occasione di un secondo viaggio di Bonifacio a Roma, G. lo consacrò vescovo di Germania, ricevendo da lui il giuramento di obbedienza al papato normalmente prestato dai vescovi suffraganei. Per guidare la sua azione organizzatrice, G. diede a Bonifacio un libellum contenente norme di diritto ecclesiastico secondo la tradizione romana. Scrisse inoltre diverse lettere ai cristiani di Germania e di Turingia, invitandoli ad aiutare Bonifacio e a rispettare le sue decisioni. Inoltre scrisse al principe franco Carlo Martello chiedendogli di proteggere la missione di Bonifacio. In Francia G. fu in rapporto anche col duca degli Aquitani Eude, cui verso il 720 inviò in segno di benedizione tre spugne utilizzate nella mensa pontificia, che il duca usò come talismani negli scontri avuti presso Tolosa con i Saraceni che dalla Spagna tentavano di espandersi nella Francia meridionale. Buoni rapporti G. ebbe inizialmente anche con il Regno longobardo; ne è testimonianza la restituzione alla Chiesa di Roma del patrimonio fondiario delle Alpi Cozie da parte del re longobardo Liutprando (712-744).
Tuttavia la situazione politica in Italia si complicò presto. Nelle province bizantine dell'Italia centro-settentrionale (Venezie, Esarcato, Pentapoli), l'autorità del governo imperiale, già indebolita dalle violenze commesse dall'imperatore Giustiniano II a danno delle popolazioni locali e dalle ricorrenti propensioni ereticali degli imperatori, venne ulteriormente compromessa dall'avanzata araba in Asia Minore, culminata nell'assedio posto a Costantinopoli, che durò dall'agosto 717 all'agosto 718. Probabilmente in connessione con queste vicende, i Longobardi, che controllavano la maggior parte della penisola italiana, occuparono Classe, porto di Ravenna, e i castelli di Narni e Cuma. Quest'ultimo faceva parte del Patrimonio della Chiesa romana in Campania: G. si rivolse dunque al duca di Benevento Romualdo, offrendo di riscattare il castello con 70 libbre d'oro. Non riuscendo però ad ottenerne la restituzione, chiese l'intervento del duca di Napoli, Giovanni, che insieme al rettore del Patrimonio Teodino riconquistò con le armi il castello, restituendolo al papa, il quale volle comunque pagare il riscatto promesso al duca longobardo. Interpretato da alcuni studiosi come primo caso di esercizio di autorità papale su territori sottoposti alla giurisdizione dello Stato bizantino, il recupero di Cuma non fu probabilmente altro che una iniziativa volta a difendere il possesso di un patrimonio fondiario della Chiesa romana; esso semmai conferma l'importanza che tali patrimoni rivestivano per il papato, che da loro traeva sia redditi in natura, per l'approvvigionamento del clero e delle istituzioni assistenziali nella città di Roma, sia censi in denaro, indispensabili per le attività del governo ecclesiastico. L'acquisizione da parte del papato di poteri giurisdizionali nei territori soggetti alla sovranità imperiale deve dunque porsi in un momento successivo, sia pur non di molto.
Problemi di natura economica sembrano alla base anche dello scontro che di lì a poco oppose G. all'imperatore bizantino Leone III Isaurico (717-741). Appena liberata Costantinopoli dall'assedio degli Arabi, questi si dedicò alla riorganizzazione dell'Impero interessandosi anche delle province italiane, dove peraltro impose tasse pesantissime, forse anche per punire l'insubordinazione dimostrata dalle popolazioni verso il governo imperiale. In quell'occasione, G. si oppose al pagamento delle imposte che gravavano sui patrimoni e i contadini della Chiesa romana, incitando forse alla disobbedienza fiscale "l'intera provincia d'Italia" e la stessa città di Roma. La reazione del governo bizantino fu violenta, anche se sulle prime indiretta: alcuni esponenti dell'aristocrazia imperiale - il duca Basilio, il cartulario Iordanes e il suddiacono Giovanni Lurion - spalleggiati dal duca di Roma Marino e dallo stesso esarca Paolo si accordarono per uccidere il papa, senza trovare però subito l'occasione propizia. Scoperta la congiura, i Romani stessi misero a morte i congiurati, mentre il duca si allontanava da Roma. Nel 725 l'esarca Paolo cercò di rimuovere G. dal papato, inviando a Roma un nuovo duca, appoggiato da un esercito raccolto con difficoltà nel Ravennate; ma in quest'occasione venne in luce la debolezza del governo bizantino in Italia. I Romani uscirono dalla città per affrontare questo esercito, ed ebbero l'aiuto dei Longobardi di Spoleto e di altri duchi longobardi confinanti col territorio romano. La spedizione dell'esarca fu respinta, mentre si delineava un'intesa fra i poteri regionali dell'Italia centrale, volta a difendere l'autonomia del papa in Roma e la sua capacità di prendere iniziative politiche contro gli aspetti più oppressivi del governo bizantino. Questa situazione si complicò e aggravò a partire dall'anno successivo (726), quando Leone III vietò a Costantinopoli il culto delle immagini sacre, come manifestazione idolatrica che comprometteva la purezza della fede e del rituale ecclesiastico, dando avvio alla loro distruzione sistematica (iconoclastia). Quali che fossero le motivazioni - religiose e politiche - di questa decisione imperiale, essa aveva il torto di andare contro una pratica devozionale consolidata nella cristianità occidentale non meno che in quella orientale; inoltre la lotta iconoclastica configurava un pesante intervento imperiale in una materia squisitamente ecclesiastica; cosa che riportava d'attualità in Roma la memoria di tutte le violenze e le vessazioni che i papi avevano subito, nel secolo precedente, per la loro opposizione alla politica teologica degli imperatori di Bisanzio. Invitato da Leone III ad aderire alle disposizioni iconoclaste, con la promessa di una sanatoria per la precedente ribellione fiscale e la minaccia di deposizione se invece avesse rifiutato, G. rispose condannando decisamente le disposizioni imperiali come eretiche e scrivendo lettere ai "cristiani" per ammonirli a guardarsi dalla nuova empietà che si profilava.
Non è chiaro se in conseguenza di queste ammonizioni papali, o per propria iniziativa, le popolazioni delle province bizantine della Pentapoli e delle Venezie si sollevarono in armi contro i decreti imperiali, dichiararono decaduto e maledetto l'esarca Paolo e i suoi sostenitori ed elessero propri duchi in sostituzione dei funzionari nominati dal governo bizantino; la difesa dell'incolumità del papa faceva comunque esplicitamente parte del loro programma. A Ravenna e negli stessi territori romani la situazione era meno chiara, perché vi si trovavano anche sostenitori della politica imperiale; nel 727 un duca Esilarato col figlio Adriano, esponenti di una famiglia della nobiltà romana che aveva antichi rancori verso G., cercarono di sollevare le popolazioni della Campagna (cioè del Lazio meridionale) contro il papa e di provocarne l'assassinio, ma vennero catturati dai Romani e messi a morte. In seguito anche un duca Pietro venne accecato dai Romani. A Ravenna, tumulti cittadini portarono all'uccisione dell'esarca Paolo. Gli insorti progettarono anche di eleggere un imperatore in Italia e di portarlo con un esercito a Costantinopoli per sostituirlo a Leone III; G. tuttavia si oppose decisamente a questo progetto. Sembra che le dottrine eretiche e i decreti dell'imperatore in materia di culto non compromettessero nella concezione del papa l'autorità istituzionale dell'Impero bizantino, che era pur sempre il titolare della sovranità nelle province italiane, e nel cui ordinamento la Chiesa romana si inquadrava, sebbene i suoi orizzonti pastorali fossero più vasti. È inoltre probabile che il papa vedesse con preoccupazione un indebolimento eccessivo dell'autorità imperiale in Italia, giacché di esso sembravano pronti ad approfittare i Longobardi. Già durante la ribellione delle province ai decreti iconoclasti alcuni castelli e città dell'Emilia bizantina e della Pentapoli si erano dati in potere del re longobardo Liutprando, mentre milizie longobarde occupavano il castello di Sutri, sui confini del Ducato romano. G. inviò insistentemente messi, lettere e doni a Liutprando per chiedere la liberazione di Sutri, che finalmente ottenne, nella forma di una donazione del castello agli apostoli Pietro e Paolo. Insieme al recupero di Cuma, questa "donazione di Sutri" del 729 è stata tradizionalmente considerata come la tappa iniziale del governo temporale del papato su terre appartenenti all'Impero bizantino. Sembra però più probabile che la motivazione devozionale addotta da Liutprando nella cessione del castello - la donazione agli apostoli - non comportasse realmente l'instaurazione di un governo temporale del papato; nel ricevere la donazione, il papa dovette agire come rappresentante del governo bizantino, quale in realtà egli poteva essere sotto il profilo politico e istituzionale, in quanto vescovo di Roma, tanto più che i capi laici della provincia, l'esarca e il duca di Roma, erano stati entrambi fisicamente eliminati dai ribelli. L'interesse del papa all'integrità del Ducato romano coincideva in questo caso con l'interesse dell'Impero.
Peraltro la situazione politica in Italia si complicò presto. Il re Liutprando cercava di profittare dell'instabilità determinata dalla ribellione delle province bizantine anche per sottoporre ad un più stretto controllo regio i Ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, i cui duchi da decenni governavano in modo sostanzialmente autonomo. Contemporaneamente sbarcava a Napoli un nuovo esarca inviato dall'imperatore Leone III, l'eunuco Eutichio, con l'incarico segreto di eliminare il papa, cosa che Eutichio cercò di fare mandando a Roma un emissario in cerca di complici. La missione fallì per la lealtà dei Romani verso il papa, e sembra che il messo dell'esarca fosse sottratto alla morte dallo stesso Gregorio II. Eutichio cercò allora di incrinare la solidarietà tra il papa ed i duchi longobardi dell'Italia centrale, soprattutto quelli di Spoleto e di Benevento, che era stata decisiva nel fallimento della spedizione dell'esarca Paolo contro Roma, ma Longobardi e Romani consolidarono invece la loro alleanza in difesa del papa. Al di là delle motivazioni religiose, consistenti nella difesa dell'ortodossia, si intravede in questi rapporti un interesse politico dei Ducati longobardi dell'Italia centromeridionale all'alleanza col papa, forse proprio a tutela della loro autonomia nei confronti del potere regio. L'esarca dovette allora proporre allo stesso re Liutprando un accordo per il consolidamento delle rispettive sfere di sovranità: l'Impero avrebbe sostenuto l'imposizione dell'autorità regia sui Ducati di Spoleto e di Benevento, mentre Liutprando avrebbe aiutato l'esarca a recuperare il controllo di Roma e delle altre province italiane. In effetti nel 729 Liutprando si recò con un esercito a Spoleto, dove ricevette la sottomissione del duca locale e di quello di Benevento; successivamente avanzò verso Roma accampandosi davanti alle mura della città, nel cosiddetto Campo di Nerone. Secondo una versione interpolata della biografia di G., egli avrebbe avuto l'intenzione di far catturare il papa dall'esarca. Le cose andarono però diversamente, perché G., uscito a parlamentare col re, fece appello ai suoi sentimenti religiosi, sicuramente profondi, ottenendo garanzie per la propria incolumità e la propria autorità. Liutprando si fermò a visitare infatti la tomba dell'apostolo Pietro deponendovi in segno di devozione le insegne regali. Si adoperò inoltre a riconciliare il papa con l'esarca, probabilmente all'interno di un piano complessivo di ristabilimento dell'ordine in Italia.
Quali che fossero i contenuti dell'accordo, G. diede concreta dimostrazione di lealtà nei confronti dell'Impero, quando un certo Tiberio Petasio si ribellò nel castello di Monterano, nel Lazio settentrionale, proclaovrendosi imperatore ed ottenendo il sostegno degli abitanti di alcuni castelli vicini; una rivolta che preoccupò l'esarca, evidentemente ancora privo di mezzi militari, ma che fu rapidamente repressa dall'esercito romano inviato dal papa contro Monterano sotto la guida di funzionari ecclesiastici. Il ribelle fu ucciso e la sua testa inviata a Costantinopoli. In quest'episodio si può finalmente riconoscere un atto di giurisdizione pubblica del papa, che dà direttive all'esercito romano, su cui sembra che l'esarca non avesse più autorità, così come sembra che mancassero allora comandanti appartenenti all'amministrazione militare. È possibile che l'accordo con l'esarca avesse riconosciuto al papa poteri di governo in Roma e nel Ducato romano; un governo che comunque si esercitava nel rispetto della sovranità imperiale e in accordo con l'esarca stesso, che rimaneva il rappresentante dell'imperatore in Italia. D'altra parte sembra che il comportamento di G. nell'episodio di Tiberio Petasio inducesse l'imperatore a revocare le istruzioni relative alla sua eliminazione. Tuttavia la contesa iconoclastica non era terminata. Nel gennaio del 730 Leone III depose il patriarca costantinopolitano Germano, difensore del culto delle immagini sacre, sostituendolo con un prete Anastasio, favorevole alla dottrina imperiale in materia. Secondo l'uso, il nuovo patriarca inviò al papa la lettera sinodica in cui comunicava la propria elezione ed esponeva la dottrina della fede. Esaminatone il testo però, G. rifiutò di riconoscere la dignità patriarcale ad Anastasio e scrisse all'imperatore esortandolo a rinunziare a quelle miserevoli manovre.
A G. sono attribuite anche due lettere indirizzate a Leone III sulla questione dell'iconoclastia. Esse contengono, oltre ad una discussione teologica sulla liceità del culto delle immagini ed alla precisazione delle competenze e dei limiti rispettivi dell'autorità imperiale e di quella sacerdotale, alcune originali espressioni che sono state interpretate come sintomo del distacco ideale del papato dall'Impero bizantino accompagnato dalla già matura consapevolezza che l'Occidente dei Regni barbarici cristiani costituiva ormai l'ambito geografico e spirituale in cui l'autorità del vicario dell'apostolo Pietro poteva affermarsi e venire riconosciuta senza contese. In una delle lettere veniva addirittura adombrata la possibilità che il papa lasciasse Roma, troppo esposta alle violenze dell'imperatore bizantino, e si recasse nel più remoto Occidente a completare l'opera di evangelizzazione che gli si richiedeva. In questi concetti si è ravvisato l'inizio del processo che nel corso dell'VIII secolo avrebbe visto realmente un papa (Stefano II) recarsi in Francia per stabilire un accordo con i Franchi, ed il papato distaccarsi progressivamente dall'Impero bizantino e finalmente riportare l'Impero in Occidente, con l'incoronazione di Carlomagno. Peraltro la critica è oggi orientata a considerare le due lettere come un prodotto confezionato a Bisanzio nei primi decenni del IX secolo, quando l'iconoclastia ebbe un rilancio, in ambienti ecclesiastici favorevoli al culto delle immagini e contrari invece all'autorità dell'imperatore sulla Chiesa bizantina, che cercavano nel papato - proprio per quanto esso aveva fatto nel secolo precedente in difesa dell'ortodossia - un sostegno delle proprie posizioni. I due testi entrarono infatti a far parte della liturgia bizantina, venendo letti nella cosiddetta "domenica dell'ortodossia", istituita nell'843, dopo il trionfo definitivo del culto delle immagini a Bisanzio. In essi il rapporto del papato con l'Occidente era dunque descritto sulla base della conoscenza di quanto era avvenuto dopo l'epoca di Gregorio II. Resta incerto se e fino a che punto i due testi abbiano utilizzato lettere genuine di G. a Leone III, che peraltro non sono pervenute.
G. non ebbe il tempo di conoscere le reazioni imperiali a queste sue nuove iniziative. Morì infatti l'11 febbraio (giorno in cui lo si commemora) del 731. Fu sepolto in S. Pietro.
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