Gregorio III, santo
Di origine siriaca, apparteneva probabilmente ad una di quelle famiglie giunte a Roma dall'Oriente a seguito dell'occupazione araba nelle province dell'Impero bizantino. Non se ne conosce la data di nascita. La biografia del papa mette in risalto il fatto che egli conosceva tanto la lingua greca che la latina e loda la sua conoscenza dei salmi e l'attitudine alle celebrazioni liturgiche. Probabilmente a Roma ottenne la consacrazione a presbitero, forse del titolo di S. Crisogono, cui dedicò particolari cure quando divenne papa. La sua elezione sarebbe avvenuta per spontanea iniziativa della nobiltà e del popolo romano, mentre prestava ossequio al feretro del predecessore, Gregorio II. Fu consacrato il 18 marzo del 731, in un momento in cui era vivissimo il conflitto con l'imperatore bizantino Leone III per la questione del culto delle immagini. G. gli inviò subito un nuovo solenne ammonimento, che però non giunse a destinazione, perché il presbitero latore del messaggio non osò compiere la missione e in un primo momento tornò indietro; quando, minacciato di deposizione dal papa, intraprese finalmente il viaggio per Costantinopoli, il legato venne trattenuto in Sicilia dai funzionari imperiali, che gli sequestrarono le lettere papali. Il papa convocò allora un concilio che ebbe luogo il 1° novembre del 731; oltre al clero romano, vi presero parte il patriarca di Grado Antonino e l'arcivescovo di Ravenna Giovanni, cioè i più alti prelati delle province bizantine in Italia, con altri novantatré vescovi provenienti dalle "parti di Esperia", un termine che nei documenti papali di quegli anni designa genericamente l'Occidente. Il concilio sanzionò, sembra per la prima volta in modo canonico, l'ortodossia e l'antichità del culto delle immagini di Cristo, della Vergine e di tutti gli apostoli e i santi, decretando la scomunica e l'espulsione dalla Chiesa universale per chiunque avesse distrutto, profanato o insultato le sacre immagini. Le costituzioni sinodali furono inviate dal papa a Costantinopoli, ma ancora una volta il messaggero fu arrestato in Sicilia e i documenti sequestrati, così come furono sequestrate le suppliche inviate da tutte le popolazioni delle province bizantine in Italia agli imperatori Leone III e Costantino V (741-775) suo figlio per chiedere il ristabilimento del culto delle immagini. Il papa riuscì tuttavia a far pervenire a Costantinopoli lettere esortatorie che definivano la fede ortodossa e sollecitavano il ristabilimento delle immagini sacre.
Contemporaneamente G. prese un'altra iniziativa di grande significato simbolico, facendo edificare all'interno della basilica di S. Pietro un oratorio in onore del Salvatore, della Madre di Dio, di tutti i martiri e i confessori, in cui istituì un ufficio liturgico perpetuo. Nelle intenzioni del papa la fondazione doveva essere probabilmente una sorta di santuario del culto dei santi che si contrapponeva all'empietà dell'imperatore bizantino. G. fece sanzionare le disposizioni sulla speciale liturgia di questo santuario, affidata a tre monasteri collocati presso S. Pietro (SS. Giovanni e Paolo, S. Stefano Maggiore, S. Martino), da un sinodo celebrato a Roma il 12 aprile 732, i cui deliberati furono incisi su tre lastre di marmo collocate all'interno dell'oratorio. Particolarmente significativa è la circostanza che gli atti del sinodo non vennero datati con gli anni degli imperatori regnanti, come avrebbe voluto l'uso protocollare, in quanto esposti alla scomunica.
La determinazione con cui G. procedette alla condanna dell'iconoclastia è nuova rispetto al comportamento del predecessore, Gregorio II, il quale aveva bensì denunciato il carattere eretico della distruzione delle immagini e ammonito ripetutamente Leone III a rinunciarvi, senza però giungere alla scomunica; aveva anzi unito all'opposizione religiosa atti di lealtà politica nei confronti dell'Impero. L'origine orientale di G. poté renderlo particolarmente sensibile agli aspetti religiosi e devozionali della questione; certo è che promosse il culto delle immagini a Roma anche facendo realizzare numerose immagini di Cristo, della Vergine e dei santi, spesso rivestite di metalli preziosi, che pose nelle principali basiliche. L'esarca Eutichio, rappresentante del governo imperiale in Italia, che risiedeva a Ravenna, era privo di reali poteri politici e militari e non prese misure contro il papa; probabilmente egli era anche vincolato da un accordo, stipulato con il suo predecessore Gregorio II, che gli riconosceva poteri civili e militari nella città di Roma e nel suo territorio, il Ducato romano, pur nell'ambito della sovranità imperiale. All'inizio del pontificato di G., l'esarca aveva anzi donato al nuovo papa sei colonne tortili di onice che questi aveva posto davanti alla confessione di S. Pietro. Invece l'imperatore reagì duramente alla presa di posizione papale. Probabilmente alla fine del 732 inviò in Italia una spedizione navale agli ordini dello stratego Manes, che però fece naufragio nell'Adriatico. Allora Leone III risolse di punire l'opposizione del papa colpendo gli interessi economici ed ecclesiastici della Chiesa di Roma nei territori su cui l'Impero esercitava ancora l'effettivo controllo. Nel 732 o 733 confiscò infatti tutte le proprietà della Chiesa romana in Sicilia e contemporaneamente sottopose alla giurisdizione ecclesiastica del patriarca di Costantinopoli le province ecclesiastiche di Calabria, Sicilia e Illirico che fin dall'antichità erano state soggette ai papi. I due provvedimenti ebbero grandi ripercussioni. Dal punto di vista ecclesiastico la perdita della giurisdizione sulle province meridionali, cui appartenevano anche diversi vescovati greci, fece venir meno un importante collegamento del papato con la cristianità di lingua greca, accentuando la sua caratteristica di patriarcato della cristianità latina. Dal punto di vista economico, la perdita dei patrimoni siciliani comportò una significativa riduzione delle entrate del papato. Secondo la testimonianza del cronista bizantino Teofane, i patrimoni siciliani rendevano al papato 3 talenti e mezzo d'oro l'anno, ossia 350 libbre, corrispondenti a loro volta a 25.200 soldi d'oro (secondo altre interpretazioni, la cifra data da Teofane si riferirebbe alle imposte che il papato versava all'Impero per le proprietà siciliane; in questo caso il reddito sarebbe stato superiore di circa due volte). Sebbene non si conosca l'incidenza percentuale di questa rendita nel complesso delle finanze pontificie (il papato possedeva diversi altri patrimoni in regioni fuori dalla portata dell'imperatore bizantino e nello stesso Ducato romano), la perdita era sicuramente notevole.
Ciò nonostante G. fu in grado di svolgere una consistente attività di restauri e abbellimenti in molte chiese di Roma: rifece i tetti, crollati o pericolanti, di S. Paolo, S. Maria Maggiore e S. Maria ad Martyres (Pantheon); inoltre restaurò una basilica Calisti forse da identificare con S. Maria in Trastevere. Ampliò le chiese delle diaconie di S. Maria in Aquiro e dei SS. Sergio e Bacco; decorò molte chiese con pitture, parati e vasellame prezioso. Al restauro della basilica di S. Crisogono sono stati riferiti due gruppi di pitture rinvenuti sulle pareti meridionale e settentrionale dell'aula e appartenenti ad un unico ciclo in cui sono raffigurati alcuni santi clipeati identificati da didascalie verticali (Agapito, Felicissimo, Sisto II). Un'iscrizione dipinta, conservata solo parzialmente, fu eseguita insieme agli affreschi per commemorare il restauro e i doni che G. offrì alla chiesa. Al pontefice viene anche attribuita la costruzione della cripta semianulare, realizzata per custodire, in un'apposita confessio, le reliquie dei martiri fatte traslare dai cimiteri del suburbio. G. riedificò inoltre dalle fondamenta la chiesa dei SS. Marcellino e Pietro "iuxta Lateranis". Particolare cura dedicò all'organizzazione degli uffici liturgici nelle principali basiliche, affidando a comunità monastiche insediate nei pressi la celebrazione dell'ufficio notturno e diurno in S. Pietro, nel S. Salvatore in Laterano e in S. Crisogono; si preoccupò inoltre di fornire risorse materiali sufficienti alle diaconie, monasteri che praticavano l'assistenza dei poveri. Restaurò anche alcune chiese delle catacombe, disponendo che vi fosse celebrata la commemorazione dei santi e attribuendo a questa funzione risorse tratte dalle rendite papali (Le Liber pontificalis, pp. 419-20). In particolare il papa promosse interventi di rifacimento nella basilica subdiale dei SS. Processo e Martiniano sulla via Aurelia, di localizzazione incerta, e nei santuari subdiali e ipogei del cimitero di Pretestato sulla via Appia. Inoltre restaurò i tetti della basilica Marci sulla via Appia, da identificare con la basilica circiforme rinvenuta recentemente nel sopratterra del comprensorio callistiano. Nella biografia di G. viene menzionata, per la prima e unica volta, la chiesa di S. Genesio sulla via Tiburtina, da localizzare nel sopratterra del cimitero di Ippolito. Inoltre riprese e realizzò in buona parte un'impresa che non era riuscita al suo predecessore, ossia il restauro delle mura di Roma. È probabile che ciò gli fosse possibile perché ormai al papa era riconosciuta, dagli stessi funzionari bizantini residenti in Italia, un'autorità civica in Roma; la biografia di G. mette in rilievo che l'opera fu finanziata con le risorse proprie del papa, che pagò il vitto agli operai e la calce per le costruzioni. G. fece anche rialzare le mura crollate di Civitavecchia, forse per dotare Roma di uno scalo marittimo complementare o alternativo a quello di Porto alle foci del Tevere, divenuto necessario anche perché l'imperatore aveva fatto presidiare lo scalo di Terracina, nel Lazio meridionale.
Nel complesso non sembra che i provvedimenti punitivi di Leone III comportassero serie limitazioni all'evergetismo civico ed ecclesiastico del papa. G. si trovò però presto a dover fronteggiare i riflessi del conflitto iconoclastico nei rapporti tra l'Impero bizantino e il Regno longobardo in Italia. Sotto il suo predecessore era stato raggiunto un accordo fra il re longobardo Liutprando e l'esarca bizantino Eutichio, consistente nel reciproco riconoscimento delle due sfere di sovranità longobarda e bizantina in Italia; in particolare al re Liutprando dovette essere riconosciuta autorità sui Ducati di Spoleto e Benevento, da tempo tendenti all'autonomia, nonché il possesso dei castelli e delle città già bizantini in Emilia, che si erano spontaneamente sottomessi al suo potere. Questo accordo venne rotto dal duca bizantino di Perugia, Agatone, che tentò di riconquistare Bologna, una delle città bizantine passate ai Longobardi. Sebbene il tentativo fallisse, esso sembra aver provocato la reazione dei Longobardi che conquistarono la stessa Ravenna, da cui l'esarca e l'arcivescovo fuggirono, coi maggiorenti locali, riparando probabilmente nel territorio veneto, anch'esso soggetto all'Impero. G. intervenne allora in sostegno dell'esarca, chiedendo al patriarca di Grado Antonino di esortare i Veneti a difendere la causa dell'Impero e prestare il dovuto servizio agli imperatori Leone III e Costantino V, cacciando i Longobardi da Ravenna, in modo che venisse ripristinata l'organizzazione imperiale nel rispetto della fede ortodossa. In effetti una spedizione navale veneta riuscì a riconquistare la città di Ravenna, riportandovi l'esarca. La cronologia dei fatti è però incerta: taluni studiosi li pongono nel 732; altri, più probabilmente, nel 737-738.
L'iniziativa del papa dimostra comunque che, nonostante il conflitto religioso con l'imperatore, egli intendeva conservare le province dell'Italia centro-settentrionale al governo bizantino, sia pure valorizzando la loro autonomia e la partecipazione del papato alla loro difesa. Nella lettera al patriarca di Grado egli definiva infatti Esarcato e Pentapoli come "fines nostri" (nostro territorio), in contrapposizione alle "terre dei longobardi". In quell'occasione gli imperatori Leone e Costantino, nonostante la condanna per la loro politica ecclesiastica, venivano ancora qualificati "figli" del papa. L'Impero bizantino conservava dunque, nella concezione di questo papa di origine orientale, il ruolo di riferimento politico essenziale per la Chiesa romana; inoltre G. doveva avvertire che l'estensione del Regno longobardo a danno del governo bizantino nell'Italia centro-settentrionale avrebbe compromesso anche l'autonomia e l'autorità politica che il papato aveva conquistato non solo in Roma, ma anche nelle province bizantine.
In questo contesto inizia a manifestarsi quell'ostilità pregiudiziale dei papi nei confronti dei Longobardi, che caratterizzerà tutta la successiva politica pontificia del secolo VIII e sarà tra le cause della finale caduta del Regno longobardo ad opera di Carlomagno. Del resto fu presto evidente che l'aggressione longobarda rivolta contro i territori imperiali poteva coinvolgere lo stesso territorio romano: nel 739 il duca di Spoleto Trasmondo occupò infatti il castello di Gallese, ai confini del Ducato romano. G. riuscì a persuadere il duca che quel gesto danneggiava non solo l'Impero, ma il papa stesso, e poté riscattare il castello per denaro; una volta ottenutolo, lo incorporò nuovamente nella "santa repubblica", cioè nell'Impero romano-bizantino, attribuendolo però concretamente all'esercito romano, che poteva possedere beni come ente giuridico, e che forse in quell'occasione assunse l'esercizio dei diritti pubblici nel castello. Pur avendo recuperato lui stesso Gallese, il papa non attribuì alla Chiesa romana i diritti giurisdizionali dell'Impero; e tuttavia pose in essere una novità istituzionale, che dava originali poteri ad una istituzione statale quale l'esercito, di cui si accentuava il carattere cittadino e la proiezione nel territorio regionale. L'accordo con il duca Trasmondo doveva prevedere anche il ristabilimento di quelle relazioni privilegiate tra il papato e il Ducato spoletino che si erano già manifestate durante il precedente pontificato e che in certa misura erano rivolte a limitare il potere del re longobardo. Infatti nello stesso 739 il re Liutprando invase il Ducato spoletino da cui Trasmondo fuggì riparando in Roma. Il re si diresse allora contro la stessa Roma e poiché G. e il duca di Roma Stefano rifiutarono di consegnargli Trasmondo, assediò la città, devastandone i dintorni e catturando molti nobili romani. Non riuscendo comunque ad aver ragione della resistenza, nell'agosto 739 tolse l'assedio, ma rientrando nel Regno occupò i quattro castelli di Amelia, Orte, Bomarzo e Blera, che controllavano il collegamento di Roma con l'Italia settentrionale, lasciandovi guarnigioni longobarde.
Durante l'assedio G. inviò una pressante richiesta d'aiuto al principe dei Franchi Carlo Martello, invitandolo a soccorrere la Chiesa romana e il suo "popolo peculiare", identificato con gli abitanti di Roma, per salvarli dalla persecuzione dei Longobardi. G. doveva ricevere informazioni sulla situazione politica d'Oltralpe non solo dai pellegrini che giungevano a Roma, ma in particolare da Bonifacio, l'anglosassone evangelizzatore della Germania cui nel 732 aveva conferito l'autorità di arcivescovo per rafforzare l'opera di organizzazione della Chiesa in Germania che quegli andava compiendo. Nel 737 Bonifacio era tornato a Roma per la terza volta, ed aveva discusso col papa il futuro dell'evangelizzazione e della Chiesa in Germania, probabilmente informandolo anche dell'interesse di Carlo Martello per le missioni. Il papa, che nel 739 era ancora in rapporto epistolare con Bonifacio, poté profittare di questi contatti per cercare di coinvolgere Carlo Martello nella difesa del papato. Il suo appello non ebbe però effetto; Carlo Martello era infatti alleato di Liutprando, con cui aveva collaborato in diverse imprese militari. Tuttavia il principe inviò a Roma due abati franchi con doni per s. Pietro e probabilmente chiese spiegazioni a Liutprando e all'altro re associato al trono Ildeprando, giacché in una lettera dell'anno seguente (740) G. lamentava che egli avesse prestato fede più alle giustificazioni dei re longobardi che alle denunce della Chiesa romana e ripeteva l'appello a difendere la Chiesa di s. Pietro e il suo popolo peculiare.
L'idea del "popolo peculiare" aveva un rilievo politico oltre che pastorale: facendo degli abitanti di Roma l'oggetto di una particolare protezione da parte del principe degli apostoli, li distingueva dagli altri sudditi dell'Impero bizantino e li legava al papa, che diveniva loro rappresentante e difensore in quanto successore e vicario dell'apostolo. La lettera papale contiene anche interessanti accenni alle risorse economiche del papato, che possedeva nel territorio laziale centri di organizzazione e raccolta della produzione agricola e riceveva dal territorio ravennate sussidi per le spese di assistenza ai poveri e di culto nelle basiliche romane - segno che in quelle province i suoi patrimoni non erano stati confiscati. Il papa lamentava invece che tali risorse della Chiesa venivano compromesse dall'aggressione dei Longobardi.
Comunque, quando Liutprando tolse l'assedio, l'esercito romano riportò Trasmondo nel suo Ducato, di cui questi riprese il completo controllo nel dicembre del 739. Sembra che il duca promettesse al papa, in cambio dell'aiuto ricevuto, di recuperare i quattro castelli occupati dal re. Nel frattempo a Benevento veniva eletto il nuovo duca Godescalco, che aderiva anch'egli all'intesa col papa. G. insisteva dunque nella direttiva di creare un'intesa politica e militare tra gli eterogenei potentati dell'Italia centrale, egualmente ostili all'espansione dell'autorità del re longobardo, per compensare l'isolamento del Ducato romano, cui sembra che l'esarca non fosse in grado di portare alcun aiuto concreto. Contemporaneamente rinnovava l'appello ai Franchi, proponendo la difesa della Chiesa romana e del suo popolo peculiare come atto di devozione all'apostolo Pietro. Sembra però poco probabile la notizia riportata da alcune cronache franche dell'VIII secolo, secondo cui G. avrebbe progettato di sottrarsi alla sovranità dell'Impero bizantino offrendo a Carlo Martello il dominio temporale su Roma. G. non ebbe comunque il tempo di vedere i risultati della spregiudicata trama di alleanze che aveva tessuto.
Il duca Trasmondo non diede corso all'impegno assunto e Liutprando stava già preparando una nuova spedizione militare contro Roma, quando G. morì, il 28 novembre 741. Fu sepolto in S. Pietro nell'oratorio dedicato alla Vergine da lui stesso fatto costruire. La sua memoria liturgica viene celebrata il 10 dicembre.
fonti e bibliografia
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