GUIDO, santo
Figlio di Alberto e Marozia, nacque nella località oggi scomparsa di Villa Casamarensi o Casamaria, nei pressi di Ravenna, probabilmente tra il 950 e il 970.
La sua presunta appartenenza a una "familia Strambiatorum", sostenuta a partire dal sec. XVI dagli eruditi locali, non trova riscontri nelle fonti, in perfetta sintonia, del resto, con gli usi notarili di un'epoca nella quale il sistema della cognominazione non si era ancora affermato.
Stando ai suoi biografi, G. si formò a Ravenna nelle arti liberali, acquisendo una certa competenza nel diritto e nella musica che dimostrò poi nel suo ruolo di abate, come sembra potersi intendere da alcuni passi del De ignoto cantu di Guido di Arezzo (Gerbert), che lo conobbe quando soggiornò a Pomposa.
Deciso ad abbandonare lo stato laicale per dedicarsi a una qualche forma di vita religiosamente impegnata, G. si recò in pellegrinaggio a Roma, da dove avrebbe voluto raggiungere la Terrasanta. Questo progetto non si realizzò; G. si trattenne a Roma per diverso tempo, ricevette la tonsura ed entrò a far parte del clero romano. Fece poi ritorno a Ravenna per abbracciare lo stato monastico sotto la guida del monaco Martino, abate di Pomposa.
Alla scelta di G. di mettersi alla scuola di Martino non era probabilmente estranea la fama di cui il pio eremita godeva anche fuori dell'ambiente locale, se è vera la notizia che il suo incarico a Pomposa era stato voluto dalla Curia pontificia. Il monastero di Pomposa, di osservanza benedettina, risentiva nella sua organizzazione dei principî della riforma monastica romualdina che prevedeva, accanto al cenobio, l'esistenza di un eremo nel quale i monaci più zelanti ed esperti, desiderosi di compiere un'esperienza religiosa in solitudine e raccoglimento, potessero ritirarsi a vivere per qualche tempo, continuando a far parte della comunità monastica. Una certa preminenza degli eremiti sui cenobiti si manifestava nelle disposizioni relative all'elezione degli abati, scelti soltanto dal gruppo degli eremiti, ai quali necessitava comunque il consenso dell'intera comunità. Va però sottolineato che secondo alcuni (Samaritani, 1965, p. 42) tale disposizione andrebbe letta in senso anticluniacense, come tappa del processo di sottrazione all'autorità del monastero pavese di S. Salvatore, perseguito dai monaci pomposiani, piuttosto che come sintomo di un orientamento nettamente eremitico che, comunque, si sarebbe attenuato con il tempo, in particolar modo proprio per impulso di Guido. Da tali caratteristiche risultò una forma particolare di osservanza della regola benedettina, che le fonti definiscono "Regula Sanctae Mariae de Pomposa", e che fu uno degli elementi fondanti delle aspirazioni autonomistiche dell'ente.
Tra la fine del sec. X e l'inizio dell'XI la posizione giuridica di Pomposa mutò radicalmente, passando dalla dipendenza giuridica dal monastero imperiale di S. Salvatore di Pavia (che aveva il diritto di usufruire delle rendite dell'ente), il cui orientamento cluniacense non era però ben visto dalla comunità pomposiana, alla giurisdizione temporale e spirituale dell'arcivescovo di Ravenna. Nel 1001, infine, Pomposa ottenne da Ottone III di passare all'immediata soggezione all'imperatore, sottraendosi così all'autorità dell'arcivescovo, cui veniva tolto anche il diritto di benedire i nuovi abati, concesso invece ai vescovi di Comacchio. La potestà sul monastero passò ancora negli anni seguenti nelle mani ora dell'uno, ora dell'altro pretendente - S. Salvatore e soprattutto gli arcivescovi ravennati e l'imperatore -, pedina importante nel complesso scacchiere politico della prima metà del sec. XI.
L'abate Martino guidò G. nei suoi primi anni di formazione monastica, che si svolse sia nell'eremo sia nel cenobio; qui, secondo quanto riferiscono le biografie, dovette ricoprire diversi uffici e incarichi, acquistando una diretta conoscenza dei meccanismi di funzionamento di un ente monastico.
Nel 1001 G. divenne abate - secondo alcuni priore - del monastero di S. Severo in Classe di Ravenna, anch'esso gravitante nell'orbita camaldolese. Degli anni in cui fu a capo di S. Severo non si ha alcuna notizia; tra 1005 e 1010, probabilmente nel 1008, tornò a Pomposa come abate.
La sua quarantennale attività a capo del monastero fu intensa e molteplice, tale da determinare un sensibile incremento di tutti gli aspetti della vita dell'ente, che divenne centro di prima importanza dal punto di vista spirituale e materiale. A tutela delle prerogative dell'ente, nei lunghi anni del suo abbaziato G. chiese e ottenne più volte conferme di beni e privilegi da papi e imperatori, dei quali seppe conquistare fiducia e stima. Negli anni Venti del secolo si procedette alla costruzione di nuovi edifici monastici e all'ampliamento della chiesa, consacrata nel 1026, forse anche sotto la spinta di una robusta crescita numerica della comunità, che verso l'inizio degli anni Quaranta avrebbe raggiunto il centinaio di membri, secondo la testimonianza di Pier Damiani che vi soggiornò per circa due anni. Forte del suo ruolo di primo piano nel processo di rinnovamento della Chiesa, Pomposa ricercò e ottenne diverse concessioni e conferme di beni e privilegi dai pontefici e dagli imperatori.
Durante il suo abbaziato G. diede un forte impulso all'accrescimento del patrimonio monastico, ricevendo molte donazioni da papi, imperatori e privati e diversificandone la composizione: accanto alle saline e alle peschiere, vennero acquisiti anche molti appezzamenti di terra, in parte organizzati in grandi massae o curtes tra Codigoro, Lagosanto e Ostellato, ma anche sparsi in una vasta area che andava da Ravenna a Bologna, da Modena a Fano e Pesaro e fino a Perugia. In diversi casi le acquisizioni patrimoniali intaccarono le proprietà dell'episcopio ravennate, provocando più di una vertenza tra i monaci e gli arcivescovi.
Tra 1040 e 1042, chiamato da G. a illustrare le Sacre Scritture alla comunità, soggiornò a Pomposa Pier Damiani, che citò l'abate tra i beati viri della sua epoca i quali "sanctae conversationis studio floruerunt". Testimonianza del suo soggiorno sono una lettera indirizzata ai monaci pomposiani e il De perfectione monachorum (J.-P. Migne, Patr. Lat., CXLV, coll. 320 e 141 s. rispettivamente).
Negli anni Quaranta del secolo Pomposa e il suo abate sembrano aderire pienamente al nascente schieramento riformatore, guidato da Enrico III. Premessa a tale adesione fu anzitutto il cambiamento del tono delle relazioni, in passato spesso difficili, quando non apertamente ostili, con l'episcopio ravennate, allorché era stato eletto arcivescovo Gebeardo, canonico tedesco legato alla corte imperiale ed esponente della corrente riformatrice animata da Corrado II. Nel 1034 G. fu presente a un sinodo presieduto da Gebeardo a Ravenna; nell'aprile 1037 l'arcivescovo appoggiò presso l'imperatore Corrado II la richiesta pomposiana di ottenere il mundeburdio imperiale, annullando così gli effetti di un documento del 1027 dello stesso Corrado, che aveva nuovamente sottoposto Pomposa a S. Salvatore di Pavia. Altra testimonianza del nuovo clima di collaborazione sono le donazioni, le conferme e le concessioni in enfiteusi di beni appartenenti all'episcopio e la disposizione testamentaria relativa alla sua sepoltura nel recinto monastico. Sotto il governo di Gebeardo si definirono i rapporti patrimoniali tra Pomposa e Ravenna, con l'individuazione dell'estensione e natura dei diritti vescovili sui beni ceduti al monastero.
La centralità culturale e politica di Pomposa sotto l'abate G. è testimoniata anche dagli intensi rapporti con l'aristocrazia, fra i quali sono particolarmente significativi e documentati quelli con il marchese Bonifacio di Canossa. Il racconto del biografo di Bonifacio, Donizone, fa riferimento a una frequentazione assidua tra il marchese, negli ultimi anni della sua vita, e la comunità monastica - visitata annualmente con "optima dona" - introducendo al riguardo uno dei temi caratteristici del movimento riformatore, quello della compravendita delle chiese. Il "sacer abbas" G. - che personalmente avrebbe flagellato il marchese, in segno di penitenza per i suoi peccati di simonia - figura come autorevole difensore della libertas Ecclesiae in uno dei suoi nodi più problematici, quello dell'ingerenza dei laici nella vita della Chiesa. Al di là dell'interesse suscitato dalle nuove forme di vita eremitica, così ben rappresentate a Pomposa, il monastero era al centro di un intreccio di interessi e relazioni politiche che legavano, intorno all'ente e al suo abate G., il vescovo Gebeardo, il marchese Bonifacio e molti alleati dell'Impero provenienti dal mondo germanico.
Con l'elezione di Enrico III nel 1045 il coinvolgimento di G. nel progetto imperiale di riforma divenne pieno e aperto, come è testimoniato, tra l'altro, dalla riconferma dell'immediata soggezione di Pomposa al sovrano, "ut regalis esset, nullis dominantium personis subiecta", con un diploma emanato nel settembre 1045 per intervento della regina Agnese e dell'arcivescovo di Colonia e arcicancelliere Ermanno, nonché del cancelliere Unfrido, futuro arcivescovo di Ravenna.
La collaborazione fra Enrico e i monasteri emiliani e romagnoli, tra cui soprattutto Pomposa, ebbe poi importanza notevolissima nella politica italiana del sovrano l'anno successivo, quando per la prima volta scese in Italia per essere incoronato e per risolvere i gravissimi problemi della cattedra pontificia, contesa in quel momento da tre papi. Una missione dal "vasto significato politico" (Violante, pp. 43 s.) venne inviata a G. per sollecitare un incontro personale con il sovrano in occasione del suo viaggio in Italia.
Alla Dieta convocata da Enrico a Pavia fu infatti espressamente invitato anche G., che si mise in viaggio ma, ormai anziano, si ammalò lungo la strada e morì, il 31 marzo 1046, a Borgo San Donnino (oggi Fidenza), nei pressi di Parma.
Il suo corpo fu trasportato a Parma, in attesa di essere riportato a Pomposa. L'assemblea convocata da Enrico ebbe luogo soltanto nell'ottobre dello stesso anno; quando, nel novembre, l'imperatore partì per Roma, passando per Parma fece prelevare le spoglie di G. e le fece trasportare a S. Zeno di Verona. L'anno successivo, ritornando in Germania, la salma dell'abate fu trasportata per suo ordine a Spira e deposta, il 4 maggio 1047, nella chiesa di S. Giovanni, che assunse da allora anche l'intitolazione a S. Guido. Il culto del santo abate si diffuse subito dopo la sua morte, restando però limitato alla diocesi di Spira, a Pomposa e all'arcidiocesi di Ravenna.
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