ILARO, santo
Nacque in Sardegna, da Crispino, in data sconosciuta; sono oscure anche le circostanze in cui si trasferì a Roma, ma alla vigilia del secondo concilio di Efeso è diacono di papa Leone, il quale riponeva in lui tanta fiducia da nominarlo tra i legati che avrebbero dovuto rappresentarlo all'imminente concilio, insieme con Giulio vescovo di Pozzuoli, il notaio Dulcizio e Renato, presbitero di S. Clemente.
Indetto da Teodosio II, il concilio del 449 passò alla storia come il "latrocinio di Efeso" (così lo definì Leone in ep. 95 Ad Pulcheriam) per l'irregolarità con cui si svolse: rappresentò infatti uno dei momenti più drammatici nella storia della controversia monofisita. Fu convocato dall'imperatore sotto le forti pressioni del partito monofisita che tutto predispose in funzione della riabilitazione di Eutiche, condannato come eretico e scomunicato dal patriarca Flaviano, l'anno precedente, nel sinodo permanente di Costantinopoli (22 novembre 448). Anziano monaco, onorato e rispettato dal popolo per il suo rigore morale e ascetico, Eutiche era tenuto in gran conto anche alla corte imperiale, in quanto padrino e padre spirituale di Crisafio, consigliere del debole Teodosio che ne risentiva l'influenza in modo determinante. Partigiano di Cirillo, ne condivideva pienamente la dottrina, ma, come tutti i seguaci più ferventi, l'aveva portata alle estreme conseguenze insistendo sull'unicità della natura di Cristo dopo l'unione; sembra che abbia anche sostenuto la non consustanzialità della carne di Cristo rispetto a quella umana. I suoi avversari, tra cui ebbe funzione di spicco Eusebio di Dorilea, già accusatore di Nestorio, nel condannarlo evidentemente non seppero valutare le conseguenze cui avrebbe portato la scomunica di un personaggio che aveva un così forte seguito nel popolo e nella corte imperiale. La reazione dei monofisiti non tardò a manifestarsi ed esplose a Efeso in forma violenta, come testimoniano gli avvenimenti. Al concilio, presieduto da Dioscoro di Alessandria, fu interdetta la partecipazione a Teodoreto e a molti antiocheni mentre i vescovi invitati furono accuratamente scelti tra i sostenitori di Eutiche; alcuni funzionari imperiali, inoltre, vi ebbero accesso e facoltà di intervento, ma coloro che erano stati gli accusatori di Eutiche a Costantinopoli furono privati del diritto di voto.
I. giunse a Costantinopoli con gli altri legati (tranne Renato che era morto a Delo, durante il viaggio) il 30 luglio. L'ambasceria papale prese subito contatto con Flaviano, patriarca di Costantinopoli, al quale Leone aveva mandato alcune lettere tra le quali quella che verrà definita il Tomus I, ad Flavianum contenente la formula cristologica a cui si adeguerà poi il concilio di Calcedonia del 451.
L'8 agosto si aprì il concilio di Efeso, i cui verbali, redatti dai notai di Dioscoro, sono stati inseriti negli atti del concilio di Calcedonia del 451. Si diede lettura delle lettere imperiali di convocazione, ma Dioscoro eluse la richiesta, avanzata più volte da Giulio di Pozzuoli, di leggere i documenti pontifici. In seguito Eutiche fu invitato a leggere la sua dichiarazione di fede e, senza che si ascoltassero le opinioni dei suoi accusatori, non essendo stato riscontrato alcun errore nella posizione del monaco, si decise per la riabilitazione. I verbali non riportano tentativi di opposizione da parte dei legati romani, ma gli storici contemporanei affermano che ce ne furono (Gesta de nomine Acacii). Si passò poi all'esame della posizione degli accusatori di Eutiche: Dioscoro dimostrò che Flaviano, contro il simbolo niceno, aveva affermato le due nature in Cristo e aveva commesso un'ingiustizia scomunicando Eutiche; ne propose quindi la deposizione. Si levò allora l'immediata protesta del patriarca cui fece seguito la reazione sdegnata di I. che gridò: "Contradicitur", come testimoniano stavolta i resoconti dei notai che riportano in latino l'esclamazione del diacono, traducendola poi in greco. La situazione precipitò: Dioscoro, fingendosi minacciato dai vescovi che si appressavano al suo trono per supplicarlo di rivedere la condanna, fece entrare le guardie imperiali, i monaci eutichiani e gruppi di teppisti armati di bastoni; mentre Flaviano, malmenato e ferito, era tenuto a bada dai soldati e dettava in quel frangente l'appello a Leone, gli altri vescovi furono costretti con la forza e le minacce a sottoscrivere la scomunica.
Secondo alcuni studiosi (D. Stiernon, L. Duchesne, L. Spätling) fu proprio I. a custodire l'appello di Flaviano e a consegnarlo nelle mani del pontefice; altri sono dell'avviso che latore del libello fosse stato invece Eusebio di Dorilea una volta sfuggito alla prigionia. Il testo dell'appello fu ritrovato nel 1882 da A. Amelli in un manoscritto della Biblioteca capitolare di Novara e pubblicato in San Leone Magno e l'Oriente (Montecassino 1890) e fu riprodotto da Th. Mommsen in "Neues Archiv", 2, 1886, pp. 362-64.
Da questo momento si perdono le tracce di I. e dei legati romani; gli atti siriaci della II sessione del concilio affermano però che quando Dioscoro convocò di nuovo i delegati papali per la sessione del 22 agosto, I. e Giulio si rifiutarono di presentarsi. Alla chiusura del concilio fu intimato ai vicari pontifici di sottoscrivere le decisioni emanate dal concilio pena la reclusione. Si crede che I., durante questi tumulti, avesse trovato rifugio a Efeso nella cappella della tomba di s. Giovanni Evangelista, come confermerebbe l'iscrizione che il diacono, divenuto papa, fece apporre sull'architrave di una delle due cappelle commissionate per il battistero del Laterano, che oggi è ancora visibile: "Liberatori suo beato Johanni evangelistae Hilarus episcopus famulus Christi" (Inscriptiones latinae christianae veteres, nr. 980).
Eludendo le rappresaglie di Dioscoro, I. riuscì a raggiungere Roma dopo un viaggio lungo e pieno di pericoli e informò il papa degli eventi. La reazione di Leone fu immediata: risale infatti all'ottobre del 449 una serie di lettere, a Teodosio, a Pulcheria, al clero e al popolo di Costantinopoli, in cui il papa lamentava l'irregolarità con cui era stato condotto il concilio. Poiché da Costantinopoli non giungevano risposte, Leone inviò una seconda lettera a Teodosio, in occasione del Natale, nella quale dichiarava nulle le decisioni prese a Efeso e chiedeva un nuovo concilio che si sarebbe dovuto tenere in Italia. Tutti questi tentativi di Leone, in favore del quale si mossero anche l'imperatore d'Occidente Valentiniano III e la madre Placidia, non ebbero successo; la situazione infatti si sbloccò solo con la morte di Teodosio.
Per il contegno assunto nel concilio di Efeso, testimoniato e lodato da Leone stesso (ep. 44: "Abbiamo saputo infatti, non da un nunzio qualunque, ma da Ilaro, fedelissimo alla verità, come si svolsero i fatti") e da altri contemporanei (Prospero, Chronicon: "È ricordato il diacono che, posto tra innumerevoli pericoli di vita, avendo manifestato la sua protesta, mentre ci si accaniva contro di lui per questo motivo, abbandonate lì tutte le sue cose, fuggì di nascosto per rendere noto al papa e a tutti i sacerdoti dell'Italia, in che modo lì era stata violata la fede cattolica"), I. fu onorato con il titolo di confessore.
Sono pervenute anche due lettere di Teodoreto, la 116 e la 118, di datazione incerta ma scritte comunque a ridosso del concilio; esse appaiono indirizzate a una stessa persona di cui si loda, in entrambe, la fermezza mostrata ad Efeso nel contrastare i soprusi di Dioscoro. L'epistola 116, per un probabile errore di Teodoreto, è indirizzata al presbitero Renato, che era morto prima di giungere a Costantinopoli; la 118 invece è dedicata ad un "arcidiacono di Roma" a cui l'autore chiede di intercedere presso la Chiesa di Roma in suo favore.
Si tratta di I., che, tornato a Roma, fu nominato arcidiacono, sicuramente prima del 455, come attestano due lettere del 455-456 a Vittore di Aquitania circa la questione del computo pasquale, in cui l'autore si presenta come "Hilarus arcidiaconus". Nel 455 infatti, nell'ambito dell'annosa controversia sulla data della Pasqua era nata un'accanita discussione tra greci e latini; papa Leone per gli anni 454 e 455 aveva accettato il computo orientale celebrando la Pasqua rispettivamente il 23 aprile e il 24 aprile, contravvenendo però a una tradizione romana secondo la quale non era permesso celebrare questa festa in data posteriore al 21 aprile; questo aveva causato qualche protesta. Leone aveva perciò incaricato I. di occuparsi di trovare un sistema di calcolo che risolvesse definitivamente la questione. I. si era rivolto a Vittore di Aquitania, a cui era legato da profonda amicizia, il quale gli aveva risposto con l'opera Cursus paschalis; il sistema proposto da Vittore, di ispirazione orientale, rimase in uso per qualche tempo ma non al di fuori della Gallia e dell'Italia.
Morto Leone il 10 novembre del 461, il 19 dello stesso mese I. fu eletto papa. Egli concentrò il proprio impegno nel tentativo di rinsaldare le relazioni con le Chiese di Gallia e Spagna che mostravano la tendenza ad agire piuttosto indipendentemente dalla Sede papale; per quanto riguarda i rapporti con l'Oriente, il Liber pontificalis cita una decretale in cui il papa confermava i tre concili di Nicea, Efeso e Calcedonia e il Tomus I, ad Flavianum. Di questa lettera non si ha traccia: secondo E. Amann la notizia potrebbe essere veritiera in quanto coerente con il contegno assunto da I. nei confronti della Chiesa orientale negli avvenimenti precedenti l'elezione. Numerose epistole conservate, invece, documentano i fatti avvenuti in Gallia e in Spagna.
Appena eletto papa, I. aveva inviato una lettera a Leonzio, metropolita di Arles, in cui, adeguandosi alle direttive di Leone, sottolineava la supremazia della Chiesa di Roma sulla Gallia (Quantum reverentiae, in Epistula et Decreta, p. 137); in seguito aveva nominato Leonzio vicario pontificio, sperando così di essere informato dei fatti che si verificavano nella regione, ma, dalla corrispondenza intercorsa, appare chiaro che Leonzio non riuscì a svolgere il compito affidatogli, o forse non lo assunse con lo zelo necessario.
In effetti, l'istituzione del vicariato pontificio di Arles risale a papa Zosimo, ma aveva suscitato le proteste dei vescovi della Gallia. La prima occasione in cui Leonzio avrebbe dovuto dar prova di sé fu l'usurpazione commessa da Rustico, vescovo di Narbona, il quale, senza chiedere l'approvazione di papa Leone, aveva designato come successore il suo arcidiacono Erma, che, eletto vescovo di Béziers, per motivi che non sono noti, non era stato mai accettato in quella città; alla morte di Rustico il popolo e il clero di Narbona avevano accolto Erma come successore legittimo. I., che era stato informato circa questi eventi da Federico, figlio del re dei Goti Teoderico, scrisse una lettera a Leonzio (Miramur fraternitatem, ibid., p. 140) in cui rimprovera velatamente il vicario di non averlo messo al corrente della doppia irregolarità, che consisteva nella traslazione da una sede ad un'altra, proibita dai canoni del concilio di Nicea, e nella designazione da parte del vescovo del proprio successore. La questione fu esaminata nel concilio romano del novembre 462, le cui decisioni furono rese pubbliche nella lettera sinodale Quamquam notitiam (ibid., p. 141): Erma avrebbe mantenuto la sede di Narbona che sarebbe stata privata però della dignità metropolitana fino alla morte del vescovo. Seguivano poi alcune norme disciplinari e l'esortazione a riunire annualmente un concilio provinciale sotto la presidenza del vescovo di Arles.
Ancora un problema di violazione delle giurisdizioni vide come protagonista Mamerto, metropolita di Vienne; questi aveva ordinato un vescovo per la città di Die che apparteneva alla diocesi di Arles. Fu di nuovo un re ariano ad avvisare I., Gundriac re dei Burgundi. Nell'epistola Qualiter contra sedis (ibid., p. 146) il papa rimprovera Leonzio per la sua scarsa sollecitudine e lo incarica di approfondire accuratamente la vicenda in un sinodo di cui poi avrebbe dovuto inviare il resoconto. Non sembra che l'azione di Leonzio abbia avuto effetto in quanto sono giunte due lettere di I., risalenti al febbraio del 464, che ancora biasimano l'operato di Mamerto. Nella Sollicitis admodum (ibid., p. 148) I. accusa questo vescovo di prevaricazione, lo degrada dal rango di metropolita e disconosce i vescovi da lui ordinati. Nella seconda, Etsi meminerimus (ibid., p. 151), ribadisce la supremazia della sede di Arles, richiamando peraltro il rescritto con cui Valentiniano III sanciva alcuni provvedimenti presi da Leone a danno di Ilario d'Arles, in quanto il papa aveva giudicato scorrette e irrispettose della supremazia della Chiesa di Roma alcune azioni del vescovo. Infine con la Movemur ratione (ibid., p. 157) I. incarica Leonzio di indagare sulla contesa sui confini delle rispettive diocesi tra i vescovi Ingenuo di Embrun e Ausanio d'Aix.
Anche nella Chiesa spagnola si verificarono episodi di indisciplina ai quali I. reagì con la consueta fermezza. Nel novembre del 465 fu riunito un concilio a Roma, nella chiesa di S. Maria Maggiore (Ch.J. Hefele-H. Leclercq, p. 592) in cui si esaminarono due situazioni problematiche che il clero spagnolo aveva sottoposto al papa. In una lettera sinodale Ascanio, metropolita di Tarragona, chiedeva istruzioni al papa sul comportamento da tenere nei confronti di Silvano di Calahorra che aveva contravvenuto ai canoni ecclesiastici in più occasioni: aveva infatti proceduto a ordinazioni episcopali senza consultare il metropolita della sua regione (che era appunto Ascanio), aveva ordinato un vescovo di un'altra provincia e aveva proceduto ad ulteriori ordinazioni episcopali senza la necessaria presenza di altri vescovi.
Il secondo caso era particolarmente delicato in quanto riguardava le regole della successione episcopale: Nundinario di Barcellona aveva eletto come suo successore Ireneo che era già vescovo di un'altra sede. La traslazione era stata approvata da Ascanio e solo per lo scrupolo del duca di Tarragona si chiedeva l'approvazione papale. Questo episodio rifletteva in realtà un costume abbastanza diffuso nella Chiesa spagnola, secondo il quale si tendeva a gestire l'episcopato quasi come una sorta di carica ereditaria, andando così a ledere il diritto all'elezione proprio del popolo. I. dunque fu piuttosto severo nel giudicare tali fatti: decretò che Ireneo tornasse alla sua sede originaria e che Ascanio eleggesse un nuovo vescovo nell'ambito del clero di Barcellona. Nei confronti di Silvano, I. si mostrò invece più indulgente perché non era ben chiaro come si fossero svolti i fatti. Comunque gli atti non canonici furono condonati, con la ferma raccomandazione che non si verificassero più in futuro.
Nella Chiesa di Roma I. dovette tener testa ai tentativi di prevaricazione degli eretici. Il papa aveva dovuto tollerare la costruzione di una chiesa per i Goti ariani voluta dal patrizio Ricimero, ma papa Gelasio racconta che quando l'imperatore Antemio, recatosi a Roma per prendere possesso dell'Impero d'Occidente, accompagnato dal consigliere Filoteo (favorevole ai macedoniani, avversi a riconoscere la divinità dello Spirito Santo), aveva manifestato l'intenzione di costruire nuovi luoghi di culto per le "diverse e nuove sette", I. non aveva esitato ad apostrofarlo pubblicamente nella basilica di S. Pietro finché non aveva ottenuto l'assicurazione che Antemio avrebbe desistito dal proposito.
Il Liber pontificalis dedica quasi tutta la biografia di I. alla descrizione delle opere di edilizia e di abbellimento commissionate da questo papa per le chiese romane. In particolare ricorda gli oratori fatti annettere al battistero del Laterano (pp. 242-43), uno dedicato a s. Giovanni Battista, uno a s. Giovanni Evangelista, rispettivamente a destra e a sinistra dell'ingresso, e uno alla Santa Croce, situato in posizione opposta. I tre edifici furono dotati dal papa di ricchi donativi, nonché di una memoria epigrafica che attesta la dedica di I. alla "plebs Dei" (Inscriptiones latinae christianae veteres, nr. 978). L'oratorio dedicato all'Evangelista è ancora visibile; l'edificio, con planimetria a croce greca, ha la volta decorata in mosaico: la superficie è suddivisa da fascioni che si dipartono dal centro, ove è raffigurato l'Agnello mistico, in scomparti che accolgono uccelli araldicamente disposti attorno a vasi di frutta. La cappella della Santa Croce, distrutta nel 1588 ma nota da disegni antichi, fu realizzata riadattando una struttura preesistente; nella sistemazione voluta da I. si mantennero pure il rivestimento parietale in opus sectile e le decorazioni in stucco. Anche il mosaico della volta, con quattro figure maschili alate sorreggenti una corona, sembra appartenere alla decorazione primitiva dell'edificio; l'intervento di I. è rappresentato dall'inserimento di una croce al centro della volta. Il pontefice fece congiungere inoltre questo oratorio al battistero per mezzo di un cortile, circondato su tre lati da portici e dotato di un ninfeo centrale ("nympheum et triporticum ante oratorium sanctae Crucis"). Ai lavori di I. presso il battistero lateranense si riferiva una iscrizione, ora perduta (cfr. ibid., nr. 977), dalla quale risulta che, per procedere alla costruzione, il pontefice dovette provvedere alla rimozione di un immenso cumulo di rovine. Solo ipoteticamente si può situare presso il Laterano il "monasterium ad Lunam", del quale il Liber pontificalis dice solo che era situato "intra urbe" (V. Fiocchi Nicolai, p. 136). Si tratta comunque della più antica menzione di un monastero urbano.
Il compilatore del Liber pontificalis elenca inoltre alcune costruzioni elevate vicino alla basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, delle quali però l'identificazione è più incerta: I. fece erigere due "balnea", di cui uno a cielo aperto, un "praetorium" e un monastero (p. 245). È probabile che I. abbia provveduto in realtà alla ristrutturazione di un "praetorium", cioè di una villa rustica e in particolare della residenza padronale, facente parte, con i terreni ad essa legati, delle proprietà del complesso laurenziano. Il "monasterium", dedicato forse a s. Stefano, si può localizzare probabilmente in base a resti di murature del VI-VII secolo presenti nella torre cosiddetta dei Cappuccini, a nord della chiesa di S. Lorenzo (L. Pani Ermini, pp. 30-1). Due biblioteche risultano situate sulla via Tiburtina. G. Scalia invece, sulla base di una diversa ricostruzione della biografia di I., propone di ubicarle al Laterano, cioè presso la Sede pontificia. Suggestiva poi, ma poco verosimile, l'ipotesi avanzata da S. Berger che interpreta il passo del Liber pontificalis sulle biblioteche come un'allusione ad una versione della Bibbia fatta da I. (le due biblioteche rappresenterebbero la divisione in Antico Testamento e Nuovo Testamento) riproducente una versione anteriore alla Vulgata geronimiana. Con I. è infine documentata per la prima volta l'amministrazione del battesimo presso S. Lorenzo: come riferisce infatti il Liber pontificalis il pontefice provvide ai "ministeria ad baptismum sive ad paenitentem argentea" (p. 244).
I. morì il 29 febbraio del 468 a Roma e fu sepolto in S. Lorenzo fuori le Mura ("ad sanctum Laurentium, in crypta"), ulteriore testimonianza della devozione del pontefice per questo martire romano. La sua memoria liturgica viene celebrata il 28 febbraio. Fonti e Bibl.: S. Hilari papae Epistula et Decreta, in Epistolae Romanorum Pontificum genuinae [...], I, a cura di A. Thiel, Brunsbergae 1868, pp. 126-70; Acta Sanctorum [...], Septembris, III, Paris 1750, pp. 553-74; S. Gelasii papae Epistula 26, Ad episcopos Dardaniae, ibid., p. 408; J.P. Martin, Actes du Brigantage d'Éphèse, Amiens 1874, pp. 10-1; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I, Lipsiae 1885, pp. 75-7; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 242-45; Victorii Aquitani Cursus paschalis annorum DXXXII ad Hilarum archidiaconum ecclesiae romanae, in Chronica minora (saec. IV, V, VI, VII), in M.G.H., Auctores antiquissimi, IX, 1, a cura di Th. Mommsen, 1892, pp. 677 ss.; Prosperi Tironis Epitoma chronicorum, ibid., p. 480; Anonymus, Breviculus historiae eutychianistarum sive Gesta de nomine Acacii, in Collectio Avellana, a cura di O. Guenther, Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1895 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 35, 1), pp. 440-53, 791-800; Acta Conciliorum Oecumenicorum, II, 1, pt. 1, a cura di E. Schwartz, Berlin-Leipzig 1933, p. 100 n. 225; II, 2, pt. 1, ivi 1932, p. 3; I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, VI, Graz 1960, pp. 651 ss.; S. Berger, La Bible du pape Hilarus, "Bulletin Critique", 13, 1892, pp. 147-52; Ch.J. Hefele-H. Leclercq, Histoire des conciles d'après les documents originaux, II, Paris 1908, pp. 584-621; L. Duchesne, Histoire ancienne de l'Église, III, ivi 1910, pp. 389-454; E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tübingen 1930, pp. 483-95; II, ivi 1933, pp. 10-4; F.X. Seppelt, Der Aufstieg des Papsttums, Leipzig 1931, pp. 206-29; L. Batiffol, Cathedra Petri, Paris 1938; H. Grisar, Roma alla fine del mondo antico, Roma 1943, pp. 334-38 e passim; G. Bardy, in Histoire de l'Église, a cura di A. Fliche-V. Martin, IV, Paris 1945, pp. 211-27; V. Monachino, Il ruolo dei papi nelle grandi controversie cristologiche, "Gregorianum", 33, 1952, pp. 104-70; J. Gaudemet, L'Église dans l'Empire Romain (IV-V siècles), Paris 1958, pp. 389-95, 408-50; L. Scipioni, Nestorio e il concilio di Efeso. Storia, dogma, critica, Milano 1974; Y. Azéma, Théodoret de Cyr, Correspondance, Paris 1982, Introduction, pp. 41-3; M. Simonetti, La controversia cristologica da Apollinare a Giustiniano, "Bessarione", 1986, nr. 5, pp. 23-54. Per quanto riguarda la documentazione archeologica v.: Inscriptiones latinae christianae veteres, a cura di E. Diehl, I-III, Berolini 1925-31; G. Scalia, Gli "archiva" di papa Damaso e le biblioteche di papa Ilaro, "Studi Medievali", 18, 1977, nr. 1, pp. 39-63; L. Pani Ermini, Testimonianze archeologiche di monasteri a Roma nell'alto medioevo, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 104, 1981, pp. 25-45; S. Episcopo, Il praetorium presso S. Lorenzo f.l.m.: un problema aperto, "Archeologia Classica", 38-40, 1986-88, pp. 162-80; M. Cecchelli, Laterano, in San Giovanni in Laterano, a cura di C. Pietrangeli, Firenze 1990, pp. 39-48; V. Fiocchi Nicolai, Strutture funerarie ed edifici di culto paleocristiani di Roma dal III al VI secolo, in Le iscrizioni dei cristiani in Vaticano, a cura di I. Di Stefano Manzella, Città del Vaticano 1997, pp. 121-41. A Dictionary of Christian Biography, III, London 1882, s.v., pp. 72-4; Dictionnaire de théologie catholique, VI, 2, Paris 1920, s.v., coll. 2385-88; E.C., V, s.v. Efeso, col. 120; VI, s.v. Ilaro, col. 1618; D. Stiernon, Flaviano, in B.S., V, coll. 895, 898, 907; B. Cignitti, Ilaro, ibid., VII, pp. 737-53; Dizionario patristico e di antichità cristiane, II, Casale Monferrato 1984, s.v., pp. 1753-54; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, II, Milano 1996, s.v., pp. 748-49.