LANFRANCO, santo
Vescovo di Pavia, nacque probabilmente negli anni Trenta-Quaranta del XII secolo: non è noto il nome della famiglia.
Secondo una tarda tradizione L. discendeva dalla nobile famiglia pavese Beccari o Beccaria; Robolini escluse quest'ipotesi e Savio, sulla base dello Spelta, lo assegnò piuttosto alla famiglia dei Beccari di Groppello, luogo al quale L. fu assai legato, come attesta anche la fondazione e la dotazione di un ospedale in quella località.
Ebbe una buona formazione culturale in merito alla quale la Vita di L. scritta dal suo successore sulla cattedra episcopale pavese, il canonista Bernardo da Pavia, offre importanti indicazioni: fu magisterscholarum presso la locale scuola episcopale, dove insegnò le arti ai fanciulli; quindi proseguì gli studi fino a divenire doctor in sacra pagina, conseguendo così una formazione in teologia che si rivelò assai efficace nel combattere e confutare gli eretici, attività nella quale L. si distinse e che gli procurò molte inimicizie all'interno della città.
Sempre secondo la Vita L. fu insignito del diaconato e servì fedelmente il presule Pietro (V), che dovette sopportare fino al 1169 un lungo esilio e molta ostilità da parte del Comune pavese, che si era schierato, fin dal 1160, al fianco di Federico I nello scontro che lo opponeva a papa Alessandro III, alleato di Milano e della Lega lombarda. L. fece parte del capitolo della cattedrale, come attesta un atto del 27 luglio 1171, con il quale il preposito della cattedrale di Piacenza, Bongiovanni, alla presenza di L. e di altri confratelli, investì il vescovo pavese Pietro delle decime che il capitolo piacentino riscuoteva sulle curtes di Montalino e Portalbera in cambio di un fitto annuo che il vescovo della città ticinese avrebbe dovuto consegnare al porto di Piacenza.
Alla morte di Pietro (21 maggio 1180) il clero della cattedrale designò a succedergli L., che già il 30 maggio di quell'anno, in qualità di vescovo eletto, investì Pietro, preposito della Ss. Trinità di Pavia, della terza parte delle decime sui novali a Vidigulfo e Mandrino. Probabilmente a L., sempre designato come vescovo eletto, sono rivolte due lettere di Alessandro III, con risposte a quesiti di diritto matrimoniale che L. gli aveva sottoposto. Dopo gli anni che avevano visto l'aperto contrasto tra il pontefice e Pavia, L. intese ribadire con forza la diretta dipendenza della sua sede da quella romana e, secondo la tradizione pavese, si recò a Roma, dove ricevette l'ordinazione episcopale da Alessandro III. Il primo documento che attesta l'avvenuta consacrazione risale al 29 marzo 1181, quando L. in accordo con il preposito della cattedrale, il già ricordato magister Bernardo, e alla presenza delle più alte dignità del capitolo, liberò i chierici di S. Giovanni in Borgo da una servitù che avevano nei confronti del clero della cattedrale.
Le competenze di L. furono apprezzate anche in sede locale, se si considera che egli fu richiesto per svolgere il compito di giudice delegato papale in almeno due cause riguardanti enti ecclesiastici: una al di fuori della diocesi ticinese, precisamente tra il monastero femminile di Rocca delle Donne e l'abate di Fruttuaria, affidatagli da Alessandro III; il 24 maggio 1182 L. emise la sentenza, confermata da Lucio III il 4 novembre. Nell'altra causa, questa volta tra due enti ecclesiastici pavesi, L. nel 1185 con l'arciprete della cattedrale Zenone confermò i diritti della badessa di S. Maria fuori Porta sulle chiese di S. Martino d'Oliva e di S. Pietro di Casteggio.
Fin dagli inizi del suo episcopato L. si mostrò attento alle diverse espressioni di vita regolare presenti nella sua diocesi, anche a quelle di più recente istituzione. Oltre a prediligere il monastero vallombrosano di San Sepolcro, poco fuori della città, dove egli si ritirò in diverse occasioni e dove volle terminare i suoi giorni, L., in sintonia con altri presuli della regione padana, fin dal 1182 si mostrò assai favorevole nei confronti degli umiliati pavesi, ai quali concesse la chiesa di S. Maria Maddalena in località Sabbione, riservandosi il diritto di ordinare i chierici e di confermare il preposito e imponendo loro di partecipare al sinodo diocesano e di pagare il censo annuo di una libbra di pepe nel giorno di S. Tommaso. Insieme coi vescovi di Tortona e di Vercelli, nel maggio del 1188, L. fu incaricato da Clemente III di adoperarsi perché ai beni del monastero di Lucedio situati nella sua diocesi fosse garantita l'esenzione dalle decime, qualora si trattasse di terre novali o coltivate direttamente dal monastero.
L. mantenne stretti rapporti anche con i monasteri tradizionali della sua diocesi; in particolare si scontrò con l'abate dell'abbazia della Chaise-Dieu, dal quale dipendeva il monastero pavese di S. Marino, in merito all'elezione dell'abate: le parti accettarono infine la sentenza pronunciata dal preposito di S. Michele Maggiore di Pavia, con la quale si riconosceva la giurisdizione dell'abate della Chaise-Dieu, che ottenne la conferma di Lucio III (21 nov. 1184 o 1185). Nel febbraio 1190, su richiesta di Sibilla, badessa del monastero di S. Agata e patrona della chiesa di S. Michele di Roncaro, L. donò a quella chiesa tre parti della decima sulle terre di proprietà del monastero messe nuovamente a coltura.
L'episcopato di L. fu contrassegnato dalla concordia con il capitolo della cattedrale, con cui egli fu solidale nel rivendicare i diritti di giurisdizione, in particolare per quanto riguarda Portalbera, una località a lungo contesa con il capitolo di Piacenza, che fu infine costretto a rinunciare, nel 1301, alle sue pretese.
L. si inserì attivamente nella questione e riuscì a ottenere importanti risultati. La contesa si era aperta già nel 1143 e fin dal 1171, in quanto canonico della cattedrale, L. aveva partecipato ad alcune importanti decisioni. Egli stesso nel giugno del 1184 ordinò che alla presenza del suo gastaldo Gualtiero "de Ecclesia" si costituisse una societas per la raccolta delle decime tra il capitolo di Piacenza, che deteneva due parti della decima, e l'arciprete di Portalbera, che aveva la restante parte. Nel 1186 Urbano III approvò la convenzione. Al tempo stesso L. si adoperò per consolidare sempre più la giurisdizione della Chiesa ticinese nel territorio conteso, come suggerisce l'acquisto per la mensa episcopale di alcune terre a Montalino (1187) e a Portalbera (1188). Gli interventi di L. mirarono ripetutamente a ostacolare il godimento delle decime da parte del capitolo piacentino, che pure si era visto riconoscere i propri diritti dal pontefice. Se già Urbano III aveva delegato la soluzione della causa al vescovo di Lodi, anche Celestino III intervenne decisamente nei confronti di L. e nell'agosto del 1192, rimproverandogli di agire in modo contrario ai doveri del suo ufficio, gli intimò di desistere dal contrastare i diritti dei canonici e affidò al vescovo di Lodi Arderico di giudicare eventuali nuove cause. Ancora nel 1193 i canonici di Piacenza si rivolsero al pontefice per avere giustizia contro i soprusi perpetrati da L., e Celestino III stigmatizzò nuovamente l'operato del presule che, pur avendo ottenuto un importante privilegio dalla Sede apostolica per l'esenzione dal pagamento delle decime per i "propria laboreria", aveva continuato a riscuotere dai canonici piacentini le relative decime; qualora L. non avesse desistito dalla frode, il papa avrebbe incaricato un suo suddiacono e canonico di Lodi di costringerlo a cessare i soprusi.
La cronologia qui tratteggiata induce a considerare più tardo il suo esilio da Pavia, che il Robolini, sulla scorta della Vita di L., aveva collocato al 1192; sembra assai più credibile che esso si sia verificato dopo l'estate del 1193 e si sia protratto per circa un anno. Le cause dell'allontanamento vanno ricercate nella decisione del III concilio Lateranense di porre un limite all'usanza dei Comuni di tassare le istituzioni ecclesiastiche per finanziare le proprie imprese militari e L., fedele alle direttive romane, non si piegò a una richiesta espressa in tal senso dal Comune di Pavia. Durante questo periodo, con esponenti del capitolo a lui fedeli, L. fu in diverse città della regione, quindi a Vercelli, forse ospite del vescovo Alberto, dove lo raggiunsero alcuni consoli pavesi per convincerlo a ritornare in città. Il protrarsi dell'esilio indusse anche il clero, poco propenso a continuare nella linea di contrapposizione con il Comune, a cercare di convincere il presule a desistere dalla sua decisione: ci fu un incontro nel monastero cisterciense di Morimondo, ai confini del territorio pavese, ma L. decise di proseguire da solo il suo esilio. Quindi, per consigliarsi con il papa, intraprese un viaggio alla volta della Curia, dove ottenne il pieno appoggio di Celestino III, che scomunicò gli autori dei soprusi a danno di L. e minacciò alla città l'interdetto. Un cambiamento ai vertici del Comune pavese favorì la riconciliazione tra il governo cittadino e L., che infatti ritornò in città.
Qui L. si adoperò attivamente per salvaguardare e accrescere i beni della sua Chiesa sia riuscendo a farsi riconoscere nel novembre 1195 il possesso di un'isola formatasi nel Po attorno al 1180, sia cercando di mantenere il contrastato controllo sulle decime di Portalbera. Nel maggio 1196 L. nominò un procuratore per rappresentarlo nella causa e nel febbraio del 1197, su richiesta dei canonici piacentini, Celestino III delegò di nuovo la questione, a suo tempo già giudicata dal vescovo di Lodi, al vescovo di Bobbio. Adducendo difficoltà con il marchese Malaspina (forse Moroello di Obizzo), nei confronti del quale erano allora in corso ostilità per il controllo di un castello entro i cui domini si trovava Bobbio, L. si rifiutò di comparire davanti al nuovo giudice delegato e così, nel dicembre 1197, Celestino III affidò nuovamente il giudizio al vescovo di Lodi Arderico, che il 9 giugno 1198 sentenziò riconoscendo ai canonici piacentini i diritti sulle decime e ingiungendo a L. la loro restituzione.
Geloso custode delle prerogative della Chiesa pavese, L. si adoperò inoltre per salvaguardare l'onore della sua sede e del Comune: nonostante le difficoltà insorte negli ultimi anni del suo episcopato, egli coltivò stretti legami con i ceti dirigenti, in particolare con alcuni esponenti della famiglia dei Salimbene e con il giudice imperiale Guido del Pozzo, che collaborarono con lui nella gestione e nella amministrazione della giustizia e sono indicati tra i beneficiati da miracoli operati post mortem da Lanfranco.
Il suo episcopato si caratterizzò per l'impegno nella difesa e nell'accrescimento delle res Ecclesiae, come mettono in luce le richieste da lui inoltrate ad Alessandro III circa la possibilità di revocare infeudazioni effettuate dal suo predecessore senza l'assenso del capitolo, nonché l'oculata gestione che egli ne fece. Anche a giudizio di Bernardo L. fu esemplare nella difesa della libertas ecclesiastica, fino a sostenere un duro esilio e a incrinare l'accordo che sempre caratterizzò i suoi rapporti con il capitolo, in particolare con alcuni esponenti di questo, tra i quali Bernardo stesso.
Oramai malato e prossimo alla morte, nel 1198 rifiutò di cedere un'ala del palazzo vescovile per l'ampliamento degli edifici comunali, come richiesto dalle autorità, e preferì ritirarsi nel cenobio di San Sepolcro, dove manifestò l'intenzione, dalla quale fu dissuaso, di abbandonare la carica episcopale e di vestire l'abito monastico e dove morì il 23 giugno 1198.
La designazione del successore fu rapida e concorde da parte del capitolo, che il 24 giugno procedette all'elezione di Bernardo, già arciprete di Pavia e allora vescovo di Faenza, la cui traslazione fu approvata da Innocenzo III il successivo 8 agosto. Sorse ben presto un vivace culto locale, che si espanse anche al di fuori della diocesi pavese, sostenuto dalla voce di numerosi miracoli che si sarebbero verificati sulla tomba del presule, costruita nella chiesa del monastero di San Sepolcro. In riferimento al culto del santo presule la chiesa prese a essere chiamata S. Lanfranco. Per patrocinarne la causa di beatificazione Bernardo compose una Vita, che però non ottenne il solenne riconoscimento della santità di L. da parte della Sede apostolica. Bernardo tenne conto delle vicende dell'episcopato di L. inserendo nella prima delle sue Compilationes diverse lettere pontificie indirizzate al suo predecessore (cfr. ed. Friedberg, pp. 12, 16 s., 32, 45).
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