Leone I, santo
La scarna notizia del Liber pontificalis ne assegna le origini alla Tuscia e dice chiamarsi Quinziano il padre. Null'altro si sa della famiglia e del luogo di nascita; né può esserne fissata con esattezza la data. La città di Volterra e un piccolo centro, Pierle, nel Cortonese, se ne sono attribuiti lungo i secoli la tradizione dei natali. Un'espressione in cui L. parla di Roma con l'attributo di "patria" (ep. 31, 4) ha fatto talvolta ipotizzare che fosse romano di nascita; ma il contesto si riferisce alla Sede apostolica e in quanto tale L. considera Roma sua patria.
Durante il pontificato di Celestino si legge, nella lettera 191, 1 di Agostino, che un accolito della Chiesa di Roma, di nome Leone, fu inviato nel 418 in Africa per consegnare al vescovo Aurelio di Cartagine una lettera del presbitero Sisto, il futuro papa Sisto III, predecessore di Leone. Ma non si hanno elementi sicuri per identificare l'accolito Leone con il futuro pontefice. È certo invece che nel 430 L. rivestiva a Roma una posizione di grande prestigio. Lo attesta la prefazione di Giovanni Cassiano ai suoi sette libri De incarnatione Domini contra Nestorium. Cassiano dice che fu L. a chiedergli di scrivere un'opera che rendesse conto della cristologia di Nestorio e, riferendosi a tale richiesta come fatta con autorità, definisce L. "romanae ecclesiae ac divini ministerii decus". Ciò è da intendere come un ruolo di prestigio nel diaconato romano: Gennadio, De viris illustribus 62, dà a L. il titolo di arcidiacono della Chiesa di Roma. Un'altra notizia, che si riferisce ai primi anni Trenta, conferma la posizione influente di L.: in una sua lettera di anni più avanti (ep. 119, 4), diretta nel 453 al vescovo Massimo di Antiochia, riferendosi ad avvenimenti non lontani dal concilio di Efeso del 431, L. dice che Cirillo di Alessandria gli aveva scritto per chiederne l'attiva partecipazione affinché il papa Celestino frenasse le ambizioni di Giovenale vescovo di Gerusalemme (422-458) riguardo alla giurisdizione sulla provincia di Palestina. Ancora, durante il pontificato di Sisto III, in base a una notizia trasmessa da Prospero d'Aquitania (Chronicon, ad a. 439), l'intervento di L. fu decisivo per la presa di posizione del pontefice nei confronti di Giuliano di Eclano, il vescovo pelagiano che cercava di essere riammesso nella sua sede, presso Avellino.
L. aveva pertanto raggiunto a Roma una posizione di riconosciuta autorevolezza che determinò il duplice evento centrale della sua vita. Nel 440 si era creata in Gallia una pesante situazione politica a causa di un grave contrasto tra il potente generale visigoto Ezio e Albino, governatore della Gallia. A Roma, morto l'imperatore Onorio, il regno era passato al nipote Valentiniano III (424-455), figlio sedicenne della sorella dell'imperatore defunto, Galla Placidia, la quale ebbe, per alcuni anni, il ruolo di reggente. Fu questa a inviare L. in Gallia per ottenere una riconciliazione tra i due avversari. Durante tale missione, il 19 agosto 440, morì Sisto III. Il clero e il popolo romano elessero come successore L., in sua assenza. La notizia gli fu recata in Gallia da una legazione che lo accompagnò anche durante il ritorno. La vacanza durò quaranta giorni. Il 29 settembre L. fu consacrato in Roma e nell'occasione il nuovo pontefice pronunciò il primo dei suoi discorsi conservati, breve ma solenne, di lode a Dio e di sentimenti di affetto per il popolo cristiano. Ogni anno, il 29 settembre, L. celebrò l'anniversario riunendo il sinodo romano e pronunciando discorsi intitolati In natale eiusdem dalla tradizione manoscritta che ne conserva quattro oltre il primo. Questi sermoni (2-5), di grande spessore ecclesiologico, esprimono la consapevolezza che L. aveva del ruolo e del prestigio della Sede romana.
Il giorno della festa degli apostoli Pietro e Paolo, il 29 giugno, fu annualmente un'altra occasione in cui L. proclamò e approfondì l'idea del primato apostolico di Pietro, del quale il suo successore si sente erede, e della dignità che Roma trae dall'esserne la sede. Il sermone pronunciato il 29 giugno del 441 esalta il nuovo ruolo di Roma: "Sono questi [gli apostoli Pietro e Paolo] coloro che ti hanno innalzato all'alto onore di divenire, come nazione santa, popolo eletto, città sacerdotale e regale [cfr. 1 Pietro 2, 9], per la presenza in te della sacra sede di Pietro, la capitale del mondo e di esercitare un ruolo di governo più ampio per la divina religione che per il dominio terreno" (sermone 82, 1). Adottando la visione, ormai tradizionale, dell'Impero romano come provvidenziale preparazione di una unificazione delle genti che aveva favorito la diffusione del cristianesimo, ed insieme accogliendo la visione, altrettanto tradizionale, di Roma pagana come simbolo dei poteri negativi del mondo, L. fissa e tramanda gli elementi principali relativi alla presenza e al martirio di Pietro e Paolo a Roma: "La divina provvidenza predispose l'impero romano e ne favorì lo sviluppo, dilatando i suoi confini a dimensioni di universalità. […]. Senonché questa città, ignorando il vero autore della sua grandezza, pur avendo esteso il suo dominio quasi a tutte le genti, era invece serva dei loro errori e credeva di avere una grande religione poiché non aveva mai respinto nessuna falsità. […]. Quando i dodici apostoli, dopo aver ricevuto dallo Spirito Santo il dono delle lingue [cfr. Atti degli apostoli 2, 4], cominciarono la loro missione per educare il mondo al vangelo e a questo scopo si divisero il mondo in settori, ecco che san Pietro, come capo dell'ordine apostolico [apostolici ordinis princeps], viene destinato alla capitale dell'impero romano affinché la luce della verità che si rivelava per la salvezza di tutte le genti più efficacemente si diffondesse dal capo a tutto il corpo del mondo. […]. Tu dunque, beatissimo apostolo, non hai avuto paura di venire in questa città e, mentre l'apostolo Paolo che condivide con te la gloria era ancora impegnato nell'organizzazione delle altre chiese, hai fatto il tuo ingresso in questa selva di animali ruggenti, in questo profondo oceano di empia superstizione, con più coraggio di quando camminasti sulle acque [cfr. Matteo 14, 30]. […]. Tu portavi nella roccaforte romana il trofeo della croce di Cristo; in quel segno, per disposizione divina, ti precedevano l'onore del potere ricevuto e la gloria della passione. Alla stessa meta si fece incontro anche san Paolo, apostolo insieme con te, vaso di elezione [cfr. Atti degli apostoli 9, 5] e in modo tutto speciale maestro delle genti. Egli fu unito a te nel tempo in cui ogni innocenza, ogni pudore, ogni libertà era in crisi sotto Nerone. Il suo furore, infiammato dall'eccesso di tutti i vizi, a tal punto lo travolse nel torrente della sua follia che fu il primo a scatenare l'atrocità di una persecuzione generale al nome cristiano illudendosi di spegnere la grazia di Dio con la strage dei santi" (sermone 82, 2-6).
Nel sermone 83, del 29 giugno 443, L. fissa la dottrina romana del primato basato sulla confessione di fede di Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Matteo 16, 16), e sulla risposta di Gesù che lo pone a fondamento della Chiesa: "Tale professione sfugge ai vincoli stessi della morte. Si tratta infatti di una voce che è voce di vita, e ha la forza di sollevare al cielo chi la proferisce e di sprofondare chi la rifiuta. È per questo che a san Pietro viene detto: 'A te darò le chiavi del regno dei cieli, e qualunque cosa avrai legato sulla terra, sarà legata anche nei cieli; e qualunque cosa avrai sciolto sulla terra sarà sciolta anche nei cieli' [Matteo 16, 19]. Indubbiamente questo potere passò anche agli altri apostoli, tuttavia ad uno solo viene affidato ciò che a tutti è comunicato […] e rimane un privilegio di Pietro, dovunque si emetta un giudizio secondo il criterio della sua equità. E non c'è eccesso di severità o eccesso di indulgenza dove nulla sarà legato, nulla sarà sciolto se non ciò che san Pietro avrà sciolto o avrà legato" (sermone 83, 2).
Sul fondamento di tale consapevolezza del proprio ruolo, il pontificato di L. si dispiega a tutto campo e in ogni direzione, a Roma e in rapporto alle Chiese. Fonti principali per la sua conoscenza sono le centosettantatré lettere dell'epistolario (trenta sono indirizzate a lui), i novantotto sermoni e le notizie del Liber pontificalis e del Chronicon di Prospero d'Aquitania. La predicazione è uno dei dati principali del suo pontificato: i sermoni tramandati si snodano lungo le annuali tappe liturgiche fino al 457. Questo "corpus" è la prima consistente testimonianza diretta della parola di un vescovo di Roma (Ambrogio, in De virginibus 3, 1-14, inserisce un sermone che dice essere di papa Liberio; ma si tratta di una finzione letteraria) ed è, nel contempo, fonte preziosa sia riguardo ai temi dottrinali che a diversi aspetti di carattere sociale ed ecclesiale.
La predicazione di L. è espressione di un'epoca che a sua volta essa segna: al crocevia dei grandi dibattiti cristologici e delle radicali congiunture di trasformazioni sociali e politiche degli ultimi decenni dell'Impero romano d'Occidente, essa contrassegna la scansione del ciclo annuale in base alle celebrazioni liturgiche cristiane, ed è espressione della transizione della cultura, della vita, della mentalità verso modelli di cristianità che costituiscono il sostrato comune dell'Europa dei secoli futuri. Vanno innanzi tutto posti in evidenza principalmente tre aspetti: la cristianizzazione del tempo; l'organizzazione della carità; il depotenziamento delle comunità eterodosse.
I sermoni di L. testimoniano il processo di assorbimento del tempo civile nello schema dell'anno liturgico ormai definitivamente strutturato. Con ripetuta insistenza, egli forma nel suo uditorio il senso di riferimento al tempo sacro come attualizzazione del mistero della salvezza nella diacronicità della storia personale e universale, perché la vita di ciascuno e la società intera ne vengano plasmate.
L. ribadisce costantemente che l'annuale ripresentarsi della festa liturgica è un fatto vitale: la ricorrenza ripresenta i vari aspetti della storia della salvezza, uguali ma sempre nuovi, a confronto con la novità della vita che scorre e della storia con le sue vicende. È il tema sapienziale del libro dell'Ecclesiaste: "C'è un tempo per piangere e un tempo per gioire" (Ecclesiaste 3, 4) che L. riecheggia quando sottolinea la gioia del Natale o il significato dell'austerità quaresimale. La costante liturgica della ricorrenza e al medesimo tempo dell'alternanza, si unisce all'"oggi" e all'"adesso" liturgici così fortemente risonanti nei sermoni. A sua volta, l'oggi liturgico è in relazione con il "sacramentum" originario e culminante della memoria che rende presente e prolunga nella storia il mistero pasquale di Cristo, edificando il suo corpo mistico fino al compimento. I sermoni richiamano di volta in volta come la narrazione evangelica appena ascoltata introduca in una corrente vitale di cui si è non uditori, ma protagonisti presenti ai fatti. "La nascita del Signore [dice L. nel Natale del 453] nella quale 'il Verbo si è fatto carne' [Giovanni 1, 14], ci sembra di vederla come presente più che celebrarla come passata" (sermone 29, 1). E ancora: "In questo momento in cui viene espressa la stessa grandezza di quelle realtà, dalla ricorrenza dei giorni sacri e dalle pagine del vangelo fedeli alla realtà dei fatti, […] la Pasqua del Signore non sia ricordata come un evento passato, ma sia celebrata come una realtà presente" (sermone 64, 1 della domenica delle Palme del 453). Il risultato comunicativo è quello di una formazione al coinvolgimento di coloro ai quali la parola è rivolta e la cui attenzione è ripetutamente captata a partire dal motivo di fondo della personale partecipazione al mistero di Cristo. Su tutto, costantemente, domina la visione ecclesiologica dell'appartenenza della Chiesa al tempo definitivo della storia, che è il tempo stesso della realizzazione del disegno salvifico di Dio, il tempo della vittoria di Cristo e della missione della Chiesa per tutte le genti.
I riferimenti a festività o a espressioni della religiosità pagana non sono numerosi: in un sermone natalizio riferisce che non manca chi presta ancora culto al sole, e che anche alcuni cristiani, entrando nella basilica di S. Pietro, si volgono verso oriente inchinandosi (sermone 27, 4); in un altro sermone natalizio vi è un'allusione agli auspici ("vota") per il nuovo anno (sermone 5, 1); dei "ludi Apollinares", sui quali si ritornerà più avanti, parla come di una tradizione passata (sermone 9, 3) sostituita da tempo dalla celebrazione del giorno d'inizio della raccolta di offerte destinate ai poveri. Uno scorcio interessante è offerto dal sermone 84, in cui lamenta che i cristiani di Roma hanno celebrato in pochissimi il rendimento di grazie in un anniversario che probabilmente è quello della fine dell'invasione di Alarico. Il rimprovero, sia pur di carattere tradizionale, è tuttavia indicativo della persistente polemica nei confronti degli spettacoli circensi considerati un residuo del paganesimo e, nel contempo, degli irrinunciabili costumi cittadini: al culto dei santi si preferiscono i giochi del circo; si frequentano più gli insani spettacoli che i luoghi delle memorie dei martiri. Il processo di declino delle celebrazioni pagane appare tuttavia largamente compiuto, e comunque l'interesse di L. è principalmente rivolto, più che a motivi di polemica, a un insegnamento che incida in profondità affinché il tempo cristiano sia realmente vissuto alla luce dei contenuti del mistero che le tappe liturgiche rendono presente. Proprio per questo, più ampio è il riferimento alle forme resistenti di superstizione che vengono presentate come insidie del demonio. Nello stesso contesto in cui riferisce del culto al sole (sermone 27, 3-5), L. considera lacci del demonio sia gli inganni quali la lussuria, la cupidigia, l'ira, l'invidia, sia quelle che egli chiama le sue arti: le diverse espressioni della magia, la divinazione, lo spiritismo, l'astrologia. E ne trae spunto per un'istruzione sul rapporto con la natura creata da Dio per l'utilità dell'uomo (sermone 27, 6).
Dai sermoni è possibile rilevare alcuni problemi della società che viveva nella Roma contemporanea. La città era provata: dopo ben due carestie negli ultimi venticinque anni del IV secolo (nel 376 e nel 384), aveva subito invasione e distruzione da parte dei Goti di Alarico nel 410. A distanza di pochi decenni subirà l'altra funesta devastazione ad opera dei Vandali di Genserico nel 455. Tra la fine del IV secolo e il disastro del 410, la popolazione era fortemente calata e nei momenti di maggiore calamità era divenuta ricorrente la xenofobia che spingeva le autorità a respingere rifugiati ed esterni. All'epoca del pontificato di L., si era avuto un leggero incremento demografico, ma le condizioni non erano migliori riguardo al problema di profughi e di fuggiaschi che cercavano rifugio nella città. Inoltre, dopo l'invasione dell'Africa, della Sicilia e della Sardegna, il mercato del grano era in mano a Genserico, che ne regolava il flusso verso l'Italia. Nella capitale il tasso di mendicità rimase alto, e le pubbliche elargizioni, rispetto alla popolazione, diminuirono di circa il dieci per cento tra la metà del IV secolo e gli anni Cinquanta del secolo seguente (S. Mazzarino, p. 239; E. Cavalcanti, La spiritualità, pp. 224-25). In relazione ai problemi della città, i sermoni di L. lasciano trasparire l'avvio di una vera e propria organizzazione del soccorso ai poveri da parte della Chiesa. Ciò avvenne a livello ufficiale, nel senso che la Chiesa istituzionale si fece tramite tra i cristiani più ricchi e i poveri, sia organizzando in proprio forme di aiuto, sia incentivando in tutti i modi la spiritualità della carità. A Roma, come nelle altre grandi città dell'Impero, nei momenti di calamità, tutti i cristiani vennero sollecitati alla carità come elemento costitutivo della loro identità, e tra i più ricchi furono numerosi quelli che, in risposta alle esigenze della fede, impegnarono le loro risorse in vere e proprie istituzioni di soccorso e assistenza.
I sermoni di L. mostrano le modalità che egli strutturò per far sì che la carità di tutti convergesse nelle mani del vescovo per essere ridistribuita a nome della Chiesa. Si tratta della celebrazione delle collette, la cui consuetudine egli fa risalire ai tempi apostolici (sermone 10, 1), ma che appare, dall'importanza che le viene riservata nei sermoni, come uno degli aspetti della cristianizzazione della vita cittadina durante il suo pontificato. Dal 6 al 13 luglio si celebravano a Roma i "ludi Apollinares", istituiti nel 212 a.C. per ringraziare Apollo d'aver protetto la città dopo il disastro di Canne del 216 a.C. Questi "ludi" si celebravano con fondi raccolti tra i cittadini. I sermoni 6-11 di L., dei primi cinque anni di pontificato salvo l'ultimo di datazione incerta, mostrano come, in corrispondenza di quella celebrazione pagana, era stata già da tempo avviata la tradizione di una raccolta a favore dei poveri. L. la fece solennemente sua: la domenica precedente alla data d'inizio dei "ludi", che appaiono ormai decaduti, il vescovo pronunciava il sermone sul valore della carità rivolgendosi a tutti, più o meno ricchi, poiché tutti devono avere lo stesso atteggiamento di condivisione, anche se l'offerta sarà differente. Fissava poi il giorno infrasettimanale in cui si sarebbe svolta la raccolta in tutte le chiese delle sette regioni ecclesiastiche in cui era suddivisa Roma dal tempo di papa Fabiano. Successivamente avveniva la distribuzione "per presidentium cura" (sermone 11, 2): l'espressione, che indica la presenza di incaricati del delicato compito, lascia intravedere una rete ormai strutturata per l'organizzazione cittadina della carità.
Altri momenti dell'anno acquistano la tonalità di tempi forti per il soccorso ai poveri, sebbene questa pratica costituisse un dovere costante per i fedeli: si tratta dei tempi in cui viene solennemente proclamata la pratica del digiuno, che ha il suo senso più pieno in rapporto alla carità e all'elemosina, e questi sono principalmente il tempo di Quaresima e i giorni del digiuno delle quattro "tempora", pratica invalsa nel V secolo per scandire religiosamente il cambio delle stagioni e invocare condizioni atmosferiche propizie ai raccolti. L. lascia consegnati i termini concreti di questa pratica, che assume anch'essa il carattere solenne di scansione cristiana del tempo annuale, e il cui senso viene indicato nel riconoscere l'opera del Creatore e nel sottomettergli tutte le cose: "Noi celebriamo [egli dice] il digiuno di primavera nella quaresima, quello estivo a Pentecoste, l'autunnale nel mese di settembre, quello invernale a dicembre, […] perché dagli stessi elementi costitutivi del mondo apprendiamo - come da una tromba che non smette mai di squillare - ciò che dobbiamo predicare e praticare" (sermone 19, 2). Un altro elemento che traspare dai sermoni riguardo ai problemi della società cittadina è una situazione di esercizio privato della giustizia da parte dei più potenti. In alcuni sermoni quaresimali (40, 5; 47, 3), L. invita al perdono pasquale con accenni espliciti a non trattenere nessuno in catene e in carcere, e a non essere più severi delle leggi pubbliche che, dal tempo di Valentiniano I e Valentiniano II, prevedevano che l'imperatore cristano, il giorno di Pasqua, concedesse un'amnistia. Le espressioni usate sono inequivocabili: si parla di "carceri tenebrose" dove gemono detenuti che il pastore invita a perdonare, ricordando a chi esercita una illegale giustizia privata che - secondo l'insegnamento di Cristo - bisogna perdonare per essere perdonati (sermone 48, 4).
Per quanto poi riguarda il problema delle comunità eterodosse, il caso più vistoso è quello dei manichei. Poco più di mezzo secolo prima, Agostino era stato tra loro e, attraverso le sue notizie, si deduce che a Roma erano un gruppo numeroso e influente (Confessiones 5, 19). Colpiti da misure imperiali sin dai tempi di Diocleziano, erano stati condannati da una costituzione di Valentiniano II e Teodosio I nel 389, al tempo di papa Siricio, di cui il Liber pontificalis dice che ne aveva fatto esiliare un certo numero. I procedimenti di L. nell'affrontare il problema dimostrano non solo la sua determinazione, ma anche il prestigio e la forza della comunità ecclesiale e del suo vescovo, in grado ormai di porre in atto al suo interno, senza il supporto dell'autorità imperiale, un processo di rifiuto, condanna e depotenziamento.
Il momento più drammatico è intorno al 443: nell'estate di quell'anno, il papa esorta i fedeli a denunciare ai presbiteri i manichei "dovunque si nascondessero" (sermone 9, 4). Essi erano ridotti pertanto a condizione di clandestinità; ma probabilmente si mescolavano al popolo cristiano nelle assemblee liturgiche. Dal momento che questo sermone è uno di quelli pronunciati per le collette, si può anche dedurre che forse alcuni di loro beneficiavano dell'elemosina della Chiesa. L. però ne denuncia solo gli errori che riguardano il patrimonio della fede: rifiutano i libri della Bibbia in cui si parla dell'opera creatrice di Dio, non accettano i libri dei profeti e i salmi; negano la nascita di Cristo nella carne, e la realtà della passione e della risurrezione, svuotano il potere di grazia del battesimo. Essi sono da temere e si deve vigilare che non danneggino nessuno e che non si rafforzino in nessuna parte della città (sermone 9, 4).
Nel sermone per il digiuno delle quattro "tempora" di dicembre dello stesso anno, i toni sono ancora più decisi: dalla messa in guardia dagli errori si passa alla denuncia di abominevoli misfatti addirittura confessati nel corso di un confronto a cui L. ha ordinato che si presentino membri qualificati della comunità dei manichei. Egli riferisce di questo atto denominandolo inchiesta ("inquisitio"), e rende noto che erano presenti, insieme a lui, numerosi vescovi e presbiteri, nonché nobili cristiani. I fatti sono emersi in tutti i loro irripetibili dettagli. La conclusione è drastica: la loro religione è quella del demonio; il loro sacrificio è turpitudine. Qualsiasi rapporto con loro va interrotto e la mobilitazione per individuarli e denunciarli deve essere massimamente vigile e attiva (sermone 16, 4-5). In una lettera di poco posteriore (ep. 7, del 30 gennaio 444), diretta a tutti i vescovi d'Italia, L. li informa degli avvenimenti riguardanti i manichei e li invita ad agire allo stesso modo nelle loro rispettive città. Informa inoltre che alcuni hanno fatto abiura pubblica e scritta e sono stati perciò riammessi nella Chiesa dopo aver fatto penitenza; gli altri, dai giudici competenti, sono stati sottoposti a quanto stabiliscono le leggi imperiali (ep. 7, 1). Dopo qualche mese (19 giugno 444), una costituzione di Valentiniano III si fonda sulle testimonianze raccolte da papa L. nel processo da lui intentato, per rinnovare le misure adottate dai suoi predecessori nei confronti dei manichei. Dopo aver ripetuto il giudizio degli inquisiti, eccezionalmente davanti al Senato piuttosto che davanti al prefetto della città, i manichei vengono privati di tutti i diritti civili, allontanati dalla città, privati del diritto a ereditare; il fisco imperiale ne incamera i beni alla morte; chi li denuncia non incorre nelle pene previste nel caso la testimonianza si riveli falsa.
Oltre che nel caso dei manichei, L. si rivolse più volte, con autorità, ai vescovi delle diocesi d'Italia e dell'Occidente, sia a proposito di questioni di vita ecclesiale (tempi per l'amministrazione del battesimo, conduzione dei beni ecclesiastici, vita del clero: epp. 16, 17, 19, 49), sia a difesa dell'ortodossia della fede. Nei primi anni del pontificato, egli affrontò il problema del pelagianesimo che continuava ad essere diffuso. Informato da Settimo, vescovo di Altino, della persistenza di questo movimento nella regione di Aquileia, L. scrisse al metropolita di questa città ordinandogli una maggiore vigilanza e indicandogli le misure da adottare (ep. 1). Nel corso del primo decennio di pontificato, si registrano due casi rilevanti di interventi di L. di tipo giurisdizionale. Il primo è il caso del vicariato apostolico di Arles, il secondo riguarda la sede di Tessalonica.
Alla primazia della Gallia miravano sia la sede metropolitana di Arles, che quella di Vienne. Arles era stata privilegiata da Costantino e inoltre, nel 417, aveva visto riconosciuta una certa sua supremazia nei riguardi di varie Chiese della Gallia, da parte di papa Zosimo. Al tempo di L., il vescovo Ilario di Arles (430-449), un monaco intransigente, si attribuì l'autorità di far deporre da un sinodo il suo avversario, il vescovo Celidonio di Vienne che si appellò a Roma. L. ammonì Ilario invitandolo alla moderazione e comunicò la riabilitazione di Celidonio ai vescovi della provincia di Vienne (ep. 10). Nel contempo, ottenne dall'imperatore Valentiniano III un decreto in cui si stabiliva che il governatore della Gallia garantisse l'osservanza delle decisioni sinodali. Per quanto riguarda la sede di Tessalonica, il problema consisteva nel fatto che la Macedonia, benché amministrativamente legata all'Oriente, dal punto di vista ecclesiastico era rimasta sotto la giurisdizione della Sede romana. Il vescovo di Tessalonica era inoltre considerato vicario apostolico dell'Illirico orientale. Verso il 444, Anastasio, vescovo di Tessalonica, chiese a L. la conferma di tale ruolo, e il papa la concesse volentieri, probabilmente intendendo così riaffermare la giurisdizione romana nei confronti delle aspirazioni di Costantinopoli (ep. 6). Ammonì i vescovi dell'Illirico a sottomettersi ad Anastasio (ep. 5), ma al vescovo di Tessalonica vennero ben delineati i limiti della sua autorità e le regole da osservare per la convocazione e lo svolgimento dei sinodi (epp. 6 e 14).
Nel corso della prima metà degli anni Quaranta andarono scomparendo i protagonisti della controversia nestoriana: verso il 441-442 morì Giovanni di Antiochia, nel 444 Cirillo di Alessandria, nel 446 Proclo di Costantinopoli. Nestorio viveva ancora, ma in esilio nel deserto libico. In questi anni, in Oriente, emerse la personalità teologica di Teodoreto di Ciro che, all'apice della sua produzione, condusse la riflessione sulle due nature di Cristo a un più avanzato livello di maturazione e di equilibrio. Anche dall'altra parte, dopo la scomparsa di Cirillo, emersero nuove personalità la cui opera tuttavia era destinata a sollevare rinnovati e gravi problemi. Dagli ambienti monastici di Costantinopoli, tradizionalmente vivaio di accentuati fermenti dottrinali, apparve sulla scena Eutiche. Era questi un monaco ormai anziano a cui la fama di austerità e di vita degna di venerazione avevano guadagnato non solo una grande popolarità sia a corte che tra la popolazione, ma anche una tale autorità morale presso tutti i monaci della capitale, da averne il generale assenso. L'imperatore Teodosio II aveva per lui un rispetto profondo, ma a corte il maggior appoggio Eutiche lo aveva da un personaggio che giocò ruoli determinanti: Crisafio, un eunuco, figlioccio del monaco, faceva da tramite e influiva sulla politica imperiale in materia religiosa. Quando, nel 441, Crisafio divenne il favorito dell'imperatore, l'autorità di Eutiche divenne predominante. Flaviano, che a Costantinopoli fu il successore del patriarca Proclo, fin dai primi tempi del suo episcopato assistette alla reviviscenza delle dispute che ben presto lo coinvolsero e lo travolsero e che vedevano contrapposti Eutiche e Teodoreto di Ciro. I principali elementi della rinnovata controversia sono testimoniati dall'Eranistes, opera di Teodoreto, del quale anche le lettere testimoniano la grave situazione delle Chiese d'Oriente.
La dottrina di Eutiche, maturata negli anni dell'antinestoriano patriarca Proclo e dell'archimandrita Dalmazio, difensore di Cirillo, accentuò l'intento di salvaguardare l'unità di Cristo fino al punto da intendere l'umanità assunta dal Salvatore così permeata dalla divinità da divenire unica e diversa da quella degli altri esseri umani. La sua tesi fondamentale era che, dopo l'unione realizzatasi nell'incarnazione, una sola fosse la natura del Verbo di Dio incarnato. La propaganda delle idee di Eutiche si svolse nel contesto di una rinnovata generale campagna contro i vescovi dell'area antiochena, nella quale fu attivo Dioscoro, successore di Cirillo nel patriarcato di Alessandria. Nel febbraio del 448 un decreto imperiale ispirato da Eutiche condannava tutti gli scritti indicati come non conformi ai concili di Nicea e di Efeso e alla fede insegnata da Cirillo. Inoltre l'imperatore decretava la deposizione e la scomunica di tutti i vescovi che fossero risultati seguaci di Nestorio. Una lettera di L. del 1° giugno 448, in risposta a Eutiche, indica che questi si era rivolto al papa. L. lo ringrazia di avere voluto informare il papa della ripresa dell'eresia di Nestorio, ma la risposta è improntata a grande prudenza ed egli assicura Eutiche che, quando le informazioni saranno più precise, occorrerà prendere provvedimenti (ep. 20).
L'8 novembre successivo, il patriarca Flaviano riunì a Costantinopoli il cosiddetto sinodo permanente, la riunione cioè dei vescovi presenti nella capitale e perciò facilmente convocabili. Il vescovo Eusebio di Dorileo, che a suo tempo era stato il primo accusatore di Nestorio, presentò un "libellus", cioè una denuncia scritta, contro Eutiche accusandolo di eresia. Si svolse pertanto un processo nei confronti dell'archimandrita, il quale solo nell'ultima delle sette sessioni (dal 12 al 22 novembre) fece la sua apparizione, ma si rifiutò di sottoscrivere una formula approvata dal sinodo alla ricerca di una mediazione. Pertanto fu dichiarato eretico e venne scomunicato. Eutiche, da parte sua, si mise all'opera, intenzionato a non venire a patti con le decisioni del sinodo costantinopolitano. Inviò lettere dappertutto. Resta, in traduzione latina e in due redazioni, quella diretta a L., in cui critica duramente le procedure del sinodo, e supplica il papa di pronunciare il suo autorevole giudizio e di proteggerlo dalle calunnie dei suoi avversari. Alla lettera, Eutiche unì un suo "dossier" con la propria dichiarazione di fede respinta da Flaviano e una raccolta di testi come documentazione a sostegno.
Ancora una volta, L. adottò un atteggiamento di prudenza: egli scrisse contemporaneamente al patriarca Flaviano (ep. 23) e all'imperatore Teodosio (ep. 24) in data 18 febbraio 449. Quest'ultima è una risposta, il che significa che l'imperatore si era rivolto al papa, probabilmente - come si evince dal tono sia pur molto attento delle due lettere di L. - perorando la causa di Eutiche ed esprimendo riserve sull'operato di Flaviano. A questi il papa chiede chiarimenti, dicendo di non aver compreso bene, dalla documentazione inviata da Eutiche, il criterio seguito nella condanna, e di esigere che tutto sia portato a conoscenza per potere obiettivamente appurare i fatti senza pregiudizio di nessuna delle parti. Anche all'imperatore dice di non avere sufficiente chiarezza sull'accaduto e che l'appello ricevuto da Eutiche è piuttosto sommario e tocca solo alcuni dei punti in questione. Lo informa inoltre del richiamo rivolto a Flaviano riguardo al fatto che non aveva dato informazioni tempestivamente.
Eutiche intanto svolgeva la sua propaganda in Oriente, ma soprattutto si serviva dei suoi protettori a corte, primo fra tutti Crisafio, per influire sull'imperatore, il quale alla fine dispose un riesame degli atti e del verdetto del sinodo del 448. Teodosio acconsentì anche alla riabilitazione di Eutiche e, con un decreto del 30 marzo 449, convocò un concilio generale il cui scopo sarebbe stato quello di chiarire le questioni controverse; l'intenzione però appare diretta a sconfiggere definitivamente il nestorianesimo, a riabilitare pienamente Eutiche e a condannare il patriarca Flaviano con i suoi sostenitori. La presidenza del concilio fu affidata infatti non al vescovo della capitale, ma al suo rivale, Dioscoro d'Alessandria. Inoltre Teodoreto, il rappresentante dottrinalmente più autorevole dell'opposizione, ricevette la proibizione di partecipare al consesso dei vescovi. Flaviano scrisse due volte a Roma (epp. 22 e 26 dell'epistolario di L.), spiegando i suoi atti precedenti, accludendo gli atti del sinodo del 448 e chiedendo indicazioni per il presente.
Il papa gli rispose con la lettera (ep. 28), che va sotto il nome di Tomus I, ad Flavianum, all'inizio della quale, ancora con un richiamo al ritardo, dice che finalmente, dopo aver letto le due lettere ricevute e la documentazione, gli appaiono chiare l'imprudenza e l'ignoranza di Eutiche. Il Tomus, che è una lunga trattazione della "giusta nozione dell'incarnazione del Verbo di Dio", fu portato a Costantinopoli da una legazione inviata da L. e composta dal vescovo Giulio di Pozzuoli, dal presbitero Renato (che morì durante il viaggio) e dal diacono Ilaro, il futuro successore di Leone. La legazione partì da Roma il 13 giugno 449; l'8 agosto, a Efeso, si riunì il sinodo a cui erano presenti circa centoquaranta vescovi, ma nel quale ebbero parte dominante i gruppi di monaci provenienti da Costantinopoli al seguito di Eutiche, dall'Egitto, al seguito di Dioscoro di Alessandria, dalla Siria, al seguito dell'archimandrita Barsuma.
I rappresentanti del papa avrebbero dovuto leggere il Tomus davanti all'assemblea, allo scopo di chiarire gli aspetti dottrinali, ma di fatto Dioscoro, che presiedeva, ed Eutiche riuscirono a non far prestare ascolto alle ripetute richieste dei legati di Roma e a far nutrire dubbi all'assemblea circa la loro imparzialità. Eutiche fu dichiarato ortodosso da centotrenta dei vescovi presenti e venne riabilitato come presbitero e archimandrita. Flaviano ed Eusebio di Dorileo vennero rimossi dalla loro carica con l'accusa di avere apportato aggiunte al Credo niceno. Il diacono romano Ilaro protestava in latino, non essendo in grado di parlare greco; i vescovi orientali si agitavano. L'assemblea si trasformò in un tumulto quando Dioscoro fece irrompere soldati, monaci e i "parabalani" (portantini di malati a disposizione del patriarca di Alessandria) che facevano parte del suo seguito. Riferendosi più tardi a questo sinodo, L. coniò la famosa frase: "In illo Ephesino non iudicio sed latrocinio" (ep. 95, a Pulcheria imperatrice, del 20 luglio 451). In un'altra sessione del sinodo, il 22 agosto, vennero deposti ed esiliati altri vescovi orientali: quello di Antiochia, di Edessa e Teodoreto di Ciro; il vescovo Giovenale di Gerusalemme fu il primo ad esprimere il voto a favore dell'ortodossia di Eutiche.
A Roma, giunsero a L. diversi generi di appelli dopo l'accaduto. Accorata fu la richiesta d'aiuto di Flaviano che gli chiedeva di cercare in tutti i modi di intervenire presso imperatore, clero e monaci della capitale; eco del suo Tomus ricevette dalla parte dottrinalmente più qualificata, cioè da Teodoreto di Ciro, che scrisse una splendida lettera esprimendo il suo riconoscimento del primato romano e grande apprezzamento per la dottrina sull'incarnazione. Teodoreto, più che appoggio per sé, chiede che il successore di Pietro vegli sulla retta fede, eredità dei padri, e dedica la parte centrale della lunga lettera ad una esposizione della dottrina dell'incarnazione così come egli la coglieva nel testo di L. e gli appariva in sintonia con la propria sensibilità: "Noi siamo riusciti ad avere gli scritti della tua santità [dice Teodoreto] e siamo rimasti ammirati dalla precisione dei termini. Essi mettono in luce i due elementi: la divinità eterna del Figlio unigenito nato dal Padre eterno, e la sua umanità che discende dal seme di Abramo e di David; proclamano inoltre che la natura assunta fu in tutto simile alla nostra, differendo solo nel fatto che era totalmente esente da peccato, dal momento che questo non proviene dalla natura, ma dalla scelta della volontà. Nei tuoi scritti è anche espresso il fatto che in quanto unigenito Figlio di Dio, la sua divinità è impassibile, immutabile, invariabile come il Padre che l'ha generato e lo Spirito Santo. Dal momento che la natura divina non poteva soffrire, Egli ha preso una natura passibile per liberare dalla sofferenza, con la sofferenza della propria carne, coloro che credessero in Lui" (ep. 113 di Teodoreto).
I due elementi posti in evidenza da Teodoreto con la massima chiarezza sono il principio cristologico dell'unità del soggetto individuata nel libero arbitrio, e il principio soteriologico della salvezza integrale della natura umana attraverso la sofferenza della passione di Cristo. Questi temi Teodoreto aveva sviluppato, sin dagli anni Trenta nei suoi scritti, specialmente nel De incarnatione, e li ribadirà poco tempo dopo avere dichiarato a L., nella lettera ai monaci di Costantinopoli (ep. 146), redatta dopo avere avuto la possibilità, dall'imperatore Marciano, di rientrare nella sua sede episcopale. I due elementi sono in effetti gli aspetti su cui maggiormente insiste L. lungo il percorso dei suoi sermoni, in particolare quelli sulla passione. Anche Nestorio ebbe la possibilità di leggere il Tomus di L. e se ne rallegrò nel suo esilio, come racconta nel suo ultimo scritto, il Liber Heraclidis. Non mancarono persone a lui vicine che lo incoraggiarono a scrivere al papa, ma egli si rifiutò e ne lascia consegnata la ragione: "Poiché molti mi disapprovavano numerose volte per non avere scritto a Leone, vescovo di Roma […], almeno quando mi fu rimessa una parte della lettera che conteneva il suo giudizio su Flaviano ed Eutiche e dalla quale era evidente che egli non aveva timore di perdere l'amicizia dell'imperatore, ecco perché non ho scritto. Non è stato perché io sia uomo orgoglioso e senza intelligenza, ma invece per non arrestare nella sua corsa, a causa dei pregiudizi esistenti contro la mia persona, colui che stava camminando bene. Io ho accettato di sopportare ciò di cui ero accusato, affinché gli uomini potessero ricevere senza ostacolo l'insegnamento dei Padri mentre io rimanevo sotto accusa, perché la mia preoccupazione non è quanto è stato fatto contro di me" (Liber Heraclidis 330).
Da Roma, L. prese numerose iniziative epistolari. Il 13 ottobre 449, a nome del sinodo romano che si era tenuto dal 29 settembre al 13 ottobre, egli scrisse contemporaneamente all'imperatore, alla sorella di lui Pulcheria, a Flaviano, al clero e al popolo di Costantinopoli, a quattro importanti archimandriti (epp. 43; 44; 49; 50; 51). L'imperatore mantenne la posizione di parte; nel novembre nominò come successore del deposto Flaviano l'alessandrino Anatolio. Il 16 luglio 450 L. inviò una sua delegazione con il compito di condurre negoziati diretti. Questi inviati erano nuovamente latori del Tomus, a cui erano acclusi questa volta un "dossier" di estratti patristici e le lettere 69-71. Ma l'evento inatteso della morte improvvisa dell'imperatore, il 28 luglio 450, determinò un cambiamento radicale della situazione: sul trono salì la sorella di Teodosio, Pulcheria. Il Tomus di L., immediatamente accolto con grande considerazione e tradotto prontamente in greco insieme agli estratti dei Padri, venne promulgato dal sinodo di Costantinopoli nell'ottobre successivo. L'imperatrice, che aveva immediatamente tolto ogni ruolo al potente Crisafio, il protettore di Eutiche, il 25 agosto aveva intanto sposato un valido ufficiale, Marciano, di origine tracia, che elevò a coreggente e che si pose sollecitamente in rapporto con L., comunicandogli la sua ascesa al trono e assicurandogli tutta la sua collaborazione per ristabilire la pace della Chiesa mediante la convocazione di un nuovo concilio generale, che si tenne a Calcedonia nell'ottobre del 451.
Il Tomus rappresenta la sintesi dell'elaborazione cristologica di L. prima degli eventi del 449-450 e prima del concilio di Calcedonia. Vanno tenuti presenti i sermoni dei primi otto anni del pontificato per comprendere gli elementi della sua riflessione dottrinale. Il Tomus, nella sua parte centrale, riprende addirittura alla lettera interi brani di sermoni degli anni precedenti. In particolare, Tomus, 3-4 (vv. 54-120) risulta dalla composizione, in successione, dei sermoni 21, 2; 23, 2; 22, 1; 22, 2; 22, 3; 24, 3; 54, 2. Si tratta dei sermoni natalizi degli anni 441-444 e del sermone sulla passione della domenica delle Palme del 442.
Emblematici sono alcuni passi della sezione del Tomus nella quale vengono redazionalmente composti brani dei sermoni appena citati: "Salve le proprietà specifiche dell'una e dell'altra natura [salva igitur proprietate utriusque naturae], che vennero a confluire in una persona, dalla maestà fu assunta l'umiltà, dalla potenza la debolezza, dall'eternità la mortalità, e per distruggere il debito gravante sulla nostra condizione, la natura inviolabile fu unita alla natura passibile. Avveniva così, conformemente alle esigenze della nostra salvezza, che il solo ed unico mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo uomo, poteva morire in virtù di una natura, come non poteva morire in virtù dell'altra natura [cfr. sermone 21, 2]. Perciò in un'integra e perfetta natura di vero uomo nacque il vero Dio, completo di tutti gli attributi sia suoi che nostri. E dicendo nostri intendiamo ciò che il Creatore pose in noi fin dall'origine e che poi assunse per restaurarlo. Di ciò che invece vi fu immesso dal demonio ingannatore, e dall'uomo ingannato fu accolto, non esisteva alcuna traccia nel Salvatore: non bisogna pensare che egli, per il fatto che volle condividere le nostre debolezze, partecipasse anche alle nostre colpe. Egli assunse la condizione di schiavo, ma senza la contaminazione del peccato: arricchì così l'elemento umano, ma non sminuì l'elemento divino, poiché quell'annientamento che lo rese - lui l'invisibile - visibile, e per cui volle - lui, il creatore e il padrone di tutte le cose - essere un comune mortale, fu atto di misericordiosa condiscendenza, e non esaurimento della sua potestà [cfr. sermone 23, 2]. Pertanto colui che rimanendo nella condizione di Dio fece l'uomo, nella condizione di schiavo si fece uomo [qui in forma Dei fecit hominem, in forma servi factus est homo]. Mantiene infatti integralmente l'una e l'altra natura ciò che le è proprio; sicché, come la condizione di Dio non sopprime la condizione di schiavo, così la condizione di schiavo non ridimensiona la condizione di Dio [cfr. sermone 23, 2]. […]. Ciascuna delle due nature [utraque forma] compie, restando in comunione con l'altra, ciò che le è proprio, e quindi il Verbo opera ciò che è del Verbo, mentre la carne esegue ciò che spetta alla carne. È così che l'uno brilla per i miracoli che compie, mentre l'altra soccombe per gli oltraggi che subisce, e come il Verbo non si distacca dalla gloria paterna che possiede in eguale misura, così la carne non abbandona la natura della nostra stirpe umana [cfr. sermone 54, 2]. Difatti un solo ed unico soggetto è veramente il Figlio di Dio ed è veramente il Figlio dell'uomo: è Dio per la ragione che 'in principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio' [Giovanni 1, 1], ed è uomo per la ragione che 'il Verbo si fece carne ed abitò in mezzo a noi' [Giovanni 1, 14]; è Dio per la ragione che 'tutte le cose furono fatte per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto' [Giovanni 1, 3], ed è uomo per la ragione che 'fu fatto da donna e fu fatto sotto la legge' [cfr. Galati 4, 4]" (Tomus, 3-4).
Attraverso l'esame dei termini usati nei brani dei sermoni, che entrano in composizione nella sezione del Tomus, e delle piccole modifiche che si possono rilevare, si osserva il lavorio che L. andò conducendo per anni, riformulando ripetutamente i punti nodali della questione cristologica alla luce della tradizione, particolarmente quella occidentale da Tertulliano ad Agostino. Si osserva, ad esempio, che l'espressione "salva igitur proprietate utriusque naturae" ha sostituito con "natura" il termine del sermone, che era "substantia". L'espressione del sermone è quasi identica a quella usata da Tertulliano: "adeo salva est utriusque proprietas substantiae" (Adversus Praxean 27; cfr. De carne Christi 5); quella del Tomus risente probabilmente di una fonte più immediata quale lo pseudo atanasiano De Trinitate XI, 68: "salva proprietate utriusque naturae in una persona Christi [...]" L'anonimo trattato era stato conosciuto da Ambrogio e Agostino, ai quali si presentava con l'autorità di Atanasio. È da osservare inoltre che i due termini, "natura" e "substantia", sono correntemente usati da L. come equivalenti nei sermoni; nelle epistole invece, compreso il Tomus, come si vede nel caso in esame, egli preferisce "natura" perché, per destinatari di lingua greca, "substantia" sarebbe stato fuorviante in quanto avrebbe come corrispettivo in greco hypòstasis con il significato di "subsistentia". Si può osservare ancora come l'espressione "qui in forma Dei fecit hominem, in forma servi factus est homo" è modellata su espressioni ricorrenti nei sermoni natalizi di Agostino. Nel sermone 23 di L., a cui il Tomus attinge per questo passo, l'espressione appartiene a un contesto in cui l'antinomia paolina "forma Dei - forma servi" (Filippesi 2, 5-7) è accostata a Giovanni 10, 30 e 14, 28. Tale accostamento, in senso antiariano, è abbondantemente ricorrente in Agostino (cfr. epp. 170, 9; 238, 2; Tractatus in evangelium Iohannis 78, 1-2; Enarrationes in Psalmos 63, 13 e 138, 3; De Trinitate 2, 1-3), che trovava nella formula paolina la sintesi dei due passi giovannei (cfr., di Agostino, sermone 293 E, 2).
"Utraque forma", infine, è usato nel senso di "natura" nel passo ripreso dal sermone 54, 2: "Agit utraque forma cum alterius communione quod proprium est, Verbo scilicet operante quod Verbi est et carne exequente quod carnis est". Il riferimento alle operazioni dell'una e dell'altra natura viene considerato principio di individuazione, in analogia con la dottrina trinitaria (Ilario, Cappadoci, Agostino) che indicava le operazioni delle tre persone divine come principio dimostrativo dell'uguale dignità e natura. Inoltre, nei sermoni e nel Tomus, l'agire, come espressione della libera volontà, è l'elemento determinante della persona: in Cristo, la sua volontà umana è libera dal peccato e ciò le permette di operare in perfetta unione con la sua volontà divina. L'immediato contesto del sermone 54, 2, a cui attinge il Tomus, fa esplicito riferimento alla libera volontà del Figlio dell'uomo che è "venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto" (cfr. Luca 19, 10). Il concetto di redenzione è in L. strettamente legato al valore della libera scelta di Cristo che ha assunto tutta la debolezza umana "non de necessitate sed de voluntate", di modo che dal di dentro dell'umanità, laddove c'era il peccato, egli operò con il prezzo della gratuità e dell'amore; egli cura ciò che è infermo facendolo proprio, riveste di forza ciò che è debole, realizza il salutare commercium, lo scambio che salva (sermone 54, 4). Anche questo testo è ampiamente radicato in Agostino, di cui riprende intere espressioni da Enarrationes in Psalmos 30, 2, 1.3.
Questi esempi mostrano come, a monte del Tomus, i sermoni degli anni precedenti testimonino ampiamente la riflessione di L. intorno ai temi cristologici, mettendo a frutto anche i grandi testi della controversia trinitaria. Tale lavoro di ricerca, di sintesi e di applicazione precede gli anni del pontificato e copre l'intero decennio tra il concilio di Efeso e quello di Calcedonia, se si pensa che nel 430, quando era già un personaggio di spicco nel clero romano, L. aveva incaricato il monaco Cassiano, del monastero di S. Vittore a Marsiglia, di fare un'esposizione della dottrina di Nestorio. A Roma, all'epoca, era disponibile una copiosa, ma tendenziosa documentazione su Nestorio, inviata da Cirillo di Alessandria a papa Celestino, e anche lettere e sermoni che Nestorio stesso aveva inviato al papa. Certamente Cassiano ebbe a disposizione l'uno e l'altro materiale, ma nel redigere la sua opera De incarnatione Domini contra Nestorium, ne fece un uso che si rivela pregiudiziale e ampiamente condizionato da un problema anch'esso destinato a trascinarsi per decenni, quello delle tendenze pelagiane e antipelagiane nell'ambito del monachesimo della Gallia meridionale. A Roma si era diffusa la voce che Nestorio, come patriarca di Costantinopoli, avesse favorito un gruppo di vescovi pelagiani rifugiatisi nella capitale d'Oriente. Cassiano, che pure a Marsiglia era protagonista della reazione alla dottrina agostiniana della grazia, in nome del valore dello sforzo umano nell'impegno monastico, pose in relazione la cristologia di Nestorio con una sorta di pelagianesimo estremo che, applicato alla cristologia, egli descrisse con termini che riteneva di rintracciare in Leporio, un altro monaco di Marsiglia, espulso dal suo vescovo intorno al 418. Si tratta principalmente della definizione di Gesù come semplice uomo ("solitarius homo"), non di natura divina, al quale gli onori e la potenza divina sarebbero stati concessi da Dio in seguito ai suoi meriti umani. Cassiano stabilì come evidente un rapporto tra questa idea e quella pelagiana secondo cui gli uomini, se vogliono, possono rimanere senza peccato. La perfezione morale dell'umanità assunta in Cristo, negli esempi ricorrenti in Nestorio, gli apparve assimilabile con l'affermazione che le semplici forze dell'umanità possono realizzare la perfezione sognata dai pelagiani.
Nestorio, in realtà, era completamente lontano dal pelagianesimo e inoltre totalmente ignaro delle vicende che ne avevano accompagnato la comparsa e gli sviluppi in Occidente. Tuttavia il trattato di Cassiano si aggiunse alla documentazione antinestoriana tenuta presente dal sinodo romano dell'agosto 430, che condannò Nestorio, e rimase fonte di riflessione e di dibattito negli ambienti monastici; infatti, a Roma, il monaco Arnobio, detto il Giovane, che probabilmente scrive il suo Conflictus cum Serapione in occasione dei fatti del 449 per difendere la cristologia di L., nel contesto dei temi cristologici inserisce una lunga sezione rivolta a dimostrare una posizione di equilibrio sul tema della grazia e del libero arbitrio, e lo fa adducendo testi di Agostino sapientemente selezionati e adattati, a cui fa seguire il testo intero del sermone 369 di Agostino per il Natale (probabilmente del 413) a sostegno della cristologia delle due nature di Cristo. Di fatto L., da parte sua, accanto alla riflessione cristologica, condusse con estremo equilibrio la riflessione sul libero arbitrio e sulla grazia e la guidò nei suoi collaboratori (si pensi alla progressiva evoluzione della posizione di Prospero d'Aquitania da un agostinismo accentuato alla visione moderata della sua opera De vocatione omnium gentium). Tutti i sermoni di L., prima e dopo Calcedonia, sono strutturati sostanzialmente in due parti: una propriamente cristologica, l'altra di carattere parenetico o, più precisamente, di applicazione della dottrina accuratamente indirizzata a delineare come il mistero della salvezza rivolto a tutti richiede, proprio per la sua gratuità, una risposta personale e libera che si traduce nell'impegno a seguire Cristo, ad imitarne gli esempi, e a rinnovarsi interiormente con la forza del "sacramentum" liturgico. In particolare i sermoni 62 e 63, della domenica delle Palme e del mercoledì successivo, dell'anno 452, rivelano lo sforzo di L. nel delineare una spiritualità cristiana improntata al maggior equilibrio tra la dottrina della grazia di matrice agostiniana e il patrimonio ascetico d'origine monastica occidentale.
Il 17 maggio 451 l'imperatore Marciano convocò il nuovo concilio generale per l'autunno successivo. La sede doveva essere Nicea, ma fu poi trasferito per volere dell'imperatore a Calcedonia, più vicina alla capitale, e si inaugurò l'8 ottobre nella chiesa di S. Eufemia alla presenza di cinquecento vescovi e alcuni rappresentanti dell'imperatore. L., in varie lettere scritte durante l'estate, dichiara che avrebbe preferito una dilazione della data del concilio, rende noti i nomi dei suoi rappresentanti e si pone con autorità circa i problemi da affrontare (epp. 89-98). I rappresentanti del papa erano i vescovi Pascasino, Lucenzio, Giuliano e i presbiteri Bonifacio e Basilio.
A nome del papa, Pascasino chiese subito l'esclusione dalle discussioni sinodali di Dioscoro, il patriarca di Alessandria che era stato al centro degli eventi del 449, e che venne ora, nel corso di una successiva sessione, messo sotto accusa e deposto. Quanto alle questioni di fede, i rappresentanti dell'imperatore chiesero che si giungesse a un chiarimento mediante la messa a punto di una nuova formula di fede. La proposta suscitò perplessità perché L. stesso riteneva che non occorresse andare al di là di una accettazione chiara del suo Tomus e che in ciò consistesse la chiarificazione (epp. 91 e 93). Inoltre il concilio di Efeso del 431 aveva interdetto l'uso di altra formula che non fosse quella di Nicea del 325. Vennero letti e confermati alcuni documenti: la formula nicena con le integrazioni costantinopolitane del 381, due lettere di Cirillo (la seconda a Nestorio e quella a Giovanni d'Antiochia, del 433) e il Tomus ad Flavianum di L., dopo l'ascolto del quale l'assemblea acclamò: "Ha parlato Pietro attraverso Leone". Tuttavia, dopo laboriose discussioni, si giunse all'approvazione di una nuova formula di fede, la quale, nella parte specifica, afferma chiaramente che "l'unico Cristo Signore Unigenito [è] da riconoscersi in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione, senza che in alcun modo la distinzione delle nature sia stata annullata a causa dell'unione, ma anzi è conservato ciò che è proprio a ciascuna natura pur formando una sola persona e una sola ipostasi". L'altra affermazione specifica della formula di Calcedonia, in direzione antimonofisita, è che: "il Signore nostro Gesù Cristo, consustanziale al Padre secondo la divinità, [è] consustanziale a noi secondo l'umanità". Nel suo insieme, la formula, oltre la tradizione dei concili generali precedenti, recepisce termini della formula di unione del 433 nella quale aveva avuto parte importante Teodoreto; tiene accuratamente conto di sfumature cirilliane e accoglie espressioni del Tomus di Leone. Il concilio di Calcedonia cercò dunque la composizione tra le principali istanze cristologiche; L., informato degli esiti, si congratulò con le autorità imperiali e con i Padri conciliari, e comunicò il risultato ai vescovi occidentali (epp. 102-106).
L'ultima fase del concilio, oltre che della riabilitazione di Teodoreto di Ciro e Ibas di Edessa, condannati a Efeso nel 449, si occupò di alcuni problemi riguardanti i rapporti tra i patriarcati d'Oriente. In questo contesto fu approvato il canone 28 che ribadiva quanto stabilito dal concilio di Costantinopoli del 381 riguardo al secondo posto di Costantinopoli, la nuova Roma, dopo il primo di Roma, nonostante le proteste dei delegati romani a cui la graduatoria sembrava non consonante con il contenuto proprio del primato romano. Secondo L., sulla base di una redazione romana del canone 6 di Nicea, l'ordine gerarchico era quello delle tre sedi apostoliche di Roma, Alessandria e Antiochia (epp. 105-106). Fu questa la ragione di un certo ritardo nel suo assenso ai documenti di Calcedonia, che venne espresso, e solo per quanto riguarda la formula di fede, nel 453 (ep. 114) e dietro insistenze dell'imperatore Marciano. Questi da parte sua, sin dalla conclusione del concilio, ne era divenuto fermo sostenitore in nome della pace dell'Impero, il che però si tradusse anche in misure repressive nei riguardi dei focolai di resistenza e di opposizione di matrice eutichiana.
Un vero e proprio movimento contro Calcedonia fu determinato dai monaci di Gerusalemme e dintorni, capeggiati dal monaco Teodosio. Questi lasciò il luogo del concilio prima ancora della conclusione e tornò in Palestina dove cominciò a propagandare l'idea che a Calcedonia ci si fosse dichiarati a favore del nestorianesimo, cosicché lo stesso vescovo di Gerusalemme, Giovenale, che peraltro in passato era stato sempre dalla parte del partito alessandrino e, prima del concilio, molto contrario al Tomus di L., fu accolto a Cesarea, durante il viaggio di ritorno alla sua sede, da una folla agitata di monaci e di popolo, e invitato a ritirare il suo assenso a Calcedonia. Giovenale veniva trattato da traditore e rinnegato, e, pur essendo ben lontano dall'essere tra i sostenitori di L., il quale a sua volta aveva scarsa considerazione di lui (cfr. ep. 85), venne accomunato al vescovo di Roma nell'aspra e ruvida reazione dei monaci. Già durante il concilio, subito dopo la sessione decisiva del 25 ottobre 451, era stato fatto circolare un documento da sottoscrivere che avrebbe dovuto, "in extremis", ridare vigore al fronte dell'opposizione: questo scritto, che avrebbe rappresentato una ritrattazione dei vescovi che lo avessero firmato dopo aver dato il proprio assenso alla formula conciliare, conteneva anatemi al concilio, a L., a Giovenale. Nelle sedi episcopali della Palestina furono insediati monofisiti, compagni di fede del monaco Teodosio, il quale aveva anche l'appoggio dell'imperatrice Eudossia, la vedova di Teodosio II, che risiedeva a Gerusalemme. Marciano fu impegnato su tutti i fronti a difendere la pace dell'Impero, che riteneva di veder ristabilita sulla base della formula di fede approvata dal concilio generale. Ad Alessandria si dovette applicare la forza delle armi per portare, nel novembre 451, sulla sede episcopale Proterio, uomo pacifico il quale tuttavia, nel marzo 457, venne assassinato dal partito monofisita. Sul fronte romano, Marciano cercava approvazione e sostegno da parte di L., presentandosi con i frutti del successo di cui aveva partecipato l'autore del Tomus, e come promotore e difensore dell'unità della fede cattolica.
Nella relazione dell'imperatore inviata al papa dopo la conclusione del concilio, vi era anche la richiesta del riconoscimento del canone 28, lamentando la resistenza dei legati romani. Analoga richiesta giunse a L. da parte di Anatolio, il patriarca di Costantinopoli successore di Flaviano.
Sia nella lettera 106, del 22 maggio 452, diretta ad Anatolio, sia in quella dell'11 giugno 453, mandata a Massimo di Antiochia (ep. 119), L. fa riferimento al canone 6 di Nicea, secondo la redazione romana sconosciuta in Oriente. Erano venute delineandosi due diverse visioni: l'orientale, secondo cui l'ordine di prestigio delle Chiese doveva essere regolato in base al grado civile delle città episcopali, e quella del papa legata al principio dell'origine apostolica. Il problema tuttavia assunse il significato di richiamare l'attenzione sulla peculiarità e singolarità della fonte dell'autorità ecclesiastica e segnò un avanzamento nella concezione ecclesiologica della Sede romana.
L. ebbe notizia della ribellione dei monaci palestinesi solo nell'autunno del 452: la notizia gli era giunta da una lettera, oggi perduta, del vescovo Giuliano di Chio a cui rispose il 25 novembre 452. Nelle lettere 115, 116, 117, del 21 marzo 453, dirette rispettivamente all'imperatore, all'imperatrice e al vescovo Giuliano, L. si mostra al corrente degli avvenimenti e dei provvedimenti dottrinali e militari di parte imperiale; ma rivendica a sé il ruolo di illuminare gli spiriti e di indirizzarli alle fonti dove attingere la retta dottrina della tradizione. Anche la lunga lettera 124, importante testo dottrinale diretto ai monaci palestinesi, cui rimprovera le violenze, manifesta che il suo scopo principale è quello di assumere direttamente il compito dell'insegnamento e dell'indirizzo dottrinale.
Risonanza della difficile situazione si ha in un folto gruppo di sermoni che appartengono al periodo compreso tra il Natale del 452 e quello del 453 (sermoni 28, 29, 38, 46, 64, 65, 66, 79, 91), nei quali l'esposizione della fede è reiteratamente condotta nei termini consueti e insistentemente convalidata sul piano soteriologico. Più ampio risulta il riferimento alle dottrine che hanno accentuato l'uno o l'altro aspetto della persona di Cristo, mentre la retta fede viene presentata come equilibrio tra le opposte tendenze.
Così si esprime nel sermone 28, del Natale 452: "La fede cattolica respinga gli errori degli eretici latranti i quali, sedotti dalla vanità della sapienza umana, si sono allontanati dal vangelo della verità […]. Di fatto, riesaminando le teorie di quasi tutti i sostenitori di false dottrine, che si avventano persino sullo Spirito Santo per negarlo, non troviamo quasi nessuno che sia uscito di strada, se non chi ha negato la reale esistenza in Cristo delle due nature, come vuole la fede, in una sola persona [qui duarum in Christo naturarum veritatem sub unius personae confessione non credidit]. Alcuni infatti hanno riconosciuto al Signore soltanto l'umanità, altri soltanto la divinità. Certuni riconobbero la sua divinità, ma la carne la ritennero solo un'apparenza; altri hanno riconosciuto apertamente che egli aveva assunto una carne reale, senza avere però la natura del Padre […]. Tuttavia, dopo l'accenno alle diverse empietà fra loro congiunte da una stretta parentela delle svariate bestemmie, vi ammonisco a fare attenzione con la vostra devozione a fuggire soprattutto due errori: l'uno, non molto tempo fa, ha tentato non impunemente di farsi strada per opera di Nestorio; l'altro, degno di essere condannato con uguale disprezzo, ha fatto irruzione più di recente con le affermazioni di Eutiche" (sermone 28, 4-5).
L. continua poi descrivendo in termini schematici gli aspetti erronei della cristologia sia di Nestorio sia di Eutiche, ponendo in evidenza il criterio soteriologico di valutazione: se il Figlio della Vergine non fosse stato nella sua persona anche il creatore della madre, non avesse cioè avuto potere divino, per l'umanità non vi sarebbe alcuna speranza di salvezza; viceversa, se dall'unione della natura divina e della natura umana, ciò che era duplice si fosse ridotto a uno solo, allora l'umanità sarebbe stata ridotta a sola apparenza e, di conseguenza, non rimarrebbe spazio per la speranza nella risurrezione. Non ci sarebbe stato chi doveva risorgere se non ci fosse stato chi poteva essere messo a morte ("non fuit qui deberet resuscitari, si non fuit qui posset occidi"; sermone 28, 5).
Nel sermone 64 sulla passione, della domenica delle Palme del 453, che insieme al sermone 65, del mercoledì successivo, viene ripreso nella lettera 124 ai monaci orientali, dell'estate dello stesso anno, ancora più determinatamente vengono indicati i due principali contenuti della fede cristiana, e in stretto rapporto tra loro: la riconciliazione del mondo e l'assunzione della natura umana da parte di Cristo (sermone 64, 1). Dopo aver fatto poi allusione alla resistenza anticalcedoniana, il sermone è caratterizzato da una vigorosa sintesi che pone in continuità la teologia dell'incarnazione e quella della generazione trinitaria del Verbo proprio per mezzo del tema della salvezza come disegno originario di Dio.
Il corpo del sermone è in forma di ampia professione di fede, quasi una spiegazione e un commento al simbolo della fede cattolica: dopo una sintesi sulla generazione trinitaria, indica il passaggio dalla vita trinitaria all'economia della salvezza nell'assunzione da parte della persona del Figlio dell'opera della "restaurazione" del genere umano. Tale opera si pone in continuità con la creazione di cui il Verbo è il principio "per quem". Creazione e opera della salvezza congiungono l'inizio al compimento, di modo che la soteriologia diviene il principio esplicativo della cristologia. Viene inoltre accentuato il tema della redenzione mediante il sacrificio e in particolare mediante lo spargimento del sangue, nell'insieme di una accentuata terminologia riguardante la redenzione, che pone in estremo rilievo il valore dell'umanità del Salvatore. I due livelli indissolubilmente uniti della divinità e dell'umanità sono inoltre efficacemente espressi mediante l'immagine di Cristo-medico, di forte ascendenza agostiniana (e prima ancora origeniana), e la progressiva polarizzazione sull'unico mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù (1 Timoteo 2, 5), anch'essa fortemente radicata in Agostino. La sottolineatura leoniana è da cogliere nell'osservazione che la mediazione di Cristo si realizza attraverso la partecipazione alla natura umana, che permette all'uomo la comunione con la figliolanza divina (sermone 64, 3). Questo sermone verrà ampiamente ripreso nella lettera 165, il cosiddetto Tomus II, che L. diresse all'imperatore Leone, il 17 agosto 458.
Il 452 fu per L. un anno cruciale: gli Unni, che da pastori erano diventati guerrieri sotto la guida di Attila, dopo avere tentato di premere ai confini dell'Impero orientale, osarono di più in direzione dell'Occidente. Il generale Ezio, che pure Attila sperava di avere come alleato, riuscì a frenare l'ondata ai Campi Catalaunici (giugno 451). L'anno dopo Attila si volse verso l'Italia; Aquileia fu assediata e distrutta e così altri centri del Veneto. A Roma l'imperatore Valentiniano III era circondato da diversi partiti: chi auspicava l'intervento di Ezio, chi aborriva l'idea che l'Urbe fosse difesa da un barbaro. Si decise di scegliere la via del negoziato e, nell'estate 452, fu inviata una legazione composta da rappresentanti di tutti i poteri: Avieno, che era stato console nel 450; Trigezio, che era stato prefetto, e papa Leone. L'incontro avvenne sulle sponde del Mincio, non lontano da Mantova. Prospero d'Aquitania nella sua cronaca, all'anno 452, presenta L. come l'autorità morale dell'ambasceria: "Egli intraprese questa missione […] confidando nell'aiuto di Dio e sapendo che non viene mai meno nelle difficoltà dei suoi fedeli. La sua fede non fu smentita. Attila ricevette la legazione con grande dignità e si rallegrò tanto della presenza del sommo pontefice [summus sacerdos] che decise di rinunciare alla guerra e di ritirarsi al di là del Danubio, dopo aver promesso la pace".
L'episodio, nei secoli successivi, divenne leggendario ed è recepito, sulla base di fonti precedenti, da Jacopo de Varagine nella Legenda aurea, nei termini epifanici ripresi poi da Raffaello negli affreschi delle Stanze Vaticane: il papa su un cavallo bianco affronta Attila sullo sfondo della Roma imperiale; il cielo carico di nubi è attraversato da folgori; l'apparizione degli apostoli Pietro e Paolo semina terrore tra gli Unni. Questi elementi vennero ancora ripresi nel 1648 da Alessandro Algardi nel monumentale altorilievo dedicato a L. nella basilica di S. Pietro a Roma.
Attila abbandonò l'Italia; il mutamento dei suoi intenti fu dovuto a considerazioni di ordine militare e politico, ma certamente l'aura di prestigio e di sacralità di L. fu accresciuta agli occhi di tutti. Da parte sua, l'unico cenno a quest'evento può essere rintracciato nella lettera a Giuliano di Chio dell'11 marzo 453, dove si esprime in termini dolenti riguardo "ai mali che Dio ha permesso o voluto che noi soffrissimo".
Nel novembre 450 era morta Galla Placidia, la madre e consigliera del debole imperatore Valentiniano III; presso di lui prevalse il partito contrario a una richiesta di sostegno al generale Ezio, il quale venne assassinato a Roma nel settembre 454. Qualche mese più tardi, nel marzo 455, venne assassinato anche Valentiniano, ultimo rappresentante della dinastia di Teodosio. Immediatamente venne creato imperatore il senatore Petronio Massimo, protagonista delle trame dei mesi precedenti: la città era in stato di totale confusione e di rivolta. Mancava qualsiasi potere in grado di imporsi. Genserico, il condottiero dei Vandali, giudicò il momento favorevole per tentare l'avanzata su Roma; probabilmente fu addirittura chiamato da fazioni opposte al nuovo imperatore, forse dalla stessa imperatrice Eudossia, la vedova di Valentiniano, forzatamente sposa dell'usurpatore. La flotta vandalica comparve quasi di sorpresa ad Ostia (Porto) il 3 maggio 455; le truppe avanzarono fino a Roma; Petronio Massimo tentò la fuga, ma fu ucciso dal popolo e dai soldati. La città rimase priva di ogni difesa. L., circondato dal clero, uscì alla "Porta Portuensis" per trattare con l'invasore, che però non riuscì a fermare del tutto: il saccheggio non fu evitato; L. ottenne però che Roma non sarebbe stata incendiata e che gli abitanti sarebbero stati risparmiati. Dal saccheggio inoltre vennero risparmiate le tre basiliche di S. Pietro, S. Paolo e S. Giovanni in Laterano; in esse cercò scampo la popolazione durante quattordici terribili giorni. Tra i prigionieri vi furono anche l'imperatrice Eudossia e le sue due figlie, Eudossia e Placidia.
A Costantinopoli, l'imperatore Marciano dopo la morte di Petronio Massimo, di cui non aveva riconosciuto il breve regno, si considerò imperatore unico, ma non ebbe alcuna possibilità di ostacolare Genserico nella conquista degli ultimi baluardi romani in Africa. In Occidente, il generale che era stato posto da Massimo a capo dell'armata, Eparchio Avito, si fece proclamare imperatore ad Arles, il 29 agosto 455, e il 21 settembre successivo giunse a Roma dove ebbe il riconoscimento del Senato a cui seguì quello di Marciano. Nel 456, il generale Ricimero, fermò un nuovo tentativo di invasione dell'Italia da parte dei Vandali e, il 18 ottobre, depose Avito facendogli succedere, dopo alcuni mesi di interregno, Maggioriano che però venne anche lui deposto e messo a morte da Ricimero nell'agosto 461.
In Oriente, l'imperatore Marciano morì all'inizio del 457; Pulcheria era morta nel 453. Il potere era in mano del potente "magister militum" Flavio Ardabur Aspar, da cui fu scelto come imperatore Leone il Trace, il quale venne incoronato dal patriarca Anatolio. Non sono noti i primi rapporti del nuovo imperatore con papa L., poiché l'epistolario non conserva lettere tra il 13 marzo 455 e il 1° giugno 457. In questa data il papa scrive a Giuliano di Chio (ep. 144), che continua ad essere il suo rappresentante a Costantinopoli, preoccupato perché ha ricevuto notizia di nuove agitazioni degli eutichiani dopo la morte di Marciano, ed esprime la speranza che il nuovo imperatore possa assicurare la pace della Chiesa. In realtà, con il nuovo imperatore (457-474), ha inizio per L. la seconda fase delle difficoltà postcalcedoniane. Il generale Aspar, che rimase a capo dell'esercito fino al 471 quando venne assassinato, era già influente sotto Marciano, ma presso l'imperatore Leone da lui messo in trono, influì sempre più in senso anticalcedoniano. Il punto di riferimento della ripresa monofisita divenne Timoteo Eluro, presbitero di Alessandria fedele a Dioscoro, consacrato vescovo da esponenti monofisiti. Dopo l'assassinio del patriarca Proterio, nel marzo 457, Timoteo assunse la sede patriarcale fino al 460, quando venne deposto ed esiliato. Sono di questo periodo la lettera di papa L. a Giuliano di Chio, già ricordata (ep. 144), la lettera 145 all'imperatore Leone, la lettera 146 ad Anatolio di Costantinopoli, del luglio 457.
Sia al nuovo imperatore che al patriarca di Costantinopoli, L. si rivolge, una volta informato da quest'ultimo dei fatti di Alessandria, manifestando al primo la certezza di ogni appoggio affinché "nulla venga aggiunto o sottratto alla norma di fede che là [a Calcedonia] fu emanata per ispirazione divina" (ep. 145, 1); al secondo, compiacimento per lo zelo dimostrato personalmente e per il promettente atteggiamento dell'imperatore. Tra settembre e ottobre dello stesso anno, L. intensifica la sua comunicazione epistolare in direzione di diverse sedi episcopali (Antiochia, Tessalonica, Gerusalemme), convinto che sarà la fermezza dei vescovi nell'unità della fede l'elemento determinante anche della politica imperiale nei confronti degli eretici (epp. 149; 150). Intanto a Costantinopoli emergevano nuovi elementi anticalcedoniani: il presbitero Attico nella sua predicazione e un altro presbitero, Andrea, che lo sosteneva. L. ne venne a conoscenza e ne parlò al patriarca Anatolio nella lettera 157 del 1° dicembre 457, sollecitandone l'attenzione a riguardo. Dalla stessa lettera e da quella diretta nella medesima data all'imperatore (ep. 156), appare che non sono mancate le pressioni presso la sede imperiale da parte dei seguaci di Eutiche perché si proceda a una revisione della fede calcedoniana, e che l'imperatore è incline a favorire un incontro tra le parti. Il papa si mostra decisamente contrario a questa situazione, lamenta una certa debolezza nell'atteggiamento del patriarca Anatolio e scongiura l'imperatore di essere severo con gli usurpatori del seggio di Alessandria.
Da Costantinopoli giunse a Roma un certo Filosseno, come inviato dell'imperatore Leone; da parte del patriarca Anatolio venne inviato il diacono Patrizio. Il papa, attraverso di loro, inviò nuove lettere all'una e all'altra autorità (epp. 162 e 163 del 21 e 23 marzo 458), ai vescovi e ai chierici cattolici dell'Egitto che si erano rifugiati a Costantinopoli (ep. 160), ai chierici e ai diaconi costantinopolitani (ep. 161). Appaiono da queste lettere la reiterata avversione di papa L. all'idea di nuove dispute e il suo atteggiamento progressivamente confermato riguardo all'immutabilità delle decisioni del concilio calcedonese. L. si mostrava però pronto a inviare una delegazione a Costantinopoli per rappresentare la sua parte presso l'imperatore e per favorire l'istruzione ai fedeli; ma questa non avrebbe dovuto avere alcun rapporto con gli eretici.
La delegazione partì per Costantinopoli il 17 agosto 458: era composta dai vescovi Geminiano e Domiziano che recavano una lettera di presentazione (ep. 164) e, per l'imperatore, la lettera 165, importante testo dottrinale, detto Tomus II, il documento che rappresenta il compendio della cristologia postcalcedoniana di Leone. Dopo un'introduzione e la ripresentazione delle eresie di Nestorio e di Eutiche come duplice attacco alla fede cattolica e poli contrapposti ("haereses contrariae"), il Tomus richiama il simbolo del concilio di Nicea come punto di riferimento per la retta dottrina dell'incarnazione del Verbo. Non c'è possibilità di chiamarsi cristiani per chi ritiene che dalla Vergine sia nata o la carne senza la divinità (Nestorio) o la divinità senza la carne (Eutiche). Lo sviluppo della vera fede nell'incarnazione e nella redenzione in Cristo comporta alcuni punti qualificanti: la fede nella sua piena umanità e divinità è il fondamento per l'autentica dottrina della redenzione in quanto: a) Cristo è l'unico mediatore tra Dio e l'uomo; b) la liberazione dalla morte è possibile solo attraverso la morte dell'Unico che non era soggetto alla morte; c) la redenzione è elargita per mezzo del sangue e del sacrificio di Cristo, secondo la dottrina paolina di Romani 5, 20; Efesini 5, 2; Giovanni 12, 32. Inoltre, l'umanità e la divinità nell'unità della persona di Cristo si manifestano attraverso il carattere proprio delle sue opere ("ex operum qualitate"). Coloro che negano la piena umanità non possono spiegare né la croce né la risurrezione, senza le quali non vi sono salvezza e redenzione. Riprende poi il testo, sempre presente nei sermoni, di Filippesi 2, 6-11 come fondamento particolarmente significativo per la retta dottrina dell'incarnazione e delle due nature in Cristo ("forma Dei-forma servi"). L'ultima parte del Tomus, prima della conclusione, contiene l'esortazione a rifarsi alla tradizione degli apostoli, dei martiri e dei confessori, dei dottori della Chiesa, e il riferimento alle testimonianze patristiche accluse al documento.
Come nel Tomus I, ad Flavianum per il periodo che precede Calcedonia, anche nel Tomus II può essere individuato l'ampio ricorso ai sermoni degli anni successivi al concilio. L'attività di predicazione a Roma è la sede prioritaria di elaborazione dottrinale del pontefice: egli non ha scritto trattati, ma ha enunciato la dottrina nel quadro di un'ecclesiologia particolarmente centrata sul tema paolino del corpo mistico e sull'idea del ruolo di guida del vescovo di Roma, successore di Pietro. La dottrina pertanto è destinata a illuminare e a guidare tutti, in riferimento agli eventi che ne richiedono il progressivo chiarimento per la salvaguardia della autentica fede. Del resto anche le lettere sono espressione dell'attività di L. legata principalmente alla vita della Chiesa e al ruolo del vescovo di Roma; ma la predicazione è la fonte per le lettere dottrinali particolarmente importanti quali i due Tomi. Pertanto, sebbene a questi - e in particolare al Tomus I - si presti generalmente attenzione in riferimento alla dottrina di L., occorre guardare ai sermoni per una visione d'insieme del suo pensiero.
I sermoni 64 e 65, della domenica delle Palme dell'anno 453 e del mercoledì successivo, sono quelli particolarmente ripresi nel Tomus II. L'aspetto più rilevante è quello del lungo brano del sermone 64, 3-4 che corrisponde quasi integralmente ai paragrafi 4-6 del Tomus: viene sviluppato il tema dell'effusione del sangue di Cristo, preziosa per il "riscatto della moltitudine di coloro che sono in schiavitù", sulla base di Efesini 5, 2 che riferisce a Cristo nella passione i termini di offerta e vittima sacrificale. Il tema del sacrificio e dell'effusione del sangue è posto in rapporto da una parte con la realtà dell'umanità del Redentore e dall'altra con l'essere "l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù" (1 Timoteo 2, 5). La sottolineatura di L., nel sermone come nel Tomus, è da cogliere nell'indicare, su basi agostiniane, come la mediazione di Cristo si realizzi nella partecipazione alla natura umana, che permette all'uomo la partecipazione alla figliolanza divina. Inoltre il corpo risorto del Salvatore è il fondamento della speranza della risurrezione (sermone 65, 4 corrispondente a Tomus II, 7).
Nel Tomus viene anche incorporato il passo in cui, nel sermone 64, L., con procedimento ricorrente nella sua predicazione, ripropone la sintesi della dottrina enunciata utilizzando toni letterari ritmati di carattere poetico la cui risultante è quella di veri e propri inni cristologici. Nel sermone 64, 4 (corrispondente a Tomus II, 6), viene articolata una pregnante sequenza sul duplice ritornello "sine Verbi potentia / sine veritate carnis": "senza la potenza del Verbo, la Vergine non avrebbe né concepito né partorito, e senza la verità della carne, il bambino non sarebbe stato a giacere avvolto nelle fasce. Senza la potenza del Verbo, i Magi non avrebbero adorato il fanciullo indicato da un'insolita stella, e senza la verità della carne, non vi sarebbe stato l'ordine di trasferire in Egitto il bambino che Erode voleva uccidere. Senza la potenza del Verbo, la voce del Padre non avrebbe detto dal cielo: 'Questi è il mio Figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto' [Matteo 3, 17], e senza la verità della carne, egli non avrebbe avuto bisogno di cibo quando era affamato né di sonno quando era affaticato. Infine, senza la potenza del Verbo, il Signore non si sarebbe dichiarato uguale al Padre [cfr. Giovanni 10, 30], e senza la verità della carne, non avrebbe detto pure che il Padre è più grande di lui [cfr. Giovanni 14, 28]". E conclude solennemente: "La fede cattolica accoglie i due aspetti ed entrambi difende poiché crede che il Figlio di Dio è uno solo, uomo e Verbo secondo quanto è proprio della sostanza divina e della sostanza umana" (sermone 64, 4 corrispondente a Tomus II, 6 ).
Ai sermoni 64, 4 e 65, 1 è improntato il tratto finale del paragrafo 6 del Tomus, sulla qualità delle azioni di Cristo, che manifestano la natura umana e la natura divina nell'unità della persona: l'intento di L. è ribadire che la salvezza si realizza per mezzo della reale e piena unione in Cristo di due principi di attività che corrispondono alle due nature. Anche il tema della qualità delle operazioni di Cristo dimostra come la dottrina cristologica leoniana sia prioritariamente impostata sulla riflessione soteriologica.
L'imperatore, da parte sua, probabilmente già nell'ottobre 457, aveva preso l'iniziativa di procedere a un'inchiesta presso i vescovi di ciascuna provincia. L'intenzione era di raggiungere tutti i metropoliti dell'Oriente e dell'Occidente, e i principali rappresentanti del monachesimo orientale. A loro volta i metropoliti dovevano convocare i loro suffraganei per chiederne il parere sulla validità delle decisioni del concilio di Calcedonia e sulla legittimità di Timoteo come vescovo di Alessandria. Il risultato doveva essere riferito all'imperatore. Papa L. figura al primo posto fra i destinatari.
Dalle risposte dei metropoliti si intende che vennero convocati i sinodi provinciali; in quella di L. (ep. 156, del 1° dicembre 457) invece si fa riferimento alla dottrina del primato petrino del vescovo di Roma. Con altre lettere, il papa cercò di consolidare la fedeltà a Calcedonia: egli scrisse al patriarca di Costantinopoli e al gruppo di ortodossi egiziani che si erano rifugiati nella capitale dopo la rivolta contro Proterio (epp. 157-158). In tale contesto è da collocare anche la sua ripresentazione della dottrina cristologica nella lettera 165 (il Tomus II) all'imperatore. L'insieme delle lettere di L. in relazione con l'inchiesta promossa dall'imperatore è anche da considerare come espressione dell'atteggiamento dell'Occidente latino riguardo alla vicenda. In Oriente si riunirono i sinodi provinciali; le risposte, solo in parte conservate, furono unanimi nel considerare Timoteo un intruso e, quanto alle decisioni di Calcedonia, solo il vescovo Anfilochio di Sida, anche a nome dei suoi suffraganei, parlò di innovazioni rispetto alla fede di Nicea. La raccolta dei documenti relativi all'inchiesta venne chiamata Codex encyclios.
Nel luglio 458 morì Anatolio, il patriarca di Costantinopoli; al suo posto fu eletto Gennadio, di sicura fede calcedoniana. L'imperatore, a seguito dell'inchiesta, intervenne ad Alessandria: vi furono sommosse e morti; Timoteo venne arrestato, condotto a Costantinopoli ed esiliato. Al suo posto venne eletto un altro Timoteo, soprannominato Solofaciolo (turbante bianco), uomo mite che cercò di pacificare gli animi. Le ultime lettere conservate di papa L. sono dell'estate 460 (epp. 169-173) e sono dirette all'imperatore, a Gennadio di Costantinopoli, al nuovo vescovo Timoteo di Alessandria, ai presbiteri e diaconi di questa città, e ad altri vescovi egiziani. Sono l'espressione estrema della sua attività e dell'esercizio del suo ruolo per l'unità della Chiesa.
Secondo il Liber pontificalis, si deve inoltre all'iniziativa di L. l'istituzione dei "cubicularii" i quali, scelti tra il clero, erano delegati in particolare alla custodia dei sepolcri degli apostoli Pietro e Paolo. Il Liber pontificalis attribuisce infine a L. l'ordinazione di ottantuno presbiteri, trentuno diaconi e centottantacinque vescovi destinati a varie sedi. Annota l'inserimento dell'espressione "sanctum sacrificium" nel canone della celebrazione eucaristica, ed aggiunge la notizia, non altrimenti documentata, secondo cui L. avrebbe stabilito che la "velatio virginum" avvenisse non prima della prova "in virginitate" prolungata fino al sessantesimo anno d'età.
Nel 1735 venne pubblicato un libro liturgico (Sacramentarium) rinvenuto nella Biblioteca Capitolare di Verona da G. Bianchini, che ne curò l'edizione e che lo attribuì a L., denominandolo perciò Sacramentarium Leonianum. Si tratta di una raccolta di preghiere liturgiche, distribuite per mesi, che risale alla metà circa del VI secolo, pur racchiudendo formule liturgiche più antiche non prive di influsso leoniano.
L. si spense il 10 novembre del 461.
Sulla base delle scarne indicazioni del Liber pontificalis, va tenuta presente l'opera di L. nell'ambito della trasformazione della fisionomia della città di Roma e nella cura dei luoghi di culto. Gli viene attribuito innanzi tutto il ripristino degli oggetti sacri presso tutte le chiese che ne erano state private dal saccheggio dei Vandali di Genserico. Si parla poi di lavori di rinnovamento ("renovavit") nella basilica di S. Pietro e in quella di S. Paolo che aveva subito un incendio a causa di un fulmine. Presso quest'ultima basilica la committenza di L. è testimoniata da una grande iscrizione polimetra (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, II, a cura di G.B. de Rossi-A. Silvagni, Romae-In Civitate Vaticana 1935, nr. 4783: distici elegiaci vv. 1-12, giambi vv. 13-16) su lastra marmorea (uno dei rari esempi in quest'epoca di prodotti lapidari organicamente esposti in un edificio di culto) collocata nella parte alta della controfacciata. La composizione ricorda in dettaglio i lavori fatti eseguire dall'"antistes Christi" - papa L. - per restituire l'edificio al popolo di Dio (la "plebs sancta") e al culto consueto ("solita officia") del "beatus doctor mundi" (Paolo); gli ultimi quattro versi sono riservati alla riconoscente lode per la devota e vigile attività ("fidelis atque pervigil labor") dei due ecclesiastici imprenditori, il presbitero Felice e il protodiacono della sede apostolica Adeodato cui fu affidata l'esecuzione dei lavori: l'uno e l'altro, come concreto segno di gratitudine, ebbero il privilegio di essere sepolti nella stessa basilica paolina, nel 471 (ibid., nr. 4958) e nel 474 (ibid., nr. 4926). Un'altra iscrizione attesta l'intervento voluto da L. per la riattivazione della fontana posta al centro dell'atrio (ibid., nr. 4785): una lunga incuria l'aveva di fatto disseccata ("perdiderat laticum longaeva incuria cursus") e solo la "provida pastoris per totum cura Leonis" ne consentì la restituzione alla sua funzione e all'uso dei fedeli: "haec ovibus Chr(ist)i larga fluentia dedit". Il Liber pontificalis parla ancora di un intervento nella basilica lateranense ("fecit vero cameram in basilica Constantiniana"), da individuare forse in una nuova decorazione del catino absidale; il pontefice portò probabilmente a compimento l'opera intrapresa da "Fl. Constantius Felix", il cui intervento nell'abside della basilica lateranense tra il 428 e il 430 sembra potersi desumere dall'iscrizione che si trovava in quel luogo (Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, II, a cura di G.B. de Rossi, Romae 1888, nr. 149, v. 17; Le Liber pontificalis, I, p. 241 n. 4 e R. Krautheimer-S. Corbett-A. Frazer, Corpus basilicarum, p. 10). Anche i cicli iconografici che decorarono le basiliche di S. Paolo e S. Pietro sono molto probabilmente da attribuire al tempo di Leone. L'intervento del pontefice al Vaticano e sulla basilica Ostiense è documentato comunque dalle iscrizioni musive situate rispettivamente sulla facciata (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, II, nr. 4102: il mosaico fu donato da "Fl. Avitus Marinianus […] precibus papae Leonis mei") e sull'arco trionfale (ibid., nr. 4784). L'identità del sistema decorativo dei complessi di S. Paolo, ancora visibile fino all'incendio del 1823 e ampiamente documentato da disegni, e del Vaticano, conservato fino al Cinquecento e riprodotto dal Grimaldi, ha suggerito che i due cicli fossero contemporanei e riferibili entrambi a Leone. Pur nella incertezza delle ricostruzioni, essendosi sovrapposti alle decorazioni di L. nuovi interventi decorativi, in S. Paolo e S. Pietro si colgono le linee di un processo di elaborazione e fissazione in particolare del ciclo veterotestamentario, essenziale per l'arte del Medioevo.
Più volte è stata ipotizzata una partecipazione di L. al programma del ciclo musivo della basilica di S. Maria Maggiore, l'unico oggi conservato quasi integralmente e portato a compimento durante il pontificato di Sisto III, quando L. rivestiva una posizione di prestigio nella Chiesa romana. In particolare tali ipotesi sono state avanzate in relazione alle immagini musive dell'odierno arco di trionfo che fu programmato dopo il concilio di Efeso e fu portato a termine nel 440. Al di là delle ipotesi riguardo a una partecipazione diretta di L. nell'impianto teologico-esegetico dell'iconografia dell'arco, va segnalata la singolare corrispondenza dell'importante sermone 33, per l'epifania dell'anno 443, con le scene epifaniche raffigurate nell'arco, alla cui interpretazione offrono un decisivo contributo alcuni rari motivi esegetici recepiti nel sermone. In rapporto all'area vaticana il Liber pontificalis attribuisce ancora a L. la fondazione di un centro monastico presso la basilica di S. Pietro, dedicato ai martiri Giovanni e Paolo. Si tratta del primo monastero attestato nell'area; la sua ubicazione non è certa: tuttavia nella pianta di T. Alfarano un monastero dei SS. Giovanni e Paolo è indicato a nord del transetto della basilica in corrispondenza di strutture ornate da mosaici con figure di santi, resti riferibili probabilmente all'edificio di Leone. Nel suburbio della città è da porre l'edificazione di una basilica dedicata al martire papa Cornelio, "iuxta cymiterium Calisti", sulla via Appia. Il monumento, non ancora individuato, era situato probabilmente nell'area subdiale corrispondente al luogo della sepoltura sotterranea di Cornelio (le "cripte di Lucina"). Che la basilica di L. e la cripta sepolcrale fossero due luoghi distinti sembra indicarlo anche la Notitia portarum che menziona una "ecclesia sancti Corneli et corpus". U.M. Fasola, in seguito alle indagini di scavo nella zona a sud-est della necropoli callistiana, propone di collegare il sepolcreto cristiano subdiale, da lui rinvenuto, intensamente occupato dopo la fine del IV secolo (specialmente nella sua parte nord), alla presenza di un santuario venerato, forse quello commissionato da L. per Cornelio. Al tempo di L. venne anche edificata la basilica di S. Stefano al III miglio della via Latina, per la munificenza della nobile matrona Demetria, della famiglia degli Anici. L'edificio, con annesso battistero, fu impiantato in una villa del II secolo, utilizzandone in parte le strutture. Nelle fondamenta della chiesa venne inglobato il basamento di un'edicola preesistente probabilmente legata al culto di reliquie del protomartire Stefano, la cui venerazione fiorì dopo il ritrovamento della sua tomba in Palestina, all'inizio del V secolo. La piccola edicola, situata presso il centro della navata mediana, era originariamente parte di un edificio che occupava il sito della chiesa prima della sua costruzione: la struttura fu reimpiegata nel presbiterio al momento dell'impianto della basilica o in occasione di un rifacimento dell'area, assegnabile per R. Krautheimer al VII o all'VIII secolo. I lavori di edificazione furono seguiti, per ordine di L., dal presbitero Tigrino, secondo quanto testimonia l'iscrizione frammentaria rinvenuta nel corso delle indagini ottocentesche nella basilica (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, VI, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, In Civitate Vaticana 1975, nr. 15764).
Come ricorda il Liber pontificalis, L. fu sepolto presso la tomba di Pietro; Sergio I, nel 688, fece trasferire la tomba dal portico dell'antica basilica in un luogo all'interno che si riteneva più degno e più adatto alla venerazione, perché facilmente accessibile. La sepoltura fu corredata di un nuovo epitaffio (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, II, nr. 4148) che ha come motivo conduttore la vicenda della traslazione. Si ricorda dapprima la sua deposizione nell'atrio della basilica petrina: L. è denominato "ianitor arcis", custode cioè del luogo in cui, proprio a partire da Leone Magno (v. 1: "huius apostolici primum [...]"), furono collocate le spoglie dei papi. Dopo una breve sezione dedicata a riassumere l'opera di difesa della Chiesa e di azione pastorale, con specifico riferimento ai "missi pro recto dogmate libri" (v. 9) - gli scritti elaborati per il consolidamento dell'ortodossia cattolica -, si prosegue a narrare della tomba del pontefice. La sepoltura, su cui si erano assiepate quelle dei suoi successori (v. 12: "quem iam pontificum plura sepulcra celant"), nel pavimento dell'atrio, all'estremità sinistra del portico, venne trasferita all'interno della basilica, a destra dell'abside, e, decorata con marmi preziosi (v. 17: "exornans rutilum pretioso marmore [...]"), esposta alla venerazione dei fedeli (v. 18: "in quo poscentes mira superna vident").
La memoria di L. si celebrava a Roma il 28 giugno, alla vigilia della festa dei ss. Pietro e Paolo, e giorno nel quale il suo corpo venne traslato da Sergio I nella basilica vaticana. Per influsso dei calendari gallicani, nel XII secolo la festa fu spostata all'11 aprile; dal 1971 la memoria liturgica si celebra il 10 novembre, giorno della morte, secondo il Martyrologium Hieronymianum e secondo il calendario di s. Willibrordo (inizi dell'VIII secolo). In Oriente la memoria si celebra il 18 febbraio.
fonti e bibliografia
Le edizioni più importanti dell'opera omnia di L. si collocano tra la seconda metà del Seicento e la metà del Settecento. La prima di queste fu la parigina in due volumi (1675) dell'oratoriano giansenista P. Quesnel, corredata da note e dissertazioni (in parte riprodotte in P.L., LV, coll. 183-336) che furono messe all'indice l'anno dopo. L'edizione di Quesnel fu ristampata nel 1700 a Lione e poi ancora edita. Seguirono l'edizione romana in tre volumi (1751-55) del carmelitano P.T. Cacciari, e infine quella veneziana in tre volumi (1753-57) dei fratelli veronesi, entrambi presbiteri, P. e G. Ballerini, realizzata con l'intenzione di sostituire l'edizione di Quesnel per volere di Benedetto XIV, che dopo l'uscita del primo volume volle dichiarare L. dottore della Chiesa con la costituzione apostolica Militantis Ecclesiae auctor del 15 ottobre 1754 (ristampata in P.L., LV, coll. 337-40). L'edizione veneziana dei fratelli Ballerini è quella riprodotta nel Migne (P.L., LIV-LVI). Edizioni successive parziali delle lettere sono soprattutto quelle a cura di E. Schwartz negli Acta Conciliorum Oecumenicorum, II, 4, Berlin-Leipzig 1932, e di K. Silva-Tarouca nella serie "Textus et Documenta" 9, 15, 20, 22, Romae 1932-37.
I sermoni sono stati editi da A. Chavasse nel "Corpus Christianorum", 138-138A, Turnholti 1973, e su questa base sono state realizzate le microfiches negli "Instrumenta Lexicologica Latina", 40, ivi 1987. Per un quadro completo e aggiornato delle edizioni è comunque indispensabile ricorrere alla terza edizione della Clavis Patrum Latinorum, a cura di E. Dekkers, Steenbrugis 1995³, pp. 533-41. La prima traduzione italiana dei sermoni, dovuta a Filippo di Bartolomeo Corsini, fu pubblicata a Firenze già nel 1485. Seguì quella di G. Foresto da Brescia, stampata a Venezia nel 1547. Una traduzione delle lettere e dei sermoni apparve nel quinto volume delle opere di F. Liverani, pubblicato a Macerata nel 1859. A. Valeriani ha tradotto una scelta di sermoni in tre volumi (Alba 1965-68), curando poi una nuova edizione di quelli per il Natale nelle "Letture cristiane delle origini", 24, Roma 1983. I sermoni e un'ampia selezione delle lettere sono stati tradotti da T. Mariucci (Torino 1969), e infine una traduzione delle lettere dogmatiche, di G. Trettel, è stata pubblicata nella "Collana di testi patristici", 109, Roma 1993.
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