Leone III, santo
Romano di nascita, sebbene il nome del padre, Azuppio, abbia fatto pensare ad un'origine orientale della famiglia, fu allevato fin dall'infanzia nel vestiario della Chiesa romana, l'ufficio che amministrava il tesoro papale. Anche quando fu ordinato suddiacono e successivamente prete cardinale del titolo di S. Susanna, dovette conservare un ruolo importante in quell'amministrazione, di cui fu fatto titolare nel 789, divenendo così uno dei principali collaboratori del papa Adriano. È stato notato (H. Geertmann) che taluni restauri e abbellimenti di chiese romane che gli vengono attribuiti dal Liber pontificalis dovettero essere realizzati quando era ancora vestarario. La sua biografia mette anche in rilievo lo zelo con cui si adoperò a procurare ricchezze per il vestiario, sollecitando elemosine e lasciti testamentari da parte dei fedeli, ufficialmente per destinarle all'assistenza dei poveri.
Fu eletto papa lo stesso giorno del seppellimento del predecessore Adriano I, il 26 dicembre 795, e venne consacrato il giorno seguente. La biografia afferma che clero, nobiltà laica e popolo di Roma furono concordi nella scelta; mette però anche in risalto il fatto che egli fosse strenuo difensore degli interessi della Chiesa e ciò, unito all'ostilità tenacemente mostratagli dalla nobiltà cittadina, ha fatto pensare che fosse orientato a rafforzare il ruolo del papa e in generale degli ecclesiastici nel governo di Roma e del dominio temporale della Chiesa romana, probabilmente a scapito delle concorrenti aspirazioni della nobiltà, alla quale era appartenuto Adriano.
Giunto al pontificato, forte dell'esperienza già maturata negli uffici lateranensi, L. mostrò subito di avere idee chiare sulla situazione politica e istituzionale in cui intendeva collocare il papato e la stessa città di Roma. Subito dopo l'elezione inviò infatti al re dei Franchi Carlomagno le chiavi della confessione di S. Pietro e lo stendardo della città, invitandolo a mandare suoi messi a Roma per ricevere il giuramento di fedeltà dei Romani. Carlomagno aveva avuto un ruolo decisivo nel consolidamento del dominio temporale del papato al tempo di Adriano I ed esercitava una funzione di protezione e sorveglianza su Roma espressa dal titolo di "patrizio dei romani", che gli era stato attribuito dagli stessi papi. Tuttavia le prime iniziative di L. enfatizzavano in modo inconsueto l'autorità del re franco in Roma, non solo per rassicurarlo circa l'intenzione di mantenere la stretta intesa che aveva caratterizzato il pontificato di Adriano I, ma anche per impegnarlo saldamente nella protezione del papa e della sua autorità temporale.
Sembra invece che Carlomagno considerasse con una certa preoccupazione l'elezione di Leone III. Nella lettera di congratulazioni che gli fece recapitare dall'abate di Centula Angilberto, lo esortò ad osservare scrupolosamente i canoni e le costituzioni dei Padri della Chiesa; inoltre incaricò Angilberto di ammonire L. a vivere onestamente, rispettare i canoni, tenere sempre a mente quanto fosse breve il tempo dell'onore terreno e lungo quello della ricompensa eterna e soprattutto di esortarlo a combattere "l'eresia simoniaca", facendo anche un oscuro riferimento a conflitti che li avevano opposti. È possibile che con questo Carlomagno si riferisse alla nota determinazione di L. nel perseguire gli interessi economici e patrimoniali della Chiesa romana. Tuttavia, sempre per mezzo di Angilberto, gli fece consegnare, come suo dono per la Chiesa di Roma, gran parte del tesoro degli Avari, che era stato recentemente conquistato dal duca del Friuli Erich.
Trovatosi così a disporre di una straordinaria quantità di ricchezza, L. se ne servì per intensificare quell'opera di abbellimento e restauro delle chiese di Roma che aveva probabilmente iniziato come vestarario. Ne beneficiarono S. Pietro, S. Paolo, la basilica del Salvatore in Laterano, come pure alcune chiese presso le catacombe. Tra l'altro fece demolire e ricostruire in dimensioni più grandi la chiesa di S. Susanna di cui era stato titolare. Fece anche costruire nel patriarchio lateranense un grande triclinio, una sala per cerimonie, con tre absidi, rivestita con lastre di marmo e abbellita da colonne di porfido e di marmo. Si trattava di un edificio destinato alle cerimonie non religiose del papa, che prendeva a modello le grandi aule dei palazzi imperiali di Costantinopoli e aveva dunque un significato simbolico molto impegnativo, in quanto suggeriva eguaglianza di dignità tra il papa e l'imperatore bizantino. La sala fu inoltre decorata con mosaici che contenevano messaggi politici. Nel catino dell'abside era raffigurato Cristo in atto di inviare gli apostoli ad evangelizzare il mondo, esplicito richiamo alla funzione di ammaestramento universale che competeva al papato; ma nell'arcone sovrastante l'abside erano raffigurati a sinistra Cristo in trono che consegnava il pallio (la striscia di lana bianca simbolo dell'autorità spirituale) ad un ecclesiastico e una bandiera all'imperatore Costantino; a destra s. Pietro che consegnava anch'egli il pallio a L. ed uno stendardo a Carlomagno. Poiché il mosaico originale non si è conservato ed è oggi parzialmente ricostruibile solo attraverso disegni seicenteschi ed il rifacimento settecentesco che si trova nella piazza di S. Giovanni in Laterano a Roma, l'esatta interpretazione del suo significato è ostacolata soprattutto dall'incertezza sui personaggi della parte sinistra: si rileva però una corrispondenza tra la missione affidata da Cristo a un papa (che poteva essere lo stesso s. Pietro oppure Silvestro) e a Costantino e la missione affidata da s. Pietro a L. e a Carlomagno: il governo congiunto del popolo cristiano e di Roma (lo stendardo dato a Carlomagno potrebbe alludere a quello inviatogli da L.). Carlomagno, ancora solo re, veniva idealmente posto sullo stesso piano di Costantino, il primo imperatore cristiano, liberatore e benefattore della Chiesa romana; riceveva però le sue alte funzioni non direttamente da Cristo, come quello, ma da s. Pietro, e ciò lo legava strettamente alla Chiesa di Roma. Va osservato che L. fece raffigurare se stesso accanto a Carlomagno anche nell'abside della rinnovata chiesa di S. Susanna, in un mosaico non conservato, ma noto anch'esso attraverso disegni seicenteschi. La valutazione del programma di L. varia anche secondo che si ritengano i mosaici eseguiti prima o dopo gli avvenimenti del 799 di cui si parlerà più avanti; è comunque evidente che L. intendeva esprimervi la concezione di un potere papale parallelo e associato a quello militare del re franco; una concezione che tra l'altro ricordava ai Romani che il papa poteva contare sul potente aiuto del re. L. utilizzò le ricchezze donate da Carlomagno anche per dotare le principali basiliche romane di vasellame liturgico, lampade, cibori e immagini sacre, d'argento e d'oro, e inoltre di drappi di seta e porpora, che venivano utilizzati come veli negli intercolunni e come tovaglie per rivestire gli altari. Alcuni di questi erano decorati con ricami che rappresentavano la passione di Cristo e degli apostoli e l'episodio evangelico in cui Cristo conferiva a s. Pietro il potere di sciogliere e legare. Anche queste donazioni dovevano avere un valore politico, in quanto manifestavano lo splendore e la liberalità del papa attraverso segni che stavano sotto gli occhi del clero e dei fedeli durante le celebrazioni liturgiche.
Gli orizzonti di L. non furono comunque limitati al consolidamento e alla qualificazione del suo governo in Roma. Nel 798 conferì il pallio arcivescovile ad Arnone, vescovo di Salisburgo, istituendo la provincia ecclesiastica della Baviera, secondo il desiderio di Carlomagno e degli stessi vescovi bavaresi, nell'intento di organizzare meglio la pratica religiosa e di legare la provincia alla Sede apostolica. Intervenne nelle questioni della Chiesa in Inghilterra, sanzionando il primato della diocesi di Canterbury, inviando il pallio all'arcivescovo di York, e sollecitando al re di Mercia l'invio del donativo, o obolo di s. Pietro, che i re anglosassoni erano soliti corrispondere annualmente al papato in riconoscimento dello speciale legame che univa le Chiese inglesi a quella romana. Nel 798, ancora su richiesta di Carlomagno, riunì un concilio di cinquantasette vescovi che condannò le dottrine adozionistiche sostenute dal vescovo catalano Felice di Urgell, e comminò la scomunica al medesimo se non si fosse ravveduto: quegli sosteneva che il Cristo storico era figlio non naturale, ma adottivo di Dio. Tuttavia la situazione romana ebbe un rilievo determinante nelle successive vicende del pontificato di Leone III. Il papa doveva esercitare in modo autoritario il governo di Roma; può essere indicativo delle sue propensioni il fatto che a lui risale probabilmente l'innovazione di chiamare la cattedra papale "thronus" anziché "sella". Inoltre egli dovette continuare ad accaparrare possessi e rendite in favore dell'amministrazione papale. Ciò può spiegare l'attentato subito da L. quattro anni dopo l'inizio del pontificato.
Il 25 aprile 799, mentre si recava a S. Lorenzo in Lucina per celebrarvi la litania maggiore, fu aggredito nei pressi del monastero di S. Silvestro in Capite da un gruppo di congiurati capeggiati da due alti funzionari degli uffici lateranensi, il primicerio dei notai Pasquale e il notaio Campolo, già suoi colleghi durante il vestarariato e ancora suoi collaboratori nel governo della Chiesa romana. Non è facile ricostruire le ragioni della loro ostilità; i due appartenevano alla famiglia nobile di Adriano I e il prosieguo degli eventi mise in luce che erano appoggiati da numerosi esponenti della nobiltà; è dunque possibile che essi rappresentassero l'opposizione di parte almeno della nobiltà romana contro Leone III. Mentre la folla che seguiva il papa si dileguava, i sicari lo trassero giù dal cavallo, gli strapparono le vesti e cercarono di cavargli gli occhi e tagliargli la lingua; lo trascinarono poi dentro la chiesa di S. Silvestro, dove lo bastonarono e cercarono nuovamente di mutilarlo. Poi i congiurati lo rinchiusero nel monastero, e durante la notte lo fecero trasportare nel monastero di S. Erasmo sul Celio, che forse ritenevano più sicuro. Qui però quella stessa notte penetrò il sacellario Albino con un gruppo di fedeli. Trovarono il papa in buone condizioni e in possesso della vista e della favella, secondo il biografo papale restituitegli miracolosamente dopo le mutilazioni; lo presero e lo portarono in S. Pietro, avvisando dell'accaduto il duca di Spoleto Winichis, incaricato da Carlomagno di sorvegliare Roma e proteggere il papa. I congiurati non osarono inseguire il papa in S. Pietro, dove del resto si era raccolto il clero, probabilmente organizzando la difesa; si vendicarono saccheggiando le case di Albino e dello stesso Leone III. Intanto giungeva a Roma il duca Winichis, che portò il papa a Spoleto, mentre dalle città del Lazio giungevano dichiarazioni di lealtà.
La situazione a Roma restava però grave, tanto che L. ritenne necessario incontrarsi con Carlomagno per prendere provvedimenti e partì, scortato da ufficiali franchi, alla volta della Sassonia, dove il re si trovava. Nel luglio 799 giunse a Paderborn, accolto con grandi onori dal re e dalla corte, anche se Carlomagno non eseguì quegli atti di reverenza cerimoniale che nel 754 suo padre Pipino aveva tributato al papa Stefano II quando si era recato in Francia, cioè il servizio di briglia e staffa per aiutare il papa a scendere da cavallo. L. si trattenne alcuni mesi a Paderborn, dove tra l'altro consacrò un altare nella cappella del palazzo reale, deponendovi reliquie portate da Roma. Ma soprattutto dovette discutere col re e i suoi consiglieri la situazione di Roma e la restaurazione del suo governo in città. D'altra parte egli giungeva in un momento in cui nella corte carolingia era in corso una vivace riflessione sul potere di Carlomagno, che dominava ormai su gran parte dell'Europa cristiana e combatteva per sottomettere le popolazioni ancora pagane. Suggestioni classicheggianti proponevano il modello degli antichi augusti come misura ideale della cresciuta dignità del re franco. La residenza regia recentemente edificata ad Aquisgrana era stata salutata come una seconda Roma i cui edifici competevano simbolicamente con quelli di Costantinopoli, oltre che della Roma antica. Mentre ancora si attendeva la venuta del papa, uno dei più influenti consiglieri di Carlomagno, l'anglosassone Alcuino, aveva espresso la constatazione che sulle spalle del re dei Franchi riposava ormai tutto l'ordine cristiano del mondo, poiché le altre due persone che insieme con lui ne stavano ai vertici, il papa e l'imperatore di Bisanzio, erano in quel momento deposti, mutilati e umiliati: L. nel modo che si è visto; l'imperatore bizantino Costantino VI deposto e fatto accecare dalla madre Irene, che reggeva indebitamente l'impero a Costantinopoli. La venuta di L., di cui si accreditò il miracoloso risanamento, ridava enfasi anche alla funzione di protettore della Sede apostolica di Carlomagno.
Tuttavia la posizione di L. a Paderborn venne compromessa dai messaggeri che i congiurati inviarono da Carlomagno per giustificarsi, accusando a loro volta il papa di adulterio e spergiuro. Accuse generiche e probabilmente prive di riscontri, che però dovevano coprire motivazioni, di natura politica, che trovarono qualche credito in Carlomagno. Campolo era già stato alla corte carolingia come messaggero papale e doveva godervi di amicizie. L. si trasformò inopinatamente da accusatore in accusato e il problema più grave divenne quello di accertare l'attendibilità delle accuse che gli venivano rivolte. I messaggeri dei congiurati chiedevano addirittura che il papa rinunziasse al papato, ritirandosi in monastero, oppure che si purgasse delle accuse con un giuramento liberatorio, che avrebbe comportato una gravissima diminuzione di prestigio e autorità. Alcuino, informato, affermò che il papa non doveva fare nessuna delle due cose e che secondo i canoni non poteva essere giudicato da nessuno. Carlomagno, pur tenendo un atteggiamento prudente, sembra che intendesse approfondire il fondamento delle accuse rivolte al papa; ciò comportava però una migliore definizione del suo ruolo in Roma, giacché si trattava di intervenire nell'esercizio della giustizia criminale, espressione fondamentale della sovranità, escludendo da essa il papa, almeno in quell'occasione, in quanto parte in causa. Si poteva dubitare che le competenze del "patrizio dei romani", creato dagli stessi papi, giungessero a tanto. La soluzione giuridica poteva essere quella di attribuire a Carlomagno un potere più alto in Roma, cioè quello imperiale. Per il momento Carlomagno si limitò comunque ad ordinare un'inchiesta.
Nel novembre 799 L. rientrò a Roma accompagnato da una delegazione di vescovi e conti franchi capeggiata dagli arcivescovi Hildebald di Colonia a Arnone di Salisburgo; il 29 novembre fu accolto al ponte Milvio da tutti gli ordini della popolazione romana: il clero, gli alti funzionari del Laterano, la nobiltà con l'esercito, il popolo, le donne divise per condizione religiosa e le corporazioni degli stranieri residenti in Roma, tutti con insegne e stendardi. È probabile che la cittadinanza, in previsione di un intervento franco, si volesse rappacificare col papa. L. celebrò subito messa in S. Pietro; l'indomani entrò in Roma e riprese possesso del Laterano. Alcuni giorni più tardi, nel "triclinium maior" da lui costruito, i vescovi e i conti franchi iniziarono l'inchiesta sulle accuse che Pasquale, Campolo e molti altri complici, appartenenti alla nobiltà romana, muovevano al papa, ma nessuno di loro seppe o volle sostenerle. I congiurati furono dunque arrestati e inviati in Francia, sebbene contro di loro non venisse pronunciata una sentenza. La situazione romana doveva esser apparsa grave ai messi carolingi; Arnone scrisse ad Alcuino deprecando i "costumi" del papa e lamentando di aver corso rischi ad opera dei Romani; Alcuino bruciò la lettera dopo averla letta, perché non fosse causa di scandalo. Tuttavia nell'aprile dell'anno seguente L. scriveva ai vescovi di Baviera invitandoli ad obbedire ad Arnone che aveva costituito come loro arcivescovo, a sottostare ai suoi giudizi canonici e in particolare a non disprezzare le decisioni della Sede apostolica, che erano assunte dal vicario di s. Pietro. Segno evidente che continuava ad avere un ruolo essenziale nella politica ecclesiastica dei carolingi.
Finalmente nell'agosto dell'anno 800 Carlomagno partì per l'Italia con l'esercito. I problemi del suo intervento in Roma dovevano essere stati ulteriormente approfonditi da entrambe le parti. Il 23 novembre il papa gli andò incontro insieme ai Romani fino a Mentana, al XII miglio da Roma; una distanza che nel cerimoniale dell'epoca bizantina era riservata all'accoglienza dell'imperatore in carica. Dopo il pasto, che consumarono insieme, il papa tornò a Roma. Il giorno seguente, 24 novembre, inviò incontro a Carlomagno le bandiere della città, i diversi gruppi della cittadinanza, le corporazioni degli stranieri, quelle dei Romani, che cantavano le acclamazioni liturgiche per l'avvento del sovrano. L. stesso aspettava Carlomagno in cima alla scalinata di S. Pietro, con il clero romano. Essi entrarono insieme nella basilica fra le acclamazioni.
Sette giorni più tardi il re convocò un'assemblea di ecclesiastici e nobili franchi e romani, presieduta da lui stesso e da L., per discutere ancora una volta le accuse rivolte al papa. Probabilmente furono nuovamente interrogati i responsabili della congiura, riportati indietro dalla Francia, chiedendo di documentare le loro accuse, cosa che non seppero fare. D'altra parte i vescovi franchi dichiararono che non osavano giudicare la Sede apostolica, culmine di tutte le Chiese, né il papa che secondo i canoni non poteva essere giudicato da nessuno. Intanto dovevano andare avanti anche altre trattative: l'accoglienza imperiale tributata a Carlomagno dimostra che L. voleva esaltare l'autorità del sovrano che veniva a mettere ordine in Roma e risollevare il suo prestigio scosso. Ma anche i Franchi dovevano considerare che l'intervento di Carlomagno a Roma, in difesa dell'ordine e della legalità compromessa, richiedeva che al loro re fosse riconosciuta un'autorità di livello superiore a quello di re o di patrizio. Si osservava anche che Carlomagno esercitava su tutto l'Occidente il potere degli antichi cesari, sicché com'era già accaduto al tempo della promozione di suo padre Pipino da maestro di palazzo a re dei Franchi, diventava opportuno che al potere effettivo corrispondesse un appropriato titolo d'autorità, nel momento in cui Carlomagno si accingeva ad esercitare funzioni sovrane anche in Roma. Tra l'altro l'Impero di Costantinopoli poteva essere considerato vacante, essendo governato da una donna. Dunque l'attribuzione del titolo imperiale a Carlomagno si presentava come un passo opportuno e legittimo, che tra l'altro avrebbe risolto il problema della giurisdizione in Roma, anche se con essa si sarebbero posti limiti all'autorità del papa nel governo temporale. È possibile che proprio per questa ragione la nobiltà romana e gli oppositori di L. in Roma considerassero con favore la promozione di Carlomagno alla dignità imperiale, che tra l'altro avrebbe consentito di riportare a Roma la sede dell'Impero. Incertezze potevano esistere sulle modalità dell'elevazione all'impero; nella storia di Bisanzio erano numerosi gli esempi di imperatori creati nelle province, attraverso l'acclamazione degli eserciti; tuttavia l'Occidente non era più una provincia dell'Impero bizantino e la stessa Roma si era sottratta alla sua sovranità. Comunque la città conservava la fisionomia di sede imperiale e in essa sarebbe stato legittimo proclamare un imperatore. Restava però incerto chi avesse titolo a procedere all'acclamazione e quale dovesse essere il ruolo del papa nella procedura. È possibile che su questo si discutesse nel mese di dicembre 800, mentre si cercava anche una soluzione al problema delle accuse contro il papa che non comportasse un intervento giurisdizionale contro di lui.
Quest'ultimo problema fu alla fine risolto accogliendo una proposta degli stessi accusatori: il 23 dicembre, in una nuova assemblea di Franchi e Romani tenuta in S. Pietro, L. salì sull'ambone portando i vangeli e giurò solennemente su di essi di non aver niente a che fare con i delitti che gli venivano attribuiti. Il clero innalzò lodi a Dio, alla Vergine e ai santi e venne così conclusa la questione, forse tenendo presente un caso analogo in cui era stato implicato il papa Pelagio. È possibile che nella stessa occasione l'assemblea offrisse a Carlomagno l'elevazione alla dignità imperiale e che egli la accettasse. Questo è quanto afferma una fonte (Annales Laureshamenses), che pur rappresentando un punto di vista franco espresso dopo gli eventi, è giudicata sostanzialmente attendibile dagli studiosi. Ad essa si oppone un famoso passo del biografo di Carlomagno, Eginardo, secondo il quale Carlomagno avrebbe mostrato tale avversione al titolo imperiale, da dire che se avesse saputo in precedenza quello che doveva avvenire il giorno di Natale dell'800, non si sarebbe recato in chiesa, nonostante la particolare santità della giornata. Tuttavia questa testimonianza sembra costruita dopo gli eventi; infatti le cerimonie che concretizzarono l'elevazione di Carlomagno alla dignità imperiale due giorni dopo il giuramento purgatorio di L. dovettero essere accuratamente predisposte, e difficilmente all'insaputa di Carlomagno. La stazione liturgica venne spostata da S. Maria Maggiore, dove abitualmente i papi celebravano i riti del Natale, a S. Pietro; si predispose il rituale dell'acclamazione da parte del popolo, atto fondamentale nell'accesso degli imperatori romano-bizantini, cui dovevano seguire le Laudes, acclamazioni liturgiche cantate dal clero; si preparò anche una corona per l'incoronazione imperiale. Nella stessa cerimonia doveva poi essere unto e incoronato re il figlio omonimo di Carlomagno, Carlo, che lo aveva accompagnato a Roma.
Semmai lo svolgimento della cerimonia poté irritare Carlomagno. Secondo il rituale bizantino, il papa - come il patriarca a Costantinopoli - sarebbe dovuto intervenire nella cerimonia solo dopo che l'imperatore fosse stato acclamato dal popolo, per incoronarlo. Ciò perché l'atto formale che istituiva un nuovo imperatore era l'acclamazione popolare. D'altra parte era evidente che il ristabilimento di un imperatore legittimo a Roma avrebbe messo in crisi la lenta acquisizione di prerogative e caratteri imperiali che i papi avevano maturato nel corso dell'VIII secolo, e che erano stati esposti nella cosiddetta "donazione di Costantino"; secondo questo testo, composto probabilmente durante il pontificato di Paolo I, l'imperatore aveva donato al papa tutte le prerogative e tutti i simboli del potere imperiale e si era ritirato in Oriente per non interferire con il loro esercizio in Occidente. La memoria di Costantino e dei suoi rapporti con la Chiesa romana era certamente presente alla mente di L., come dimostra il mosaico del triclinio lateranense. Ciò può spiegare il modo in cui si svolse la cerimonia dell'elevazione di Carlomagno all'impero, il 25 dicembre 800, secondo il concorde racconto degli Annali franchi e del Liber pontificalis: L. invertì la successione degli atti rituali e sorprese tutti incoronando Carlomagno prima che venisse acclamato imperatore dal popolo e dal clero. In questo modo la promozione all'impero poteva figurare decisa e compiuta dal papa, che risultava disporre della dignità imperiale nel momento stesso in cui la conferiva spontaneamente con l'incoronazione. A questo poté riferirsi il disappunto di Carlomagno di cui parla Eginardo. Del resto il suo fastidio per la dignità imperiale appena conseguita non fu tale da impedirgli di offrire a s. Pietro, dopo la messa che seguì all'incoronazione, preziosi oggetti d'oro e d'argento, evidentemente predisposti per l'occasione. L'assunzione della dignità imperiale consentì finalmente a Carlomagno di esercitare la giustizia criminale in Roma: pochi giorni dopo l'incoronazione, fece portare al suo cospetto i congiurati che vennero giudicati secondo la legge romana e condannati a morte per il delitto di lesa maestà; l'intervento, forse concordato, di L. valse a tramutare la pena in quella dell'esilio da scontare in Francia. Carlomagno si trattenne a Roma fino alla Pasqua di quell'anno, prendendo misure "per l'ordine del mondo cristiano". I rapporti con L. dovettero aggiustarsi; nell'aprile dell'801 Alcuino si rallegrava di aver saputo che il papa aveva ridotto all'obbedienza gli oppositori e che era in termini amichevoli con l'imperatore.
Dopo la partenza di Carlomagno, L. riprese l'intensa attività di restauri, abbellimenti e donazioni per le chiese di Roma. Durante il suo pontificato egli restaurò ventuno chiese, tra cui le principali basiliche apostoliche, più due cimiteri extraurbani; ricostruì, oltre a S. Susanna, la chiesa dei SS. Nereo e Achilleo; donò suppellettili liturgiche e arredi per complessive 22.100 libbre d'argento (cioè più di 7 tonnellate) e 1.446 libbre d'oro (più di 470 chili); donò inoltre paramenti liturgici in seta e altri tessuti pregiati, per lo più importati dall'Oriente, in ragione di oltre milletrenta pezze. Solo nell'807 distribuì lampadari d'argento a centodiciannove chiese di Roma, cioè probabilmente a tutte quelle allora in funzione. Migliorò inoltre le attrezzature ricettive destinate ai pellegrini presso S. Pietro, facendo costruire due bagni, un ospedale ed altri edifici. In un momento imprecisabile del suo pontificato progettò anche di recintare la regione del Vaticano con un muro per cui raccolse anche materiali, ma in questa iniziativa venne ostacolato e dovette rinunciare.
Questa indefessa attività indica da un lato che L. continuò a godere di cospicue risorse economiche; dall'altro che egli intese, dopo le vicende del 799-800, riproporsi con particolare evidenza nel ruolo di patrono e benefattore della città e delle sue istituzioni ecclesiastiche. Le risorse economiche dovevano provenire in buona parte dai redditi della giurisdizione che il papato esercitava nei territori già bizantini dell'Esarcato ravennate, della Pentapoli, nelle Marche settentrionali, e del Lazio; non è chiaro se esso avesse ereditato dall'amministrazione imperiale l'esazione di imposte dirette o indirette; certo riceveva dalle varie città i proventi della giustizia, giacché una lettera del papa a Carlomagno lamentava che in alcune occasioni i messi dell'imperatore si fossero intromessi in quest'attività, incamerandone i profitti e ponendo i duchi locali nell'impossibilità di versare al papato le somme dovute. L. istituì inoltre nuove "domuscultae", le grandi aziende agricole direttamente amministrate dalla Chiesa romana, che andarono ad aggiungersi a quelle create dai suoi predecessori come fonte di rendite e mano d'opera, nonostante l'ostilità con cui continuavano ad essere viste dai proprietari fondiari romani. Contribuivano infine ad alimentare il tesoro papale i doni dei pellegrini e dei re cristiani; probabilmente lo stesso Carlomagno non smise di finanziare i restauri di L., sebbene in misura più modesta rispetto ai primi anni.
Che l'attività di patronato svolta da L. fosse connessa all'intenzione di riaffermare la sua autorità su Roma e la natura imperiale della dignità papale, anche dopo la costituzione di un nuovo imperatore in Occidente, è confermato dalla costruzione, avvenuta forse nell'801-802, di un altro grande triclinio accanto alla basilica del Salvatore in Laterano, ancora più imponente di quello costruito pochi anni prima, giacché all'abside principale si affiancavano sui lati lunghi della sala altre dieci absidi, in ciascuna delle quali erano ricavati "accubita", probabilmente divani per le personalità che prendevano parte alle cerimonie. I muri furono decorati con mosaici raffiguranti storie degli apostoli; il pavimento fu lastricato in marmo e nel mezzo della sala fu posta una fontana di porfido. L'impianto generale di questa sala richiama il grande triclinio dei diciannove letti del palazzo imperiale di Costantinopoli, ed esprime in modo assai esplicito un confronto competitivo del papa con l'Impero bizantino. Una volta di più la donazione di Costantino sembra presente alla mente di L., che del resto dovette utilizzarla anche nei rapporti con Carlomagno.
Le fonti franche riferiscono che nell'804, essendosi sparsa la voce che a Mantova era stata trovata una reliquia del sangue di Cristo, L. si recò nella città per indagare sul fatto miracoloso e da lì proseguì per la Francia, volendo incontrare nuovamente Carlomagno. Nel novembre venne accolto al di là delle Alpi, a St-Maurice, dal figlio di Carlomagno, Carlo, che lo accompagnò a Reims, dove l'imperatore lo attendeva. Celebrarono insieme il Natale a Quierzy e poi si spostarono ad Aquisgrana. Il papa tornò a Roma dopo l'Epifania dell'805. Le ragioni di questo viaggio non sono riportate da nessuna fonte ed è difficile congetturarle. Non si ha notizia di nuove difficoltà in Roma; piuttosto è probabile che i problemi riguardassero l'Impero e che L. intendesse avere da Carlomagno chiarimenti o assicurazioni, che forse l'imperatore era restio a dare. Ciò potrebbe spiegare il fatto, di per sé eccezionale, del nuovo viaggio oltralpe e la reticenza delle fonti sui suoi veri motivi. Nell'802 l'imperatrice bizantina Irene era stata deposta da una congiura di alti funzionari e ufficiali ed era stato eletto imperatore Niceforo I; non si poteva dunque più considerare l'Impero romano-bizantino vacante, e ciò dovette accrescere le perplessità che Carlomagno già manifestava circa la natura e il significato della sua dignità imperiale. Nello stesso 802 egli aveva rinunziato al titolo di "imperatore dei romani" per conservare la qualifica di imperatore come dignità personale, distinta dalla funzione di governo dell'Impero romano. Il nuovo imperatore bizantino aveva mandato un'ambasceria da Carlomagno per trattare la pace, e Carlomagno aveva proposto un patto di cui L. venne informato dagli stessi ambasciatori, che sulla via del ritorno passarono per Roma. I rapporti tra i due imperatori si guastarono però poco dopo, quando conflitti tra fazioni politiche nella laguna veneta - ancora sotto la sovranità bizantina - portarono al prevalere di un gruppo favorevole al collegamento con l'Impero carolingio. La visita di L. a Mantova, città del Regno italico a ridosso della regione veneta, poté anche avere l'obiettivo di conoscere meglio la situazione, forse su richiesta di Carlomagno. Il successivo viaggio in Francia fu forse motivato dalla preoccupazione che il problema dei rapporti giuridici e ideologici tra i due Imperi non modificasse il legame del risorto Impero occidentale con Roma e col papato. È probabile che in questa situazione L. portasse in Francia la falsa donazione di Costantino, forse per persuadere Carlomagno circa l'autonomia dell'Occidente e di Roma rispetto all'Impero bizantino. Infatti sul testo della donazione di Costantino è modellata un'ulteriore formulazione del titolo imperiale di Carlomagno che figura nell'importante documento con cui, nell'806, egli predispose la successione, dividendo i suoi Regni fra i suoi tre figli. Non è certo che nell'incontro dell'804-805 L. discutesse di questo con l'imperatore.
Nella divisione dell'806 Carlomagno non prese nessuna disposizione per il titolo imperiale. La difesa del papa e della Chiesa di Roma, che era ben presente alla sua mente come funzione qualificante del potere imperiale, sarebbe stata esercitata dopo di lui dai tre figli congiuntamente. Il silenzio sul futuro dell'Impero non significa peraltro che Carlomagno intendesse far cessare il titolo imperiale con la sua morte; piuttosto egli doveva attendere che si chiarissero i rapporti con l'Impero bizantino e forse anche che venisse approfondito il ruolo del papa nelle questioni dell'Impero. Comunque nell'806 Carlomagno inviò a L. il complesso dei documenti che regolavano la successione nei suoi Regni, confermati dal giuramento dei grandi franchi, perché li approvasse, cosa che il papa fece, sottoscrivendoli di propria mano.
Dopo l'805 Carlomagno e L. non si incontrarono più, ma conservarono un'intensa pratica di consultazioni e informazioni reciproche, attraverso il frequente scambio di messaggeri e lettere. Entrambi erano persuasi di dovere agire d'intesa nelle grandi questioni di politica ecclesiastica come in quelle relative all'Impero e al dominio temporale della Chiesa. I rapporti peraltro sembra fossero caratterizzati da una perdurante diffidenza di Carlomagno nei confronti del papa, di cui questi si lamentò ripetutamente, cercando di dare prove evidenti di lealtà, senza però tacere occasionali insoddisfazioni e critiche più o meno aperte per l'operato del sovrano o dei suoi messi. Nell'808 Carlomagno informò L. di quanto stava accadendo in Inghilterra, dove il re di Northumbria era stato cacciato dal Regno, e l'arcivescovo di York era in lite con quello di Canterbury. L. rispose di essere stato informato dagli stessi anglosassoni, e di avere già inviato un suo messo in Inghilterra, per il quale chiese l'appoggio di Carlomagno. La missione di questo diacono romano fu poi causa di attriti: tornando dalla Britannia insieme ad un messaggero dell'arcivescovo di York, egli rientrò direttamente a Roma, invece di passare dall'imperatore per informarlo. Carlomagno sospettò che si volesse tenerlo all'oscuro di intese con l'arcivescovo di York, e protestò vivacemente col papa, il quale ritenne opportuno inviargli i due responsabili, pregandolo però di non punirli. In seguito il messo papale tornò in Inghilterra, ma venne catturato dai pirati sassoni e fu riscattato dallo stesso imperatore, che lo rimandò dal papa. Nello stesso periodo L. acconsentì alla richiesta di Carlomagno di insediare temporaneamente nella diocesi di Pola l'arcivescovo di Grado Fortunato, sostenitore dell'egemonia franca nella laguna veneta, cacciato dalla sua sede dal prevalere del partito filobizantino, mentre era in corso il conflitto tra l'Impero franco e quello bizantino per il controllo della regione. L. acconsentì, ma espresse riserve sulla figura di Fortunato, invitando Carlomagno a prendere informazioni e costringere l'arcivescovo a un comportamento più degno. Un nuovo episodio di questa collaborazione venata di diffidenza e di screzi avvenne nell'809 ed ebbe ad oggetto una questione religiosa che oppose la Chiesa romana a quella franca e greca. Il simbolo niceno, o Credo, veniva recitato dalla Chiesa romana e dalla bizantina nella forma originaria risalente al IV secolo, ove si diceva che la terza persona della Trinità, lo Spirito, procedeva dal Padre, sebbene la dottrina consolidata dei padri affermasse che lo Spirito procedeva congiuntamente dal Padre e dal Figlio.
L'episcopato franco nel concilio di Francoforte del 794 polemizzò con questa formula e negli anni seguenti il clero della cappella palatina di Carlomagno prese l'uso di recitare il Credo con l'aggiunta della parola filioque, esplicitando la doppia processione dello Spirito. Così sentirono il Credo ad Aquisgrana due monaci della comunità monastica franca del Monte Oliveto, a Gerusalemme, su cui Carlomagno esercitava un patronato, grazie ai suoi buoni rapporti col califfo Harun al-Rashid. Tornati a Gerusalemme essi vollero introdurre il filioque nella recita del Credo, ma vennero accusati di eresia e perfino aggrediti da monaci greci di Gerusalemme, e furono costretti a fornire giustificazioni sulla loro ortodossia alla Chiesa locale. Essi affermarono che la diversa formulazione del Credo non comportava diversità di fede, e scrissero una lettera a L. per chiedergli un florilegio di padri greci e latini sulla doppia processione dello Spirito, perché le poche autorità di cui erano a conoscenza venivano respinte dai loro oppositori. L. preparò un testo dottrinale che inviò alle Chiese orientali, per ribadire, sulla base delle autorità patristiche, che lo Spirito procede egualmente dal Padre e dal Figlio, anche se il simbolo niceno, com'era cantato tanto dalla Chiesa romana quanto dalla greca, era su questo incompleto; intanto inviò a Carlomagno la lettera dei monaci gerosolimitani, insieme ad un'altra del patriarca di Gerusalemme Tommaso. Carlomagno incaricò uno dei principali dotti della sua corte, Teodulfo d'Orléans, di compilare una raccolta di testi dottrinali favorevoli alla dottrina del filioque e nello stesso 809 riunì ad Aquisgrana un concilio di vescovi franchi che probabilmente approvarono l'inserimento del filioque nel Credo. Gli atti del sinodo vennero portati a Roma da due alti esponenti del clero carolingio. Nel gennaio 810, L. li esaminò con una commissione di ecclesiastici romani, sembra in animato contraddittorio con i messi imperiali. Il papa approvava infatti il contenuto dottrinale degli atti, ma deprecava l'inserimento del filioque nel simbolo niceno, sostenendo che la formulazione antica non doveva essere cambiata, non essendo rilevante per la salvezza dei credenti. Replicando alle insistenze degli ecclesiastici franchi, aggiunse che sarebbe stato auspicabile sospendere la recita del filioque nella cappella imperiale giacché le altre Chiese dell'Impero si sarebbero adeguate senza detrimento per la fede. Non si hanno notizie sul seguito della vicenda a Gerusalemme. Nell'Impero franco l'aggiunta del filioque nel Credo restò in uso, ma L. prese apertamente le distanze da questa consuetudine; fece incidere il simbolo niceno, senza il filioque, in greco e in latino su due scudi d'argento del peso di cento libbre ciascuno, che fece porre ai lati della porta della confessione di S. Pietro, ribadendo così la genuinità della tradizione romana.
Negli anni successivi la questione dell'Impero fu ancora in primo piano con nuovi problemi. Il conflitto di Carlomagno con l'Impero bizantino giunse a termine nell'812. Il nuovo imperatore Michele I inviò ad Aquisgrana ambasciatori per stipulare accordi di pace; essi erano incaricati di proclamare Carlomagno imperatore e "basileus", eguale all'imperatore bizantino. Ma l'accordo con i Bizantini dovette comportare da parte franca il riconoscimento che il vero Impero romano era quello di Costantinopoli, mentre la dignità imperiale di Carlomagno aveva carattere personale e si giustificava con riferimenti etici e politici diversi. Questo dovette portare a compimento la propensione di Carlomagno a sciogliere il suo Impero dalla matrice romana accentuandone invece il fondamento cristiano e il carattere di dominio su molte genti e popoli. Nel viaggio di ritorno, gli ambasciatori bizantini passarono da Roma e presentarono a L. i documenti dell'accordo, nella stessa basilica di S. Pietro. Il papa li avrebbe approvati e sanzionati, restituendoli agli ambasciatori. Tuttavia la nuova situazione comportava una sostanziale modifica della sua concezione di un Impero legato a Roma dal duplice fondamento papale e costantiniano. Non si conoscono le sue reazioni alle nuove prospettive.
La collaborazione con Carlomagno continuò negli anni successivi senza mutamenti apparenti: nell'812 e 813 L. lo informò sulle scorrerie di pirati saraceni nelle isole intorno alla Sicilia e nel golfo di Napoli e sulla pace che successivamente il patrizio bizantino di Sicilia aveva stipulato con il governatore kalbita della Tunisia. Riferì anche le contraddittorie notizie che aveva avuto su un tentativo di usurpazione a Costantinopoli, represso nel sangue dal nuovo imperatore Leone V Armeno. Da queste lettere si deduce che Roma era raggiunta dalla circolazione di persone che si muovevano tra l'Oriente bizantino, la Sicilia e l'Africa; una circolazione che può spiegare anche il regolare arrivo delle notevoli quantità di tessuti orientali utilizzati per l'addobbo delle chiese romane.
La notizia dell'associazione all'Impero del figlio di Carlomagno, Ludovico il Pio, avvenuta ad Aquisgrana nell'813 con una procedura singolare, riuscì certo sgradita al papa. Posta una corona sull'altare della sua cappella palatina, Carlomagno aveva invitato il figlio a cingerla, se si sentiva degno dell'Impero. La funzione e il titolo imperiale erano stati così trasmessi dallo stesso Carlomagno, nella completa assenza di ogni riferimento papale e romano. Non è infatti documentata nessuna consultazione col papa e nemmeno una formale comunicazione dell'accaduto. Non è nemmeno documentata la reazione di L., che comunque dopo la morte di Carlomagno riconobbe la dignità imperiale di Ludovico il Pio. Sembra peraltro che dal cambiamento della persona e della stessa fisionomia istituzionale dell'imperatore egli traesse conclusioni sulle proprie prerogative giurisdizionali nei domini della Chiesa. Dopo la morte di Carlomagno L. compì infatti un inequivocabile gesto di autorità nella città di Ravenna, promuovendo il rifacimento del tetto della basilica di S. Apollinare, sotto la guida di capimastri romani, e costringendo la popolazione di Ravenna e di altre città vicine a prestare corvées per i lavori edilizi. Fin dall'instaurazione del dominio politico del papato nell'Esarcato ravennate, durante la seconda metà dell'VIII secolo, gli arcivescovi di Ravenna si erano opposti all'ingerenza dei papi nel governo della città e del territorio, considerando se stessi come legittimi titolari dell'autorità civile ed ecclesiastica. Nell'808 L. aveva messo Carlomagno sull'avviso a proposito di discorsi e atteggiamenti dell'arcivescovo Martino, che diceva di vergognarsi a riferire. L'intervento autoritario in una delle più illustri e antiche basiliche ravennati, al di là della finalità pratica, era una manifestazione dell'autorità del papa sulla città. Poco dopo sembra che L. chiedesse a Ludovico il Pio di costringere Martino a recarsi a Roma per rendervi ragione di qualcosa di cui non si ha più precisa notizia. Anche questa iniziativa è comunque espressione di una rivendicazione di autorità che sotto Carlomagno non era stata manifestata tanto vivacemente.
La dimostrazione più rilevante del nuovo atteggiamento di L. riguarda comunque i suoi poteri nella stessa Roma. Nell'815 vi fu un'altra congiura di nobili romani intenzionati ad eliminare il papa; questi però ne venne informato, riuscì a catturare i congiurati e li condannò a morte secondo la legge romana. Il problema della giurisdizione criminale in Roma si ripresentava dunque, ma questa volta L. si attribuiva la più alta autorità sovrana sulla città, senza fare appello all'imperatore o ai suoi rappresentanti. Ludovico il Pio, preoccupato, inviò subito a Roma il nipote Bernardo, che governava come re l'Italia; questi fece un'inchiesta sull'accaduto; poi L. riuscì a giustificarsi con la corte franca. Sembra peraltro che l'ostilità dei Romani nei confronti del governo papale non scemasse. Alla fine dell'anno L. si ammalò, e questo bastò a scatenare tumulti e violenze, di cui furono bersaglio particolare le aziende agricole create dal papa, probabilmente espropriando i proprietari delle terre; molte "domuscultae" furono devastate e incendiate, e i ribelli si accingevano a saccheggiare anche le sedi ecclesiastiche in Roma, per recuperare i loro beni. Ancora una volta fu necessario l'intervento del re d'Italia Bernardo, che fece reprimere i tumulti dal duca di Spoleto Guinigi. Pochi mesi più tardi, probabilmente il 12 giugno 816, L. moriva, dopo uno dei pontificati più lunghi della storia del papato; la sua memoria liturgica si celebra in questo stesso giorno. Fu sepolto in S. Pietro.
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