MARCO, santo
, La persona. - Gli Atti degli Apostoli narrano che Pietro, liberato miracolosamente dalla prigione in Gerusalemme, "andò alla casa di Maria, madre di Giovanni detto Marco, dove parecchi stavano adunati e pregavano" (XII, 12). M. apparteneva quindi a una delle prime e più ferventi famiglie gerosolimitane convertite al cristianesimo: a essa S. Pietro si dirige sicuro di trovarvi non solo appoggio, ma un raduno dei fratelli. Nella prima lettera scritta da Babilonia (Roma), egli porge con i suoi i saluti di "Marco il figlio mio" (I Pietro, V, 13): è un riverbero dell'antico affetto, e un'indicazione probabile del battesimo a lui dato da Pietro stesso.
Nell'anno 42 o 44, quando Pietro si recò in casa sua, Marco doveva essere ancora giovane; e non manca di verosimiglianza la congettura che lo identifica col giovanetto anonimo che all'arresto di Gesù nel Getsemani sfuggì nudo ai soldati, lasciando il mantello nelle loro mani. L'episodio è narrato solo da Marco, XIV, 51-2.
S. Paolo e Barnaba, venuti a Gerusalemme a portare offerte per i cristiani poveri della comunità, condussero con sé "Giovanni detto Marco" ad Antiochia (Atti, XII, 25); e l'ebbero compagno ed aiuto (ὑπηρέτης) nel primo grande viaggio apostolico fra le genti. Solo in parte però: poiché, recatisi in Panfilia dopo avere evangelizzato Cipro, Marco si separò da loro e ritornò a Gerusalemme. Fosse timore dei pericoli, o nostalgia della famiglia, o altro, i motivi furono giudicati insufficienti da Paolo, di modo che, in un secondo viaggio più ampio, egli rifiutò la compagnia di Marco sì fermamente da rinunciare anche all'aiuto di Barnaba che lo proteggeva. L'insistenza di Barnaba a favore di Marco trova spiegazione in un rapporto di parentela. Giovanni era cugino (ἀνεψιός) di Barnaba (Coloss., IV, 10): e poiché questi era levita (Atti, IV, 36), probabilmente era levita pure lui. Poi (nel 61) ritroviamo tuttavia Marco presso Paolo a Roma, come uno dei collaboratori più fidi: egli è tra i pochissimi che sono di conforto all'apostolo, il quale però se ne priva raccomandando ai Colossesi di accoglierlo secondo la missione affidatagli (Coloss., IV, 10-11; Filem., 24). A Roma ci è pure testimoniata la sua presenza dalla I Pietro, V, 13: M. è compagno di S. Pietro in un periodo in cui Paolo deve essere assente, poiché non appare fra le persone che uniscono i proprî saluti ai destinatarî della lettera (poco avanti il 64-67). La tradizione cristiana relativa allo evangelista ha insistito quasi esclusivamente sui rapporti di M. con Pietro. M. è il sectator Petri, ed anzi l'interprete (ἑρμηνευτής) di Pietro. Di modo che alcuni antichi (C. Baronio, L.-S. de Tillemont), ma anche alcuni moderni (Patrizi, Drach, D. De Bruyne) furono indotti a pensare a due personaggi distinti, l'uno discepolo e collaboratore di Paolo, e l'altro di Pietro. Ma i recenti, nella massima parte, tengono per l'identità. È difficile infatti, per non dire impossibile, distinguere in Gerusalemme il "Giovanni detto Marco", nella cui casa si ricovera Pietro, dal "Giovanni detto Marco" che Barnaba e Paolo prendono seco ad Antiochia. La collaborazione in Roma con ambedue gli apostoli Pietro e Paolo non è incomponibile nell'ambiente cristiano. L'insistenza della tradizione sui rapporti speciali di M. con Pietro riguardano, non tanto il complesso della sua vita, quanto l'opera sua di evangelista, nella quale M. doveva seguire naturalmente, in un'esposizione di fatti, il più fedele tra i compagni di Cristo, piuttosto che il convertito di Damasco che non conobbe personalmente Gesù. Notizie singolari e preziose raccoglie l'antico Prologo al Vangelo, di cui ecco la forma più vetusta secondo il De Bruyne: "Marcus adseruit, qui colobodacthylus est nominatus, ideo quod ad ceteram corporis proceritatem digitos minores habuisset. Iste interpres fuit Petri. Post discessionem ipsius Petri descripsit idem hoc in partibus ltaliae evangelium". Il De Bruyne, seguito da A. v. Harnack, attribuisce l'origine del Prologo, poscia ampliato, alla seconda metà del sec. II: mentre il Lagrange lo ritarda al secolo seguente. Stretti sono i rapporti del Prologo con Ippolito (Ref., VII, 30) che ripete per Marco l'appellativo di colobodacthylus "dalle dita monche", e con S. lreneo, il cui testo in versione latina suona: "Post vero horum excessum Marcus, discipulus et interpres Petri et ipse quae a Petro annuntiata erant, per scripta nobis tradidit". Ireneo e Ippolito dipendono dal Prologo secondo De Bruyne e Harnack; è l'inverso per J.-M. Lagrange.
L'evangelizzazione di Alessandria da parte di Marco trova la prima testimonianza in Eusebio (Hist. Eccl., II, 16): ed è accennata in forme più sviluppate e tardive del Prologo. Ch'egli vi fosse martirizzato, è narrato da Gelasio (Patr. Lat., LIX, col. 139) e, anche prima, dagli apocrifi Atti di Barnaba e di Marco, i quali poterono, come spesso accade, abbellire un fatto storico.. Una difficoltà presenta il silenzio dei primi scrittori alessandrini. Da Alessandria il corpo del santo fu trasportato a Venezia da mercanti veneziani nell'828; e S. Marco da allora divenne patrono della repubblica, che eresse al suo nome la meravigliosa basilica e segnò con lo stemma di S. Marco i suoi monumenti e le colonie d'Oriente.
Il vangelo. - Il Vangelo di Marco, che occupa il secondo posto nell'odierna disposizione dei 4 Vangeli, si presenta con questo titolo: "Inizio del Vangelo di Gesù Messia, Figlio di Dio". Il "vangelo" va inteso nel signifcato originario di "lieto unnuncio", quello del "Regno di Dio". Gesù è il Cristo, il Messia, secondo l'attesa ebraica trasferita presso le genti sino in Occidente. Le parole "Figlio di Dio" mancano in alcuni codici, non nei più importanti, e rispondono in ogni modo al concetto dell'evangelista.
Un primo inizio, quasi aurora, del regno di Dio, è presentato nell'attività di Giovanni Battista che prepara quella di Cristo e si conclude nel battesimo di lui, che è manifestato divinamente come il Figlio di Dio. Segue l'esposizione dell'attività di Gesù in Galilea (cc. I-lX). Solo nel c. X s'accenna a un'azione di Cristo "nelle regioni della Giudea e al di là del Giordano". I capi XI-XVI sono consacrati agli ultimi giorni di Gesù in Gerusalemme.
Sovrabbondano i racconti in confronto degl'insegnamenti. Nessuno dei grandi discorsi o serie di sentenze dei Vangeii di Matteo e di Luca si trova in Marco. Fanno eccezione una serie di parabole sul regno di Dio (IV,1-34) e il discorso sulla fine di Gerusalemme e del mondo (XIII). Notevole anche il gruppo di discussioni con Sadducei e Farisei nel Tempio (XI, 27-XII). Gesù è, sì, il Maestro divino: "(Gesù) ebbe compassione di loro, perché erano come pecore senza pastore: e cominciò a insegnare loro molte cose" (VI, 34; IV, 33); ma il racconto dei fatti, specie dei miracoli, di Gesù doveva meglio soddisfare l'ambiente popolare a cui era diretto, e soprattutto meglio serviva a creare la fede nella venuta del "Regno di Dio" e in Gesù Messia e Figlio di Dio. Ne risalta così più la figura di Cristo, che non la sua dottrina. Mancano anche i racconti della nascita e dell'infanzia di Cristo. Il narratore rivive le scene e comunica a esse la vita. Un confronto con i passi paralleli di Matteo pone in evidenza le caratteristiche dello stile. Particolari minuti, non legati ad alcun concetto teologico, ma che aumentano il realismo della descrizione, sono tanto frequenti in Marco quanto assenti da Matteo, sobrio e quasi freddo. Si ha l'impressione di un testimone oculare. M. non fu tale secondo la tradizione stessa: ma tradusse prima a voce, poi in iscritto, le narrazioni di un teste che fu il più vicino a Gesù. Si confronti il racconto della prima moltiplicazione dei pani. In Matteo: "ed avendo Gesù comandato che la folla si stendesse sull'erba, presi i cinque pani e i due pesci..." (XIV, 19); in Marco: "e comandò che li facessero sedere tutti, a gruppi, sull'erba verde: e s'adagiarono in tanti gruppi, come aiuole, di cinquanta e di cento. E presi i cinque pani e i due pesci..." (VI, 39-40). Si confrontino pure con Matteo e con Luca i racconti della guarigione degl'indemoniati di Gerasa e della resurrezione della figlia di Giairo (Marco, V) e si avrà la sensazione dell'indole di ciascun narratore.
Si deve a questa sua aderenza alla realtà il frequente conservare frasi della lingua parlata di Gesù, subito tradotte in greco. Alla figlia di Giairo, stesa sul letto di morte, Gesù prende la mano dicendo: "Talitha, qumi! cioè, Giovinetta [ti dico], sorgi!" (V, 41). Al sordomuto, Gesò apre con le dita le orecchie, ordinando: "Effatha! cioè, Apriti!" (VII, 34).
Letterariamente M. è assai inferiore a Luca: abituale è la congiunzione di racconti o detti con un semplice καί: frequente l'uso di εὐϑύς e di πάλιν, divenuti semplici modi di dire.
Fortemente notata è la tarda penetrazione degli apostoli nel pensiero intimo di Gesù (VI, 52; VIII, 17), e il silenzio imposto da Gesù sulla sua messianità. Speciale attenzione è data a Pietro, che è forse l'unica figura cui sia dato pieno e vivo risalto di luci e ombre. In XI, 21 e XVI, 7 è fatto il suo nome, mentre non ricorre nei luoghi paralleli dei Sinottici. Dopo il riconoscimento della messianità di Gesù a Cesarea di Filippo, non si accenna al "primato" concesso a Pietro; ma il rimprovero a lui rivolto che tenta distogliere Cristo dall'idea della morte è più forte che negli altri vangeli (VII, 32-33). Anche il rinnegamento è narrato distesamente (XIV, 66-72). Sotto l'aspetto dottrinale, Marco non solo tiene la messianità di Gesù, ma lo afferma "Figlio di Dio". L'universalità del Vangelo, che deve essere predicato anche alle "genti" è espressa nitidamente (XIII, 10). Il Vangelo del resto è diretto a gentili convertiti. La critica recente ha messo in rilievo il "paolinismo" di Marco, senza però che si siano indicate dottrine particolari ed esclusive di S. Paolo (v. sotto). Le idee di Marco riguardo a Cristo e alla sua missione sono sostanzialmente quelle degli altri evangelisti.
L'autore. - La tradizione cristiana offre un solo nome come d'autore del II Vangelo: Marco. La più antica testimonianza è quella di Papia, nei primi decennî del sec. II (presso Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl., III, 39, 15), che anzi riferisce il pensiero di Giovanni l'Anziano (ὁ πρεσβύτερος), di cui si discute se fosse S. Giovanni l'apostolo o un omonimo: "L'Anziano questo diceva: Marco che fu interprete (ἑρμηνευτής) di Pietro, scrisse accuratamente quanto ricordava, non già in ordine, dei detti e dei fatti del Signore. Poiché egli non ascoltò il Signore né fu suo seguace, ma in ultimo, come dissi, di Pietro: il quale esponeva gli nsegnamenti secondo i bisogni, ma senza fare un coordinamento delle parole del Signore. Di modo che non errò Marco scrivendo alcune cose così come le ricordava: poiché d'una sola cosa si preoccupò, di non lasciare nulla di quanto aveva udito e di nulla mutarvi". Risaliamo con Giovanni l'Anziano verso la data d'origine del Vangelo: indiscusso è l'autore di esso, ma si fornisce, col ricorso alla tradizione di Pietro soggiacente al Vangelo, una spiegazione della mancanza d'un ordinamento dei fatti della vita di Cristo. Giustino Martire cita, come presa dalle Memorie di Pietro, l'apposizione del soprannome di Boanerges ai due apostoli figli di Zebedeo, cioè S. Giovanni e S. Giacomo, il che è un particolare proprio di Marco, III, 17 (Dial. cum Tryphone, 106): però egli sembra conoscere anche l'apocrifo Vangelo di Pietro (o gli Acta Pilati se si ritengono anteriori). Per Ireneo l'autore è "Marco, interprete e seguace di Pietro" (Adv. haeres., III, 10, 6); secondo Tertulliano (Adv. Marcion., IV, 5) quanto pubblicò Marco si attribuisce a Pietro, di cui Marco fu interprete. S'aggiungano le riportate notizie dei Prologhi al Vangelo. Ippolito rammenta anch'egli il dettaglio delle dita monche dell'evangelista.
La nitidezza della tradizione primitiva nell'affermare che l'evangelista non fu testimone oculare dei fatti, è una garanzia della storicità della medesiana. Questa stessa tradizione insiste sui rapporti del II Vangelo con Pietro: così che sino dal sec. II il Vangelo di S. Marco è presentato come il Vangelo di S. Pietro (Giustino M.; Tertulliano). M. è l'"interprete" di Pietro: ciò che i più oggi intendono in senso letterale, come traduttore dei discorsi di Pietro in lingua greca che l'apostolo non conosceva a sufficienza; secondo lo Zahn ed altri invece, M. sarebbe diventato "interprete" di Pietro, raccogliendone il pensiero nello scritto. Clemente Alessandrino raccoglie una tradizione secondo la quale Pietro, conoscendo le pressioni fatte dai cristiani di Roma sul suo collaboratore perché conservasse in scritto i suoi insegnamenti, non volle intervenire né per trattenerlo né per esortarlo (in Eusebio, Hist. Eccl., VI, 14, 5-7): secondo poi un'altra versione, l'apostolo l'approvò (Eus., Hist. Eccl., II, 15, 2). Ma se queste tradizioni si devono forse allo studio di elevare col nome dell'apostolo l'autorità del Vangelo, tale tendenza esula dalla più vetusta testimonianza, quella di Giovanni l'Anziano presso Papia, del quale il fatto di M. "interprete" di Pietro è dato come notorio.
Tesi critiche. - La critica indipendente tende a negare o a infirmare questi rapporii, traendo le sue deduzioni dal contenuto del II Vangelo. Fu corrente anni or sono, e non è del tutto tramontata, la tesi di un Proto-Marco (Ur-Markus), d'un Vangelo cioè più ristretto (o più ampio) da cui si sarebbe svolto con modificazíoni dottrinali il II Vangelo attuale. La tesi era fondata principalmente sul confronto con Luca. Avendo Luca seguito Marco, ciò che non si trova presso Luca ed è nel Marco attuale sarebbe da considerarsi come aggiunto. Se estesa ai dettagli pittoreschi e vivaci del II Vangelo, la tesi finiva col disconoscere e alterare le particolari attitudini degli evangelisti. Le teorie su Marco presero altro aspetto, in rapporto pure con altra f0nte dei Vangeli, i Logia di S. Matteo.
Sino a pochi decennî or sono, dalla critica "liberale" il II Vangelo era considerato come documento fondamentale per la ricostruzione del pensiero e della vita di Gesù, insieme con la raccolta di sentenze composta da Matteo in aramaico (Logia). Privo com'è dei racconti dell'infanzia, riallacciato direttamente a un testimonio di prima mano, Marco era anche ritenuto meno sovraccarico di dottrine teologicne e quasi "neutrale" di fronte alle tesi di Paolo. Marco appariva quindi il più vicino e aderente al pensiero e alla vita di Gesù.
Esaminando meglio, specialmente dopo gli studî di W. Wrede, si venne a riconoscere che le idee di Marco non differivano in sostanza da quelle degli altri Vangeli. Si svolse anzi ampiamente la tesi del "paolinismo" di M.: e se ne dedusse per una parte che la tradizione la quale congiungeva strettamente il II Vangelo a S. Pietro dovesse rigettarsi o interpretarsi largamente, e per l'altra parte dovesse negarglisi quel carattere originario di prima mano, che gli era attribuito. Furono ristudiati i rapporti di Marco con i Logia di Matteo; e a questo proposito alcuni negarono, altri sostennero la conoscenza e l'uso dei Logia in Marco, benché sia difficile assai spiegare come Marco omettesse tutti i grandi e preziosi discorsi di Gesù. Si addivenne così a una dissecazione aneora più profonda del Vangelo, distinguendosi in esso parecchie stratificazioni successive (A. Loisy, Wendling, ecc.). L'importanza preminente assegnata a Marco dalla scuola "liberale" germanica venne quindi negata, anche per il prevalere di altre correnti: la corrente che possìamo dire "americana", la quale tende ora a mettere in maggiore evidenza il Vangelo di Luca: e, più a fondo, i seguaci del metodo formgeschichtlich, che, accantonata la ricerca delle fonti "scritte", si propongono di mostrare il lavorio della tradizione "orale" e l'influenza del "culto" nella formazione dei racconti evangelici e delle loro diverse forme.
La critica cattolica, e in genere conservatrice, ha opposto a queste tesi così celermente variate negli ultimi decennî i seguenti punti: 1. l'esame del Vangelo, nelle sue caratteristiche dottrinali, specialmente nella vivacità pittorica del suo stile, mostra un carattere profondamente personale e unitario: tesi, del resto, che meglio si adatta alle tesi letterarie della scuola formgeschichtliche, che non alle analisi di fonti cucite e rappezzate della critica di due decennî or sono; 2. il rilievo del "paolinismo" di Marco non permette di negare i rapporti stretti con Pietro, affermati nitidamente dalla tradizione e imposti dai dati della vita dell'evangelista, ma esige piuttosto la negazione delle ultime tracce della teoria della scuola di Tubinga, implicante il profondo dissenso tra "paolinismo" e "petrinismo", considerato che tutte le fonti neotestamentarie rappresentano le stesse idee fondamentali sulla persona di Cristo e sull'universalità del Vangelo.
Luogo d'origine e data. - Il luogo d'origine fu Roma, o più genericamente l'Italia: Roma, secondo le tradizioni della chiesa alessandrina; nei confini d'Italia, secondo i Prologhi al Vangelo.
Nell'antichità fu l'idea corrente, rispecchiata in: Eusebio, Hist. Eccl., II, 15; S. Efrem siro; Diatessaron, 286; S. Girolamo, De viris illustribus, 8. Solo S. Giovanni Grisostomo e alcuni manoscritti ne pongono l'origine in Alessandria: ma la testimonianza precisa di Clemente di Alessandria a favore di Roma toglie valore a questa tesi.
Dell'origine romana è buona conferma l'uso di vocaboli latini, più frequenti che negli altri Vangeli. Alcuni appartengono all'amministrazione o sono termini dell'esercito: κεντυρίων (XV, 39, 44, 45); λεγιών (V, 9, 15); σπεκουλάτωρ (VI, 27), quali erano usuali nell'orbe romano; ma si ha ancora κράββατος, grabatus, giaciglio per una persona sola (Marco, II, 4, 11 e passim, dove Matteo ha κλίνη e Luca κλινίδιον); ϕραγελλώσας, avendolo flagellato (XV, 15: lo stesso però in Matteo, mentre Luca ha παιδεύσας); ἔσω τῆς αὐλῆς, ὅ ἐστιν πραιτώριον (XV, 16); specialmente notevole la traduzione di una moneta greca, λεπτόν, con una romana, quadrans: λεπτὰ δύο, ὅ εστιν κοδράντης (XII, 42: però anche in Matt., V, 26), ch'è difficile comprendere se l'autore non aveva presenti al pensiero lettori latini. Sono rilevate anche costruzioni grammaticali che si dovrebbero a influsso del latino. Il Couchoud sostenne recentemente la tesi paradossale che l'originale di Marco fosse latino.
È notevole pure l'indicazione di Simone di Cirene, quegli che aiutò Gesù a portare la croce, come "il padre di Alessandro e di Rufo" (Marco, XV, 21). L'evangelista non avrebbe cercato di rendere identificabile il personaggio col nome dei figli, se questi non erano conosciuti ai lettori. Ora a un Rufo e a sua madre porge un saluto S. Paolo scrivendo alla comunità di Roma (Rom., XVI, 13).
Più discussa è la data d'origine. Ireneo (Adv. haer., III, 3,1), fissando il sorgere. dei Vangeli canonici scrive di Marco: "Dopo. la dipartita di questi [Pietro e Paolo] M. ci diede in scritto quanto era predicato da Pietro". Le parole che accennano alla dipartita di Pietro e Paolo (μετὰ δὲ τὴν του0των ἔξοδον) non sembrano potersi riferire che alla loro morte. La lezione della Catena greca μετὰ τὴν τούτου ἔκδοσιν è troppo poco testimoniata per farvi assegnamento, e intendere quell'ἔξοδος nel senso della "partenza" dalla Palestina urta eontro il contesto. Nello stesso senso s'è invocato da alcuni il testo di Papia: Μάρκος μὲν ἑρμενευτὴς Πέτρου γενόμενος, ὅσα ἐμνημόνευσεν, ἀκριβῶς ἔγραψεν, insistendosi sugli aoristi come indicazioni di tempo passato. Ma essi si spiegano a sufficienza nel caso di un'assenza di Pietro. D'altra parte le testimonianze di poco posteriori di Clemente d'Alessandria affermano Pietro ancora vivente: ed è notevole che una prima forma di questa tradizione ponesse S. Pietro in atteggiamento neutrale di fronte a Marco.
La questione della data è del resto strettamente legata alla data assegnata agli altri Vangeli e in modo speciale a quella di Luca: poichè è riconosciuto che Luca usò Marco. Dal contenuto non molto si può decidere di sicuro: tuttavia nel discorso apocalittico (XIII) gli accenni ancor vaghi ai prodromi della distruzione di Gerusalemme e l'oscurità dei rapporti di questa con la fine cosmica, suggeriscono una data anteriore al 70 (anni 67-70: Bisping, Schanz, Feine, Zahn). Ponendo gli Atti e Luca già composti nel 62, occorre collocare il sorgere di Marco fra il 50 e il 60 (v. luca, santo). Invece quelle correnti critiche le quali considerano minore il valore storico del Vangelo, sono portate a ritardare almeno l'ultima sua redazione: dal 70 al 90. Solo pochi arrivano al 100 come ad ultimo termine.
La finale deuterocanonica. - Gli ultimi 12 versetti del Vangelo (XVI, 9-20) mancano in importanti manoscritti (B, א, versione siriaca sinaitica, ecc.). Secondo Eusebio di Cesarea la conclusione mancava "in tutti i manoscritti" terminando "i manoscritti accurati" con XVI, 8 (Eus., Quaest. ad Marcum, 1). Da lui dipende S. Girolamo quando scrive che la finale "in raris fertur evangeliis, omnibus Graeciae libris paene hoc capitulum in fine non habentibus" (Epist., 120, 3). S. Ireneo cita però espressamente Marco, XVI, 19 (Adv. haer., III, 10, 6), e la finale che è nelle versioni copte e latine era stata usata nel Diatessaron di Taziano: di modo che essa deve risalire almeno alla prima metà del sec. II. Un'altra finale più breve, che si trova in pochi manoscritti tardi, è certamente non genuina. Altra finale è in un manoscritto della collezione Freer.
Il Vangelo è poco verosimile terminasse col v. 8, mancando anehe dell'aspetto di chiusa d'un libro. D'altra parte la finale non sembra nello stile del libro. Invece di narrare, riassume: e non mancano altri indizî a sollevare dubbî contro la sua genuinità. Si può supporre che per qualche incidente librario, in epoca primitiva quando le copie del Vangelo erano limitatissime, si perdesse l'ultimo foglio e lo si sostituisse poi raccogliendo dati dagli altri Vangeli. È stato fatto il nome di Aristione, "discepolo del Signore" secondo Papia, indicato in un manoscritto di Ečmiadsin in Armenia dell'anno 986. La Chiesa cattolica ne definì al Concilio. di Trento la canonicità e l'ispirazione (v. bibbia), ma non il suo autore.
Bibl.: Pochi tra gli antichi commentarono il Vangelo di Marco. Si possiede in greco e in latino una Catena (centone di autori diversi), la cui ultima edizione fu curata da J. H. Cramer (Oxford 1844). Un trattato di S. Girolamo fu edito da P. Morin, in Anecdota Maredsolana, III, ii, 310-370. Si hanno nel Medioevo i commenti di S. Alberto Magno, S. Tommaso e altri. Fra i moderni cattolici: P. Knabenbauer, Evangelium secundum Marcum, 2ª ed., Parigi 1907; P. Schanz, Commentar über das Evangelium des heil. Marcus, Friburgo in B. 1881; J.-M. Lagrange, Évangile selon Saint Marc, 4ª ed., Parigi 1929; J. Huby, L'évangile selan Saint Mare, Parigi 1925. Di diverse scuole indipendente: H. J. Holtzmann, Die Synoptiker, 3ª ed., Tubinga 1901; E. Klostermann, Das Marcus-Evangelium erklart, 2ª ed., Tubinga 1926; H. B. Swete, The Gospel according to St Mark, 2ª ed., Londra 1908; J. Weiss, Das älteste Evangelium, Gottinga 1903; B. W. Bacon, The Gospel of St Mark, New Haven 1925; J. Jeremiasi, Das Ev. nach Markus, Chemnitz 1928. Vedi anche: gesù cristo; sinottici; vangeli.