NICCOLÒ I, santo
Nato presumibilmente intorno all'820, N., come i suoi due predecessori, non apparteneva all'aristocrazia romana, pur non essendo di origini "modeste". Il Liber pontificalis, infatti, precisa che era figlio del "regionarius" Teodoro, uno dei notai o dei "defensores" preposti all'amministrazione del patrimonio pontificio di una delle sette regioni ecclesiastiche della città. L'indicazione delle funzioni paterne è abbastanza rara da saltare all'occhio: da quando i papi, della seconda metà dell'VIII secolo, sono con sostanziale continuità romani (752, morte di Zaccaria, l'ultimo papa greco), i membri delle grandi famiglie prendono senz'altro il sopravvento su candidati di estrazione inferiore (otto casi su tredici), ma le notizie del Liber pontificalis fino a quel momento si erano limitate a registrare quest'alternanza, sia segnalando solo il nome del padre dei pontefici, indizio di modesti natali, sia sottolineandone l'origine aristocratica. Specificare la funzione dimostra come una carriera amministrativa al servizio del papato potesse rivelarsi proficua per la seconda generazione che vi si impegnava. Gli anni della formazione di N. non presentano tratti particolarmente originali: un'educazione tradizionale nelle materie letterarie e sacre, senz'altro simile a quella impartita ai suoi predecessori Adriano I, Leone III e Sergio II, in casa o nel Palatium, seguita dall'ingresso nel clero, sotto quest'ultimo papa, e dall'ammissione agli uffici del Laterano, dove fu nominato suddiacono e poi diacono con Leone IV. Ebbe l'opportunità di distinguersi per la prima volta dando lettura dell'ammonitio del papa durante il sinodo riunito a Roma nel dicembre 853, che si concluse con la deposizione e scomunica di Anastasio, cardinale prete di S. Marcello, di lì a poco antipapa, il futuro bibliotecario della Chiesa romana (Die Konzilien, III, nr. 32, p. 317). Benedetto III lo introdusse nella sua cerchia, fino a farlo diventare suo principale consigliere con un ruolo esecutivo. Ripercorrendo la sua ascesa ed illustrando i suoi meriti, il Liber pontificalis (p. 148) pone l'accento sul fatto che il papa, per averlo al proprio fianco, derogò dalla consuetudine di dare la precedenza ai propri consanguinei. In compenso, la precisazione che N., "con altri diaconi", fu tra coloro che seppellirono Benedetto a S. Pietro nell'aprile 858, non intende sottolineare l'intimità del legame con il papa, ma si limita ad esporre l'applicazione di una regola istituita dallo stesso pontefice, il quale aveva disposto che ogni membro del clero romano dovesse essere accompagnato alla sepoltura dal gruppo dei suoi "colleghi", che riuniti avrebbero raccomandato a Dio l'anima del defunto. Benedetto III morì il 7 aprile 858. Il Liber pontificalis presenta l'elezione al soglio pontificio di N. come il frutto di una decisione unanime "dei Romani": il clero, i nobili (il Senato), il popolo. L'insistenza sul consenso raccolto è al tempo stesso un luogo comune, un richiamo discreto alla Constitutio Romana promulgata da Lotario nell'824, che parlava del privilegio esclusivo dell'elezione genericamente accordato ai Romani, e infine un contrappunto al resoconto dell'elezione movimentata di Benedetto III, dove era stato stigmatizzato il ruolo svolto dal vescovo Romano da Bagnoregio, con una nota ironica sul nome di quest'ultimo che poco si intonava al suo comportamento da "barbaro". Pertanto la presentazione dell'elezione di N. come una decisione unanime e indipendente non deve dissimulare che in realtà si svolse sotto il controllo imperiale, "praesentia magis ac favore Hludowici regis et procerum ejus quam cleri", secondo gli Annales Bertiniani redatti "a caldo" da Prudenzio di Troyes (che morì nell'861). Ludovico II, che si trovava ancora a Roma il 30 marzo 858 (data di un precetto per S. Silvestro di Nonantola, cfr. J.F. Böhmer, nr. 171), si affrettò a rientrare in città dopo averla da poco lasciata, per seguire da vicino gli eventi. La decisione fu presa solo "dopo alcune ore di discussione" (Le Liber pontificalis, p. 152), perché vi erano altri candidati papabili, in particolare il futuro Adriano II, già proposto nell'855, che anche questa volta si tirò indietro. E, soprattutto, N. divenne pontefice dopo la consacrazione "in presenza di Cesare", il 24 aprile, nel rigoroso rispetto della Constitutio Romana, che era stata "dimenticata" in occasione dell'elezione di Sergio II, nell'844, e di Leone IV nell'847. Pur senza tralasciare il ruolo svolto da Ludovico II, il Liber pontificalis preferisce tuttavia stornare l'attenzione da ciò con una lunga digressione sui riti che seguirono, e ristabilirono l'equilibrio fra i due poteri. Il 26 aprile N. ricevette l'imperatore a cena e lo ammise alla sua filiazione spirituale, poi Ludovico II lasciò la città per spostarsi a Tor di Quinto (S. Leucius, al V miglio della via Flaminia) dove il papa lo raggiunse. Per due volte, quando lo ricevette e al momento del congedo, l'imperatore si assoggettò all'officium stratoris, conducendo per le briglie il cavallo del papa e rinnovando così il gesto di Pipino nei confronti di Stefano II a Ponthion il 6 gennaio 754, secondo una pratica, prevista anche nel Constitutum Constantini (§ 16), che conoscerà in seguito un largo successo essendo interpretata come un rito di accettazione del vassallaggio. L'attento controllo esercitato sull'elezione di N. faceva pesare un'ipoteca sulla sua indipendenza dal potere imperiale. L'influenza di Ludovico II si misura, per esempio, dall'ingresso degli antichi avversari di Benedetto III nella cerchia pontificia: Anastasio, già reso alla comunione dei laici da Benedetto, al quale N. non solo promise il ritorno al sacerdozio, a patto che restasse fedele alla Chiesa, ma conferì anche la carica di abate di S. Maria in Trastevere; Arsenio, zio di Anastasio (piuttosto che il padre: cfr. G. Arnaldi, Il Papato) e vescovo di Orte, che sarebbe stato a Roma il "missus" permanente dell'imperatore, in particolare in materia giudiziaria, assistito nel suo compito dal diacono Giovanni (Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma, p. 203); Radoaldo, vescovo di Porto, altro rappresentante del "partito franco" a Roma. Inoltre, appare significativo che gli atti emanati dalla Santa Sede ristabiliscano la datazione secondo il computo degli anni dell'Impero, di cui viene anche sottolineata di buon grado la preminenza sulle altre potenze terrene. Comunque questi segni esteriori, come si noterà, non implicavano necessariamente la sottomissione. Riaffermando nel sinodo romano del febbraio 861, il primo del pontificato di N., l'attualità del decreto conciliare lateranense del 769 - come fece dopo di lui Giovanni VIII - che riservava l'elezione del pontefice al clero e l'eleggibilità ai soli membri del clero di Roma, il papa offriva d'acchito ai suoi successori un'arma di difesa contro l'ingerenza "laica" in generale e in particolare contro l'interpretazione troppo rigida della Constitutio Romana (Die Konzilien, IV, nr. 5, p. 51: "Ut electionem pontificis nullus contradicere praesumat"). I primi due anni di governo di N. non sembrano aver prodotto una documentazione copiosa - anche se non mancano gli accenni a lettere ricevute o inviate, oggi perdute - né hanno lasciato traccia negli annali. Il Liber pontificalis si limita ad indicare la lista delle donazioni tradizionali alle chiese e a descrivere gli effetti delle due piene del Tevere a Roma, nell'ottobre e nel dicembre 860, mentre della corrispondenza si è conservata un'unica lettera indirizzata a Venilone, arcivescovo di Sens. La missiva, che risale probabilmente ai primissimi mesi del pontificato (prima del settembre 858), risponde ad un quesito a proposito di un sinodo provinciale delegato a decidere sul caso del vescovo di Nevers, Erimannus, troppo malato per continuare a dirigere la sua diocesi e accusato di vari eccessi incompatibili con la sua carica (ep. 103; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2674; Die Konzilien, III, p. 430). La lettera ha suscitato perplessità perché esprime un'opinione piuttosto cauta, senza alludere a quanto si suppone abbia chiesto l'arcivescovo, in base ad una minuta dettata a Lupo di Ferrières sullo stesso problema: il tenore di una falsa decretale di Milziade che riservava esclusivamente alla Sede romana il potere di deporre un vescovo. Ora, il silenzio di N. su questo particolare punto potrebbe essere indizio dell'ignoranza delle false decretali a Roma a quell'epoca. Ma si tratta di un'interpretazione infondata, poiché è verosimile che la minuta di Lupo di Ferrières non sia stata inviata e che il papa abbia solo risposto ad una richiesta sullo stesso argomento, dove però non era menzionato il riferimento a Milziade. Al contrario, come se il periodo compreso fra l'858 e l'860 fosse stato messo a frutto per consolidare la situazione interna e gettare le basi per l'azione futura, gli anni successivi registrano interventi di N. in tutti gli ambiti e su tutti i fronti geografici simultaneamente, al punto che il nostro racconto, per risultare coerente, deve ricorrere spesso ad una presentazione di natura tematica piuttosto che cronologica, sulla falsariga della posizione già adottata, in sostanza, dalla notizia del Liber pontificalis e ripresa da E. Perels per la classificazione delle lettere del pontefice. Inoltre, a partire dai primi anni Sessanta (forse alla fine dell'861, anche se il suo ruolo è attestato solo dal sinodo romano dell'autunno 863, che condanna Guntero e Tilgaldo), N. prende al suo servizio Anastasio, soprattutto, ma non esclusivamente, per la conduzione dei rapporti con l'Oriente, che richiedevano la conoscenza del greco. Anastasio non si è limitato a dettare la corrispondenza, ma ha dato anche voce alle idee del pontefice con le sue traduzioni di testi agiografici (N. gli commissionò, al principio del pontificato, la traduzione della vita di s. Giovanni Elemosiniere; cfr. la lettera di dedica in M.G.H., Epistolae, VII, 1, a cura di E. Dümmler, 1902, pp. 395 ss.; cfr. anche la dedica della traduzione della vita di s. Basilio al suddiacono Urso, medico di N., ibid., pp. 398 ss.), la cui scelta ha rinnovato la tradizione agiografica romana nel senso dell'esaltazione del potere ecclesiastico: si tratta di vescovi, papi (Martino I), santi spesso recenti distintisi nella lotta contro l'eresia, naturalmente orientale, e che si sono battuti, talvolta fino alla morte, con il potere politico. La coppia formata dal papa e dal suo segretario si cementò così rapidamente, che talvolta i biografi di Anastasio videro in lui l'uomo chiave del pontificato: l'ispiratore delle idee politiche ed ecclesiologiche essenziali. Senza arrivare a ciò, si possono certamente attribuire ad Anastasio (v. Anastasio Bibliotecario, antipapa) la forza e la chiarezza d'espressione che contraddistinguono tutte le lettere del papa. I rapporti con Bisanzio e la conduzione della questione orientale si possono seguire secondo ritmi quasi stagionali, nello scambio di corrieri e ambascerie. La documentazione complessiva, che apre, forma la parte centrale e conclude quella degli "eventi" riportati nella notizia del Liber pontificalis, è senza dubbio la più importante del pontificato e anche quella che ha lasciato le tracce più profonde sia nel diritto canonico successivo che nelle relazioni fra Oriente greco e Occidente latino. La prima opportunità d'azione sulla scena orientale fu offerta dall'arrivo di una duplice ambasceria bizantina a Roma nella primavera dell'860. Da una parte, giunse la sinodica di intronizzazione di Fozio (V. Grumel, nr. 467), che esigeva una risposta formale del papa relativamente all'integrazione del neoeletto nella pentarchia. Fozio era stato innalzato dallo stato laico al rango di patriarca di Costantinopoli, in sostituzione del deposto Ignazio, nell'estate 858; era stato consacrato da Gregorio Asbestas, arcivescovo di Siracusa, in precedenza deposto dallo stesso Ignazio. Dall'altra, pervenne una richiesta di Michele III affinché fossero inviati legati per riunire un concilio sulle immagini (Fr. Dölger, nr. 457): ciò dimostra che a questa data la ricerca di una posizione unanime sulle immagini era ancora all'ordine del giorno, forse semplicemente perché Fozio, avendo fatto parte della cerchia che si era battuta nell'843 per ristabilire le immagini ed essendo stato suo padre esiliato dagli iconoclasti, possedeva un'arma efficace su un tema a proposito del quale i suoi avversari si erano mostrati singolarmente prudenti. Il passo di Michele III, presentato dal Liber pontificalis come il risultato di uno scaltro piano comune dell'"imperatore dei Greci" e del "neofita" (la lettera del patriarca passa sotto silenzio e la richiesta relativa alle immagini - indizio indiretto di come la disputa non fosse più d'attualità a Roma - vien fatta apparire come un grossolano pretesto; discutere su questo problema minore equivaleva a riconoscere un interlocutore peraltro contestato, ossia ad avallare l'espulsione del patriarca Ignazio), portò ad un'unica ambasceria in risposta, affidata ai vescovi Radoaldo di Porto e Zaccaria di Anagni. N. domandò comunque ai suoi legati di sondare, in primo luogo, la rispettiva legittimità di Ignazio e Fozio, dando ad intendere che da questo dipendeva il riconoscimento del secondo (epp. 82-3 a Michele III e a Fozio, 25 settembre 860; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2682-83). Aggiunse alla loro missione la richiesta del ristabilimento della giurisdizione della Chiesa romana sulle diocesi dell'Illirico, dell'Italia meridionale e della Sicilia, che nel 732-733 erano state trasferite da Leone III alla giurisdizione del patriarca di Costantinopoli, nonché della restituzione dei redditi dei Patrimoni della Chiesa romana situati nei domini bizantini dell'Italia meridionale e della Sicilia, che, nella stessa occasione, erano stati devoluti al fisco imperiale. La volontà di riappropriarsi della giurisdizione dell'Illirico era rivolta anche al versante franco. Infatti, fu probabilmente nell'860 che N. fondò l'arcivescovato di Nin in Croazia (politicamente carolingia dal trattato dell'812 con Bisanzio), alle dirette dipendenze della Santa Sede e non della metropoli di Aquileia, polo d'irradiazione missionaria in questa regione (cfr. ep. 140, frammentaria, "al clero e al popolo di Nin"; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2851). Al concilio riunito ai SS. Apostoli dall'aprile 861, l'attenzione fu comunque spostata dal caso personale di Fozio alle circostanze della nomina di Ignazio, la cui deposizione fu confermata essendo stato dimostrato agevolmente che era stato ordinato (nell'847) senza essere stato eletto. Fu ribadita la condanna dell'iconoclastia, senza che ciò destasse alcuna sorpresa, mentre furono messi all'ordine del giorno alcuni canoni disciplinari apparentemente non previsti. Radoaldo e Zaccaria rientrarono a Roma in estate con il resoconto dell'attività svolta, accompagnati o seguiti da una seconda ambasceria bizantina latrice di un messaggio di autogiustificazione di Fozio, in cui difendeva la propria elezione per la quale non aveva brigato, predicava il pluralismo delle discipline ecclesiastiche e si trincerava dietro l'autorità del basileus per le questioni inerenti alla giurisdizione (V. Grumel, nr. 472). Fozio protestava anche contro la presenza a Roma di fomentatori di disordini, che, approfittando della propria condizione di pellegrini, diffondevano propaganda dissidente; all'inizio dell'anno seguente, in effetti, cominciò a circolare un libello presentato come un appello di Ignazio al pontefice romano, redatto in realtà dal monaco Teognostos, egumeno di S. Maria della Sorgente, rifugiatosi a Roma con altri sostenitori del patriarca deposto. La reazione di Roma fu metodica. Il 18 marzo 862 N. inviò tre lettere in Oriente: a Fozio, sul tema del primato romano, sì da spiegargli che non aveva l'autorità per trattare questioni disciplinari e per contestare le argomentazioni con cui giustificava il suo rapido passaggio dallo stato laico al patriarcato; a Michele III, per comunicargli che al suo protetto non poteva essere riconosciuta la dignità patriarcale e che Ignazio andava reintegrato, finché l'intera questione non fosse stata trattata in presenza del papa; infine, agli altri patriarchi orientali, e per loro tramite a tutti i fedeli, per deplorare il comportamento di Radoaldo e Zaccaria, che avevano oltrepassato i limiti del mandato loro assegnato, e rendere nota la posizione della Sede apostolica a proposito del pervasor e neofita Fozio (epp. 84-6; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2690-92). Da Bisanzio non giunse alcuna risposta. Le posizioni romane furono ribadite in un sinodo riunito in primavera o nell'agosto 863 (Die Konzilien, IV, nr. 15), che diede attuazione ai principi e alle esigenze espressi in precedenza: Fozio fu ridotto allo stato laicale e minacciato di scomunica se avesse conservato una carica usurpata; i vescovi sostenitori di Ignazio vennero reintegrati; eventuali casi dubbi erano rimessi al giudizio di Roma. Zaccaria fu deposto ed escluso dalla comunione ecclesiastica, mentre il caso di Radoaldo, assente a causa di una legazione in Lorena, fu rinviato ad un sinodo successivo - sarà a sua volta deposto e scomunicato l'anno seguente da un concilio convocato in Laterano, di fronte al quale l'interessato non si degnò di comparire (ep. 98; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2821). L'864 trascorse senza che si registrassero reazioni sul fronte orientale. Solo verso la fine dell'estate 865 giunse a Roma una risposta di Michele III (Fr. Dölger, nr. 464). Il testo è andato perduto, ma è agevole ricostruirne il tenore dalla risposta del papa: l'imperatore Michele sferrava un attacco a Roma, città arretrata e barbara fin nella lingua, affermava il diritto del sinodo patriarcale di decidere sul caso di Ignazio e intimava di far rientrare a Bisanzio il monaco agitatore Teognostos. La replica romana agli "insulti blasfemi" fu una lunga memoria redatta da Anastasio, nell'impeto dello sdegno, e rispedita tramite il suo latore, il protospatario Michele (28 settembre 865, ep. 88; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2796). La riaffermazione delle conclusioni del sinodo dell'863 a proposito di Ignazio e il rifiuto di consegnare Teognostos non vi occupavano che uno spazio ridotto. La lettera è celebre ed è stata commentata soprattutto a causa degli sviluppi connessi, laddove Anastasio attinge ad un vasto arsenale scritturale e canonico, che questa volta include le false decretali - anche se la prima citazione testuale di esse la si trova in una lettera di Adriano II - e che fu molto utile per l'autorità posteriore degli apocrifi di Simmaco; consente inoltre di misurare l'abisso che separava le due cristianità. Dal VI concilio ecumenico (680) gli imperatori sono in massima parte eretici. Il papa non deve ricevere ordini da loro, neppure se sono cattolici. Il "nazionalismo linguistico" (M. Banniard, p. 545) viene ritorto contro l'accusatore: il basileus non può dirsi imperatore dei Romani, se li considera barbari; la verità è che non capisce il latino. Coloro che si sono permessi di giudicare Ignazio lo hanno fatto illegittimamente, sia in quanto nemici dichiarati del patriarca, sia perché colpiti da una sanzione ecclesiastica e, in ogni caso, avevano una dignità inferiore. E la presenza dell'imperatore, in virtù del principio di separazione dei due poteri, era inopportuna in un'assemblea dal tema strettamente ecclesiastico e non trattandosi di un concilio ecumenico. Il primato della Sede apostolica è ribadito con risolutezza nei confronti di Costantinopoli, che non può in alcun modo vantare una fondazione apostolica, a differenza di Antiochia e Alessandria. Con queste argomentazioni, N. poteva rinnovare la richiesta, formulata come un pacato invito, che Ignazio e Fozio si recassero personalmente o per procura a Roma per regolare il conflitto al suo cospetto. L'imperatore, prestando ascolto a quella che doveva essere intesa come un'ammonizione paterna e non uno scambio di insulti (il biglietto di accompagnamento per il protospatario Michele [ep. 89; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2797], che raccomanda di vigilare sulla fedeltà della traduzione in greco, insiste su questa distinzione), avrebbe potuto tornare a partecipare alla comunione con la santa Chiesa apostolica. La lunga lettera di N. non suscitò alcuna reazione da parte di Bisanzio: l'autunno 865 e quasi tutto l'866 trascorsero senza che vi fossero contatti diplomatici fra Oriente e Occidente. I cambiamenti politici e gli imperativi militari in Oriente (assassinio, il 21 aprile 866, di Cesare Barda da parte di Basilio il Macedone su commissione di suo nipote Michele III, che, al suo posto, associò al trono Basilio; campagna contro Creta; assedio di Ragusa da parte degli Arabi di Sicilia) e gli sviluppi politici in Occidente spiegano ampiamente questo periodo di stasi. Ma al tempo stesso si allargava il fronte della disputa sul tema della concorrenza missionaria nei paesi slavi e del destino politico delle regioni conquistate di recente alla cristianità. Il dibattito era latente già da alcuni decenni, ma assunse toni aspri solo con il conflitto fra patriarcati. Il khan dei Bulgari Boris, al potere dall'852, per qualche tempo si era destreggiato fra Greci, Franchi e Latini. Il papa, e soprattutto il sovrano del Regno franco orientale, vedevano in lui un alleato idoneo per imporsi in Moravia, dove circolavano missionari occidentali, originari della Baviera e di Aquileia; ma Boris, risentito per il rifiuto categorico, da parte di Roma, ad acconsentire alla sua richiesta di creare un episcopato indipendente, si era avvicinato a Bisanzio affinché organizzasse la sua Chiesa - fu questa la missione di Costantino-Cirillo e di Metodio. Nell'864 N. scrisse a Ludovico il Germanico incoraggiandolo ad intraprendere un'azione congiunta nei confronti dei Bulgari, perché Roma prendesse piede definitivamente in quei territori (ep. 26; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2758). Preoccupata da un possibile avvicinamento diplomatico e militare della Bulgaria all'Occidente, Bisanzio fece alcune dimostrazioni militari alle sue frontiere. In pegno di pace Boris si fece battezzare (864-865), assumendo il nome di Michele - padrino per procura - e instaurando così, sulla base della parentela spirituale e politica con l'imperatore, un rapporto assimilabile al vassallaggio. Ma difficoltà sorsero nell'organizzare la Chiesa e la vita religiosa in Bulgaria in un ambiente carico di tensioni, in quanto, se la componente slava o "autoctona" era pronta a convertirsi al cristianesimo, non lo era altrettanto l'elemento protobulgaro, che poteva interpretare questo passo come una perdita della propria identità. Alla fine dell'865, o all'inizio dell'866, scoppiò una rivolta che fu duramente repressa. Comunque, mentre Boris-Michele si vedeva già a capo di una Chiesa nazionale autonoma, Bisanzio, ossia l'interlocutore più diretto visto che il territorio bulgaro in massima parte era giuridicamente alle sue dipendenze, non aveva alcun interesse che ciò avvenisse. In risposta ad un passo compiuto da Boris in questo senso, Fozio inviò, durante o dopo la rivolta, una lunga lettera che trattava della fede e della morale del principe, ma non affrontava la questione dello statuto della Chiesa bulgara (V. Grumel, nr. 481). Probabilmente la delusione o la preoccupazione di salvaguardare gli equilibri politici spinsero Boris-Michele, ribaltando il precedente di Ratislav di Moravia, a mandare due ambascerie in Occidente nell'estate 866: a Ludovico il Germanico, con la richiesta di inviargli preti e materiale liturgico; a N., prospettandogli, fra l'altro, l'ipotesi di un patriarca di Bulgaria. Roma non poteva che rallegrarsi di questa opportunità. Ogni occasione per contrastare gli intrighi di Fozio era benvenuta e si doveva afferrare la possibilità di tornare sulla questione dell'Illirico dal punto di vista giuridico. Due gruppi di legati inoltrarono una voluminosa corrispondenza datata 13 novembre 866. Nove lettere, affidate a Donato, vescovo di Ostia, a Leone, prete di S. Lorenzo in Damaso, e al diacono Marino, affrontavano di nuovo il dibattito tra Fozio e Ignazio (epp. 90-8; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2813-21). A Michele III (ep. 90) veniva di nuovo spiegato, ma in tono più garbato rispetto all'865, il malinteso creato dal deplorevole contegno di Radoaldo e Zaccaria nell'861, aggravato dal fatto che le lettere papali venivano regolarmente falsificate all'atto di essere tradotte in greco; era allegata una nuova copia delle lettere dell'861 e della sua del settembre 865, associata alla rinnovata ingiunzione di reintegrare Ignazio nella sua sede e scacciare Fozio, definito scherano del diavolo. A Barda (ep. 93), che sette mesi prima era stato assassinato - la notizia non era giunta a Roma -, veniva chiesto di appoggiare quest'iniziativa. I senatori di Costantinopoli erano invitati ad evitare qualsiasi comunicazione con Fozio (ep. 97). Era inoltre sollecitato l'intervento di Eudocia, amante di Michele, a favore di Ignazio, con l'auspicio che fosse altrettanto devota a s. Pietro di Galla Placidia († 450; ep. 96). Il patriarca deposto era destinatario di un messaggio di conforto, in cui si riepilogavano tutti i passi compiuti dal papato (ep. 94). L'ex imperatrice Teodora (vedova dell'imperatore Teofilo, madre di Michele III e sorella di Barda), che sosteneva Ignazio ed era relegata in un convento dall'857, veniva incoraggiata a persistere nelle sue virtù e rassicurata in merito all'impegno incondizionato di Roma per il ritorno del suo protetto (ep. 95). A Fozio era intimato di ritirarsi, pena la scomunica perpetua (ep. 92). Infine la corrispondenza era trasmessa anche al clero di Costantinopoli, a tutte le autorità religiose e a tutti i fedeli difensori della vera religione "per Asiam et Libiam constitutis" (ep. 98). Una decima lettera (ep. 99) conteneva la "Risposta alla consultazione dei Bulgari", affidata ai vescovi Paolo di Populonia e Formoso di Porto, accompagnati da missionari. I Responsa di N. rivelano l'effettiva concorrenza fra il clero delle due obbedienze sul culto e la liturgia, la disciplina dei fedeli, la caccia al paganesimo, in un paese in cui tutto era da costruire e dove i recenti disordini erano ancora vivi negli animi. La sostanza del testo fissa le regole della vita religiosa, evitando di opporsi in modo troppo sistematico alle abitudini greche, alternando toni pastorali, fermezza istituzionale e sorridente ironia. Il papato si dichiara innanzitutto il solo dispensatore di libri, su cui intende mantenere un rigido controllo, per evitare interpretazioni erronee e devianti: penitenziale, sacramentario (artt. 75-6), "leggi per il secolo" (art. 13), ossia un codice di diritto romano piuttosto che l'Editto longobardo - al contrario di quanto pensava M. Conrat -, circostanza significativa in un momento in cui Bisanzio non aveva ancora effettuato la traduzione e l'aggiornamento della tradizione giuridica "romana". Si notano divergenze sulla comunione: sulla sua frequenza, riconducibili a una diversa valutazione del digiuno tra Greci e Latini (art. 9); sull'obbligo stabilito dai missionari greci di riceverla con una cintura, che consentiva di distinguere più facilmente i battezzati - che indossavano una veste bianca con cintura - da coloro che ancora non lo erano (art. 55); sul fatto di sapere se bisognava tenere le mani giunte per l'intera durata della messa (art. 54), per estensione della pratica prevalente all'atto della comunione, ricevuta in piedi, in un periodo in cui l'Occidente vedeva affermarsi la comunione impartita direttamente in bocca; ecc. Nell'art. 70, che poteva interessare l'insieme del clero bizantino presente in Bulgaria, il matrimonio dei preti viene riprovato ma la sua eventuale condanna disciplinare è affidata, in ogni caso, all'autorità del vescovo: un atteggiamento abbastanza moderato, in sintonia con gli altri interventi di N. sul tema del celibato nel confronto con interlocutori occidentali. I Responsa sono celebri soprattutto per la descrizione dei riti matrimoniali e le posizioni espresse a proposito dei divieti legati alla parentela. La dottrina era tanto più rigida e la trattazione lunga, in quanto rappresentavano, in certo qual modo, il punto d'approdo dei numerosi interventi precedenti di N. sul tema del matrimonio: sia a titolo collettivo, per imporre la disciplina romana in materia di divieti, come quando aveva inviato una legazione ai Sardi - nominalmente ancora sotto la dipendenza bizantina - nell'864, per porre fine alle "unioni illecite" assai consuete nell'isola (Le Liber pontificalis, p. 162), o nella risposta ad un quesito dell'arcivescovo di Besançon sugli stessi problemi nell'865 (v. oltre, la legazione di Arsenio), sia a titolo individuale, per regolare conflitti sorti all'interno dell'aristocrazia occidentale (Lotario II, Bosone, Baldovino, Carlo d'Aquitania; v. oltre). Veniva posto l'accento sulla coppia e il legame coniugale. La bigamia, abituale all'epoca in Bulgaria, era condannata senz'appello (art. 51). L'art. 2, uno di quelli ripresi nel Decretum di Graziano, estendeva alla parentela spirituale i divieti relativi alla consanguineità e alla parentela acquisita/affinità; la cognatio spiritualis, che derivava dalla partecipazione al sacramento, era addirittura superiore alla parentela naturale. Quanto ai padrini, si faceva riferimento al Codice giustinianeo, ma non in uno dei passaggi che proibivano l'unione fra padrino e figlioccia bensì in una citazione sugli impedimenti dipendenti dall'adozione; la funzione di padrino, essendo una scelta volontaria, equivaleva ad un'adozione conclusa di fronte a Dio - un argomento già usato da s. Bonifacio - con i medesimi effetti giuridici dell'adozione civile. L'art. 3, di gran lunga il più commentato, istituiva un parallelo tra i riti matrimoniali greci e latini, descrivendo con minuzia le diverse tappe dell'unione fra gli sposi. Il tono è deliberatamente neutro, visto che la pratica consigliata in gran parte coincide con l'uso bizantino, tanto più considerando i costumi vigenti nel resto dell'Occidente latino-germanico: le cerimonie illustrate avevano certo un valore programmatico per i Bulgari, ma non solamente per loro. Le divergenze con Bisanzio riguardavano soprattutto il problema del contrarre un nuovo matrimonio e della necessità del consenso degli sposi. N. giustifica lungamente la legittimità di risposarsi, perché la posizione della Chiesa greca allora era molto rigida sulla questione. Inoltre, laddove Roma vedeva nel mutuo consenso l'unico fondamento di qualsiasi unione, al di là della perfezione del rituale, il clero bizantino insisteva sulla necessità della benedizione in chiesa. Su questo come su altri punti, si ha l'impressione che la missione greca cercasse d'imporre nel campo bulgaro, che fungeva da banco di prova, una pratica che passò nella legislazione orientale solo sotto Leone VI (A.E. Laiou). Mentre su tali questioni N. evitava il confronto tra le due cristianità, relativizzando ciò che era ritenuto eccesso di zelo, e trovando talvolta un terreno d'intesa su controversie di minore importanza (come nell'art. 66, che confermava l'obbligo di entrare in chiesa a capo scoperto, norma avvertita come umiliante dalla classe dirigente unno-turca, abituata al turbante, segno di distinzione sociale), le posizioni riguardanti problemi organizzativi e di giurisdizione ecclesiastica non lasciavano margini di dibattito. Il primato romano era affermato sulla scorta delle autorità canoniche, insistendo sul fatto che Costantinopoli non era stata fondata da alcun apostolo (artt. 92-3). Le conseguenze di questa presa di posizione riguardavano il crisma - essenziale per la quotidianità dell'evangelizzazione - con il rifiuto categorico della pretesa greca di detenerne il monopolio in queste regioni (art. 94, legato al canone 28 di Calcedonia, respinto da Roma, secondo il quale il patriarca di Costantinopoli esercitava la propria autorità su tutti i territori barbari annessi alle diocesi di Tracia, del Ponto e dell'Asia, essendo il solo ad avere la facoltà di benedire l'olio), senza contare che era considerato improprio un crisma benedetto da un patriarca deposto. Infine, N. comunicava a Boris-Michele, già consapevole che l'adozione del cristianesimo comportava quella di un nuovo regime familiare, che la scelta di Roma implicava pure una rigida dipendenza istituzionale (artt. 72-3). L'eventualità di un "patriarca" (qui come in altri testi coevi sinonimo di arcivescovo, primate o metropolitano) era subordinata alla situazione numerica e morale della cristianità bulgara, ovvero all'impegno del suo sovrano a diffondere la nuova religione: per ricordare che la conversione di un capo non aveva trasformato immediatamente il suo paese in una cristianità adulta e che la fede senza le opere, come recitava l'art. 1, non valeva nulla. L'intervento romano in Bulgaria era gravido di conseguenze politiche. Non aveva peraltro solo sostenitori incondizionati in Occidente, come rivela la disputa che oppose N. e Ludovico II a proposito della consegna delle armi bulgare a Roma. Boris le aveva inviate contemporaneamente alla sua richiesta di missionari, ma il suo gesto evocava in modo troppo manifesto una sottomissione politica: il papa si attribuiva così le insegne del trionfo e della victoria, che rientravano nelle prerogative imperiali. Malgrado le rimostranze, Ludovico ottenne solo una parte dei trofei. Inoltre si comunicò ai missionari giunti dalla Germania sotto la guida del vescovo Ermanrico di Passau che la loro presenza, tutto sommato tardiva, non era più di alcuna utilità, in un territorio che gli inviati di Roma avevano già provveduto senza indugio a suddividere. L'entusiasmo, che la rapidità della reazione pontificia e l'energia profusa dai legati sembrò provocare nel khan, si tradusse nella richiesta, trasmessa da un'ambasceria inviata a Roma nel settembre-ottobre 867, affinché venisse conferita a Formoso la dignità di arcivescovo di Bulgaria. Il papa, che voleva riservarsi libertà di scelta e temeva un'eccessiva indipendenza da parte di Formoso, addusse l'impossibilità canonica del trasferimento da una sede episcopale ad un'altra. Formoso avrebbe proseguito nella sua missione a Costantinopoli, mentre i vescovi Domenico di Trivento e Grimoaldo di Bomarzo sarebbero partiti alla volta della Bulgaria accompagnati da preti, tra i quali Boris poteva proporre un candidato. Quanto al conflitto con Fozio, era inevitabile che si rinfocolasse, anche solo per il fatto che uno dei primi gesti di Boris, una volta ricevuti i Responsa, fu quello di rimandare i membri del clero greco ai loro paesi d'origine. L'iniziativa romana appariva tanto più offensiva per il suo carattere ten- tacolare, perché alla lettera ai Bulgari si aggiungeva quella che era senz'altro una risposta al principe d'Armenia Aschot Bagratuni, in cui si mescolavano informazioni relative alla condanna di Fozio e notizie sulle eresie trinitarie e cristologiche ancora diffuse in questa regione, che aveva preso le distanze dall'Islam e sondava il terreno sia sul versante bizantino che romano (ep. 87; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2736, frammentaria; cfr. P. Halfter, pp. 107-10, per la proposta di datazione). L'ambasceria romana latrice di altre lettere, che era passata in Bulgaria, rimase bloccata alla frontiera bizantina per quaranta giorni (primavera-estate 867), allo scadere dei quali le venne chiesto di sottoscrivere i decreti di un sinodo che Fozio aveva appena concluso a Costantinopoli: i Latini vi erano accusati di diffondere dottrine e pratiche dannose in Bulgaria, tra cui una professione di fede che includeva il Filioque. Quindi Fozio convocava gli altri patriarchi d'Oriente ad un concilio ecumenico, per reagire a queste usurpazioni e giudicare gli errori propagati. Poco tempo prima, forse al corrente della tensione diplomatica suscitata dalla vicenda dei trofei bulgari, aveva scritto a Ludovico II e alla moglie Engelberga promettendo di farli riconoscere imperatori a Costantinopoli se avessero scacciato N. dalla Sede apostolica (V. Grumel, nr. 495). Mettendo la coppia sullo stesso piano del basileus, era possibile rivolgersi ai due sovrani come faceva N. con Michele III. Il "conciliabolo foziano", presieduto da Michele III, si aprì nell'agosto o settembre 867; il primo atto consistette nel pronunciare la deposizione di N., associata all'anatema, e nel condannare come eretica la formulazione romana della processione dello Spirito Santo. Mentre un'ambasceria partiva alla volta di Roma per notificare la decisione, un'altra era inviata a Ludovico II ed Engelberga con la richiesta di cacciare il papa deposto; un corriere separato, simmetrico a quello che N. aveva voluto trasmettere ad Eudocia l'anno precedente e che ora si trovava in mano a Fozio, era destinato a Engelberga, paragonata a Pulcheria imperatrice della pars Orientis (399-453) come Eudocia lo era stata da N. a Galla Placidia, affinché intervenisse presso il marito per gli stessi motivi (ibid., nrr. 499-500; i testi sono perduti, ma si può supporre che Fozio abbia malignamente goduto nel ritorcere contro l'avversario la sua stessa arma epistolare). Da parte sua N., indebolito nel fisico, consapevole che la posta in gioco si spostava dal terreno della disciplina e dell'ecclesiologia a quello del dogma, forse inquieto per l'andamento dei suoi rapporti con Ludovico II, cercò di mobilitare in suo appoggio tutto il clero occidentale. Incmaro per il Regno franco occidentale e Liutberto (arcivescovo di Magonza) per quello orientale ricevettero un riepilogo del contenzioso dalle origini; venne loro richiesto di domandare agli altri metropoliti dei rispettivi Regni di riunire i loro suffraganei per formulare le risposte più idonee agli insulti dei Greci a proposito del digiuno del sabato, del Filioque, del matrimonio dei preti e del primato romano: le loro risposte andavano trasmesse a Roma. Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico erano invitati ad assicurare il massimo sostegno a questa consultazione (epp. 100-02; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2879, 2882-83, 23-30 ottobre 867; gli Annales Fuldenses, p. 66, aggiungono l'Italia fra le destinazioni dei corrieri). Allo stesso tempo il papa riprese l'iniziativa in campo missionario, inoltrando a Costantino-Cirillo e a Metodio un invito affinché si recassero a Roma. L'opera da loro svolta in Moravia si stava rivelando fruttuosa, pur suscitando reazioni vivaci nel clero franco-occidentale; i due fratelli inoltre erano ammantati dall'aura della scoperta delle reliquie di s. Clemente, avvenuta durante il loro soggiorno a Cherson nell'inverno 860-861. L'invito del papa li raggiunse a Venezia, dove erano in procinto di imbarcarsi alla volta di Costantinopoli per l'ordinazione di un gruppo di chierici moravi. La missiva doveva contenere proposte concrete, perché ebbe effetti immediati. Ma Costantino-Cirillo e Metodio arrivarono a Roma solo dopo la morte del papa - anche se è a quest'ultimo che la Vita di Metodio (cap. 6) attribuisce la ricezione dei libri slavi e la celebrazione della liturgia in slavo a Roma, come pure l'ordinazione dei due fratelli. Nel frattempo l'assassinio di Michele III, nella notte tra il 23 e il 24 settembre 867, mise fine agli intrighi di Fozio, che fu subito relegato in un convento, mentre Ignazio venne reintegrato il 23 novembre, dieci giorni dopo la morte di Niccolò. Non è accertato che il papa abbia avuto notizia di questa rivoluzione di palazzo. La sua vittoria postuma è racchiusa nelle lettere di Ignazio e di Basilio I, dell'11 dicembre, che spiegavano le circostanze del ritorno di Ignazio e si rimettevano a Roma per decidere della sorte di Fozio. Quanto alle consultazioni richieste da N., si tennero nel quadro di un sinodo nel Regno franco orientale (Worms, maggio 868: Die Konzilien, IV, nr. 25) e si configurarono come trattati individuali rappresentativi dei diversi cleri locali in quello occidentale (il Liber adversus Graecos di Enea di Parigi per la provincia di Sens; i quattro libri dei Contra Graecorum errores opposita di Ratramno di Corbie per la Belgica secunda, e un'opera perduta di Oddone di Beauvais - a meno che non si tratti di quella di Ratramno messa a suo nome). Un altro dei molti problemi scottanti all'ordine del giorno, quando N. salì al soglio pontificio, era stato il contrasto fra Roma e Ravenna, che si protrasse per tutto l'861, ennesima recrudescenza di un conflitto che impegnava le due città già dall'inizio dell'VIII secolo. La disputa era legata al particolare statuto di Ravenna: essendo quest'ultima sede del potere bizantino in Italia, l'arcivescovo era un personaggio di spicco, il quale riteneva che la posizione di Roma non fosse superiore alla sua. Per qualche tempo Ravenna era anche stata autocefala, dal 666 (concessione di Costante II) al 680 (pace fra i Bizantini e i Longobardi), poiché riceveva il pallium dall'imperatore. Nel 680 l'arcivescovo Teodoro era rientrato nei ranghi, ma continuava a sopravvivere una forte corrente antiromana - cui aveva dato voce il Liber pontificalis di Agnello di Ravenna una ventina d'anni prima del pontificato di N. - che periodicamente alimentava tentativi di indipendenza, come quello intrapreso dall'arcivescovo Felice (709-725). La situazione si era complicata alla metà dell' VIII secolo: alla "restituzione" dell'Esarcato e della Pentapoli a S. Pietro, grazie a Pipino il Breve, si associava la cessione di principio dell'insieme della giurisdizione secolare, ossia del potere che l'arcivescovo aveva gradualmente eroso col favore del disimpegno bizantino. Dopo una lotta accanita, Paolo I aveva finito per cedere su quest'aspetto temporale, ma soltanto a titolo di delega da parte di Roma. L'arcivescovo Giovanni VII (850-878) disponeva di solidi argomenti per riprendere la politica dei suoi predecessori: il fratello, il duca Gregorio, era il comandante militare della città, la Chiesa ravennate disponeva di un cospicuo patrimonio fondiario, lo stesso prelato era in rapporti d'amicizia con Ludovico II. Il Liber pontificalis romano (p. 155) descrive nei dettagli gli aspetti temporali e giurisdizionali di un'azione che sembra essere stata condotta con metodo e continuità a discapito di Roma: i titoli di proprietà furono cercati negli archivi per cancellarvi tutto ciò che poteva riferirsi alla Santa Sede e di conseguenza restituire a Ravenna le terre e le loro rendite; i riconoscimenti di soggezione a Roma dei prelati precedenti vennero falsificati, mentre si fabbricavano privilegi o diplomi "in lingua e scrittura barbare" (in altre parole: imitazioni dei diplomi longobardi); il clero locale fu richiamato all'ordine in nome dell'autorità metropolitana indipendente da Roma. Giovanni approfittò della circostanza che la sua provincia ecclesiastica coprisse larga parte dell'Emilia per adottarvi la stessa politica. Nell'853 Leone IV aveva già inviato lettere di biasimo a Giovanni VII e al fratello, soprattutto per protestare contro le usurpazioni fondiarie (ep. 5, in M.G.H., Epistolae, VI, 1, a cura di E. Dümmler, 1902, pp. 588 ss.). Al più tardi nell'860, in seguito alle rimostranze di "molti ravennati", N. lo convocò invano a Roma affinché desse spiegazioni di fronte ad un sinodo. Dopo tre richiami scattò la scomunica, nel sinodo detto "dei Sette Canoni", il 24 febbraio 861 (Die Konzilien, IV, nr. 5). Nondimeno il sinodo non stigmatizzava tanto la sua azione antiromana, quanto il fatto che Giovanni non avesse ritenuto opportuno "purgarsi" di fronte all'istanza ecclesiastica di un'accusa di eresia rivoltagli dal vescovo di Pola - solo la soluzione di quest'imputazione consentiva di passare all'esame delle altre lagnanze, come dimostra il sinodo successivo. La devianza riguardava all'apparenza la natura di Cristo (aveva sofferto sulla croce sia come uomo che come Dio? Si ritrova la condanna del teopaschismo, su cui N. ritornò occupandosi degli affari armeni nell'866) e l'efficacia del battesimo (un sentore di predestinazione). Il quinto decreto, che ricordava come l'elezione del pontefice fosse riservata ai Romani, secondo la Constitutio dell'824, considerava nulli gli apprezzamenti che Giovanni aveva potuto fare sui meriti di N. e, allo stesso tempo, tacendo sul ruolo dell'imperatore, serviva forse da avvertimento a Ludovico II, i cui legami con l'arcivescovo dovevano essere noti, se aveva mostrato delle velleità di intromettersi negli affari ecclesiastici. Di fatto Giovanni VII si recò a Pavia per chiedere l'appoggio dell'imperatore (e/o quello di Engelberga, a sentire il Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma, che tuttavia sembra far confusione con l'intervento dell'imperatrice a favore di Guntero e Tilgaldo nell'864). Ludovico lo fece accompagnare a Roma da due "missi" - la sospensione era in vigore finché Giovanni non si fosse presentato davanti ad un'assemblea ecclesiastica. N. rifiutò di cedere a questa dimostrazione di forza: poiché i "missi" avevano comunicato con Giovanni VII, non poteva assolutamente riceverli; quanto all'arcivescovo, avrebbe potuto rispondere delle sue azioni di fronte ad un altro concilio, fissato per il 1° novembre. Tornato a Ravenna (fine aprile 861), Giovanni VII riprese ancora più energicamente la sua politica, incoraggiato dallo stesso Ludovico II, che il Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma descrive come dedito alla causa ravennate, al punto da far sorgere fra l'imperatore e il pontefice una "gravis inimicitia" - il resoconto contrasta puntualmente con quello del Liber pontificalis, che invece mostra riguardo per Ludovico II, allo scopo di dimostrare il rispetto imperiale verso le sanzioni emanate da Roma, mentre viene esaltato l'atteggiamento del vescovo Liotardo di Pavia (la cui sede dipendeva direttamente da Roma), il quale insieme al suo clero rifiutò qualsiasi contatto con lo scomunicato. Gli obiettivi dell'imperatore ora coincidevano con quelli dell'arcivescovo, convergendo in un unico attacco sferrato agli interessi fondiari di Roma: egli avrebbe così proceduto alla confisca di beni che dipendevano dal Patrimonio nella Pentapoli e in "Campania" (nell'accezione geografica romana del termine), da distribuire ai suoi fedeli, mentre avrebbe preteso servitia quotidiani da parte dei monasteri. In questa indicazione del Libellus si possono scorgere i primi segni di una volontà, riaffermata in seguito alla fine del IX secolo, di applicare a questi territori le regole di gestione dominanti nel resto del Regnum, in particolare per la riscossione del pastus imperatoris e per la divisio dei beni temporali ecclesiastici, una parte dei quali doveva essere assegnata sotto forma di benefici, come nel noto caso di Bobbio. Comunque sia, una nuova accusa prese la via di Roma, di portata più ampia come ambito geografico ("uomini dell'Emilia") e socialmente più altolocata ("i senatori di Ravenna") rispetto alla prima. Verso la metà dell'ottobre 861 N. si recò personalmente a Ravenna - si trattò del solo viaggio del suo pontificato - provocando la fuga di Giovanni a Pavia. Senza potergli manifestare, questa volta, il suo appoggio troppo esplicitamente (secondo la versione del Liber pontificalis), l'imperatore fece di nuovo accompagnare l'arcivescovo a Roma dai suoi rappresentanti, la cui intercessione rimase priva di effetti come la precedente. Giovanni finì per presentarsi a Roma (Die Konzilien, IV, nr. 8). Il 16 novembre 861, nella domus Leoniana (al Laterano), lesse pubblicamente la dichiarazione di fedeltà a Roma, riscritta di suo pugno, e giurò di attenervisi. La riconciliazione fu suggellata il 17, quando si purgò dell'accusa di eresia prestando giuramento. Il 18, rimosso ormai ogni ostacolo procedurale, i Padri furono in condizione di giudicare le accuse di ordine materiale. Giovanni dovette impegnarsi a presentarsi ogni anno al cospetto del pontefice, affinché si potesse controllare la sua azione. Il concilio promulgò inoltre numerosi canoni che limitavano rigidamente le prerogative dell'arcivescovo in materia di consacrazione dei suffraganei emiliani, successiva all'elezione da parte del duca, del clero e del popolo, nonché all'autorizzazione scritta del papa (decisione che allineava Ravenna alle altre sedi metropolitane; la regola fu ricordata in seguito a Giovanni in merito alla sostituzione del vescovo di Gavello, Oleoberto, che era stato assassinato: ep. 152; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2868). Le dispute fondiarie erano rimesse alla giurisdizione di Roma o del rappresentante pontificio a Ravenna, tradizionalmente incaricato della gestione dei patrimonia locali e della percezione dei censi sulla terra. N. diede immediatamente notizia di questa "liberazione" ad ognuno dei vescovi dell'Emilia (ep. 105; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2687, in cui sono riportate in dettaglio le lagnanze nei confronti di Ravenna, di ordine essenzialmente fiscale), premurandosi di specificare che il concilio doveva servire d'esempio affinché gli altri metropolitani non cadessero preda di tentazioni analoghe. L'arcivescovo di Vienne Adone fu informato a sua volta del perdono concesso a Giovanni VII (ep. 106; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2697). La corrispondenza di N. include anche due frammenti di lettere non datate indirizzate all'arcivescovo di Ravenna, trasmesse dalle collezioni canoniche posteriori. Il primo, nel quale si afferma che l'insegnamento dei catecumeni non dipende da una Chiesa piuttosto che da un'altra, suona come un richiamo all'ordine (ep. 135; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2841) e si potrebbe ipotizzare di riferirlo al periodo antecedente all'861. Il secondo (ep. 137; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2843), in risposta a una consultazione su un adulterio, dovrebbe invece essere posteriore. La fermezza opposta alle velleità di autocefalia di Ravenna appare identica anche nei rapporti con gli altri metropoliti e vescovi, dai quali N. pretese sempre la rigorosa applicazione delle regole canoniche, a rischio di tornare sulla giurisprudenza conciliare locale e di dover puntualmente intervenire presso i diversi sovrani. I diritti della gerarchia, in particolare metropolitana, sono riaffermati costantemente, ma non lo è in minor misura la possibilità di appello a Roma. Un primo esempio fu la risposta ad una consultazione di Salomone, primo "re" di Bretagna (857-874), a proposito delle conseguenze dello scisma bretone nell'862. Leone IV e poi Benedetto III erano già insorti contro la deposizione di prelati bretoni guadagnati alla causa franca che ostacolavano l'emancipazione della regione (Quimper, Alet, Dol, Saint-Pol-de-Léon, Vannes), avvenuta nel maggio 849 per iniziativa di Nominoé ("missus imperatoris in Brittania", 831-851), in virtù dell'accusa forse non infondata di simonia: un vescovo poteva infatti essere condannato solo da dodici suoi pari e in presenza del metropolita. Era poi sorto un conflitto per la sede di Nantes: Attardo, sostituito nell'850 da Gislardo, fu poi reintegrato grazie all'accordo concluso fra Carlo il Calvo ed Erispoé (851-857), figlio e successore di Nominoé, e ripeté le ordinazioni del vescovo intruso Gislardo. N., che si era già espresso al proposito in missive andate perdute, esortò nuovamente Salomone, desideroso di legittimarsi ristabilendo la pace religiosa (principale esponente di un ramo collaterale della famiglia di Nominoé, Salomone aveva assassinato Erispoé), di uniformarsi alle procedure definite dalla ecclesia e di rimettere il caso all'arcivescovo di Tours, di cui le diocesi bretoni erano suffraganee, o, in caso di fallimento, alla Sede apostolica. Il papa ne approfittò per invocare la pace con Carlo il Calvo, premessa indispensabile a qualsiasi trattativa per la creazione di una provincia ecclesiastica bretone, che Salomone avrebbe voluto affidare al vescovo di Dol (ep. 107; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2708). Entrambi i problemi furono regolati provvisoriamente nell'865-866. I vescovi di Quimper e di Saint-Pol-de-Léon, rimasti in Bretagna dopo la deposizione (quelli di Dol e di Vannes si erano rifugiati nella Francia occidentale), riebbero le loro sedi, mentre N. riconobbe il vescovo nominato nella sede di Alet, cui fu revocata la scomunica pronunciata dall'arcivescovo di Tours (v. l'ep. 129; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2852, ove N. si rivolge a lui come prelato legittimo). Invece il papa rifiutò nuovamente l'istituzione di una provincia ecclesiastica bretone: la metropoli bretone era Tours, a meno che la sede di Dol potesse esibire prove che stabilivano come avesse già ricevuto il pallium in passato, da mettere a confronto con quelle esibite da Tours (epp. 122, 126-27; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2789, 2806-07). E il 29 settembre 866 fu l'arcivescovo di Tours, assistito per giunta da Attardo di Nantes, che consacrò Electrannus nuovo vescovo di Rennes; Salomone, seguendo alla lettera la procedura "romana", tanto più significativa nel caso di Rennes considerando che il predecessore di Electrannus era stato un sostenitore dello scisma bretone, dimostrava la sua volontà di conciliazione. In Italia il richiamo all'ordine di Landolfo, vescovo (e conte) di Capua, verosimilmente nell'863 - secondo la cronologia stabilita da R. Davis sul modello di quella ricostruita da H. Geertman per i precedenti pontificati - ossia al momento della sua elezione, obbedisce allo stesso principio. Landolfo, di propria autorità, aveva deposto il diacono Pepone senza rispettare la procedura che esigeva, per un giudizio secondo le regole, la presenza di tre vescovi, la prova dell'accusa e la possibilità di difendersi per l'accusato. Su richiesta di Pepone, N. annullò la sentenza e decise di emettere personalmente un verdetto (Le Liber pontificalis, p. 159). Ora, malgrado l'antichità dei decreti invocati dove si fissava il numero dei prelati richiesto per giudicare un vescovo, di fatto si trattava di una relativa novità, "introdotta" da Leone IV per disciplinare la prassi stabilita. L'intervento di N., in questo come nel precedente caso, ha contribuito a dare un assetto alla giurisprudenza di una regola di applicazione recente, che comprensibilmente si scontrò con alcune resistenze. Sempre in Italia N. fece annullare la sostituzione del vescovo di Piacenza Suffredo con il diacono Paolo, suo nipote. Suffredo aveva rinunciato alla carica, che deteneva - al più tardi - dall'852, nella fase culminante della tensione tra Ludovico II e N. a proposito di Guntero e Tilgaldo (si è ipotizzato che si trattasse del sinodo riunito a Pavia nel febbraio 865), senza consultare l'arcivescovo di Milano, da cui dipendeva, e ancor meno la Sede apostolica. Suffredo non aveva cattivi rapporti con l'imperatore, ma sembra che Engelberga, coinvolta nei suoi progetti di fondazione monastica (S. Risurrezione-S. Sisto di Piacenza), abbia trovato in Paolo un interlocutore più propenso a sostenere i suoi affari immobiliari e quindi abbia sollecitato la sostituzione. Comunque sia, N. bloccò la manovra esigendo, nel corso dell'865, la reintegrazione del prelato: il papa, se necessario, avrebbe potuto sempre sottoporlo ad esame di fronte ai suoi pari (ep. 120; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2791 e Le Liber pontificalis, p. 163). Paolo ottenne la riconciliazione, accompagnata tuttavia dal divieto di occupare la sede di Piacenza anche dopo la morte di Suffredo: nondimeno, fu proprio lui a succedergli sotto il pontificato di Adriano II. Le relazioni con il clero della Francia occidentale ruotano soprattutto intorno ai contatti con Incmaro, arcivescovo di Reims, a proposito delle vicende di Rotado, vescovo di Soissons dall'832, e di Vulfado, canonico di Reims. All'origine della questione vi era la deposizione dell'arcivescovo Ebbone, predecessore di Incmaro a Reims, il quale era stato sempre fedele a Lotario I. Coinvolto nella disgrazia del suo protettore dopo la ribellione contro Ludovico il Pio, era stato deposto nell'835, poi reintegrato brevemente da Lotario alla morte del padre, nell'840, prima di essere nuovamente deposto nell'843, dopo la disfatta di Lotario contro i fratelli. Incmaro, succedendo a Ebbone, sospese i chierici ordinati nell'840-841, in seguito ottenne da un concilio riunito a Soissons nell'aprile 853 che fossero a loro volta deposti (Die Konzilien, III, nr. 27). Rotado era fra coloro che avevano riconosciuto Ebbone nell'840 e non aveva aderito alle posizioni di Incmaro al concilio dell'853. Quest'atteggiamento gli procurò una forte ostilità, rivelata da numerosi richiami all'ordine per violazione delle regole canoniche nell'amministrazione della sua diocesi. Scomunicato da Incmaro una prima volta nell'861 per aver rifiutato di reintegrare un prete che era stato deposto, si era appellato a Roma e all'arcivescovo di Treviri, un passo quest'ultimo che metteva in secondo piano la sede di Reims, in sintonia con le pretese accampate da lungo tempo da Treviri, ma che appariva inaccettabile ad Incmaro. Al concilio di Pîtres, nel giugno 862 (ibid., IV, nr. 10), fu accolto il principio del giudizio di Rotado davanti ad altri dodici vescovi - in veste di judices electi -, piuttosto che quello dell'appello, a cui l'imputato sembrò rinunciare, almeno secondo quanto testimonia Incmaro. Nell'autunno 862 Rotado fu condannato e confinato in un monastero. Ma poiché a Roma giunse ugualmente la voce della sua volontà di fare appello alla Sede apostolica, la reazione di N. fu immediata. Fin dall'inizio del'863, il papa pretese da Incmaro (comunicandolo anche a Carlo il Calvo), pena la sospensione, che Rotado fosse liberato e reintegrato nella carica o, se le accuse nei suoi confronti non fossero decadute, che fosse accompagnato a Roma dall'arcivescovo o da un suo rappresentante, insieme al clero che aveva innescato la disputa, per esaminare la questione (epp. 55-6; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2712-13). Nel mentre giunse a Roma l'arcivescovo Oddone di Beauvais, latore degli atti e del resoconto dell'assemblea dell'862 - dai quali emergeva che già si era provveduto a sostituire Rotado - insieme ad una richiesta di conferma della decisione presa. N. rispose ai vescovi dilungandosi sui motivi per cui la loro condotta era stata lesiva dei diritti di S. Pietro; ad Incmaro, che aveva trasmesso tramite Oddone una richiesta di conferma dei privilegi per la Chiesa di Reims, biasimando il suo contegno e subordinando una risposta affermativa all'invio di Rotado a Roma; si rivolse a Carlo il Calvo pregandolo di dare il suo contributo al viaggio; infine, a Rotado, per informarlo dei passi compiuti e invitarlo a recarsi subito a Roma perché la sua causa fosse esaminata (epp. 57-8, 60-1; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2721-23, 2727, fine aprile 863). Rotado fu liberato in estate, e nel mese di ottobre tutto sembrava pronto per la sua partenza per Roma (cfr. epp. 62-5; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2737-40*, in cui N. si rallegra per la sua liberazione, appresa da corrieri inviati dal diacono Liudone, e insiste sul viaggio). Tuttavia, la tensione nei rapporti fra Carlo il Calvo e Ludovico II a proposito della successione "lorenese" e fra N. e Ludovico dopo la condanna di Guntero e Tilgaldo (v. oltre) ritardò la partenza di Rotado, che giunse solo nel giugno 864, subito dopo che il papa aveva nuovamente protestato con Incmaro per la lentezza con cui procedeva la vicenda (ep. 66; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2756; Annales Bertiniani, p. 112 [J.F. Böhmer, nr. 223], per le difficoltà che venivano frapposte all'arrivo di Rotado in Italia). Dopo aver atteso invano per un po' i rappresentanti del partito avverso, N. prese in mano la situazione. Approfittò della messa del 24 dicembre in S. Maria Maggiore per esporre gli antefatti della vicenda e ristabilire solennemente Rotado nella sua carica, premessa di qualsiasi "processo". Il discorso valeva come apertura del sinodo che si riunì il 21 e 22 gennaio successivi, dopo aver constatato una volta di più la mancata comparizione dei querelanti (Die Konzilien, IV, nr. 20). Il 21, in S. Agnese fuori le Mura, Rotado diede lettura di un libello (non conservato, a meno che non si tratti del suo Libellus proclamationis, la cui redazione non è anteriore a dicembre, nel quale faceva apertamente appello al papa), dove riaffermava il suo impegno a rispondere agli accusatori. Poi, rivestito degli ornamenti episcopali, celebrò la messa nella vicina chiesa di S. Costanza. Il 22, in Laterano, la sua difesa venne esposta nei dettagli e la reintegrazione confermata. Le lettere che annunciavano la soluzione della questione - a Incmaro e a Carlo il Calvo, al clero della Gallia e a quello di Soissons - furono redatte immediatamente; Rotado ripartì per la Francia all'inizio dell'865, in occasione della legazione di Arsenio (v. oltre), e riprese le sue funzioni in estate (morì nell'869). Incmaro non proferì parola sull'epilogo della vicenda, ad eccezione di un resoconto sdegnato negli Annales Bertiniani. A prescindere dalle varie vicissitudini, l'affare di Rotado assume un notevole rilievo perché si fece ricorso indirettamente alle false decretali. La loro influenza è manifesta nel discorso pronunciato da N. il 24 dicembre, nel Libellus proclamationis di Rotado e nelle lettere di fine gennaio, anche se risulterebbe vana la ricerca di una citazione diretta della raccolta negli scritti promulgati dalla Santa Sede. La collezione fu portata probabilmente da Rotado stesso, ma è impossibile stabilire se N. fosse consapevole di utilizzare dei falsi. Le false decretali sono evocate da Rotado nello spirito che ha ispirato la loro costituzione, ossia in un senso antimetropolitano "egualitario", dove il ricorso alla Sede romana viene inteso come un baluardo contro l'eccessiva ingerenza degli arcivescovi; da N., che volge l'argomento a proprio favore per esaltare il primato di S. Pietro (a proposito dell'obbligo dell'accordo papale per ogni deposizione vescovile, della prerogativa romana di convocare concili generali e della disciplina dell'appello, tesi che confluivano nella rivendicazione da parte di Roma di amministrare, in esclusiva, tutto quanto concerneva i vescovi, poiché si trattava di causae maiores); dallo stesso Incmaro, nella sua corrispondenza dedicata al tema nell'863-864, per difendere i sinodi provinciali, la procedura dei "giudici scelti" che escludeva l'appello, e per dare una definizione delle primazie in cui Reims trova il suo posto, allo stesso titolo di Treviri, garantita da un rapporto immediato con Roma. La deposizione dei "chierici di Ebbone" innescò un nuovo conflitto nell'865, questa volta più aspro, che ruotava intorno al caso di Vulfado, sul quale il Liber pontificalis tace, ma che ha dato origine ad una copiosa corrispondenza. Le prospettive di carriera ecclesiastica dei chierici deposti a Soissons nell'853, tra cui figurava Vulfado, ponevano un duplice problema: si poteva ritenere che facessero parte del clero a pieno titolo, visto che erano stati ordinati da Ebbone nell'840-841, quando era stato ristabilito sulla cattedra di Reims solo in seguito all'ordine di Lotario? Una risposta positiva avrebbe rimesso in discussione la legittimità dello stesso Incmaro. La posizione del nuovo arcivescovo di Reims sembrava sicura, poiché sia Leone IV che Benedetto III e N. avevano confermato non solo il sinodo dell'853 ma anche il pallium e i privilegi di Incmaro (epp. 59-59a; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2664, 2720). Tutt'al più la conferma di N. provvedeva ad inserire una clausola di riserva dell'autorità romana, che all'epoca di Benedetto III non era apparsa utile: "si in nullo ab apostolicae sedis praeceptionibus quoquomodo discrepaveris". N. fu probabilmente meglio informato sul complesso dell'affare dei "chierici di Ebbone" a partire dal giugno 864, allorché iniziò il lungo soggiorno di Rotado a Roma. E uno dei compiti affidati nell'estate seguente alla legazione di Arsenio, vescovo dI Orte e antico avversario di Benedetto III, fu proprio l'indagine su questa vicenda (cfr. ep. 38; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2788). Comunque sia, il 3 aprile 866, il papa chiese a Carlo il Calvo di esercitare pressioni su Incmaro perché Vulfado e i suoi colleghi fossero reintegrati o, almeno (e la richiesta ora suonava come un ordine), di riunire un sinodo a Soissons perché riesaminasse a fondo la questione. E un corriere dello stesso giorno ne comunicò anche la data, il 18 agosto seguente, ad Incmaro, ai vescovi e agli arcivescovi del Regno franco occidentale. Se i chierici deposti volevano fare appello alla Sede apostolica, questo loro passo avrebbe dovuto essere facilitato in ogni modo (epp. 73-6; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2802-04; N. ricordava per inciso che questa volta non avrebbe tollerato manovre, "sinistra cogitatio", sul termine utile per l'appello, perché nulla lo giustificava nella tradizione canonica: in questo caso, si faceva riferimento ai canoni del concilio di Serdica del 342-343, citati da Incmaro nell'affare di Rotado). Gli atti, secondo la norma, sarebbero stati inviati a Roma. Mentre si preparava il concilio, Carlo il Calvo, legato a Vulfado, volle accelerare la procedura e chiese a N. di reintegrarlo senza ulteriori formalità, dato che si presentava l'occasione di destinarlo alla sede di Bourges, vacante per la morte dell'arcivescovo Rodolfo (21 giugno 866). Ma il papa rifiutò questa decisione "immatura" e incurante del suo personale esame, che invece egli teneva a fondare sugli atti del sinodo da lui stesso convocato (ep. 77; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2811, 29 agosto 866). La riunione si svolse alla data prevista, presieduta dall'arcivescovo di Sens Egilone e con una forte rappresentanza di vescovi (Die Konzilien, IV, nr. 23, 18-25 agosto 866). Com'era prevedibile, i prelati del Regno franco occidentale fecero ricadere su Roma la responsabilità della decisione. Certo, i sacramenti amministrati da Ebbone nell'840-841 erano validi (rimetterli in discussione o procedere a nuove ordinazioni equivaleva ad esporsi ad un'accusa di eresia). Ma un primo concilio si era già pronunciato e i suoi atti, irreprensibili sul piano del diritto, erano stati confermati da Roma, di conseguenza solo Roma avrebbe potuto tornare sulla questione: in altre parole, riformare la propria decisione, secondo una procedura che N. difficilmente avrebbe potuto legittimare sulla base della tradizione canonica. Carlo il Calvo, di per sé, ritenne risolto il caso e senza indugi dispose l'elezione di Vulfado alla sede di Bourges. Il papa regolò la questione nel dicembre 866. Vulfado fu reintegrato ufficialmente e ricevette un messaggio di felicitazioni. Tuttavia N., vietatogli ogni trionfalismo nei confronti di Incmaro, il quale aveva a disposizione un anno per appellarsi a sua volta contro la decisione di Roma, espresse le proprie rimostranze nei confronti di Carlo il Calvo, dei partecipanti al concilio e dello stesso Incmaro, per il trattamento scorretto che gli era stato riservato. Infatti Egilone aveva recapitato al papa solo una lettera sinodale, invece degli atti propriamente detti; la reintegrazione di Vulfado e la sua immediata elezione erano state troppo rapide, non concertate e dipendevano da un fatto compiuto, come se si fosse giudicato inutile che il papa perdesse il suo tempo a dimostrare ciò che tutti si aspettavano; al contrario, N. si applicò minuziosamente a rilevare tutti gli errori della procedura seguita nell'863 (epp. 78-81; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2822-25). Nella lettera indirizzata ad Incmaro, particolarmente severa, si rimproverava all'arcivescovo d'aver manipolato la vicenda: si era degnato di inviare al papa un'unica missiva non autenticata dal suo sigillo e aveva abusato dei diritti conferitigli dal pallium. Egilone, rientrato da Roma, trasmise le lettere a Carlo il Calvo (che lo ricevette a Samoussy il 20 maggio 867) e ad Incmaro (v. la risposta di quest'ultimo alle accuse di N., in M.G.H., Epistolae, VIII, 1, a cura di E. Perels, 1939, nrr. 198-99). Su richiesta di N., Carlo il Calvo convocò un nuovo sinodo a Troyes in autunno (Die Konzilien, IV, nr. 24). Il dibattito in merito al contegno di Incmaro fu burrascoso. Questi riuscì alla fine a guadagnarsi il favore dell'assemblea, ma a Roma furono inviate due lettere contrastanti, la prima di Carlo, molto prevenuta - sem-bra - nei confronti di Incmaro, la seconda del concilio che ne prendeva le difese. Uno degli ultimi atti di N., se si presta fede a quanto dichiara lo stesso Incmaro negli Annales Bertiniani (p. 138), fu quello di esprimere il suo appoggio all'arcivescovo di Reims, il quale gli aveva "dato soddisfazione su tutti i punti". La posizione di N. consisteva nel proporsi come un'istanza cui far riferimento in permanenza. Tale atteggiamento fu esteso anche al clero regolare, non tanto per contrastare le ingerenze episcopali quanto per fare da contrappeso ai doveri derivanti dalla protezione reale e alle pressioni dell'aristocrazia. Uno degli scopi della missione di Oddone di Beauvais a Roma nell'aprile 863 fu quello di ottenere le conferme per numerosi monasteri del Regno franco occidentale. Oddone era stato abate di Corbie prima di occupare la sede di Beauvais nell'861. Aveva già chiesto a Benedetto III, nell'855, un importante privilegio di conferma dei beni del monastero - dedicato, è opportuno ricordarlo, ai ss. Pietro e Paolo - e della libertà dell'elezione abbaziale, che si sommava ai diplomi reali consueti. Il privilegio di N. rinnovò questa conferma rafforzando i punti relativi all'autorità pontificia, soprattutto in materia di appello, e aggiungendo esplicitamente il sovrano fra le potenze contro cui poteva essere esercitata la protezione romana, sulla base della formulazione dei privilegi concessi da Gregorio Magno alla Chiesa di Autun (Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2717). Il monastero di St-Denis beneficiò di un testo equivalente (ibid., nr. 2718), mentre quello di St-Calais ebbe confermata l'indipendenza nei confronti del vescovato di Le Mans, già pronunciata da un concilio nell'855 (v. oltre per i dettagli della disputa tra St-Calais e Le Mans). Alla stessa data, ma ora per rispondere ad una sollecitazione del conte Gherardo di Vienne, fu accordato un privilegio anche ai monasteri di Vézelay e di Pothières (ibid., nrr. 2830-31; il nr. 2831, per Pothières, è perduto). Gherardo e sua moglie Berta avevano fondato Vézelay e Pothières, nel Regno di Carlo il Calvo, nell'858-859, e li avevano affidati con i beni a S. Pietro, dopo essersi impegnati a versare un censo annuale, rimettendoli alla protezione sia di Roma che di Carlo il Calvo. Ma alla morte di Carlo di Provenza, al principio dell'863, Gherardo si schierò dalla parte di Lotario II. Fece giungere a Roma una lettera destinata a N., al clero e al popolo della città, ove riaffermava la donazione alla Santa Sede con l'intento di ottenerne protezione. Il papa gliela accordò, con la stessa clausola restrittiva "antireale" prevista per Corbie e St-Denis, che in questo caso appariva ancora più esplicita. Vézelay e Pothières segnarono una tappa nella concezione di protezione pontificia, che sarà ripresa e sviluppata sotto Giovanni VIII e in seguito nell'XI secolo. Tuttavia Roma reagiva in modo ancora passivo alle sollecitazioni esterne: nulla, in questi anni, fa pensare che N. vedesse nei privilegi lo strumento di una politica contro la Chiesa "imperiale"; del resto, i testi in favore di Corbie e di St-Calais erano solo conferme di ratifiche già pronunciate nei sinodi locali. Il pontificato di Benedetto III si era concluso senza che si potesse trovare una soluzione alla disputa che opponeva il conte (forse di Milano) Bosone alla moglie Engeltruda, figlia del conte Matfridus di Orléans, il quale si era stabilito in Italia al seguito di Lotario I nell'834. Nell'857 Engeltruda era fuggita dalla residenza coniugale con uno dei vassalli del marito, Wangerus, per rifugiarsi sull'altro versante delle Alpi. Bosone si appellò a Benedetto III, il quale, nell'858, ingiunse ai cinque sovrani carolingi e ai loro vescovi di costringere la donna a tornare dallo sposo legittimo (ibid., nr. 2673, cfr. epp. 29, 53). Nell'859, applicando questa circolare e su interpellatio di N., si tenne un sinodo a Savonnières (presso Toul), in cui la questione fu semplicemente messa all'ordine del giorno, senza prendere in considerazione una sanzione canonica, a causa dell'assenza di Engeltruda (Incmaro, De divortio Lotharii, pp. 105, 226 s.), che all'epoca si divideva tra il Regno franco occidentale e la corte di Lotario II (re della regione che da lui avrebbe preso il nome di Lotaringia), con cui era imparentata. È certo che nello stesso anno N. inviò una lettera (ancora perduta) a Incmaro e, per suo tramite, all'insieme dei vescovi del Regno franco occidentale perché inducessero Engeltruda a tornare dal marito. Alla fine, a una data che rimane imprecisa, l'arcivescovo di Milano, provincia ecclesiastica da cui dipendevano i coniugi, e i suoi suffraganei domandarono al papa (epp. 18 e 53; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2750, 2886) di pronunciare l'anatema contro Engeltruda, richiesta che venne accolta. Da parte sua, Bosone approfittò della partecipazione alla riunione di Coblenza fra Carlo il Calvo, Ludovico il Germanico e Lotario II, nel giugno 860, per reclamare la moglie; il 22 ottobre 860 intraprese un altro passo al concilio di Tusey, latore di lettere del pontefice, la prima indirizzata ad Incmaro (che nell'occasione redasse il De uxore Bosonis, per rispondere a una domanda dell'arcivescovo di Colonia), in cui N. rinnovava la precedente richiesta, pena la scomunica per Engeltruda, la seconda destinata a Carlo il Calvo, perché diffidasse suo nipote dall'offrire rifugio alla moglie recalcitrante: se essa fosse rientrata nel Regno franco occidentale, la si doveva riconsegnare a Bosone (epp. 1-2; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2684-85; Die Konzilien, IV, p. 13). Nel frattempo erano giunte a Roma le prime informazioni relative alle manovre di Lotario II in vista del suo divorzio da Teutberga, sorella di Bosone. Salendo al potere nel settembre 855, Lotario aveva lasciato la sua concubina Gualdrada per sposare Teutberga secondo le regole (che prescrivevano la dote e il consenso dell'aristocrazia). Il matrimonio aveva procurato al re soprattutto l'alleanza del fratello maggiore di Teutberga, Uberto, abate di St-Maurice-en-Valais, che deteneva il controllo su una regione d'importanza vitale per le relazioni con l'Italia. Alla fine dell'estate 856, l'incontro di Orbe tra Ludovico II, Carlo di Provenza e Lotario II regolò le trattative relative all'eredità di Lotario I, grazie alla mediazione di Benedetto III; l'accordo, pur ancora precario, rendeva ormai superfluo il ruolo dei Bosonidi. In questo periodo Uberto, da parte sua, si rese indipendente e cominciò ad estendere la sua influenza territoriale sulle terre di confine sotto il suo controllo, a discapito sia di Lotario che di Ludovico II e Carlo il Calvo. Nell'857 una lettera di Benedetto III al clero del Regno franco occidentale accusava l'abate di aver compromesso in tal modo la pace fra i tre fratelli (M.G.H., Epistolae, V; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2669). Nell'857 Lotario II fece i primi passi per separarsi da Teutberga e riunirsi a Gualdrada, dalla quale aveva già avuto un figlio, e contemporaneamente diede inizio alle operazioni militari contro il cognato. Da questo momento, le fonti pongono decisamente in secondo piano il caso Bosone-Engeltruda, malgrado che, per la parentela che univa Bosone a Teutberga e Lotario a Engeltruda (dal lato paterno), per la protezione accordata dal re alla fuggitiva e per la loro particolare natura, le due questioni siano state trattate congiuntamente, nelle stesse riunioni e dalle stesse autorità. Nell'858 Teutberga dovette (vittoriosamente) sottomettersi ad un'ordalia per discolparsi da un'accusa di incesto con Uberto, resa ancor più grave da un aborto (in seguito si aggiunse la sodomia). Due sinodi furono poi riuniti ad Aquisgrana per esaminarla, uno composto di soli ecclesiastici, il 9 gennaio 860, l'altro nel quadro di un'assemblea del Regno, nel mese di febbraio (Die Konzilien, IV, nrr. 1-2). Teutberga ammise e confessò per iscritto la sua colpa, e fu in un primo tempo autorizzata a ritirarsi in un monastero per farvi penitenza. Poi una seconda riunione la condannò ad una penitenza pubblica. Tuttavia, verso la fine dell'anno, la donna fuggì per trovare rifugio presso Uberto, nel Regno franco occidentale. La nuova unione di Lotario II fu comunque autorizzata solo da un terzo sinodo, il 29 aprile 862, e poi benedetta dall'arcivescovo di Colonia Tilgaldo, che incoronò regina Gualdrada a Natale. Fin dopo le prime accuse, tra la primavera 858 e i primi giorni dell'860, Teutberga aveva inviato un appello a Roma, in cui si difendeva dai crimini di cui era incolpata e denunciava le pressioni adoperate per farla confessare. Malgrado l'appello reiterato una prima e una seconda volta (ep. 11; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2726), in un primo tempo non ottenne risposta. Gli atti dei concili dell'860 e 862 furono portati a Roma separatamente; da parte sua, Lotario, in data imprecisata, aveva consultato N. a tale proposito (Le Liber pontificalis, p. 159), ma non si era aspettata la risposta per procedere alle nuove nozze. N. reagì solo dopo la pubblicizzazione della vicenda nel De divortio Lotharii di Incmaro (pubblicato in due tempi, in marzo-maggio e poi in settembre-ottobre 860, vi si auspicava la convocazione di un concilio generale del mondo franco per dirimere la questione) e dopo che l'episcopato lorenese si era scisso sul tema dell'indissolubilità. Con una serie di lettere datate a partire dal 23 novembre 862 (epp. 3-6; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2698-702), N. confermava un precedente corriere (perduto) in cui rimetteva la decisione riguardo all'intera vicenda a un concilio convocato a Metz, ma presieduto dai vescovi Radoaldo di Porto e Giovanni di Ficocle - l'epistola 3, rivolta "ai vescovi e arcivescovi presenti al concilio", è un messaggio destinato ad essere letto da questi ultimi ai convenuti in apertura dei lavori. Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, in nome dei quali erano stati già tenuti i due sinodi dell'860, questa volta sarebbero stati rappresentati da due vescovi per uno, al pari di Carlo di Provenza. Gli atti del concilio dovevano essere trasmessi a Roma, ove si sarebbe giudicata in ultima istanza la justitia delle decisioni prese. Le lettere di N. giunsero ai destinatari solo successivamente al matrimonio celebrato nel Natale 862. Il papa, messo di fronte al fatto compiuto, comunicò al clero dei Regni franco occidentale e franco orientale che il comportamento di Lotario era "illecito" e "scellerato". I vescovi dovevano vigilare perché questi si presentasse davanti al concilio per esservi giudicato e condannato ad una penitenza, sotto pena di scomunica (ep. 10; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2725, in cui per la prima volta emerge l'ostilità dichiarata del papa). I legati, da parte loro, erano destinatari di un commonitorium da leggere di fronte all'assemblea. Da un messaggio di apertura sereno si passava quindi ad un attacco in piena regola contro la violazione delle direttive pontificie da parte di Lotario. Alla fine il concilio si aprì nel giugno 863 (Die Konzilien, IV, nr. 14), davanti ai legati ma con un uditorio esclusivamente "lorenese", e in assenza di Teutberga. L'argomentazione di Lotario si era arricchita di una perorazione di carattere più giuridico, in difesa dell'idea che l'unione con Gualdrada possedesse già tutte le garanzie della legittimità, in particolare in materia di pubblicità e di dote. Egli dichiarava di aver sposato Teutberga in seguito alle pressioni minacciose del fratello Uberto, responsabile quindi di un adulterio forzato, e in un momento in cui subiva gli attacchi militari congiunti delle truppe di Lotario e Ludovico II. Il precedente giudizio venne confermato, mentre s'annullò la sentenza emessa contro Engeltruda. Come N. aveva chiesto, gli atti del concilio furono portati a Roma, e gli arcivescovi Guntero di Colonia e Tilgaldo di Treviri accompagnarono personalmente i legati. Dopo un esame del libellum conciliare, la sentenza fu diffusa il 30 ottobre nel quadro di un sinodo convocato qualche tempo prima per trattare "argomenti diversi" (v. la lettera di invito al patriarca di Grado, ep. 17; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2747), ma il cui ordine del giorno fu occupato quasi per intero dal dibattito sulla vicenda di Lotario (Die Konzilien, IV, nr. 16). Gli atti di Metz furono cassati come prostibulum adulteris, Guntero e Tilgaldo vennero deposti e scomunicati (cfr. M.G.H., Epistolae, VI, 1, p. 218) come pure il vescovo di Bergamo, Aganone, presente a Metz in rappresentanza di Ludovico II, che sembra aver avuto un ruolo attivo nei dibattiti (Le Liber pontificalis, p. 160): il provvedimento non fu causato dalla loro compiacenza nei confronti di Lotario, ma per aver ignorato la condanna papale contro Engeltruda. Nuovamente anatemizzata, questa venne invitata una volta di più a ricongiugersi al marito o a recarsi a Roma per ottenere il perdono. Anche gli altri partecipanti al concilio dovevano presentarsi a Roma per sottomettersi, o inviare loro rappresentanti presso il papa. L'ultimo decreto lanciava il generalizzato anatema su chi avesse osato contrastare qualsiasi decisione ("dogmata, mandata, interdicta, sanctiones vel decreta") romana. Gli atti del sinodo furono comunicati in lettere separate ad Adone di Vienne, ai cleri dei Regni franco occidentale e franco orientale, e alla gerarchia "di Gallia, Italia e Germania" (epp. 18-21; e in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2748-52). Guntero e Tilgaldo sulla via del ritorno ottennero l'appoggio di Ludovico II, che comparve insieme a loro sotto le mura di Roma, accompagnato da Engelberga, nel gennaio 864 (J.F. Böhmer, nr. 215). Secondo gli Annales Bertiniani, la fonte più esauriente sull'episodio, il papa, avvertito dell'arrivo di truppe imperiali, avrebbe ordinato un giorno di digiuno e di litanie; la soldatesca disperse una processione e distrusse delle insegne religiose, fra cui una croce che racchiudeva frammenti della vera croce offerti da Elena a s. Pietro. In questa basilica si ritirò N., abbandonato il Laterano, e qui restò due giorni digiunando, mentre Ludovico II era immobilizzato dalla febbre. La crisi fu risolta grazie all'intervento di Engelberga, che portò al pontefice un salvacondotto; dopo l'incontro, N. rientrò in Laterano, mentre l'imperatore, non avendo ottenuto che il papa tornasse sulla sua decisione, rimandò i due prelati nelle rispettive diocesi. Entrambi, in un primo tempo, non recedettero dalle loro posizioni: Guntero inviò a Roma, tramite il fratello Ilduino, una lettera che fece circolare anche in tutte le diocesi del Regno di Lotario, in cui protestava per l'attentato perpetrato contro i loro diritti. Erano stati costretti ad attendere, senza ricevere alcuna comunicazione, nel lasso di tempo intercorso tra la consegna degli atti di Metz e l'apertura della cospirazione romana "more latrocinali facta", alla quale negavano il carattere di sinodo; nulla era stato esaminato in modo approfondito e non avevano avuto alcuna possibilità di organizzare una difesa. Di fronte a questo disprezzo di ogni regola canonica, dichiaravano N., "qui dicitur papa", escluso dalla loro comunione, ossia da quella dell'intera Chiesa, e riaffermavano la validità del matrimonio fra Lotario e Gualdrada, "uxor profecto, non concubina". Ilduino si era impegnato a deporre il manifesto sulla tomba di s. Pietro, se il papa avesse rifiutato di riceverlo; e questo accadde, verso la fine di febbraio, ancora una volta con l'appoggio dei soldati di Ludovico II, e a prezzo di uno scontro che costò la vita ad una guardia della basilica. Guntero, il più agguerrito nella battaglia contro il papa, fu comunque isolato rapidamente. Mentre Tilgaldo rispettò l'interdetto pontificio e gli altri vescovi, invitati alla "resistenza", fecero in successione onorevole ammenda per aver partecipato al "concilium vanitatis" (cfr. epp. 30-1; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2767-68: perdono di N. al vescovo di Tongres e ad Adventius di Metz; v. anche le numerose lettere di Adventius, che, sebbene fautore del divorzio, aveva raccomandato prudenza a Tilgaldo prima dell'assemblea dell'863, e si preoccupò di dissociarsi dalle sue conclusioni, chiedendo anche un intervento di Carlo il Calvo in suo favore presso il pontefice, il quale alla fine gli concesse il perdono ufficiale nell'865, in M.G.H., Epistolae, VI, 1, pp. 214 ss., 219-24), l'arcivescovo di Colonia celebrò la messa nella sua cattedrale il venerdì santo dell'864. Il gesto gli costò la deposizione, questa volta su iniziativa dello stesso Lotario, che non aveva alcun interesse ad inasprire una situazione così delicata. Il papa tornò rapidamente al nocciolo del problema, non foss'altro che per respingere le accuse di condotta anticanonica, alle quali l'imperatore sembrava incline a prestare attenzione (ep. 29; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2764). Convocò un nuovo sinodo a Roma per la fine di ottobre, perché fossero ascoltate le sue spiegazioni, per confermare la deposizione degli arcivescovi e, marginalmente, richiamare il caso del patriarca Ignazio (lettera all'arcivescovo di Bourges, ibid.; Annales Bertiniani, p. 115; a proposito di Ignazio, v. supra). Guntero e Tilgaldo si presentarono, ma pare che la riunione non abbia avuto luogo e quindi l'arcivescovo di Colonia non ottenne il perdono che aveva cercato. N. pensò in seguito di convocare un sinodo generale a Roma per la metà di maggio dell'865 (cfr. M.G.H., Epistolae, VI, 1, p. 224, epistola di Adventius a N. e l'epistola 32 di N. ad Adone di Vienne), ma il progetto naufragò sia a causa della tensione politica fra Carlo il Calvo, Ludovico il Germanico e Ludovico II, e dell'emergenza militare sulle coste atlantiche per le incursioni normanne che ostacolavano i contatti fra un Regno e l'altro, sia per il clima diffuso di resistenza passiva alle decisioni papali (cfr. epp. 33-4, 38; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2773-74, 2788). Ludovico II, da parte sua, fece un ultimo tentativo in favore di Guntero e Tilgaldo in occasione di un conventus riunito a Pavia il 18 febbraio 865, dove comparve Guntero, di ritorno da Roma (Die Konzilien, IV, nr. 21); gli arcivescovi di Milano, Arles e Embrun redassero a nome loro e degli altri prelati partecipanti una richiesta di clemenza che fu inviata al papa, e ad Incmaro, cui era allegato un breve testo di Guntero sul tema del perdono. Nel giugno 865, prendendo atto con una certa amarezza dei molti ostacoli che si frapponevano ai suoi progetti, N. decise finalmente di dare incarico ad un legato di risolvere l'insieme dei problemi in sospeso. La missione, preparata con grande cura tramite molteplici raccomandazioni a tutte le parti interessate, fu assegnata ad Arsenio di Orte (epp. 33-5, 37-9; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2773-74, 2776, 2778, 2788, 2790). Arsenio, che assommava in sé le funzioni di apocrisario, "missus" della Sede apostolica e "consiliarius" personale del papa, doveva mettere fine al duplice adulterio di Lotario ("pro abolenda copula", secondo l'espressione del Liber pontificalis) e di Engeltruda, ma anche reclamare le imposte e le decime dovute a Roma dalle Chiese del Regno franco orientale, vigilare sulla reintegrazione di Rotado di Soissons (v. supra), far riconciliare Carlo il Calvo, Lotario, Ludovico il Germanico e Ludovico II (Annales Fuldenses, pp. 63 s.) e, per finire, portare la risposta di N. ad una consultazione dell'arcivescovo di Besançon su questioni di disciplina matrimoniale legate agli interdetti di parentela e di legislazione ecclesiastica (ep. 123; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2787). Lotario, aspramente redarguito per aver corrotto i legati presenti a Metz, veniva risolutamente invitato a ravvedersi prima del rientro a Roma dell'apocrisario, perché N. aveva rinviato la scomunica solo per l'affetto che nutriva per il fratello Ludovico II (epp. 36-7; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2777-78). Gli Annales Bertiniani raccontano come Arsenio, dopo aver consegnato le lettere papali, fra giugno e luglio 865, a Ludovico il Germanico (a Francoforte), Lotario II (a Gondreville) e Carlo il Calvo (a Attigny), tornò da Lotario a Douzy, in compagnia di Teutberga, mentre Gualdrada rientrava dall'Italia - dove la sua sicurezza sembrava più garantita che nelle vicinanze degli zii di Lotario. Il 3 agosto, davanti a molti vescovi, fra cui Adone di Vienne, dodici uomini si fecero garanti sotto giuramento non solo del fatto che Lotario avrebbe ripreso al suo fianco Teutberga, ma che l'avrebbe trattata come una moglie: la donna fu quindi riconsegnata al marito. Questo successo fu palesemente favorito dal desiderio di Lotario, espresso già un anno prima, di conseguire i suoi scopi evitando scontri frontali con il papa, sebbene la morte di Uberto, caduto combattendo contro le truppe di Ludovico II l'anno precedente, avesse rimosso un ostacolo dalla sua strada (J.F. Böhmer, nr. 228). La buona volontà del re si misura, da un lato, dal suo auspicio, manifestato già all'inizio dell'865, di potersi recare a Roma per perorare personalmente la propria causa (su richiesta di N. Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico lo dissuasero, intimandogli di risolvere il suo problema matrimoniale prima di progettare qualsiasi spostamento: ep. 38; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2788), dall'altro, dalla presenza e dalla sottomissione di Engeltruda, qualche giorno più tardi, a Gondreville, dove Arsenio celebrò la messa dell'Assunzione (15 agosto) davanti alla coppia reale ricostituita. Nondimeno, Lotario non aveva fatto a sua volta atto di pentimento ("nulla ecclesiastica satisfactione pro adulterio publico ab eo secundum canones sacros parata"), un dettaglio che influirà sul seguito degli eventi. Era previsto che Gualdrada ed Engeltruda accompagnassero il legato a Roma, al suo rientro dal viaggio in Alemannia e Baviera per riscuotere quanto era dovuto a S. Pietro. Tuttavia, entrambe lo piantarono in asso - con la complicità passiva di Arsenio, al quale bastava aver negoziato il ripudio di Gualdrada? -, la prima per riunirsi a Lotario, la seconda per raggiungere di nuovo la regione di Colonia, dove si era stabilita con Wangerus. Le due donne furono colpite da sanzione: N. ricordò il pericolo di comunicare con Engeltruda "saepe damnata" e, il 2 febbraio 866, scomunicò Gualdrada, assicurando alla sua condanna una vasta diffusione (epp. 41-2; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2800, 2808; Reginonis abbatis Prumiensis, pp. 87 ss.; resoconto di Arsenio su Engeltruda, in M.G.H., Epistolae, VI, 1, pp. 225 s.). Il resto dell'anno fu segnato da un nuovo tentativo, da parte di Lotario, di uscire dall'impasse, questa volta con l'appoggio di Carlo il Calvo, al quale si era riavvicinato. Il 17 gennaio Teutberga, "dilectissima", beneficiò di un diploma che le cedeva beni in almeno otto contee e le assegnava delle proprietà confiscate a suo fratello Uberto (Die Urkunden Lothars I. und Lothars II., in M.G.H., Diplomata Karolinorum, III, a cura di Th. Schieffer, 1966, p. 429). L'atto non comportava la legittimazione dell'unione, perché nella formulazione si evitava accuratamente di far seguire all'aggettivo "dilectissima" un sostantivo che precisasse la sua condizione. Ma sarà interpretato come una contropartita all'accettazione, da parte di Teutberga, di una separazione "in via amichevole", poiché, alla fine dell'anno o nei primi giorni dell'867, N. ricevette una lettera in cui, questa volta, era lei a domandare l'annullamento del matrimonio con Lotario e sceglieva "sponte ac libenter" di rinunciare alla dignità regale. All'argomento della legittimità dell'unione fra Gualdrada e Lotario, già trattato nel concilio di Metz, si aggiungeva per la prima volta quello della propria sterilità. Si poteva leggere fra le righe come Teutberga, ritirandosi di fronte a Gualdrada che aveva saputo dare un figlio al re, assicurasse la sopravvivenza del Regno. N. non si fece raggirare neppure per un istante da quella che giudicò una grossolana menzogna. Rispondendole, il 24 gennaio 867, si meravigliò di questo repentino voltafaccia, mentre tutte le testimonianze concordavano nell'affermare che ella era costantemente sottoposta a pressioni; la sterilità non dipendeva affatto da Teutberga, quanto piuttosto era il risultato dell'"iniquità" del marito, la cui condotta impediva che l'unione desse i suoi frutti; quanto al viaggio a Roma, dove la donna progettava di recarsi per confessare al papa i segreti di cui pareva ancora intenzionata a incolparsi, non era neppure in questione, poiché Gualdrada era stata convocata prima di lei ed allontanarsi dalla corte equivaleva a cedere di fronte all'adultera; per finire, uno scioglimento delle nozze per ragioni di pudicitia era impensabile: la rinuncia a qualsiasi commercio carnale, di per sé nobile, in questo caso doveva essere condivisa dallo sposo (ep. 45; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2870). Nello stesso giorno furono redatte alcune lettere di "accompagnamento": a Lotario, per comunicargli negli stessi termini di non riporre speranze in una soluzione della vicenda con il ricorso all'ennesima manovra, da cui il papa non intendeva farsi abbindolare, e specificare che neppure la scomparsa di Teutberga avrebbe potuto ricomporre la questione (ep. 46; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2873); al clero del suo Regno, per ricordare che Gualdrada era colpita da scomunica e domandare che diffondesse con zelo la notizia della sanzione e dei suoi effetti, e l'informasse sulla condotta di Lotario verso Teutberga, nei confronti della quale si era impegnato di fronte ad Arsenio (ep. 47; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2871). Una copia della lettera fu inviata a Carlo il Calvo, perché la diffondesse nel Regno franco occidentale, e per suo tramite anche a Lotario, per avvertirlo che al papa erano giunte voci di un tentativo di alleanza contro Teutberga e soprattutto del progetto, da parte di Lotario, di liberarsi della moglie appena reintegrata nel focolare coniugale sulla base di un'accusa di adulterio presentata di fronte ad un tribunale secolare, come era accaduto per quella di incesto nell'858, provocando così un duello giudiziario - per campione interposto - che si supponeva vinto in anticipo, con la conseguente possibilità di mettere a morte la colpevole (ep. 48; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2872: il ricorso al duello come soluzione liberatoria dall'accusa di adulterio era la norma; secondo la lettera, Teutberga l'aveva già proposto all'epoca dell'ambasceria di Arsenio nell'865, ma questi avrebbe rifiutato, come N. dopo di lui). Infine, il 7 marzo, il papa chiese a Ludovico il Germanico di intervenire presso il nipote in favore di Teutberga e contro Gualdrada, mentre tornava sul caso di Engeltruda applicando lo stesso ragionamento esposto per la moglie di Lotario: anche rinunciando a lei, come avrebbe voluto fare la regina Teutberga, Bosone non poteva assolutamente contrarre un secondo matrimonio, su cui non aveva facoltà di decisione; Ludovico era invitato a costringerla a ravvedersi, per porre fine ad una situazione che rendeva adultero, suo malgrado, lo stesso Bosone (ep. 49; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2874). I prelati "lorenesi" sembrano aver avuto notizia solo in ritardo del corriere di Niccolò. Adventius di Metz afferma di averlo ricevuto nel giugno 867. Leale nei confronti del suo sovrano e senza arrischiarsi ad indicare chi, tra i vescovi, fosse sostenitore o avversario dichiarato dell'adultero, si adoperò per rassicurare il papa, garantendogli che Lotario non aveva più alcun contatto con Gualdrada fin dall'epoca dell'ambasceria di Arsenio e mostrava, al contrario, tutti i segni del comportamento degno di un coniuge: "ut relatio innuit, coniugalis habitus debitum solvere hilariter praetendit" (in M.G.H., Epistolae, VI, 1, p. 235). Lotario, da parte sua, progettava ancora di recarsi a Roma. Mentre disponeva perché in sua assenza il Regno fosse affidato a Ludovico il Germanico (incontro di Francoforte), il caso di Guntero e Tilgaldo creò ulteriore tensione con Roma. Come si è visto, Lotario aveva deposto Guntero dopo che questi, malgrado la scomunica, aveva celebrato la messa a Colonia il venerdì santo dell'864. Ora, N. aveva preteso che la scelta dei nuovi prelati per le sedi di Treviri e Colonia fosse preliminarmente sottoposta all'approvazione di Roma (ep. 23; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2753). Pur inviando al papa un messaggio conciliante (in M.G.H., Epistolae, VI, 1, pp. 217 ss.), Lotario, in un primo tempo, sostituì Guntero con Ugo; poi, in seguito alle pressioni di Ludovico II, senza dubbio come ultima compensazione dopo l'assemblea di Pavia, del febbraio 865, assegnò la diocesi a Ilduino, fratello di Guntero, lasciando tuttavia a quest'ultimo la responsabilità del temporale. Ma nell'autunno 867 N. comunicò che reputava gli errori di Guntero e Tilgaldo troppo gravi per poterli reintegrare. Il 7 ottobre chiese a Lotario di porre fine ad una vacanza disdicevole e di riunire il clero di Colonia e di Treviri per un'elezione canonica, in base alla quale Roma avrebbe potuto conferire il pallium. Il 30 di quello stesso mese tre lettere esortavano Ludovico il Germanico a sospendere i suoi interventi in favore degli arcivescovi deposti e a comunicare a Lotario che qualsiasi viaggio a Roma era subordinato non solo all'esigenza, già formulata, di una venuta di Gualdrada alla Santa Sede e del riconoscimento di Teutberga come regina, ma anche ad un'elezione canonica a Colonia e a Treviri, che non doveva essere influenzata né da Guntero e Tilgaldo, né da Gualdrada (epp. 50-3; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2878, 2884-86; l'epistola 53 offre un resoconto completo di tutta la vicenda, a partire dagli interventi di Benedetto III contro Engeltruda nell'858). Il papa dovette prendere posizione anche a proposito di altre questioni matrimoniali coinvolgenti l'aristocrazia del Regno franco occidentale, che si tende qui a trascurare per via della massa di documentazione relativa al caso di Lotario II, ma che agli occhi del papato non rivestirono minor importanza. Le prime lettere di N. sul divorzio di Lotario II, nel novembre 862, contengono anche due richieste di clemenza rivolte a Carlo il Calvo. La prima in favore di Baldovino, conte di Fiandra e vassallo del re, che aveva rapito la figlia di Carlo, Giuditta (vedova del re del Wessex dall'860, era tornata dal padre che la teneva sub custodia, in attesa di trovarle un partito all'altezza della politica matrimoniale praticata dal Regno), l'aveva sposata con il suo accordo e quello del fratello Luigi il Balbo - allora ribelle contro Carlo -, ma senza il consenso paterno, una decisione che li aveva esposti alla scomunica: Baldovino a causa del rapimento e Giuditta per la sua complicità, aggravata dalla vedovanza. I due avevano trovato rifugio presso Lotario II, poi Baldovino si era recato a Roma per chiedere a N. di intercedere in suo favore (epp. 7-8; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2703-04; l'epistola 8 rivolge la richiesta all'imperatrice Ermentruda in termini più precisi sul piano giuridico: vi è stato rapimento, poi atto di pentimento presso la Santa Sede). Il caso venne evocato di nuovo a due riprese nell'863 (ep. 57; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2723; epp. 60, 78; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2722-23); quello stesso anno Incmaro, malgrado la sua ostilità dichiarata per quest'unione, ricevette Giuditta, mentre il re, che attribuiva maggior importanza al sostegno di N. contro Lotario II, concedeva il perdono e accettava di prendere come genero Baldovino (v. i ringraziamenti rivolti dal papa a Carlo il Calvo, ep. 78; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2784). Un conflitto analogo suscitò l'altra iniziativa (ep. 9; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2705) in favore del figlio di Carlo il Calvo, il re di Aquitania Carlo il Giovane, che nell'862, appena quindicenne, aveva sposato la vedova di Umberto, conte (forse) di Nevers, senza il consenso del padre ma con l'incoraggiamento del conte Stefano, successore di Umberto, per il quale l'alleanza matrimoniale con il re d'Aquitania aveva un valore inestimabile. Carlo fece atto di sottomissione al padre, ma il matrimonio non fu sciolto. I due interventi erano riconducibili ad un unico principio: quello della priorità del consenso degli sposi, che fu riaffermata sul piano teorico nella lettera ai Bulgari dell'866. L'azione di N. come vescovo di Roma e difensore della città, preoccupato delle condizioni della sua popolazione, è trattata in modo conciso nel Liber pontificalis, dove le menzioni relative a donazioni alle chiese, a riparazioni e a fondazioni sono state forse condensate allorché la notizia fu rimaneggiata (sono del resto troncate accidentalmente per le donazioni che corrispondono all'indizione XI, settembre 862-agosto 863 [Le Liber pontificalis, p. 159] - riferendosi alla cronologia stabilita da R. Davis sul modello di quella ricostruita da H. Geertman per i precedenti pontificati). La lista delle chiese e dei monasteri beneficiari di oggetti liturgici e di tessuti preziosi include quanto dipende dalla generosità pontificia, in parte alimentata dai doni dei diversi sovrani e pellegrini del mondo cristiano (Ludovico II, in occasione dell'elezione e nell'862-863, Michele III nell'860 [si nota in quest'occasione la presenza di repida, termine sul quale si sono arenati curatori e traduttori del Liber pontificalis, che è una trascrizione latina di ριπίδια: ventagli liturgici a forma e con piume di pavone], pellegrini inglesi nell'863-864, il re di Danimarca e Ermentruda nell'864 [epp. 27-8; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2761, 2763], Boris-Michele nell'866): S. Pietro in testa (una donazione quasi per ogni anno di pontificato), S. Paolo (860-861, 861-862, 866-867), il Laterano (858, 865-866, 866-867) e S. Lorenzo fuori le Mura (858, 866-867), S. Anastasio ad Aquas Salvias (861-862), S. Maria ad Praesepe (866-867); vi figura anche S. Maria Antiqua, la recente fondazione di Leone IV (861-862). Più inattese sono le menzioni dei tituli di S. Eusebio (860-861 e 861-862, citato per la prima volta da Gregorio IV), come pure il monastero di S. Valentino, nella diocesi di Narni (860-861), che non era stato più onorato dopo Zaccaria. N. sembra comunque aver accordato una particolare attenzione alle comunità monastiche greche; forse vi si può scorgere l'indizio di una forte immigrazione proveniente da Bisanzio, che lo stesso papa ricordò a Michele III nella lettera del settembre 865 e che fu rilanciata dallo scisma foziano. Se i doni a S. Anastasio ad Aquas Salvias erano consueti, quelli a S. Dionigi di Roma (858-859), la chiesa che si erigeva all'interno della cinta del monastero dei SS. Stefano e Silvestro, fondazione di Pasquale I, lo sono assai meno - si potrebbero interpretare come una manifestazione di riconoscenza per aver ospitato l'assemblea che lo aveva eletto al soglio pontificio. Senza dubbio più significativa è la frequenza delle volte in cui ricorre S. Maria in Cosmedin (858, 860-861, 861-862, 863-864), diaconia che riappare per la prima volta dopo Gregorio IV e beneficia, oltre ai doni abituali, di importanti ristrutturazioni: rinnovo del secretarium e del portico adiacente, costruzione dell'oratorio dedicato a s. Nicola (una basilica a s. Nicola fu edificata anche al Laterano: Le Liber pontificalis, p. 176) e di appartamenti (hospitium) per il pontefice. Alcuni autori ritengono - ma senza poter addurre prove - che questa sollecitudine denoti come N. fosse stato diacono di S. Maria in Cosmedin. Il papa fece anche riedificare l'acquedotto dell'Aqua Jovia, che raggiungeva il Tevere in prossimità della chiesa. Quest'ultima iniziativa si inquadra nel capitolo più generale della gestione dell'acqua a Roma e del suo approvvigionamento, servizio a carico del Laterano, che doveva provvedere almeno al clero, ai poveri e ai pellegrini, se non all'intera popolazione, sulla base delle rendite fornite dai patrimonia. In questo contesto, N. fece anche restaurare l'acquedotto dell'Aqua Traiana (Sabbatino), che serviva la zona di S. Pietro ed aveva già subito interventi all'epoca di Adriano I, se non di Onorio. Quanto alle provvidenze a favore degli indigenti - il cui numero sembra essere stato assai elevato dall'inizio dell'VIII secolo - il Liber pontificalis descrive nei dettagli il sistema messo in opera probabilmente nell'863-864, che permise di fare una selezione tra i beneficiari, evitando gli abusi: oltre la ventina di centri abituali di distribuzione del grano e altre derrate (le diaconie) e l'approvvigionamento quotidiano dei più bisognosi, si concesse ai meno disagiati, sulla base di un registro di iscrizione, una razione settimanale, in modo che ognuno poteva essere individuato da una "bolla" marcata col nome di N., provvista di un numero di "nodi" diverso secondo il giorno della settimana corrispondente alla distribuzione; bisogna immaginare, piuttosto che una tessera annonaria, una capsula metallica appesa al collo con un cordone, simile a quella che portavano i giovani nell'antichità. Per l'863-864 sono segnalati inoltre interventi nei cimiteri posti fuori delle mura, a quel tempo abbandonati: S. Felice, sulla via Portuense, e le catacombe di S. Sebastiano, dove il pontefice ricreò una comunità monastica perché avesse cura di questi luoghi. Infine, pur senza arrivare a distinguersi grazie a fondazioni urbane con il suo nome, sulle orme di Gregorio IV e di Leone IV (e come farà in seguito Giovanni VIII), N. fece ricostruire e fortificare Gregoriopolis (Ostia) "in ruinis jacentem" - a causa dell'incursione dei Saraceni nell'865 -, insediandovi una guarnigione. I dieci anni di governo di N., nel corso dei quali i concili dell'863 rappresentarono una svolta, furono ben presto ritenuti decisivi per la storia del papato, nel bene e nel male. La corrente ostile, in linea con l'indignazione esternata da Fozio, Guntero e Tilgaldo, e talvolta da Incmaro, è allarmata dal suo autoritarismo, dalla sua "brutalità", dalla inquietante propensione a ricondurre ogni cosa a Roma. Una manifestazione precoce di questi sentimenti, espressi quasi a caldo, è offerta dal Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma (fine sec. IX-inizio sec. X), che stigmatizza la mancanza di considerazione mostrata da N. nei confronti dell'honor regius. Più di recente, altri hanno insistito sulla scarsa originalità delle posizioni ecclesiologiche o disciplinari di N., che si limitavano a riprendere la tradizione di pontefici giudicati particolarmente importanti, come Gelasio e Leone Magno, o a ripetere formulazioni già espresse qualche anno prima nella corrispondenza di Leone IV e Benedetto III, papi ingiustamente offuscati, non avendo beneficiato di una notizia "storico-letteraria" nel Liber pontificalis; oppure N. è stato dipinto come una vittima degli eccessi epistolari di Anastasio (accusa già pronunciata da Guntero e Tilgaldo nella loro condanna del sinodo romano dell'ottobre 863, ripresa in sostanza da A. Lapôtre). La forza d'animo di cui diede prova il papa, viceversa, è apparsa l'unico baluardo contro "l'invasione dei laici", nell'ottica di una corrente che culmina nell'opera, spinta agli estremi, di J. Richterich. Una generazione dopo la sua morte, Reginone di Prüm (nel suo Chronicon, ad a. 908) vedeva in N. il solo pontefice che potesse sostenere il confronto con Gregorio Magno - un accostamento lusinghiero, citato al principio dei riassunti posteriori della vita di N., ad esempio da Martino di Troppau († 1278) e Thomas Ebendorfer († 1464) - perché "comandava ai re e ai tiranni, dominandoli con un'autorità superiore, quasi fosse stato il padrone del mondo" (p. 94). Nell'XI secolo, il suo nome e la sua azione rappresentano sia un punto di riferimento e una fonte d'ispirazione per il gruppo dei riformatori, sia una posta in gioco nelle dispute con il partito imperiale. Eletto papa, il vescovo Gerardo di Firenze, secondo alcuni, rivendicò l'eredità di N. assumendone il nome (Niccolò II). Bonizone da Sutri († 1090) lo invoca nel Liber ad amicum, anche a costo di distorcere la realtà dicendo che "scomunicò due imperatori", quello d'Oriente a causa del patriarca Ignazio e quello d'Occidente (!) per la sua deplorevole condotta matrimoniale. Ma Guido di Osnabrück († 1101), per il partito avverso, sottolinea come N. abbia ricevuto il donum consecrationis "in presenza e per ordine" dell'imperatore Ludovico; e, in occasione degli avvenimenti dell'864, preferì fingere umiltà e pazienza piuttosto che suscitare il furore del principe, designato "pater clericorum". Da questo momento a N. viene riconosciuto un posto nella catena dei "grandi papi", rappresentando una sorta di anello di congiunzione fra Gregorio Magno e Gregorio VII (v. F. Gregorovius nella sua Storia della città di Roma nel Medio Evo). La tradizione canonica ha anch'essa ampiamente contribuito ad eternare la sua memoria, inserendo numerosi estratti della sua corrispondenza fra i testi capitali del diritto ecclesiastico. Quelli riguardanti il matrimonio (a cominciare dai Responsa ai Bulgari) e l'epistola 88 a Michele III (citata il più delle volte a partire da un'epitome, e al servizio dell'idea che il papa, giudice superiore, non possa essere giudicato ["prima sedes a nemine judicatur"]) sono i più celebri, ma ve n'è una pletora, censita a suo tempo da E. Perels, nella collezione di Anselmo di Lucca († 1086), in Reginone, Burcardo di Worms († 1025), Deusdedit († 1097/1100), Bonizone, Ivo di Chartres († 1116) e Graziano (ottantadue citazioni nel Decretum, a. 1142), per citare solo le raccolte più significative. Al di là degli apprezzamenti complessivi e della constatazione della fortuna delle posizioni ecclesiologiche e disciplinari espresse da N. nel Medioevo e oltre, è opportuno individuare i principi che ne hanno guidato il pontificato. L'esame dei suoi punti di riferimento è sufficiente a individuarli: la corrispondenza del papa invoca largamente coloro che, con maggiore o minor fortuna, hanno esaltato l'autorità della Sede apostolica: Leone I e Gelasio (rispettivamente in diciassette e dieci lettere) e, in misura più modesta, Innocenzo I e Celestino I; più originale appare la rivendicazione dell'eredità di Gregorio Magno, citato prima di tutto per il Regestum ma anche per la Regula pastoralis, i Moralia, i Dialoghi, i commentari al vangelo e ai salmi (le citazioni sono distribuite in dodici lettere, con non meno di sei casi nei Responsa ai Bulgari e quattro nell'epistola a Miche-le III). Si delinea quindi una duplice ispirazione che ha alimentato il programma di N., riassunto nella formula della "monarchia pastorale" (Y. Congar, p. 210), che pur non innovando nel profondo costruisce, a partire da affermazioni rimaste sparse e talvolta teoriche, un programma d'azione che poté essere attuato. Il pontificato di N. è importante anche per l'apparente contraddizione che induce il papa ad insistere a più riprese sull'autenticità dei testi e sulla fedeltà al diritto, pur respingendo questo stesso diritto a seconda degli affari trattati e degli interlocutori da affrontare. Nel caso di Lotario II, Guntero e Tilgaldo si sono quindi fronteggiate due logiche (cfr. R. Kottje). L'indignazione dei due arcivescovi dopo la condanna subita nell'autunno 863 era legittima, perché non avevano avuto l'opportunità di pronunciare la propria difesa. Il papa, da parte sua, fu guidato costantemente dalla preoccupazione di affermare l'autorità di S. Pietro, il riconoscimento della quale fu posto come condizione preliminare all'esame della documentazione. Dipende dalla mancata comprensione della natura dell'ostacolo il fatto che gli argomenti presentati a favore del divorzio di Lotario siano cambiati nel corso degli anni e affinati alla ricerca dell'angolazione giuridica migliore: dall'incesto all'illegittimità, dalla sterilità all'adulterio. Per la stessa ragione sono stati respinti l'uno dopo l'altro, con una stessa motivazione ricorrente. Quand'anche il diritto ecclesiastico o secolare e la ragione umana fossero schierati dalla parte della separazione, quest'ultima non sarebbe attuabile; non tanto in nome di un principio d'indissolubilità non ancora elaborato a Roma, ma piuttosto per l'ostinata difesa della preminenza di S. Pietro. Questa auctoritas annullava le auctoritates. Per questo N. fu così attento a fondare le sue pretese su una tradizione testuale e giuridica rigorosa. La sua corrispondenza è densa di allusioni alle fonti autentiche, ricercate, diligentissime, negli archivi della Santa Sede, e il papa non perde occasione per stigmatizzare le subdole imprese di falsificazione. Guntero, Tilgaldo, Giovanni di Ravenna, Incmaro, Michele III e Fozio furono bersaglio di aspri rimproveri in merito a questo tema. Ne è un caso esemplare la disputa fra il monastero di St-Calais e il vescovo di Le Mans, studiata nei dettagli da W. Goffart. Nell'855 il concilio di Bonneuil, confermato da Carlo il Calvo, aveva dato ragione alle accuse dell'abate di St-Calais Rainaldo contro le pretese del vescovo, che intendeva far passare il monastero sotto la sua giurisdizione in materia di proprietà e di elezione abbaziale (Die Konzilien, III, nr. 34). Il conflitto si riaccese allorché Roberto occupò la sede di Le Mans nell'859. In circostanze tuttora oscure, questi ottenne l'abbazia in beneficio da Carlo il Calvo, il che scatenò nuove rimostranze da parte dei monaci, il cui caso fu portato davanti al concilio di Pîtres nell'862. L'assemblea, non avendo potuto ascoltare le argomentazioni di Roberto, confermò la decisione di Bonneuil senza pronunciarsi sugli elementi di novità intervenuti nella disputa; il vescovo, invitato ad apporre anche la propria firma al testo dell'855, rifiutò. Nei primi giorni dell'estate 863, Oddone di Beauvais portò da Roma (dove si era recato per presentare gli atti di Pîtres; v. supra, a proposito dell'affare di Rotado) un privilegio di N. a favore di St-Calais, un testo di routine redatto sulla base degli atti del sinodo. A questo punto il vescovo fece trasmettere al papa le proprie auctoritates: turbato dal suo gesto, N. inviò sei lettere (una è perduta) in Francia, chiedendo a Carlo il Calvo e al suo clero di regolare la questione, allo scopo di esaminare il ricorso di Roberto (epp. 109-13; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 2742-46). Nell'ottobre 863 si riunì un'assemblea a Verberie (Die Konzilien, IV, nr. 18), in presenza del re, nel corso della quale emerse che le pretese di Le Mans si fondavano su una trama di falsi documenti; venne così ordinata la consegna degli atti entro quindici giorni per distruggerli pubblicamente. Forti della conferma ottenuta, i monaci inviarono a Roma un archivio composto per l'occasione, inducendo così N. a conferire al monastero un nuovo privilegio, che si sofferma lungamente sulla frode e la machinatio di cui i monaci, e indirettamente Roma, erano stati vittime (ep. 159; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2735, in forma di decreto). Si può comunque osservare che l'attenzione di N. non era stata rigida sin dal primo momento e che il privilegio finale è riconducibile ad una reazione successiva alle decisioni del placito di Verberie. Un'analoga carenza di attenzione si può riscontrare nell'approvazione concessa, nel giugno 867, alle pretese dell'arcivescovato di Vienne, rappresentato da Adone, che aveva chiesto di sottomettere alla sua autorità la Tarantasia, sulla base di una copiosa documentazione di atti falsi attribuiti a Zosimo, che formano il nucleo delle Epistolae Viennenses spuriae (Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2876; Giovanni VIII tornò sulla decisione nell'878, trattando le sedi di Vienne e la Tarantasia come Chiese metropolitane indipendenti). Neppure i dibattiti con gli esperti in diritto canonico sono affrontati con leggerezza: nei rapporti con Incmaro, N. vigila attentamente sul rispetto delle procedure, insistendo ad esempio in modo inconsueto sul termine di cui dispone per fare appello contro la reintegrazione di Vulfado, con l'evidente preoccupazione di non fornire il destro a contestazioni in merito alla forma dei suoi interventi. Si noterà inoltre l'uso estensivo delle fonti giuridiche, che è stato più volte sottolineato a proposito dei Responsa ai Bulgari, definiti da B. Paradisi una collezione giuridica mista, che attinge alle norme giustinianee (le Institutiones e il Codex - in una versione ridotta che non era né l'Epitome né la Summa Perusina), longobarde e franche, affiancandole ai decreti canonici, un uso reso possibile dall'idea che N. aveva della sua posizione rispetto al diritto, qualunque ne fosse la provenienza, foss'anche dubbia come nel caso delle false decretali: quella di un potere imperiale in grado di conferire, in virtù della sua autorità, un'omogeneità agli elementi più disparati, al servizio della causa della Chiesa romana militante. Infine, N. si considerava il guardiano dei libri non meno che delle leggi. Si è visto che i Responsa respingevano il libero uso dei libri di culto in un paese non ancora cristianizzato e non latino. Una posizione analoga a quella espressa nel richiamo all'ordine rivolto forse nell'862 a Carlo il Calvo, a proposito della traduzione di Dionigi l'Aeropagita fatta da Giovanni Scoto Eriugena: avendone appreso l'esistenza da fonti esterne, N. pretese che il testo fosse sottoposto all'approvazione della sua autorità, juxta morem, in considerazione del principio che quanto riceveva la Sede apostolica aveva valore universale (ep. 130; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2833; cfr. R. Somerville in merito all'autenticità del documento e ad un'ipotesi di datazione). Nei rapporti con gli altri poteri, N. si era saldamente attestato, come i suoi predecessori, sulla linea gelasiana della separazione e dell'indipendenza, senza cercare di stabilire una preminenza che avrebbe giustificato l'universalità della propria missione e la sua investitura dall'alto. L'insuccesso, per esempio, delle prese di posizione di Ludovico II a favore di Giovanni di Ravenna, o di Guntero e Tilgaldo, o del tentativo di sostituire il vescovo Suffredo a Piacenza, scaturisce da una difesa accanita di ciò che N. considerava un dominio rigorosamente ecclesiastico, ma senza approdare a conseguenze teoriche particolari. Allo stesso modo, sottolineare che l'imperatore era stato incoronato dal papa (ep. 34, p. 305; anche in Regesta Pontificum Romanorum, nr. 2774, argomento ripreso dallo stesso Ludovico II nella sua lettera a Basilio I nell'871, redatta da Anastasio) vale unicamente a rafforzare un'autorità in rapporto ad altre potenze laiche e non a collocarla in seconda posizione all'interno di una gerarchia dominata dal pontefice. Invece appare rilevante che i grandi laici abbiano considerato il papato un riferimento obbligato, e non solo come arbitro nelle relazioni politiche internazionali. Come i vescovi trovarono in N. un guardiano geloso della loro facoltà di appello "contro" i metropoliti, i grandi cercarono a Roma la protezione più efficace per difenderli dai rischi dell'ingerenza reale. Questo accadde nel caso del conte Gherardo di Vienne nell'863, quando il papa confermò definitivamente la traditio romana di Pothières e Vézelay nel momento in cui egli si schierava dalla parte di Lotario II contro Carlo il Calvo. L'influenza romana si può misurare anche sulla base delle numerose lagnanze e consultazioni che affluivano a Roma a proposito di questioni matrimoniali. Il pontificato di N. non fu certo il primo a ricevere queste sollecitazioni, ma la frequenza dei ricorsi sotto il suo governo gli attribuisce una dimensione particolare in questa sfera, considerando che l'intervento della Chiesa nelle dispute fra coniugi non era scontato, a giudicare dal dibattito cui dà voce il De divortio di Incmaro, in merito all'opportunità, da parte dei vescovi, di pronunciarsi sull'unione di Lotario II. Lo sforzo di cristianizzare e disciplinare il matrimonio sortì l'effetto di estendere la cerchia dei corrispondenti laici diretti della Santa Sede. Fu il pontificato di N. a far infine venire prepotentemente alla luce la divisione fra Oriente greco e Occidente latino. Lo scambio di invettive fra N. e Michele III sul tema della lingua, la ricorrente designazione del basileus come "imperatore dei greci" sono le manifestazioni più lampanti di un'ostilità epidermica alimentata in profondità da conflitti teologici, ecclesiologici o disciplinari (sul Filioque, il primato, l'apostolicità, il matrimonio, ecc.). Nell'867, l'accusa di eresia da parte di Fozio è semplicemente un indizio rivelatore: il successo della consultazione di N. presso il clero a nord delle Alpi - dove l'assenza fisica dell'imperatore aveva annullato perfino gli eventuali contatti diplomatici con Bisanzio, circoscritti all'Italia - dimostra come l'opposizione latente attendesse soltanto l'occasione per essere formulata e argomentata al di fuori della cerchia pontificia (cfr. K. Herbers, Papst Nikolaus I. und Patriarch Photios). Dopo la morte, avvenuta il 13 novembre 867, N. fu sepolto a S. Pietro, non all'interno della basilica ma, secondo una prassi inaugurata da Benedetto III e ripresa dai suoi successori (Giovanni VIII, Marino I, Stefano V e Stefano VI, Giovanni IX e forse Sergio III), nell'atrium, accanto alla porta meridionale detta "del Giudizio". Questa scelta, che nel caso di Benedetto III poteva ancora essere interpretata come un'estrema affermazione di legittimità (riposava nel luogo in cui Anastasio, suo concorrente nell'855, era stato giudicato e dove Benedetto aveva fatto ridipingere a nuovo la scena della sua scomunica da parte di Leone IV), con N. e i suoi successori si inquadra in una trasformazione della devozione funeraria, che per un certo periodo non ha più cercato la vicinanza della confessione di S. Pietro ma ha inteso dimostrare un'ultima volta l'umiltà del sovrano pontefice, opportunamente messa in risalto dall'epitaffio di N. - che è in parte ancora conservato nelle cripte vaticane (cfr. Le Liber pontificalis, p. 172). Già il 2 febbraio 868, Adriano II chiese ai partecipanti al concilio riunito a Troyes in autunno di inserire il nome di N. nei libri e dittici delle loro chiese e di introdurlo nelle litanie della messa (in M.G.H., Epistolae, VI, 2, p. 700). È a questo testo che fece riferimento Benedetto XIV per iscrivere N. fra i canonizzati (De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione, a cura di E. de Azevedo, Bruxelles 1840, p. 5), mentre si tratta semplicemente del pendant della sua commemorazione all'VIII concilio ecumenico, in un momento in cui era opportuno rivendicare la sua eredità a fronte delle dispute con l'Oriente. P. De Natalibus gli dedica una breve notizia ispirata al Liber pontificalis (Catalogus sanctorum […], I, Vicentiae 1493, nr. 34), ma alla data del 6 dicembre, festa di s. Nicola di Bari. Il Martyrologium Romanum di Baronio (1605) riprende tale indicazione nell'edizione del 1630, che accoglieva il suo nome per la prima volta (p. 559). Dopo uno spostamento al 5 dicembre (decreto del 6 maggio 1850), la Congregazione dei Riti, con decreto dell'8 luglio 1883, fissò infine la sua festa nel giorno dell'anniversario della morte. Fonti e Bibl.: la fonte "romana" sul pontificato di N. è costituita dalla sua corrispondenza, ricca di circa centosessanta lettere (che contengono numerose menzioni di altre lettere perdute) e particolarmente ragguardevole a proposito dei rapporti con l'Oriente, nonché dalla notizia del Liber pontificalis, che, in questo caso, si discosta dalla consueta composizione basata essenzialmente sulla compilazione dei dati provenienti dal vestiarium. Le informazioni materiali quali le liste delle donazioni, le riparazioni e gli abbellimenti relativi a chiese o monasteri principalmente romani occupano solo uno spazio modesto in una biografia rielaborata da un redattore esterno con il supporto del registro della corrispondenza pontificia (il termine regestum compare nel cap. 57, p. 162; v. anche il canonista, cardinale Deusdedit, in M.G.H., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, II, a cura di E. Dümmler-F. Thaner-E. Sackur, 1892, p. 346). Quanto al redattore, lo si potrebbe identificare con Anastasio Bibliotecario o con Giovanni Diacono (Immonide), che fu del resto l'autore della notizia rimasta incompleta su Adriano II. L'intervento di autori di livello socio-culturale più elevato, già avvertibile nella biografia di Leone IV, diviene preponderante nella notizia su N., segnando un cambiamento fondamentale nella concezione del Liber pontificalis, non più scritto nella linea di una continuità burocratica, ma con l'intento di trasmettere un'ideologia; e preannuncia inoltre la fine dell'opera, la cui prosecuzione non dipendeva più dal lavoro di anonimi compilatori intercambiabili ma da spiccate personalità: alla morte di personaggi come Giovanni Diacono (880/882) o Anastasio (verso l'879), la stesura dell'opera subisce un arresto per mancanza di redattori, in un contesto burrascoso che è d'ostacolo ad una sua ripresa. Una presentazione del pontificato di N., oltre ai resoconti contemporanei o leggermente posteriori (principalmente: Annales Bertiniani, Annales Fuldenses, Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma), deve quindi considerare questo doppio filtro: di sperimentata routine, da una parte, e di lavoro nutrito di ambizioni storiche e politiche, dall'altra, che esprime il punto di vista di Giovanni Diacono o Anastasio e, soprattutto, del suo committente Giovanni VIII, negli anni Settanta. L'energia e l'autorità attribuite a N. sono servite da modello al suo successore Adriano II, che ha dovuto misurarsi con i medesimi problemi, mettendo in ombra anche gli immediati predecessori, Leone IV e Benedetto III, che pure assunsero posizioni anticipatrici rispetto a quelle adottate da Niccolò. Più specificamente v.: I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XV, Venetiis 1770; Martini Oppaviensis Chronicon pontificum et imperatorum, a cura di L. Weiland, in M.G.H., Scriptores, XXII, a cura di G.H. Pertz, 1872, p. 429; Andreae Bergomatis Historia 13, ibid., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, a cura di G. Waitz, 1878, p. 227; Erchemperti Historia Langobardorum, 37, ibid., p. 248; Annales Bertiniani, ibid., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, V, a cura di G. Waitz, 1883, ad indicem; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I-II, Lipsiae 1885-88: I, nrr. 2674-888, pp. 341-68; II, p. 703; Reginonis abbatis Prumiensis Chronicon, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, L, a cura di Fr. Kurze, 1890, ad indicem; Annales Fuldenses sive Annales Regni Francorum orientalis, ibid., VII, a cura di Fr. Kurze, 1891, ad indicem; Excerpta ex Widonis Osnabrugensis libro de controversia inter Hildebrandum et Heinricum, a cura di L. von Heinemann, ibid., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. 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