Pasquale I, santo
Verosimilmente il giorno dopo la morte di Stefano IV, avvenuta il 24 gennaio 817, fu eletto papa Pasquale. Dapprima suddiacono e poi presbitero nel "Patriarchium", acquisì fama per la sua conoscenza del canto salmodico e dell'Antico e del Nuovo Testamento. Posto da Leone III alla guida del monastero di S. Stefano Maggiore, sito presso S. Pietro, si distinse - secondo il racconto della Vita contenuta nel Liber pontificalis - per la sollecitudine nell'attività ospitaliera. Asceso al soglio pontificio, dopo essere stato consacrato P. inviò legati all'imperatore Ludovico il Pio con un'epistola, definita dalle fonti "excusatoria" ed "apologetica", per rendere ragione delle modalità dell'elezione. La lettera affermava la correttezza della procedura seguita, attuata con il concorso concorde del clero elettore e del popolo acclamante, e allontanava ogni sospetto di interesse personale del designato, che invano aveva cercato di sottrarsi alla responsabilità alla quale era stato elevato. L'iniziativa richiamava quella assunta solo l'anno prima dal predecessore, Stefano IV: mirava a inserire da subito nel solco della tradizione i rapporti con il sovrano franco, ribadendo, e nel contempo accentuando, l'autonomia della scelta del papa. L'effetto positivo dell'ambasceria e la convergenza tra il nuovo pontefice e il sovrano franco si possono dedurre dal fatto che il "nomenclator" Teodoro - in quanto a capo forse della stessa legazione che aveva portato l'epistola, o, più probabilmente, di un'altra di poco posteriore - rinnovò le intese tra la dinastia carolingia e i papi. Il documento che ne scaturì, il cosiddetto Hludowicianum - tramandato in copie della fine dell'XI secolo e del XII secolo la cui autenticità è stata accettata da gran parte della storiografia -, è di notevole importanza perché costituisce il primo della serie di accordi intervenuti tra l'autorità romana e i sovrani franchi a partire dal 754 che sia giunto fino a noi, e perché in seguito fu un riferimento essenziale per le relazioni tra Impero e papato. Si può ritenere che nel suo tenore esso riprenda da vicino un analogo atto emanato dallo stesso Ludovico il Pio nell'816, a Reims, in occasione della visita di papa Stefano IV. Il testo - la cui complessa struttura dipende dal fatto che esso è il frutto di un patto ma si presenta come un privilegio imperiale di conferma - si articola in due parti. Nella prima il sovrano concedeva a s. Pietro, principe degli apostoli, e a P., suo vicario, nonché ai successori, quei beni che i pontefici anteriori avevano tenuto nella loro potestà. Si trattava di territori compatti che erano riconosciuti appartenere al dominio della Chiesa di Roma, che vi esercitava o, in alcuni casi, aspirava ad esercitarvi il potere politico - la città di Roma e il suo Ducato, l'Esarcato di Ravenna, il territorio della Sabina, varie località in Tuscia e Campania, le isole di Sicilia, Sardegna e Corsica -; ad essi si aggiungevano singoli complessi fondiari sparsi su un'ampia area che fornivano rendite di natura patrimoniale - i patrimoni beneventano-salernitano, napoletano, della Calabria inferiore e superiore, e qualsiasi altro patrimonio romano ubicato entro i confini del Regno o dell'Impero -, nonché quanto il re Pipino e Carlomagno avevano donato, "di spontanea volontà", all'apostolo Pietro, e ancora i redditi - "censi" e "pensioni" - dei Ducati di Tuscia e di Spoleto pertinenti al palazzo regio longobardo, assegnati da Carlomagno ad Adriano. Ludovico, inoltre, dava la sua parola di difendere tutti questi beni e di astenersi dall'esercizio dell'attività giurisdizionale al loro interno, riservandosi unicamente il diritto di intercessione. Il quadro giuridico in cui l'impegno imperiale si inscriveva - comunque di difficile e ambigua interpretazione - parrebbe almeno in parte essere quello del conferimento dell'immunità: un'immunità che fondava un'amplissima autonomia, ma non escludeva del tutto un diritto di intervento del sovrano. Nella seconda parte del documento sono fissate le modalità dei rapporti tra Chiesa e Impero nel momento di passaggio da un pontificato all'altro. L'imperatore garantiva che alla morte di P. nessun franco o longobardo si sarebbe intromesso nell'elezione del nuovo papa, e che i Romani avrebbero potuto seppellire con il debito onore il pontefice morto e procedere a consacrare il successore, designato in modo concorde secondo l'ispirazione divina, nel modo canonico. Solo dopo la consacrazione l'eletto sarebbe stato tenuto a inviare legati al re dei Franchi per ribadire l'"amicizia e carità e pace" tra le due autorità. Tale atto è presentato quale proseguimento di una consuetudine, instaurata dal bisnonno di Ludovico, Carlo Martello, e continuata dal nonno, Pipino, e dal padre, Carlomagno. La memoria, legittimante, del passato non può nascondere la novità della situazione: la conferma dell'"amicizia" da parte del pontefice per la prima volta era disposta da colui che si fregiava del titolo imperiale. Nel complesso, P. ottenne il riconoscimento di un'ampia autonomia della elezione del pontefice rispetto al sovrano franco: il clero e la popolazione romana - e dunque il ceto aristocratico locale - erano individuati come i protagonisti. Negli anni seguenti le relazioni tra il papa e Ludovico, pur diradandosi, non sembrarono conoscere incrinature. Nell'821 Pietro, vescovo di Civitavecchia, e il "nomenclator" Leone, inviati papali, furono ricevuti brevemente dall'imperatore presso la Mosa, a Nimega. Lo stesso anno altri due ambasciatori, Floro e il primicerio Teodoro, si recarono con doni alle nozze di Lotario, figlio del sovrano, tenutesi a Diedenhofen ("apud Theodonis villam"). I rapporti tornarono più intensi nei primi mesi dell'823, quando P. chiamò a Roma Lotario, che era stato unito al trono imperiale dal padre nell'817 e aveva ricevuto la cura degli affari di Italia. Secondo l'anonima Vita di Ludovico, il giovane franco era impegnato nella penisola in questioni sulla cui soluzione era incerto: di esse aveva intenzione di parlare al padre Ludovico, prima di prendere decisioni. In tale contesto si pone l'invito del pontefice, in occasione della Pasqua. Proprio durante la messa celebrata in S. Pietro il 5 aprile, giorno della solennità, P. incoronò Lotario con il diadema imperiale. Il gesto pare indicare una strategia: desideroso di rafforzare la sua posizione in Roma, il papa consolidava il legame tra dignità imperiale e incoronazione da parte del successore di Pietro, nella linea dei pontefici che lo avevano preceduto. Pochi anni prima, Stefano IV era andato nella terra dei Franchi, a Reims, per cingere della corona di imperatore il capo di Ludovico il Pio, che già era stato associato dal padre al governo; ora la cerimonia avveniva a Roma, a espressione e suggello della maggiore capacità di iniziativa del papa. Nei giorni seguenti, P. cercò di approfittare della presenza di Lotario a Roma per affermare i diritti della propria Chiesa nei confronti dell'abbazia di Farfa, che vantava la protezione imperiale. Dell'avvenimento informa un diploma indirizzato dallo stesso Lotario al monastero nell'840: un atto la cui autenticità, spesso messa in dubbio, è stata avvalorata di recente dalla storiografia. Secondo il tenore del documento, Sergio, bibliotecario della Sede apostolica, rivendicò di fronte al giovane imperatore il fondamento dei diritti che la Chiesa romana vantava sul cenobio. Ingoaldo, abate farfense, ribatté che il suo ente era stato posto sotto la "tuitio" e la "defensio" dei re dei Longobardi, e che tale privilegio era stato rinnovato da Carlomagno: dunque il monastero da lui guidato doveva essere considerato libero ed esente. Non è chiaro se la vertenza sia arrivata a un vero e proprio giudizio; probabilmente il pontefice in persona rinunciò alle pretese sul cenobio. Di certo, il giovane imperatore sostenne non solo il suo diritto a giudicare all'interno del territorio di pertinenza del papato, ma pure una soluzione avversa a colui che lo aveva appena incoronato. Tuttavia la controversia non giunse a conclusione: un placito di alcuni anni dopo informa che il monastero continuò ad essere in lite con Roma e che in esso P. era ricordato come usurpatore delle prerogative dei monaci. La vicenda rivela la complessità della situazione romana, ma non può essere letta come indizio di indebolimento della posizione del pontefice rispetto sia alle forze locali sia al sovrano franco. Lo dimostra quanto avvenne di lì a poco. A Roma, dopo la partenza di Lotario, il primicerio Teodoro e il "nomenclator" Leone, suo genero, furono dapprima accecati, poi decapitati. Nella corte imperiale l'uccisione fu collegata con la fedeltà delle due vittime a Lotario e si sospettò che ispiratore dell'omicidio fosse stato proprio il papa. Per chiarire l'accaduto Ludovico il Pio decise di inviare a Roma Adalongo, abate del monastero di St. Vaast, e il conte Hunfrid di Chur. Invano P. cercò di impedire la missione: appositamente due suoi legati, Giovanni, vescovo di Silva Candida, e Benedetto, arcidiacono della Sede apostolica, si recarono presso il sovrano in Germania. Quando gli ambasciatori dell'imperatore giunsero a Roma, il papa operò con decisione. Per evitare di essere in qualche modo coinvolto in un'inchiesta, alla presenza di numerosi vescovi giurò di essere estraneo ai fatti. Quindi prese le difese degli uccisori, appartenenti alla "familia" di S. Pietro, sostenendo che di diritto avevano ucciso coloro che si erano macchiati del crimine di lesa maestà: contro questi emise la sua sentenza. In tal modo stornò ogni sospetto da sé, protesse individui a lui fedeli e, nel contempo, ribadì la propria competenza giurisdizionale sui territori che la dinastia franca aveva riconosciuto alla Chiesa di Roma. In seguito, per informare Ludovico della sua azione, fece accompagnare gli emissari imperiali nel loro viaggio di ritorno da propri ambasciatori: il già menzionato vescovo di Silva Candida, il bibliotecario Sergio, il suddiacono Quirino e Leone, "magister militum". La spiegazione che costoro fornirono dovette apparire esaustiva all'imperatore, che li congedò: ancora una volta la convergenza tra il papa e la corte imperiale prevaleva sulle ragioni di scontro, consentendo al primo di controllare una situazione romana turbata da contrapposizioni acuite - si può pensare - dalla recente presenza di Lotario. Poco dopo il ritorno degli ambasciatori a Roma, in un periodo tra il febbraio e il maggio 824, P. morì. Il popolo romano impedì lo svolgimento dei funerali nella chiesa di S. Pietro fino a quando non fu eletto il successore Eugenio II: segno, questo, delle persistenti tensioni all'interno della città. Secondo il racconto del Liber pontificalis, P. fu sepolto in S. Pietro, in uno dei due oratori fatti costruire dal pontefice nella basilica; la notizia sembra confermata da quanto riferito da Tegano nella Vita di Ludovico. P. e Ludovico il Pio non manifestarono la loro capacità di collaborazione solo quando era messo alla prova l'equilibrio del loro rapporto. Almeno in una circostanza essi agirono concordemente in un ambito del governo della Cristianità che, pur non privo di implicazioni politiche, aveva uno spiccato carattere religioso: lo sforzo per portare il messaggio del Vangelo al di là dei confini dell'Impero. Nell'822 il pontefice appoggiò l'arcivescovo di Reims, Ebbone, nella missione per la conversione delle popolazioni della Danimarca. L'opera di evangelizzazione era di particolare importanza in quanto si volgeva verso regioni mai prima toccate. Essa inoltre era promossa da un prelato che, di umili origini, aveva percorso una brillante carriera nel costante collegamento con Ludovico il Pio: attraverso l'azione dell'ecclesiastico si esprimevano gli sforzi di quest'ultimo per la diffusione della fede. A Ebbone il papa affiancò il "religioso ministro" Halitgar, vescovo di Cambrai. I primi esiti dello sforzo si sarebbero visti dopo non molti anni: nell'826 uno dei pretendenti al trono di Danimarca, Harald, fu battezzato a Reims, in una cerimonia di grande risonanza. L'impegno di natura più propriamente religiosa di P. pare essersi realizzato soprattutto in Roma, nella costruzione e nel restauro di chiese. Il Liber pontificalis sottolinea con grande forza tale aspetto: più ancora che la sollecitudine per i pellegrini, era la cura degli edifici sacri ad assorbire l'energia del papa. Alla volontà di P. è attribuita l'edificazione, tra gli altri, di due oratori in S. Pietro, rispettivamente per i martiri Sisto e Fabiano, situato all'interno della basilica presso l'ambone e decorato con mosaici, e per i martiri Processo e Martiniano, presso l'ingresso che conduceva alla chiesa di S. Petronilla - all'estremità meridionale del transetto - parimenti dotato di una decorazione musiva. P. si occupò anche della rifondazione del cenobio di Sergio e Bacco, in prossimità del Palazzo Lateranense ("post formam aquaeductus patriarchii Lateranensis positum"), avendolo trovato in stato di abbandono. Di particolare rilievo fu la costruzione di un luogo di culto che sostituì il più antico "titulus Praxedis" attestato dalla fine del V secolo (per la menzione più antica v. Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, VII, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, In Civitate Vaticana 1980, nr. 19991, pp. 427 s.). La basilica di P., a tre navate, era preceduta da un cortile; sul lato orientale si apriva la cappella di S. Zenone, tomba di Teodora, madre del pontefice. Il rinnovo dei luoghi di culto in Roma si intrecciò con almeno altri due generi di iniziative. Da una parte, P. avviò il recupero e la traslazione di corpi dai cimiteri alle chiese della città. Gli oggetti del culto, le reliquie dei martiri, lasciano definitivamente il loro contesto originario per essere trasferiti negli edifici sacri urbani o in quelli dell'Europa cristianizzata. Sigillo definitivo della fine di una devozione secolare presso i santuari suburbani può considerarsi l'iscrizione fatta apporre da P. nella chiesa di S. Prassede: in essa si ricorda la traslazione di duemilatrecento corpi di "martiri" dalle cripte delle catacombe alla chiesa urbana dell'Esquilino (Le Liber pontificalis, p. 64; Monumenta epigraphica christiana saeculo XIII antiquiora quae in Italiae finibus adhuc extant, a cura di A. Silvagni, I, Roma, Città del Vaticano 1943, tav. XXIX, 1). In almeno due casi tale attività si legò a un progetto di fondazione o potenziamento della vita religiosa: il papa istituì una comunità accanto alla chiesa di S. Cecilia, da lui riedificata in luogo del titulus paleocristiano - situato probabilmente non lontano dalla basilica, alle falde dei colli gianicolensi ("in loco qui dicitur colles iacentes"), intitolato alle ss. Agata e Cecilia - e diede vita, presso la chiesa di S. Prassede, a un cenobio con monaci appartenenti a una congregazione greca, intitolato alla stessa Prassede, inserendovi un oratorio dedicato a s. Agnese. D'altra parte, a P. si deve la committenza di numerosi mosaici, realizzati secondo forme che richiamano l'epoca tardo-antica: si tratta di un riferimento non solo tecnico, ma anche culturale da parte di un pontefice che verosimilmente disponeva di una solida conoscenza dell'antichità cristiana. A S. Prassede riprese i temi decorativi presenti nella basilica dei SS. Cosma e Damiano sia nell'abside (Cristo che cammina sulle nuvole), sia nell'arco absidale (l'Agnello in trono e i seniori offerenti corone). La figurazione absidale è ripetuta a S. Cecilia, dove nell'arco trionfale è rappresentata una Madonna in trono col bambino verso la quale si recano sante e seniori offerenti corone. A S. Maria in Domnica, nel catino absidale è proposta la scena di Maria in trono fra due schiere di angeli, mentre nell'arco trionfale è raffigurato Cristo tra gli apostoli. I temi dunque si ripetono nei mosaici commissionati da P., ritenuti opera di una scuola locale; l'unica elaborazione originale sembra presente nell'arco trionfale di S. Prassede, ai cui estremi sono le immagini di folle di beati, alludenti forse alle schiere di beati della Vecchia e della Nuova Legge: un richiamo, con ogni probabilità, alle imponenti traslazioni operate dal pontefice nella basilica urbana. Nei mosaici di S. Prassede, S. Maria in Domnica e S. Cecilia il pontefice stesso si fece raffigurare, a dimostrazione di una volontà di presenza forte in Roma. Nelle rappresentazioni di S. Prassede, poi, domina la figura di Cristo, trattata in modi che sembrano finalizzati a esaltare il suo rappresentante sulla terra di fronte ad ogni altra autorità. Le decorazioni musive commissionate da P. erano corredate dalla sua "firma", sia sotto forma di monogramma, sia più esplicitamente contenuta nelle iscrizioni dedicatorie. In queste ultime è messa in risalto l'opera edilizia del pontefice, che rinnovò complessi monumentali vetusti e inagibili, e soprattutto è sottolineato lo splendore apportato alle nuove costruzioni dai rivestimenti musivi. A S. Prassede e a S. Cecilia è esplicito il riferimento alle spoglie dei martiri, poste sotto la protezione delle nuove mura. La memoria liturgica di P. si celebra l'11 febbraio.
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