PIETRO Parenzo, santo
PIETRO Parenzo, santo. – Breve fu l’esistenza di Pietro, esponente della famiglia romana dei Parenzi, morto in giovane età per mano di un gruppo di catari orvietani nel 1199.
Dalla principale fonte disponibile sulla sua vita (la Passio beati Petri Parentii del canonico orvietano Giovanni, cfr. infra) si apprendono laconiche notizie sulla famiglia. Pietro nacque (con altri vari fratelli) da una Oddolina di casato ignoto, e da un padre pure sconosciuto ma che potrebbe essere identificato in Giovanni de Parentio, membro del collegio senatoriale capitolino nel 1157. Anche il nome della moglie è ignoto. In definitiva le notizie su di lui si concentrano sulle vicende del rettorato orvietano, al quale fu eletto nel 1199.
La dottrina catara poté diffondersi, nel clima di conflittualità presente nel nascente Stato papale tra XII e XIII secolo (tra papato, impero e Comuni cittadini), in un certo numero di centri urbani. In particolare ciò si verificò – anche grazie all’attività di alcuni abili predicatori – a Orvieto, durante l’episcopato di Rustico (1168-76), al quale si opponeva un antivescovo sostenuto dall’imperatore Federico I. Nel giro di un paio di decenni i catari orvietani riuscirono ad affermarsi nel gioco politico cittadino, approfittando della crisi dei rapporti tra il Comune umbro e il pontefice Innocenzo III, che si contendevano il castello di Acquapendente. Per tale motivo il pontefice subito dopo la sua elezione (1198) comminò l’interdetto sulla città e sui suoi abitanti e trattenne presso la Curia papale il presule orvietano per nove mesi. Ciò permise ai catari di godere di una maggiore libertà d’azione, e anche di predicare pubblicamente, suscitando la reazione di una parte della cittadinanza e del clero, che inviarono una delegazione a Roma per arrivare a un accomodamento con il papa e favorire il rientro del vescovo. Risolta dapprima la questione di Acquapendente, e cancellato l’interdetto, Innocenzo III con abilità convinse gli orvietani a richiedere al Comune di Roma la nomina e l’invio di un rettore romano a lui pienamente gradito, ottenendo in tal modo lo scopo di porre a capo della città un magistrato di sua fiducia, senza che ciò si configurasse come l’imposizione di un governatore di nomina papale.
Come rettore di Orvieto venne scelto Pietro, il quale doveva offrire garanzie di fermezza e capacità d’azione atte a riportare alla normalità la vita cittadina orvietana. Il nuovo podestà assunse la carica di rettore di Orvieto nel febbraio del 1199, e si mostrò subito estremamente intransigente e risoluto.
Per temperare le discordie cittadine arrivò a proibire i tradizionali ludi carnevaleschi, onde evitare che il loro consueto degenerare potesse divenire occasione di scontri di parte. Il provvedimento tuttavia risultò alquanto impopolare, suscitando un’aperta reazione che si tradusse in violenti scontri armati. Stando al testo della Passio, stesa da un testimone oculare, non solo Pietro stesso non si sottrasse alla mischia, ma decretò nei giorni seguenti severissime misure punitive, facendo abbattere torri e palazzi di varie famiglie dell’aristocrazia cavalleresca orvietana, ritenute responsabili di aver fomentato la sedizione.
Le varie fazioni infatti, divise anche da motivi religiosi, coglievano a pretesto ogni occasione per scontrarsi al fine di sopraffarsi nel gioco del potere politico cittadino. Forte del sostegno del rettore, il vescovo di Orvieto, rientrato in sede, intraprese una decisa azione volta a estirpare l’eresia dalla città, procedendo a inchieste per individuare gli adepti al catarismo e convincerli a ritornare in seno al cattolicesimo o condannarli.
Pietro a sua volta senza indugio approfittò della situazione per punire con pene durissime (anche corporali) e sanzioni (demolizione di edifici, requisizione di beni) coloro che erano stati individuati a torto o a ragione come eretici o fautori. Somme di denaro e pegni furono incamerati direttamente da Pietro, forse addirittura a titolo personale; nei pochi mesi del suo ufficio si arricchì considerevolmente e acquisì nei confronti di vari orvietani molti crediti, di origine tutt’altro che chiara.
Per informare Innocenzo III e stabilire con lui una strategia di azione, e per poter così fronteggiare malcontento e minacce, Pietro si recò a Roma il 18 aprile 1199, in occasione della festività pasquale (18 aprile). Ottenne dal papa una rinnovata fiducia e una indulgenza plenaria nel caso fosse morto per mano degli eretici, ma commise l’errore di ritardare il rientro a Orvieto sino al 1° maggio, lasciando così ai suoi oppositori orvietani (fautori del catarismo e avversari politici) un congruo margine di tempo per riorganizzarsi e predisporre la sua cattura.
Il 20 maggio i congiurati penetrarono nella residenza di Pietro e lo rapirono; per avere salva la vita, egli avrebbe dovuto restituire denaro e pegni requisiti, rinunciare alla rettoria e cessare di perseguire gli eretici. Secondo il testo della Passio solo sulla prima delle richieste Pietro si mostrò disposto a cedere, restando irremovibile sulle altre questioni, scatenando in tal modo la violenta reazione dei suoi sequestratori che lo uccisero.
La notizia della morte di Pietro si diffuse rapidamente e le reazioni furono molteplici e anche violente, in una commistione di zelo religioso e interessi politici. La percezione dell’essenza martiriale della morte di Pietro per mano di eretici non sfuggì certo ai più ferventi cattolici orvietani che in primo luogo provvidero alla solenne traslazione della salma dalla periferica chiesa di S. Andrea alla cattedrale. Fu così compiuta quella elevatio corporis che di fatto costituiva il primo atto verso la canonizzazione di Pietro e l’avvio del suo culto, che localmente si diffuse rapidamente, anche per l’attribuzione al defunto Pietro di vari miracoli.
Nonostante l’estendersi della sua venerazione in Umbria e in Toscana, e vari tentativi di ottenerne la canonizzazione, il suo culto fu tuttavia approvato ufficialmente dalla S. Sede soltanto nel 1879, quando fu stabilita la celebrazione liturgica al 21 maggio.
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