SIRICIO, santo
Nacque a Roma; il padre si chiamava Tiburzio. S. successe a Damaso poco dopo la morte di questi avvenuta l'11 dicembre 384, e il suo pontificato durò quindici anni. Fonte importante della sua biografia è l'epitaffio per la sua sepoltura, che permette di aggiungere qualche notizia relativa agli anni precedenti il pontificato: "Liberium lector mox et levita secutus, / post Damasum, clarus totos quos vixit annos, / fonte sacro magnus meruit sedere sacerdos, / cunctus ut populus pacem tunc soli clamaret. / Hic pius, hic iustus felicia tempora fecit; / defensor magnus, multos ut nobiles ausus / regi subtraheret ecclesiae aula defendens; / misericors, largus, meruit per saecula nomen. / Ter quinos populum qui rexit in annos amore. / Nunc requiem sentit, caelestia regna potitus" (Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, a cura di G.B. de Rossi, II, Romae 1888, p. 102). Da questo testo si apprende che S. era stato lettore e diacono sotto il pontificato di Liberio. Il quarto verso dell'epitaffio, con il riferimento al desiderio di pace da parte della popolazione di Roma, sembra alludere a riflussi di turbamenti, al momento della vacanza dopo la morte di Damaso, da parte dei seguaci di Ursino. Questi, dopo la morte di papa Liberio, era stato eletto da un gruppo di presbiteri e diaconi, mentre altri avevano eletto Damaso. Lo scisma si era consumato tra lotte sanguinose delle opposte fazioni, a cui aveva posto fine l'intervento delle forze pubbliche e l'esilio di Ursino e dei suoi seguaci. Durante il pontificato di Damaso, tuttavia, il problema degli ursiniani era riemerso a più riprese e non era del tutto sopito al momento dell'elezione di Siricio. Dello svolgimento dei fatti in questa occasione è conservato il rapporto del prefetto della città, il cristiano Piniano, a Valentiniano II e la risposta dell'imperatore (Collectio Avellana 4, a cura di O. Guenther, Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1895 [Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 35, 1], p. 47); da tali documenti si ricava che l'elezione del nuovo papa avvenne all'unanimità ma che in realtà vi fu un certo movimento a favore di Ursino, ma di scarsa entità dal momento che non fu necessario l'intervento del prefetto. Un'espressione di Girolamo ("Omnium paene iudicio dignus summo sacerdotio decernebar", ep. 45, 3) lascia intendere che egli considerava auspicata da molti una propria candidatura; ma tali parole sono l'unico riferimento a una tale eventualità. Egli presto lasciò Roma per il suo ritiro a Betlemme e non si ha testimonianza di alcun suo successivo rapporto con Siricio. Più tardi, tra il 397 e il 398, quando si consumò la rottura tra Girolamo e Rufino e questi rientrò in Italia dalla Palestina, S. evitò di entrare nella disputa che divideva i due personaggi e gli ambienti ascetici romani: la controversia origenista esplose negli anni seguenti, sotto il pontificato di Anastasio. Nel dicembre del 384, Imerio vescovo di Tarragona si era rivolto a papa Damaso, ignorandone la morte. La lettera del vescovo spagnolo non è conservata; la risposta, da parte del nuovo papa, è datata 2 febbraio 385 ed è un documento importante per il carattere ad esso conferito da S., di disposizioni da applicare in tutte le Chiese. Questa lettera infatti è entrata a far parte delle raccolte canoniche, e viene considerata del genere delle decretali, intendendo con tale termine le lettere papali con valore di normativa per la Chiesa universale o per le Chiese di vasti territori. La lettera a Imerio (P.L., XIII, coll. 1131-47) espone direttive su quindici argomenti di carattere disciplinare: la reiterazione del battesimo agli eretici; i giorni in cui amministrare il battesimo; la separazione degli apostati; la disciplina del matrimonio; la riconciliazione dei penitenti; i provvedimenti nei riguardi di monaci e monache inosservanti; le regole da osservare riguardo alla continenza dei chierici; le norme per l'ammissione agli ordini sacri; l'età per l'ammissione al sacerdozio; l'ordinazione di uomini di età avanzata; il divieto delle seconde nozze per i chierici; le norme per l'abitazione di donne in casa dei chierici; l'ordinazione di monaci; la non sottomissione dei chierici alla disciplina penitenziale; le situazioni che precludono l'ordinazione. Le questioni affrontate nella risposta del papa al vescovo di Tarragona lasciano intravedere difficoltà più o meno recenti nelle Chiese della penisola iberica. Alcuni problemi possono essere posti in relazione a pratiche dei circoli legati a Priscilliano, all'indomani della fine cruenta del deposto vescovo di Avila (384 o 385): a tali ambienti possono riferirsi in particolare le disposizioni che riguardano la disciplina della vita monastica e alcune specifiche norme per la vita dei chierici; ma per altre preoccupazioni presumibilmente esposte dal vescovo spagnolo bisogna risalire a questioni riconducibili a eresie precedenti. La prima risposta di S. riguarda il problema se la riammissione degli eretici di matrice ariana debba avvenire mediante la reiterazione del battesimo, ed è decisamente negativa sulla base di Efesini 4, 5 e dei canoni del concilio di Nicea. È stato supposto che in Spagna l'intransigenza a tale riguardo potesse essere rappresentata da gruppi oltranzisti antiariani (Gregorio di Elvira morì dopo il 392). L'intransigenza riguardo alla riammissione, mediante la penitenza, di apostati e peccatori di fornicazione, va ricondotta ad ambienti in cui persisteva il rigorismo dei discepoli di Novaziano, probabilmente rinfocolato dall'intransigenza, anche riguardo alla penitenza, di Lucifero di Cagliari e di Gregorio di Elvira. Di tali ambienti fornisce attestazione Paciano di Barcellona intorno al 377 (ep. 3, Contra Tractatus Novatianorum, in P.L., XIII, coll. 1063-82). Più in generale, le preoccupazioni del vescovo Imerio dimostravano la difficoltà a trovare una linea unitaria da parte dei vescovi iberici nei riguardi della disciplina penitenziale, nel regolare la vita monastica e dei chierici, nel porre ordine nella liturgia. Il medesimo ambiente era quello da cui erano emerse le aspirazioni, da parte di Priscilliano, di porsi come restauratore e riformatore, e probabilmente la sua fine aveva rinfocolato le polemiche accentuando la confusione tanto da spingere Imerio a rivolgersi a Roma. La risposta di S., oltre a richiamare il canone 8 del concilio di Nicea, si rifà alle disposizioni di papa Liberio ed espone la disciplina romana che, sin dai tempi di papa Stefano, praticava la riammissione degli eretici e degli scismatici non reiterando il battesimo, ma per mezzo dell'assoluzione mediante l'imposizione delle mani (cfr. ep. 1, 2, ibid., col. 1133B). Anche riguardo a coloro che rinnegano la fede (apostati) e tornano agli idoli, l'indicazione di S. è conforme alla prassi romana: essi vanno sì separati dal corpo ecclesiale (concilio di Elvira, canone 1), ma se si pentono devono rimanere nella condizione di penitenti durante tutto il tempo della loro vita, per essere riconciliati alla fine della vita perché il Signore non vuole la morte del peccatore ma la sua conversione (cfr. Ezechiele 18, 23; ep. 1, 3, in P.L., XIII, col. 1136A). È da notare che la citazione del profeta Ezechiele era divenuta tradizionale a Roma nelle argomentazioni contro l'intransigenza dei novaziani. Molta importanza è attribuita da S. ai tempi in cui amministrare il battesimo, che vengono fissati, secondo la tradizione più antica, a Pasqua e a Pentecoste considerando invece grave disordine e confusione la scelta di altri giorni, quali il Natale, l'Epifania o varie feste di martiri. A tale proposito S. richiama con forza l'autorità della sede petrina "sulla quale Cristo costruì la Chiesa universale" (ep. 1, 2, in P.L., XIII, coll. 1155B-56A). La prassi suggerita da S. è tuttavia molto severa nei confronti di coloro che, sottoposti a penitenza per gravi peccati, incorrono nuovamente negli stessi, "tam canes et sues ad vomitus pristinos". Questi peccatori recidivi dovranno rimanere nella condizione di penitenti per tutta la vita e solo in punto di morte potranno ricevere il viatico (ep. 1, 5, ibid., col. 1137B). Altrettanto severa è la normativa per monaci e monache che vengono meno ai loro obblighi: S. ricorda che anche le leggi dello Stato li condannano, alludendo forse alla disposizione del codice teodosiano contro il matrimonio delle vergini consacrate (Codex Theodosianus IX, 25, 2), e prescrive la reclusione a vita nelle loro celle, concedendo la comunione solo in punto di morte (ep. 1, 6, in P.L., XIII, col. 1137C). Particolarmente ampia è la trattazione sull'obbligo della continenza per i chierici (ep. 1, 7, ibid., coll. 1138A-41A) che si pone in continuità con la linea damasiana e sembra inoltre riflettere dibattiti romani dell'epoca, in cui da parte di chi si opponeva a quest'obbligo si faceva ricorso all'esempio dei patriarchi veterotestamentari. La disciplina enunciata da S. prevede che, solo in caso di infrazione della regola a causa di ignoranza, coloro che hanno mancato possono rimanere nel loro stato, ma non sarà loro concesso di avanzare negli ordini e nei relativi privilegi; chi incorrerà in abusi non osservando questa limitazione sarà espulso senza mezzi termini. A partire da queste disposizioni, la lettera di S. sembra cogliere l'occasione per stabilire una normativa organica riguardo al conferimento degli ordini (ep. 1, 8-10, ibid., coll. 1141-43): non possono essere ordinati presbiteri o diaconi coloro che hanno contratto matrimonio più di una volta; l'aspirante chierico che sia sposato una sola volta e con una donna al suo primo matrimonio, fino all'età di trent'anni può divenire solo accolito e suddiacono; se accetta dall'inizio la norma della continenza, può essere ordinato presbitero dopo cinque anni e vescovo dopo dieci. Per chi aspira agli ordini in età alquanto tardiva, dovranno essere trascorsi due anni dal battesimo per iniziare il percorso clericale con le funzioni di lettore o di esorcista; in seguito dovranno trascorrere cinque anni per accedere all'ordine degli accoliti e dei suddiaconi e quindi, se giudicato degno, al diaconato. Se col passare del tempo apparirà integerrimo al clero e al popolo, potrà essere ordinato presbitero e vescovo (ep. 1, 10, ibid., coll. 1143A-B). Di seguito la lettera enuncia: un ulteriore divieto per le seconde nozze dei chierici e per coabitazioni di donne nelle case dei chierici, se non in casi di necessità (ep. 1, 11-12, ibid., col. 1144A); indicazioni sull'accesso agli ordini sacri da parte dei monaci; il divieto di accettare i penitenti nel clero e di sottoporre i chierici alla penitenza (ep. 1, 13-14, ibid., coll. 1144-45). L'epilogo è di grande solennità: ricapitola i punti essenziali degli impedimenti all'accesso al sacerdozio e ne estende l'obbligo dell'osservanza ai vescovi di tutte le province: coloro che procederanno in modo contrario "ai canoni e agli interdetti" prospettati nella lettera dovranno attendersi una congrua sentenza da parte della Sede apostolica (ep. 1, 15, ibid., coll. 1145B-46A). A Imerio viene affidato l'incarico di informare la sua diocesi e i vescovi limitrofi, e inoltre quelli delle province cartaginese, betica, lusitana, galiziana (ibid., coll. 1146A-B). La lettera si chiude con un sigillo di autorità: "quatenus et quae a nobis non inconsulte, sed provide sub nimia cautela et deliberatione sunt salubriter constituta, intemerata permaneant, et omnibus in posterum excusationibus aditus, qui iam nulli apud nos patere poterit, obstruatur" (ibid., coll. 1146B-47A). È stato osservato come la composizione, lo stile e la terminologia della lettera a Imerio sostengano il livello di autorità che essa intende esprimere: il proemio non è dissimile nell'impianto da quello di un rescritto imperiale; ogni questione viene rapportata alla necessità di una normativa e riceve un giudizio e una sentenza; alla fine vengono proclamate, come in un editto, le formule di promulgazione e di applicazione. Tutto però è posto sotto il principio di autorità dichiarato all'inizio: il successore di Pietro porta il carico di tutti coloro che hanno problemi ("portamus onera omnium qui gravantur"), anzi è lo stesso apostolo Pietro che, nella persona del suo successore, protegge e difende la sua eredità (ep. 1, proemio, ibid., col. 1133A). Il documento si impose anche per la sua sapiente composizione: costituiva un agile e comodo compendio di norme e come tale entrò in gran numero di collezioni canoniche, a cominciare dalla più antica raccolta romana, la Prisca, che lo pone dopo i decreti di Nicea (cfr. F. Maassen, Geschichte der Quellen, p. 528). Un altro importante documento di S., di carattere normativo, è l'epistola 5 (in Concilia Africae a. 345-a. 525, a cura di Ch. Munier, Turnholti 1974 [Corpus Christianorum, Series Latina, 149], pp. 59-63; P.L., XIII, coll. 1156-62). La lettera è conservata nelle raccolte africane, tra gli atti del concilio tenuto a Telepta il 24 febbraio 418, dove fu letta dai legati della sede di Cartagine (cfr. Concilia Africae, p. 54). Ma alla sua origine la lettera è principalmente diretta alle Chiese d'Italia e fa riferimento a un sinodo riunitosi a Roma il 6 gennaio 386. S. dice nella lettera che l'assemblea era composta di ben ottanta vescovi, e sottolinea l'importanza dell'evento che venne celebrato solennemente in S. Pietro. Le difficoltà del momento storico spiegano il significato di questo sinodo. A Milano, l'imperatrice Giustina, madre di Valentiniano II, appoggiava il riemergere di alcuni fermenti ariani; Ambrogio opponeva la sua resistenza, coinvolgendo la popolazione: è della primavera 385 l'occupazione della basilica Porziana. L'episcopato italiano si poneva certamente interrogativi riguardo alla piega che avrebbe preso la politica religiosa imperiale. Alcuni giorni dopo il sinodo romano, il 23 gennaio 386, venne promulgata una legge favorevole a coloro che si rifacevano alla professione di fede omea (il Figlio è solo simile al Padre) di Rimini (360); nei mesi precedenti si era venuto a sapere della preparazione di questa legge e le preoccupazioni si erano accentuate. In tale contesto è da collocare il sinodo di Roma, delle cui disposizioni l'epistola 5 di S. costituisce la promulgazione. La normativa è di carattere disciplinare ed è preceduta da un solenne proemio in cui il papa ne sottolinea l'importanza per l'unità della Chiesa che, sulla base di Efesini 5, 27, deve essere "senza macchia né ruga" e porsi in fedele continuità con la tradizione (cfr. 2 Tessalonicesi 2, 15). La normativa è espressa poi in otto formule stringate riguardanti le ordinazioni dei vescovi e dei chierici, cui fa seguito una parte più ampia e articolata sulla continenza dei membri del clero. Due sono i principi che reggono questa scarna sintesi di norme che mira alla compattezza dell'organizzazione gerarchica della Chiesa: l'uno afferma il principio di autorità secondo cui nessun vescovo deve essere ordinato all'insaputa del papa ("Primum, ut extra conscientiam sedis apostolicae, nemo audeat ordinare": P.L., XIII, col. 1157A); l'altro esprime la convinzione che una disciplina saldamente organizzata e osservata è garanzia contro l'emergere di eresie e scismi. L'enunciazione di questo fondamento, espresso nella conclusione della lettera, assume i toni della parenesi: "Se queste cose, fratelli, saranno osservate da tutti con piena vigilanza, avrà fine l'ambizione, si placherà la discordia, non emergeranno eresie e scismi, il demonio non avrà spazio per le sue trame, persisterà la concordia, sarà superata e calpestata l'iniquità, la carità sarà infiammata di fervore spirituale, la pace predicata con le labbra concorderà con la volontà. Dovunque sarà la pace del nostro Dio, che a noi è stato comandato di conservare dal Salvatore in persona, prima della sua passione" (cfr. Giovanni 14, 27; ep. 5, 4, in P.L., XIII, col. 1161B). La lettera successiva (ep. 6, in P.L., XIII, coll. 1164-66), conservata solo nelle raccolte ispaniche, è probabilmente un'espressione diversificata delle norme del sinodo del 386, ed è destinata ai vescovi delle province italiane. Si apre con una formula lapidaria che giustifica l'intervento del papa: "Siricio ecclesiarum omnium cura", ed è strutturata in modo analogo alla precedente: un lungo solenne esordio ricco di citazioni scritturistiche; il corpo della lettera in cui vengono riprese le norme riguardanti principalmente i criteri per l'ordinazione del clero; la conclusione che caratterizza la natura del documento come un monito, ed esorta alla concordia e all'unione nella tradizione; una breve professione di fede trinitaria conclude l'esortazione. L'elemento peculiare della normativa espressa in questo documento è l'insistenza sulla prescrizione che non si proceda all'ordinazione di neofiti o laici, cioè di persone che non si siano prima dedicate per un certo tempo al servizio della Chiesa (ep. 6, 5, 3, ibid., col. 1166A). È da osservare che, se il papa rivendicava a sé perlomeno la conoscenza previa delle nomine episcopali, in quegli anni sulla fisionomia dell'episcopato in molte regioni influì ampiamente il prestigio di Ambrogio di Milano. Furono legati in diversi modi ad Ambrogio, Vigilio di Trento, Felice di Como, Gaudenzio di Brescia, Profuturo di Pavia; numerose Chiese, da Aquileia fino a Bologna, e verso Occidente fino alle province alpine, richiesero il supporto o l'intervento del vescovo di Milano o ricevettero personaggi che lo rappresentavano. All'avvento di S. al pontificato, alla fine del 384, la Gallia era sottoposta da alcuni mesi all'uccisore dell'imperatore Graziano, Massimo, che aveva posto la capitale a Treviri e che, nei primi anni del suo impero, intese porsi come difensore dell'ortodossia con il processo a Priscilliano, seguito dalla condanna e dall'esecuzione del vescovo spagnolo. Questi fatti furono accompagnati e seguiti da giudizi e persecuzioni nei confronti dei priscillianisti, che ebbero luogo sia da parte di vescovi che da parte di funzionari imperiali, senza segni di rapporti con Roma. Tra la fine del 386 e l'inizio del 387, tuttavia, in data non lontana dall'esecuzione di Priscilliano, si può dedurre che il papa scrisse all'imperatore, dal momento che si conserva la risposta di quest'ultimo (Collectio Avellana, pp. 90-1; P.L., XIII, coll. 591-92), che insiste sulla regolarità del processo a Priscilliano, cerca di delegare ai vescovi la soluzione del caso di una ordinazione irregolare e, in linea generale, si pone come difensore degli interessi della Chiesa. L'esatto tenore della lettera del papa non può essere desunto; essa va tuttavia registrata come un intervento che chiede conto di una così autonoma gestione di affari ecclesiastici. Negli anni successivi fu ancora il prestigio di Ambrogio di Milano a indirizzare le Chiese della Gallia prima e dopo la fine di Massimo nel 388. L'influsso del vescovo di Milano si estese fino a Grenoble, Marsiglia, Orange, Lione: i vescovi di queste ultime tre Chiese, Procolo, Costanzo e Giusto, avevano partecipato al concilio di Aquileia del 381; Costanzo di Orange fu presente anche al concilio di Milano del 391; Procolo di Marsiglia a quello di Torino. Quest'ultimo concilio fu convocato nel 398 da Simpliciano, successore di Ambrogio, su richiesta dell'episcopato della Gallia, e affrontò diverse situazioni di contrasto tra quei vescovi non ancora solidamente stabiliti in una organizzazione metropolitana; inoltre, richiamandosi alle prese di posizione di Ambrogio a proposito del procedimento contro Priscilliano (cfr. Ambrogio, ep. 24, 12), il concilio di Torino scomunicò Felice, il vescovo di Treviri che aveva fiancheggiato l'imperatore Massimo nella vicenda. Il canone 6 del concilio di Torino (Concilia Africae, pp. 54-60) fa anche riferimento a uno scritto di S. che avrebbe pronunciato la scomunica per Felice. All'epoca di S., la situazione amministrativa dell'Illirico, soprattutto quella delle diocesi della Macedonia e della Dacia, oscillava tra la dipendenza da Milano e quella da Costantinopoli. Nel 387, probabilmente, l'Illirico costituiva una prefettura distinta dall'Occidente e legata all'Oriente; nel 386 invece, apparteneva alla prefettura d'Italia. Queste oscillazioni sono legate alle vicende politiche occidentali di quegli anni, ma anche nei momenti di prevalenza dell'influsso orientale il contatto dell'Occidente con l'Illirico non venne mai meno: nel 387, Valentiniano II, dopo la discesa di Massimo in Italia, si stabilì a Tessalonica. Quando Teodosio, l'anno successivo, vinto Massimo riunificò l'Impero, la questione della suddivisione delle diocesi divenne meno importante. Alla sua morte, nel 395, le diocesi di Dacia e Macedonia restarono praticamente sotto l'influsso dell'Oriente, ma l'Occidente non rinunciò a far valere i suoi diritti: Stilicone, nello stesso anno, invase la Pannonia e la Dalmazia, successivamente la Macedonia e la Tessaglia, e minacciò la Tracia. Ma furono vittorie che ben presto cedettero il passo alle trattative con l'Oriente che riottenne il controllo sull'Illirico orientale. Durante questi anni, il vescovo di Roma non ebbe la possibilità di sviluppare da parte sua la politica iniziata dal predecessore Damaso nei confronti di quelle regioni. È conservata una breve lettera di S. al vescovo Anicio di Tessalonica (ep. 4, in P.L., XIII, coll. 1148-49), la quale parla di un'altra lettera inviata precedentemente e che non ha avuto risposta. S. mostra di essere stato informato di non pochi contrasti tra i vescovi di quella regione riguardo alle ordinazioni di nuovi vescovi, e indica la prassi secondo cui al vescovo di Tessalonica è affidato il compito della decisione ultima su ciascun candidato all'episcopato. Questa lettera deve essere stata scritta dopo il 386, dal momento che in quell'anno S., facendo riferimento alla celebrazione del sinodo romano, aveva promulgato e diffuso le disposizioni riguardo alle ordinazioni (cfr. epp. 5-6, sopra esaminate): le preoccupazioni per l'Illirico sembrano aver sollecitato un reiterato intervento. La lettera ad Anicio non è indicativa del conferimento di quello che sarà più tardi il vicariato del vescovo di Tessalonica, quanto piuttosto è nello spirito espresso nella lettera 5, sopra esaminata, dove, come prima affermazione di principio, viene indicato il criterio che deve guidare le ordinazioni episcopali, e cioè che nessuno osi procedere a un'ordinazione "extra conscientiam sedis apostolicae" (ep. 5, 2, 1, in Concilia Africae, p. 61; P.L., XIII, col. 1157A). La lettera di S. al vescovo di Tessalonica rappresenta comunque l'affermazione di una nuova autorità ecclesiastica in Macedonia, e più tardi sarà evocata da Leone Magno (ep. 6, 2, in P.L., LIV, col. 617) come un precedente del vicariato apostolico. Da parte del vescovo di Tessalonica non si conosce risposta. Alcuni eventi, qualche anno dopo la lettera di S., mostrano come in quel lasso di tempo sia piuttosto Ambrogio il vescovo a cui dall'Illirico si fa ricorso per richiesta di sostegno e di consiglio. Del caso di Bonoso, vescovo di Serdica, si è principalmente informati da un'altra lettera conservata sotto il nome di S., diretta ad Anicio di Tessalonica e agli altri vescovi dell'Illirico (ep. 9, ibid., XIII, coll. 1176-78). Ma la lettera figura come epistola 56/a dell'epistolario di Ambrogio, ed è da attribuire al vescovo di Milano. Bonoso era stato accusato di negare la verginità perpetua di Maria, forse in relazione a una cristologia di stampo adozionista. Tra la fine del 391 e l'inizio del 392, venne convocato un sinodo, con l'assenso dell'imperatore Teodosio, a Capua, dove la dottrina di Bonoso venne condannata e dove il ruolo principale venne svolto da Ambrogio (cfr. epp. 56-56/a). Quanto al caso personale, i padri sinodali preferirono rimettere la questione ai vescovi limitrofi della diocesi di Bonoso, e cioè quelli della Macedonia, che erano stati anche i suoi accusatori e che vennero ritenuti meglio informati sulla situazione locale. In particolare, la lettera insiste sul ruolo che spetta in questo giudizio ad Anicio, il vescovo di Tessalonica, a cui viene assegnata una sorta di vicaria del sinodo ("vicem synodi recepistis": P.L., XIII, col. 1177A). Bonoso si appellò ad Ambrogio, una volta che i suoi colleghi decretarono per lui l'allontanamento dalla sua Chiesa; e anche i vescovi macedoni chiesero consiglio a Milano. La risposta fu estremamente prudente: Ambrogio da una parte ricusò la sua competenza nella questione, dall'altra invitò Bonoso all'esercizio della pazienza con l'accettazione dei provvedimenti nei suoi riguardi. Proprio questo tono della risposta, insieme ad osservazioni sullo stile, fanno inclinare ad attribuire la lettera ad Ambrogio il quale, con la prudente risposta, sembra astenersi dall'assumere un ruolo d'autorità che spettava al vescovo di Roma. L'epistola 7 di S. (ibid., coll. 1168-72) affronta il problema di Gioviniano. Diretta "ad diversos episcopos", la lettera ha lo scopo di comunicare la condanna dell'eretico, descritto a fosche tinte ("pudicitiae adversarius, luxuriae magister"), e dei suoi seguaci. La lettera è conservata nell'epistolario di Ambrogio (ep. 41/a) insieme alla risposta del vescovo di Milano (ep. 42). Essa, quindi, fu inviata a Milano e per tale destinazione S. l'affidò a tre presbiteri in essa nominati: Crescente, Leopardo e Alessandro. Dalla risposta di Ambrogio si ricava che Gioviniano si era rifugiato a Milano cercando probabilmente appoggi negli ambienti di corte. Ambrogio, nella risposta, mostra ogni genere di rispetto per il vescovo di Roma e assoluto accordo nello smascherare l'eretico che egli assimila ai manichei. La Chiesa di Roma è la depositaria e la custode del Credo apostolico; il suo giudizio viene accolto e condiviso (Ambrogio, ep. 42, 1, 14). A Milano è stato anche convocato un sinodo dei vescovi più facilmente raggiungibili: gli errori di Gioviniano sono stati accuratamente esaminati e, nella risposta a S., Ambrogio li espone con i dettagli scritturistici e dottrinali da opporvi. Tutto ciò è da collocare prima della morte di Valentiniano II, avvenuta il 15 maggio 392; fino alla sua morte, avvenuta nel 397, Ambrogio fu vigilante nei confronti dei simpatizzanti di Gioviniano, di cui si conoscono due nomi, i monaci Sarmazio e Barbaziano, attivi a Vercelli nel 396 (cfr. Ambrogio, ep. 63). Intorno al 394, papa S. venne interpellato riguardo a una delicata questione che riguardava la Chiesa di Bostra, in Siria. Il vescovo di quella città durante un'assenza era stato deposto e sostituito da Agapio, eletto e consacrato in modo alquanto irregolare. Dopo numerosi contrasti, i due avversari vennero a Roma alla ricerca del giudizio decisivo da parte del papa. Ma S. demandò la spinosa questione al patriarca di Alessandria, Teofilo. La notizia è nota dalla menzione che ne fa papa Pelagio nella sua opera Pro defensione trium capitulorum (P.L., Supplementum, IV, coll. 1313-69; cap. 2, ibid., coll. 1313-14), ed ha un certo interesse perché può essere collegata con le contemporanee vicende della Chiesa di Antiochia, anche a proposito delle quali papa S. sembra avere sostenuto il ruolo del patriarca di Alessandria (cfr. Severo di Antiochia, ep. 2, 3, in E.W. Brooks, The Sixth Book of the Select Letters of Severus Patriarch of Antioch, II, London 1969², p. 223). Tale ruolo venne riconosciuto in definitiva anche da Ambrogio (ep. 56, 2-5). Teofilo riconobbe come vescovo legittimo di Antiochia Flaviano, che era stato eletto alla morte di Melezio nel 381, nel contesto del concilio di Costantinopoli, e ciò rappresentò un avvio alla conclusione dello scisma di Antiochia. Al tempo di papa S. a Roma vennero ampiamente portati avanti i lavori per le basiliche di S. Pudenziana e di S. Clemente. Quanto alla prima, si colloca al tempo di S. la sistemazione dell'interno; sono piuttosto controverse la data d'inizio del rimaneggiamento della costruzione anteriore e quella del completamento definitivo della decorazione, che oscillano tuttavia tra il pontificato di Damaso e quello d'Innocenzo. La basilica utilizza lo spazio di una grande sala termale che venne riadattata e completata con la struttura dell'abside e dell'entrata monumentale verso est. I lavori principali per l'interno della basilica si collocano sotto il pontificato di S., tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta. Nel quindicennio successivo, a spese del presbitero Leopardo, fu portata a termine la decorazione dell'abside con il mosaico le cui rappresentazioni figurate sono le più antiche sopravvissute a Roma e presumibilmente tra le prime concepite per una chiesa di Roma. La figurazione esprime un'ecclesiologia ampiamente strutturata: al centro è raffigurato Cristo in trono, con manto in oro; ai fianchi sono gli apostoli togati come senatori romani; alle spalle di Pietro e Paolo, l'uno a destra di chi guarda, l'altro a sinistra, vi sono due figure femminili che rappresentano la "ecclesia ex circumcisione" e la "ecclesia ex gentibus" cioè i cristiani provenienti dal giudaismo e quelli d'origine pagana; lo sfondo rappresenta il grandioso scenario architettonico di un palazzo imperiale, alle cui spalle si intravede la città monumentale. Su tutto trionfa, su modulazioni ispirate al libro dell'Apocalisse, la grande croce gemmata che si staglia nel cielo dove aleggiano i simboli degli evangelisti. La basilica di S. Clemente si impianta sul primo piano di una grande "insula", e la sua abside su un edificio che ospitava un luogo di culto mitraico. Anche per questa basilica i lavori di riadattamento delle strutture anteriori cominciarono probabilmente all'epoca di Damaso. I frammenti di un'iscrizione integrata dal de Rossi fanno riferimento alla dedicazione della basilica a s. Clemente martire, voluta da un presbitero di cui non resta il nome, durante il pontificato di Siricio. L'edificio su cui si innesta la basilica risaliva alla seconda metà del III secolo. Nulla rimane della sistemazione che venne data originariamente all'ingresso e alla facciata; così pure non si conosce la primitiva strutturazione dell'interno, dal momento che la struttura sopravvissuta, in quella che attualmente è la chiesa inferiore, rappresenta un rifacimento posteriore al IV secolo. Anche nell'ambito dei cimiteri si registrano interventi del tempo di papa S. in continuità con le opere iniziate sotto Damaso, in particolare nell'area tra l'Ardeatina e l'Ostiense. La piccola cappella fatta edificare da Damaso in memoria dei ss. Nereo e Achilleo venne trasformata in una chiesa sotterranea, di struttura basilicale a tre navate, con abside. All'ingresso si accedeva per mezzo di una larga scala. La struttura originaria richiese restauri all'epoca di papa Giovanni I, probabilmente senza alterare in modo decisivo la basilica primitiva. Documenti epigrafici attestano che l'area cimiteriale circostante era ancora utilizzata all'inizio del V secolo. Nelle catacombe di Commodilla, dove Damaso aveva valorizzato la memoria dei ss. Felice e Adautto, un'iscrizione (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, II, a cura di G.B. de Rossi-A. Silvagni, Romae-In Civitate Vaticana 1935, nr. 6017, p. 313) attesta lavori nella cripta al tempo di Siricio. Quanto alle catacombe di Priscilla, si ha notizia dal Liber pontificalis che S. vi predispose la sua tomba, la cui localizzazione è però incerta. Il nome di S. è attestato anche per alcuni lavori di restauro, nelle stesse catacombe, riguardanti "moenia sanctorum" (Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, nr. 39, p. 104). S. morì il 26 novembre (giorno in cui se ne celebra la memoria liturgica) del 399. Fonti e Bibl.: S. Siricii papae Epistulae et Decreta, in P.L., XIII, coll. 1131-78 (che riproduce l'edizione di P. Coustant del 1721). Per le raccolte di cui entrarono a far parte le lettere di S., la tradizione testuale e le edizioni parziali, cfr. Clavis Patrum Latinorum, a cura di E. Dekkers, Steenbrugis 1995³, pp. 527-28. Per l'attestazione dell'epistola 6 nella raccolta Hispana, cfr. F. Maassen, Der Primat des Bischofs von Rom und die alten Patriarchalkirchen, Bonn 1853, pp. 241, 690. Per questioni di autenticità, cfr. F. Di Capua, Il ritmo prosaico nelle lettere dei papi e nei documenti della cancelleria romana dal IV al XIV sec., II, Roma 1939, pp. 161-79. Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1955², pp. CXL, 216-17. F. Maassen, Geschichte der Quellen und Literatur des canonischen Rechts, I, Graz 1956², p. 528. Studi di carattere generale: M. Schanz, Geschichte der römischen Literatur, IV, 1, München 1914², pp. 365, 366; E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tübingen 1930, pp. 256-85; G. Bardy, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche-V. Martin, IV, Torino 1961, §§ 345-47. Dictionnaire de théologie catholique, XIV, 2, Paris 1939, s.v., coll. 2171-74; V. Monachino, Siricio, in B.S., XI, coll. 1234-37; B. Studer, Siricio, in Patrologia, III, a cura di A. Di Berardino, Torino 1978, pp. 548-49; Dizionario patristico e di antichità cristiane, II, Casale Monferrato 1984, s.v., col. 3239; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, II, Milano 1996, s.v., pp. 1393-94. Studi su aspetti specifici: i vari aspetti del pontificato di S., in relazione al contesto storico, sono ampiamente trattati da Ch. Pietri, Roma Christiana. Recherches sur l'Église de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III (311-440), I-II, Roma 1976; cfr. in partic., per i caratteri del pontificato: II, pp. 888-909, 967-71, 1045-62, 1070-83, 1282-88; per le costruzioni urbane e le aree cimiteriali: I, pp. 468-74, 546-51. Sulla presenza di gruppi di opposizione a Roma al tempo dell'elezione di S.: B. Kötting, Christentum und heidnische Opposition in Rom am Ende des 4. Jahrhunderts, Münster 1961. Per la disciplina penitenziale e la normativa sulla vita del clero: P.H. Lafontaine, Remarques sur le prétendu rigorisme pénitentiel du pape Sirice, "Revue de l'Université d'Ottawa", 28, 1958, pp. 31-48; Id., Les conditions positives de l'accession aux ordres dans la première législation ecclésiastique (300-492), Ottawa 1963; É. Griffe, À propos du canon 33 du Concile d'Elvire, "Bulletin de Littérature Ecclésiastique", 74, 1973, pp. 142-45; D. Callam, Clerical Continence in the Fourth Century, "Theological Studies", 41, 1980, pp. 3-50. Per gli edifici di culto: oltre alle sintesi di Ch. Pietri, citate sopra, cfr. R. Krautheimer-S. Corbett-W. Frankl, Corpus basilicarum christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma (Sec. IV-IX), III, Città del Vaticano 1971, pp. 280-305 (basilica di S. Pudenziana); R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Roma 1981, pp. 46-7, 56-7; G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo. Secoli IV-X, a cura di M.Andaloro, ivi 1987, pp. 38-42, 217-30.