SISTO III, santo
Dal Liber pontificalis si ricava che S. era romano di nascita, che il padre si chiamava anch'egli Sisto e che il suo pontificato durò otto anni e diciannove giorni. In base a calcoli cronologici, si può stabilire che la sua elezione avvenne quattro giorni dopo la morte del suo predecessore Celestino, e cioè il 31 luglio 432. S. era già membro attivo e influente del clero romano sotto papa Zosimo, dal momento che a lui sono indirizzate due lettere di Agostino del 418 (epp. 191, 194, in Augustini Epistulae, pt. IV, a cura di A. Goldbacher, Vindobonae-Lipsiae 1911 [Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 57], pp. 162-65, 176-214; P.L., XXXIII, coll. 867, 874-91). La sua attività prima dell'elezione al soglio pontificio si estende quindi tra i pontificati di Zosimo, Bonifacio e Celestino. Agostino mostra preoccupazione per l'atteggiamento del presbitero S. al momento in cui papa Zosimo riammise nella comunione ecclesiale Pelagio e Celestio (autunno 417), e lascia intendere che in Africa S. era considerato come simpatizzante della dottrina pelagiana. Quando Zosimo, dietro le pressioni dell'episcopato africano, che si era riunito nel concilio di Cartagine nella primavera del 418, e gli interventi della corte imperiale, promulgò nella lettera Tractoria la condanna aperta di Pelagio e Celestio, S. chiarì la sua posizione prendendo le distanze dai pelagiani. Egli scrisse ai due principali esponenti della lotta antipelagiana, ad Aurelio, vescovo di Cartagine, e ad Agostino, che rispose con le due lettere citate, di cui la prima è una breve risposta per dire che ha ricevuto la lettera di S., la seconda contiene invece una lunga trattazione sulla dottrina che bisogna opporre ai pelagiani e la richiesta a S. di prestare ogni attenzione a Roma, affinché ogni persistenza pelagiana sia smascherata e corretta. Alla consacrazione episcopale di S. furono presenti due vescovi inviati da Cirillo di Alessandria per informare Roma della difficile situazione in cui versava l'unità della Chiesa in Oriente, dopo il concilio di Efeso. S., attraverso i due vescovi legati, Ermogene e Lampezio, inviò a Cirillo due lettere (epp. 1-2, in P.L., L, coll. 583-90 ), chiedendo che la prima venisse data a conoscere ai vescovi vicini. Nell'una e nell'altra il nuovo pontefice si mostra in piena continuità con la linea del suo predecessore, secondo il principio che quanto già deciso non deve essere cambiato; tuttavia l'indicazione di S. va nel senso che sia cercata la più larga riconciliazione possibile sul fronte antiocheno. Solo Nestorio venga considerato "naufrago"; tutti coloro che vogliono tornare sulla retta via, vengano accolti nella comunione ecclesiale; quanto a Giovanni di Antiochia, egli sa, da quanto è stato stabilito per lui, come dimostrare di essere "sacerdote cattolico" (ep. 1, 4-5). S. allude all'epistola 22, inviata al concilio di Efeso, dopo la condanna di Nestorio, dal suo predecessore Celestino e, riprendendone le espressioni ("damnata cum auctoribus sociisque damnantes, se profiteantur catholicos sacerdotes": ep. 22, 8, in P.L., L, col. 543B), ne parla come qualcosa in cui ha avuto parte ("de Iohanne Antiochiae haec definimus"). Nell'insieme, tuttavia, il tono delle lettere di S. appare suggerire un orientamento alquanto più morbido rispetto al passato, e maggiormente rivolto alla ricerca di una pacificazione, restando ferma la condanna definitiva solo per Nestorio. Da una lettera di Acacio vescovo di Berea, si deduce che S. si rivolse a questo rappresentante dell'episcopato orientale per chiedergli un'opera di mediazione (Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, 4, a cura di E. Schwartz, Berlin-Leipzig 1922-23, p. 93). Lo stesso imperatore Teodosio II si pose sulla strada di favorire le trattative: per consiglio del patriarca Massimiano e del clero di Costantinopoli, secondo i quali la pace sarebbe tornata se Giovanni di Antiochia e i vescovi a lui legati avessero cessato le loro proteste e avessero confermato la deposizione di Nestorio, l'imperatore scrisse ad Acacio di Berea e al venerato asceta Simeone lo Stilita, chiedendo il loro aiuto, e nominò il notaio di corte Aristolao perché agisse come suo rappresentante (ibid., I, 1, pt. IV, a cura di E. Schwartz, ivi 1928, pp. 5-6; I, 4, p. 91). Aristolao si recò innanzitutto ad Antiochia dove, in seguito a questa visita, si riunì un sinodo locale presieduto dal patriarca Giovanni e presente Acacio di Berea (aprile 432). Venne elaborato un documento contenente sei proposizioni di cui è conservata solo la prima (ibid., I, 4, pp. 92-3; P.G., LXXXIV, col. 658C); in essa i vescovi dichiaravano di aderire fermamente al Credo di Nicea, si richiamavano ad Atanasio, ma affermavano di rifiutare quanto fosse stato aggiunto successivamente. Ciò che si voleva significare con queste espressioni era che la via di una conciliazione consisteva per loro in un ritorno alle posizioni precedenti gli scritti antinestoriani di Cirillo di Alessandria. Aristolao portò ad Alessandria le proposizioni degli Orientali, insieme a una lettera di Acacio di Berea, ma Cirillo rimase fermo nelle sue posizioni ritenendo, inoltre, che gli ordini imperiali esigessero in pratica un'esplicita condanna di Nestorio da parte degli Antiocheni e quindi un avvicinamento alla sede di Alessandria. La risposta di Cirillo (Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, 4, pp. 94-8), sebbene non priva di qualche tono conciliante, ad Antiochia ebbe eco negativa. La posizione più intransigente era rappresentata da Alessandro di Gerapoli, il quale si espresse ampiamente in termini di rinnovata polemica contro Cirillo, dichiarando che le sue proposizioni erano totalmente insufficienti riguardo alle due nature di Cristo (ibid., pp. 98-9). I vescovi di cui rimangono testimonianze nella medesima direzione sono Andrea di Samosata, Massimino di Anazarbo, Elladio di Tarso, Ireneo di Nicomedia, Euterio di Tiana (ibid., pp. 100-12). In posizione più transigente si pose Teodoreto di Ciro in varie lettere inviate ai vescovi impegnati nella vicenda (Andrea di Samosata, Alessandro di Gerapoli, Elladio di Tarso). Per un certo periodo le trattative rimasero bloccate. A Costantinopoli non si era più disposti ad attendere; e Cirillo appariva il meno disponibile a passi di conciliazione dal momento che non transigeva sui suoi anatematismi contro Nestorio. Il patriarca di Costantinopoli, Massimiano, interpellato dall'imperatore insieme ai vescovi che si trovavano nella capitale, suggerì che entrambe le parti fossero richieste di un passo concreto: Giovanni di Antiochia doveva accondiscendere alla condanna esplicita di Nestorio e Cirillo di Alessandria doveva ritrattare i suoi scritti antinestoriani; le due parti, poi, si sarebbero accordate su una formula di fede. Inoltre, Massimiano consigliava l'esilio per Giovanni e per Cirillo, nel caso di ulteriore resistenza. A corte, le manovre - anche di corruzione mediante denaro - da parte di Epifanio, arcidiacono di fiducia di Cirillo, nuocevano al patriarca di Alessandria (cfr. ibid., pp. 222-25). Giovanni di Antiochia, da parte sua, anche per le pressioni dei due mediatori Aristolao e Acacio di Berea, continuò nei tentativi di pacificazione: sottolineò presso i suoi vescovi che, negli scambi intercorsi, Cirillo offriva ormai sufficienti garanzie circa il superamento di ogni possibile confusione delle nature in Cristo, e riconosceva la loro dualità (ibid., pp. 112-13). Decise inoltre di rivolgersi personalmente a Cirillo senza insistere ulteriormente sul ritiro degli anatematismi e presentandogli una confessione di fede rappresentativa delle istanze antiochene. Se Cirillo avesse accettato di firmarla, non si sarebbe più tornati sulle polemiche del passato e la comunione ecclesiale sarebbe stata ristabilita. Comunicata la decisione all'imperatore, Giovanni inviò ad Alessandria il vescovo Paolo di Emesa, persona di fiducia di Acacio di Berea, per consegnare a Cirillo una lettera improntata a toni di superamento del passato e di auspici per la rappacificazione (ibid., pp. 115-17) e, insieme, la formula di fede che Cirillo avrebbe dovuto sottoscrivere. Si trattava della professione di fede formulata dagli Orientali a Efeso nell'agosto 431 e, ora, leggermente ampliata ad Antiochia. Dopo un paragrafo introduttivo, la parte centrale della formula antiochena proposta a Cirillo è la seguente: "Noi confessiamo Nostro Signore Gesù Cristo, l'Unigenito Figlio di Dio, perfetto Dio e perfetto uomo, [composto] di un'anima razionale e di un corpo, generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità e, in questi ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza, nato dalla Vergine secondo l'umanità; egli è consustanziale [homoúsios] al Padre secondo la divinità e consustanziale [homoúsios] a noi secondo l'umanità. Poiché si è fatta l'unione [hénosis] di due nature, noi confessiamo un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore. In base a questo modo di intendere l'unione senza confusione, noi confessiamo che la santa Vergine è Madre di Dio [theotókos], perché il Dio Logos ha preso la carne e si è fatto uomo e, fin dall'istante del suo concepimento, ha unito a sé il tempio assunto dalla Vergine. Quanto alle espressioni evangeliche e apostoliche relative al Signore, noi sappiamo che i teologi ne usano alcune indistintamente, come riferentesi a una sola persona, e distinguono altre come riferentesi a due nature: quelle che sono degne di Dio, quando si tratta della divinità di Cristo; le meno elevate, quando si tratta della sua umanità" (ibid., I, 1, pt. IV, pp. 8-9, 17). Rispetto alla stesura efesina, l'ampliamento della nuova redazione consiste nell'ultimo paragrafo ove si afferma la ripartizione dei termini scritturistici da riferire ora alla natura divina ora a quella umana: questa parte rappresenta una smentita del quarto anatema di Cirillo che appuntava proprio questo procedimento nel linguaggio cristologico. È da notare inoltre la presenza di un elemento tipico della teologia antiochena quale l'espressione "tempio assunto" per indicare l'umanità del Verbo incarnato. La concessione principale verso gli alessandrini è da riconoscere nell'affermazione riguardante la theotókos. Cirillo si mostrò esitante e le trattative ancora si prolungarono; da parte imperiale, attraverso Aristolao, le pressioni a concludere erano ormai sul filo delle minacce. Il vescovo di Alessandria dovette accontentarsi della dichiarazione di Giovanni di Antiochia di riconoscere la deposizione di Nestorio, e della condanna generica della sua dottrina (ibid., p. 9). Infine, la risposta a Giovanni fu la famosa lettera Laetentur caeli (ep. 39, in P.G., LXXVII, coll. 173-81; Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, 1, pt. IV, pp. 15-20), in cui Cirillo si rallegra per l'unione finalmente ritrovata e inserisce integralmente la formula presentata da Antiochia, aggiungendo però ancora alcuni chiarimenti: la giustapposizione perfetto Dio-perfetto uomo, viene resa da Cirillo con l'attenta formulazione: "Il medesimo, perfetto nella divinità, perfetto nella umanità" che sottolinea l'unità del soggetto in Cristo. Non si hanno notizie dirette di interventi di Roma nelle trattative; solamente una lettera di Acacio di Berea lascia intendere che S. aveva scritto a lui e, più volte, a Cirillo (Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, 4, p. 90; P.G., LXXXIV, col. 640). Nell'aprile 433 Cirillo annunciò ai suoi fedeli l'avvenuta conciliazione e, nello stesso periodo, Giovanni comunicò all'imperatore, nei termini generici della lettera a Cirillo, l'assenso alla deposizione e alla condanna di Nestorio, aggiungendo la richiesta formale che tutti gli altri vescovi colpiti dalle precedenti sanzioni venissero ristabiliti nelle loro sedi (Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, 4, pp. 127-28). A S., Giovanni aveva scritto qualche mese prima, probabilmente subito dopo avere inviato Paolo di Emesa presso Cirillo con l'ultima lettera che precedette l'accettazione del patriarca di Alessandria, e cioè negli ultimi mesi del 432 o all'inizio del 433. La lettera di Giovanni (riprodotta in P.L., L, coll. 592-94) si riferisce infatti agli eventi del concilio di Efeso con l'espressione "anno elapso", e il concilio si era svolto tra il giugno e l'agosto del 431. Il patriarca di Antiochia scrive inoltre a nome anche degli altri vescovi che indica come "quelli che sono con me", e si rivolge, oltre che a S., a Cirillo di Alessandria e a Massimiano di Costantinopoli. A mo' di promemoria, Giovanni di Antiochia espone la sua visione dello svolgimento dei fatti: l'occasione del concilio determinata dalla dottrina di Nestorio, la parte avuta dai legati del papa Celestino nella rapida condanna e nella deposizione dell'allora patriarca di Costantinopoli, l'essere giunti gli Antiocheni a cose già fatte. A tale situazione fa risalire il dissidio rispetto alle decisioni del concilio e la resistenza a sottoscrivere la deposizione di Nestorio. Nel rapido, ma attento riferimento alle motivazioni della propria posizione, Giovanni non fa alcun cenno ai temi dottrinali; passa invece, nella seconda parte della lettera, a porre in evidenza la ragione principale del suo addivenire a posizioni di accettazione: le gravi discordie che si erano venute a creare tra le Chiese avevano impegnato la responsabilità di tutti a rimuovere i motivi di dissenso per ricondurre gli animi alla concordia. In tal senso si era mosso l'imperatore attraverso il suo legato Aristolao e, in vista della pace tra le Chiese, lo stesso Giovanni aveva deciso di accettare le decisioni prese dal concilio contro Nestorio, e cioè la deposizione e l'anatema sulle sue "dottrine blasfeme"; il patriarca di Antiochia sottolinea inoltre che queste decisioni vengono prese in nome della retta fede sempre professata nella sua Chiesa e sempre annunciata al popolo. La lettera si chiude con il riconoscimento di Massimiano, divenuto patriarca di Costantinopoli dopo la deposizione di Nestorio, e con la dichiarazione di comunione con tutti i vescovi dell'orbe che hanno e conservano la fede ortodossa. Una lettera di S. diretta a Giovanni in data 15 settembre 433 (ep. 6, in P.L., L, coll. 607-10) appare essere in risposta non a quella appena esaminata, ma a un'altra inviata personalmente al vescovo di Roma, esaltandone il ruolo (Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, 1, pt. VII, pp. 158-60). Il contesto di riferimento è comunque il medesimo: S., nella sua risposta, si compiace con Giovanni per la scelta di comunione e allude ad ammonimenti da lui rivolti a Nestorio e rimasti inefficaci. I termini sono di rimpianto e, quanto all'ex patriarca di Costantinopoli, viene espresso un giudizio di superbia, paragonata a quella di Lucifero. Poi, il pontefice dichiara non essere comunque più il tempo di pensare alle battaglie ora che ci si può rallegrare della vittoria, e usa espressioni di letizia per la ritrovata concordia: "Fruamur, auctore Domino, bono atque iucundo, quia in unum fratres rursus coepimus habitare" (Salmo 132, 1). Elogia poi Giovanni per il fatto che si è collocato dalla parte del successore di Pietro, e inserisce un brano sul primato: "S. Pietro ha tramandato ai suoi successori ciò che aveva ricevuto. Chi vorrà separarsi dalla dottrina di colui che, primo tra gli apostoli, fu istruito dallo stesso Maestro? Egli non ricevette l'insegnamento per sentito dire o per aver letto un discorso: dalla stessa fonte ha ricevuto la dottrina. Non si è dovuto porre domande su quanto è scritto e su autori di scritti; la fede che ha ricevuto è incondizionata e semplice, e priva di controversie. Su di essa occorre meditare sempre; in essa dobbiamo permanere per meritare di essere nel senso più autentico della parola seguaci degli apostoli ["sequentes apostolos"] tra coloro il cui fondamento sono gli apostoli ["apostolicos", cioè i vescovi]. Il peso che ci incombe non è piccolo, né poco il lavoro affinché la Chiesa sia senza macchia e senza ruga" (cfr. Efesini 5, 27; P.L., L, coll. 609 A-B). La lettera di S. inserisce poi un paragrafo di lode agli imperatori che si sono sempre dimostrati vigili e solleciti per le cose di Dio; conclude con l'esortazione a mantenersi nell'unica retta fede dei padri, guardandosi dalle novità ("nihil ultra liceat novitati, quia nihil adiici convenit vetustati"), e con un elogio al patriarca di Costantinopoli, Massimiano, per la sua mitezza e per il senso di comunione con la Sede romana. Nella stessa data, S. scrisse anche a Cirillo (ep. 5, in P.L., L, coll. 602-06) in risposta alla lettera con cui il patriarca di Alessandria comunicava da parte sua il raggiungimento dell'accordo, e che S. dice essere stata letta davanti al sinodo riunito nella data di anniversario dell'inizio del suo pontificato. S. indica i motivi di gioia per la ritrovata unione, specificandoli nel fatto che siano state confermate le decisioni del concilio la cui dignità indica alludendo alle riunioni degli apostoli per trattare di questioni inerenti alla fede ("in unum congregati apostoli de fide saepe tractarunt"). In questo contesto, S., per indicare i vescovi, usa il termine "apostolici": la stessa espressione utilizzata nella lettera a Giovanni sopra esposta, accanto a quella di "seguaci degli apostoli". La risposta a Cirillo pone anch'essa principalmente in evidenza la centralità della sede petrina: "Ad beatum apostolum Petrum fraternitas universa convenit […]. Ad nos reversi sunt fratres, ad nos, inquam, qui morbum communi studio persequentes, animarum curavimus sanitatem" (ibid., coll. 603 A-B). La lettera, in cui Cirillo viene considerato il principale artefice della pace, si conclude con un appello ad accogliere tutti coloro che vorranno recuperare la comunione. In seno all'episcopato orientale, tuttavia, l'accordo raggiunto tra Antiochia e Alessandria era ben lungi dal riscuotere unanimi consensi. L'avere Cirillo sottoscritto la formula proposta da Antiochia non sembrava un convincente, reale mutamento riguardo alla questione dottrinale di fondo legata alla formula alessandrina, "unica è la natura del Verbo di Dio fatto uomo", che gli Antiocheni non vedevano messa esplicitamente in discussione. Giovanni di Antiochia, scrivendo a Teodoreto (Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, 4, pp. 124-25), cercò in tutti i modi di mostrare che Cirillo aveva realmente sfumato le sue posizioni e la sua terminologia cristologica; ma Teodoreto, pur rallegrandosi per il riconoscimento delle due nature, si preoccupava di tutti i vescovi che erano stati colpiti dai provvedimenti antinestoriani e che, temeva, sarebbero stati abbandonati alla loro sorte. Le stesse motivazioni manifestava Andrea di Samosata (ibid., p. 127). Posizione più dura manifestò Alessandro di Gerapoli, il vescovo coetaneo di Acacio di Berea: insieme avevano fatto parte della missione che a suo tempo, dopo il sinodo di Antiochia del 379, ne aveva portato a Roma gli atti. In quel sinodo, circa centocinquanta vescovi avevano sottoscritto le epistole decretali con cui papa Damaso condannava sia l'apollinarismo sia l'adozionismo. Agli occhi dell'anziano vescovo, l'accordo con Cirillo riproponeva i pericoli di un serpeggiante apollinarismo e si tornava indietro rispetto alle posizioni antiochene sostenute al concilio di Efeso. Egli scrisse a tutti i colleghi e, duramente, a Teodoreto accusandolo di tradire la causa di Nestorio (ibid., pp. 129-31, 133-34). Tra i molti vescovi delle province orientali, che condividevano lo stato d'animo di Alessandro, in particolare Euterio di Tiana scrisse un lungo documento contro Cirillo (ibid., pp. 213-21), dimostrando che questi con le sue aggiunte aveva snaturato la confessione di fede propostagli da Antiochia. Si vennero a formare due schieramenti: da una parte il gruppo guidato da Teodoreto, che riconobbe come accettabili i termini dell'accordo relativamente alla terminologia cristologica, ma che si rifiutavano categoricamente di sottoscrivere la deposizione e la condanna di Nestorio; dall'altra parte il gruppo che si riconosceva in Alessandro di Gerapoli, i cui componenti dichiararono nullo l'accordo firmato da Giovanni di Antiochia e di non accogliere nella loro comunione Cirillo finché non avesse sconfessato tutto il suo operato contro Nestorio. Giovanni di Antiochia fu messo in grave difficoltà; un suo stesso diacono, un certo Massimo, avviò una campagna denigratoria contro di lui. A Costantinopoli intanto, nell'aprile 434, era morto il patriarca Massimiano, e i seguaci di Nestorio, ancora numerosi nella capitale, si erano messi in agitazione chiedendone il ritorno. L'imperatore radunò in tutta fretta il cosiddetto sinodo permanente (la riunione dei vescovi presenti nella capitale e perciò facilmente convocabili) e fece eleggere Proclo di Cizico. Da Antiochia, intanto, Giovanni richiedeva l'intervento dell'imperatore per piegare i vescovi recalcitranti all'accordo da lui stipulato con Cirillo (ibid., p. 154). Una testimonianza significativa della drammatica situazione personale in cui si dibattevano personaggi sinceramente convinti delle proprie posizioni è la lettera che indirizzarono a S. due dei vescovi orientali turbati dall'accordo con Cirillo, Euterio di Tiana ed Elladio di Tarso (ibid., pp. 145-48; P.G., LXXXIV, coll. 727-31; P.L., L, coll. 593-602). Si tratta di un appello accorato in cui ci si riferisce a Cirillo chiamandolo "l'eretico egiziano" e il papa è invocato come novello Mosè affinché salvi "ogni Israelita ortodosso" e, come nocchiero della nave immersa nelle tempeste, pronunci il suo insegnamento per amore alla verità e nel ricordo di quanto aveva operato papa Damaso. La lettera prosegue con una difesa di Nestorio e un riepilogo degli avvenimenti che avevano portato alla deposizione e alla condanna di lui e di tanti altri vescovi ("ventidue metropoliti e gli altri che aderivano"). Gli autori della lettera lamentano poi che le polemiche successive al concilio di Efeso siano state condotte tutte all'insegna di lotta tra le parti e di formule pregiudiziali per descrivere la dottrina di Nestorio, e ritengono che mai sia stato cercato un autentico chiarimento. Infine viene espresso lo sgomento per quello che è visto come un irragionevole voltafaccia da parte di Giovanni di Antiochia. Viene poi formulata la richiesta al pontefice di dar corso a un'inchiesta affinché la rotta venga corretta, i dispersi ricondotti all'ovile, posto fine alla situazione in cui gli eretici sono ammessi alla comunione e gli ortodossi ne sono allontanati. La lettera prosegue con il riferimento alle regioni a nome dei cui vescovi i due autori dicono di parlare: l'Eufratesia, le due Cilicie, la Cappadocia "secunda", la Bitinia, la Tessaglia e la Mesia; quindi di conclude con un rinnovato appello al papa e con una accorata proclamazione delle proprie disinteressate e rette intenzioni a servizio della fede. Non è conservata alcuna risposta da parte di S.; i due autori della lettera e gli altri vescovi recalcitranti subirono le misure d'autorità messe in atto dall'imperatore attraverso il questore imperiale Domiziano. Teodoreto ebbe un incontro con Giovanni di Antiochia, a Costantinopoli, dove il nuovo patriarca Proclo stava dando prova di rinnovato impegno nella sua posizione di mediazione, dimostrata già negli anni precedenti il proprio episcopato costantinopolitano, con la ricerca di termini cristologici accettabili dalle diverse sensibilità. Teodoreto ebbe l'assicurazione che non sarebbe stato richiesto di sottoscrivere la condanna di Nestorio, e così pure nessun altro vescovo che avesse voluto rientrare nella comunione ecclesiale. Così Teodoreto aderì all'atto di unione e, alle stesse condizioni, lo seguirono non pochi altri vescovi. Un gruppo di una quindicina, tra cui Euterio di Tiana, fermi sulle posizioni intransigenti dell'anziano Alessandro di Gerapoli, venne deposto ed esiliato; Alessandro fu più duramente colpito con la condanna "ad metalla" nelle miniere d'Egitto. S. difese con determinazione la giurisdizione della Sede romana nei confronti delle Chiese dell'Illirico tramite il vicariato apostolico della sede di Tessalonica. L'occasione fu determinata nel 435 dalla presa di posizione di Perigene, vescovo di Corinto, il quale reclamava il diritto di esercitare funzioni di metropolita, consacrando i vescovi dell'Acaia. Tale pretesa urtava contro gli interessi di Anastasio, vescovo di Tessalonica, il quale convocò un sinodo e inviò a Roma uno dei vescovi della Macedonia, Luca, per chiedere sostegno. S. scrisse a Perigene una lettera (ep. 7, in P.L., L, coll. 610-11), che ha il tono di un monito, in cui fa appello all'umiltà del destinatario, ma anche all'obbedienza in nome della tradizione dei suoi predecessori che avevano sempre riconosciuto la dignità di vicariato apostolico (dipendente da Roma) alla sede di Tessalonica nei confronti delle Chiese della penisola balcanica (Illirico). Da questa lettera si sa anche dei rapporti intercorsi tra S. e Anastasio, e del fatto che il papa aveva inviato sul posto una legazione composta dal presbitero Marzianino e dal diacono Lolliano. Il papa scrisse inoltre al sinodo di Tessalonica (ep. 8, ibid., coll. 611-12) per confermare l'autorità di Anastasio. Da questa lettera si intende comunque che la questione era in via di soluzione e che il vescovo di Corinto aveva accettato l'indirizzo di Roma. Il problema dell'influsso sull'Illirico, teso tra Oriente e Occidente, emerse nuovamente nel 437: una lettera di papa S. diretta al patriarca Proclo (ep. 9, ibid., coll. 612-13), datata 18 dicembre di quell'anno, lascia intendere che dall'Illirico alcuni esponenti del clero si erano rivolti a Costantinopoli per questioni che li riguardavano; il papa ricorda a Proclo la documentata tradizione della giurisdizione del vescovo di Tessalonica e lo invita a non accogliere alcun membro del clero dell'Illirico che non sia munito di lettera di presentazione di quel fratello nell'episcopato. Nella lettera, S. fa anche presente il caso del vescovo di Smirne, Iddua, il quale, essendo stato giudicato a Costantinopoli, si era rivolto a Roma, ma il papa aveva confermato l'operato di Proclo. Nella stessa data, S. scrisse a tutti i vescovi dell'Illirico (ep. 10, ibid., coll. 616-18) in occasione di un sinodo presso il quale inviò come suo legato il presbitero Artemisio, che viene menzionato nella lettera. Con solennità, il papa fa riferimento all'apostolo Paolo, che visitava le Chiese mediante le sue lettere, e incoraggia i vescovi a rimanere solidamente fondati nella propria compagine sinodale tenendo presente che Anastasio ha autorità di "vices apostolicae sedis". Il Liber pontificalis attribuisce a S. la consacrazione di cinquantadue vescovi per sedi delle province suburbicarie. Non si ha altra specifica documentazione di interventi di S. in Occidente e in Italia. Una notizia fornita da Prospero d'Aquitania (Chronicon, ad a. 439, in P.L., LI, col. 598) riferisce che il deposto vescovo Giuliano di Eclano si rivolse al papa sperando di poter essere reintegrato nella sua sede, vicino ad Avellino. Al tempo di papa Zosimo, Giuliano si era rifiutato, insieme ad altri diciotto vescovi italiani, di sottoscrivere la lettera Tractoria che condannava Pelagio e Celestio ed aveva scritto due lettere al papa con richiesta di spiegazioni a riguardo; di conseguenza era stato deposto ed esiliato. Nella vicenda di Giuliano era ampiamente intervenuto Agostino (De nuptiis et concupiscentia; Contra duas epistulas Pelagianorum; Contra Iulianum; Contra Iulianum opus imperfectum). Giuliano, nel 439, secondo la notizia di Prospero, si rivolse a S. sperando in una riconciliazione; ma, per un intervento dell'arcidiacono Leone, il futuro papa Leone I, non trovò soddisfazione. Il Liber pontificalis riferisce inoltre una notizia secondo cui papa S., negli anni iniziali del suo pontificato, sarebbe stato oggetto di una sgradevole vicenda originata dall'opposizione di un personaggio di nome Basso: costui avrebbe fatto circolare volgari accuse nei riguardi del pontefice, il quale si sarebbe difeso davanti a un sinodo di vescovi convocati dall'imperatore Valentiniano III. L'accusatore avrebbe subito la scomunica e, da parte dell'imperatore, la proscrizione e la confisca dei beni, che sarebbero stati devoluti alla Chiesa. Alla sua morte, avvenuta dopo breve tempo, il papa avrebbe dato testimonianza di perdono offrendo la sepoltura per Basso nella propria tomba di famiglia. La storia si fonda, con alcuni adattamenti, su un testo tramandato con il titolo Gesta de Xysti purgatione (P.L., Supplementum, III, coll. 1249-52) che fa parte di un gruppo di "falsi" la cui origine è da collocare intorno all'anno 501, quando il papa Simmaco, che aveva l'appoggio dei Goti nella persona dell'imperatore Teoderico contro resistenti opposizioni degli ambienti senatorii romani, fu soggetto ad accuse e proposto al giudizio di un sinodo. Lo scopo degli scritti fatti circolare in quelle circostanze era quello di dimostrare che "prima sedes a nemine iudicatur". La curiosa trovata del ricorso al nome e al tempo di papa S. si può forse spiegare pensando a un certo malanimo, che probabilmente accompagnò il pontificato di S., da parte di gruppi pelagiani che avevano sperato nel suo appoggio sin da quando egli non era ancora papa e fino alla richiesta di Giuliano di Eclano. Tutto ciò potrebbe aver creato una certa immagine di S. come papa sottoposto a iniziative di gruppi di opposizione. Sotto il pontificato di S. si accrebbe notevolmente il patrimonio architettonico e decorativo cristiano nella città di Roma. Il principale edificio di culto, che tra la fine del IV secolo e i restauri del 441, in seguito a un incendio, raggiunse la fisionomia che ha mantenuto inalterata fino alla distruzione - anch'essa dovuta a un incendio - nel 1823, è la basilica di S. Paolo sulla via Ostiense. Tale edificio rappresenta la cosiddetta "tendenza classicista" dell'architettura dei luoghi di culto romani che, tra il pontificato di Damaso e il pontificato di Leone Magno, riprese, sia nelle strutture che negli intendimenti, i modelli delle grandi edificazioni del tempo di Costantino e realizzò una vera e propria "renovatio urbis" sotto il segno del cristianesimo. La tendenza classicista si esprime, oltre che nella grandiosità dell'impianto, nella bellezza e coerenza stilistica dei particolari, nella ricchezza della decorazione, nell'armonia delle proporzioni. L'apice compositivo di tali moduli viene indicato nella basilica di S. Sabina sull'Aventino, eretta intorno al 425 e portata a compimento dopo il 432 da S. (Le Liber pontificalis, p. 235). L'armonia, l'eleganza e la leggiadria di quest'edificio ne fanno la gemma delle basiliche paleocristiane romane. Il fervore di costruzioni, rifacimenti, ornamentazione degli edifici cristiani, nei quali si riconosce il dispiegamento della tendenza classicista, attraversa i pontificati di Innocenzo, Zosimo, Bonifacio, Celestino, S. e Leone Magno, ed è da porre in relazione con un forte senso di ripresa dopo l'invasione, il saccheggio, la distruzione da parte dei Visigoti capeggiati da Alarico nell'agosto del 410. Per i pontefici dei decenni successivi, il disastro dell'antica Roma assumeva il significato della fine del paganesimo, ma non della grandezza di Roma chiamata provvidenzialmente a una missione ancora più universale e certamente imperitura. Essi ricostituirono inoltre il tesoro delle chiese che avevano subito il saccheggio con cospicue donazioni di suppellettili e ornamenti d'argento. Il Liber pontificalis elenca dettagliatamente le ricche ornamentazioni volute da S. o da lui patrocinate presso l'imperatore Valentiniano III, e le dotazioni di preziosi ornamenti e vasi sacri offerte alle basiliche di S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, S. Paolo, S. Lorenzo sulla via Tiburtina. In particolare, nella basilica vaticana S. sostituisce il rivestimento originale in marmo della "confessio", così definita per la prima volta, con lamine d'argento. L'edificio maggiormente legato al nome di S. è la basilica di S. Maria Maggiore, sull'Esquilino. È certo che la basilica fu edificata nuovamente nel V secolo e che fu completata sotto il pontificato di S., ma le vicende relative alla sua fondazione non sono prive di interrogativi. Il problema principale è costituito dal possibile rapporto di continuità tra la basilica del V secolo e quella fatta edificare da Liberio cui si accenna esplicitamente nel Liber pontificalis: "fecit [...] nomini suo iuxta macellum Libiae" (p. 208). La biografia di S. sembra suggerire un legame diretto tra i due edifici: "Hic fecit basilicam sanctae Mariae, quae ab antiquis Liberii cognominabatur" (ibid., p. 232). I dati archeologici a disposizione non hanno permesso di chiarire la relazione tra i due edifici; gli scavi effettuati sotto S. Maria Maggiore (anni 1966-1971) hanno portato alla luce alcune strutture relative probabilmente ad una "domus" di età tardoantica, in nessun modo identificabili con la basilica di Liberio. Quest'ultima si trovava probabilmente presso la porta Esquilina, nelle mura Serviane, dove è da localizzare il "macellum Liviae". Le indagini archeologiche hanno potuto dimostrare che S. Maria Maggiore fu costruita dalle fondamenta nel V secolo su un'area resa edificabile mediante demolizioni e spianamenti che obliterarono edifici ancora pienamente funzionanti nel IV secolo. Per quanto riguarda la cronologia, R. Krautheimer ritiene che la costruzione sia iniziata sotto papa Innocenzo e continuata sotto i suoi successori Zosimo, Bonifacio e Celestino; il ruolo di S. fu quello di portare l'opera a compimento. L'impianto della basilica risponde ai caratteri divenuti abituali, ma le dimensioni assumono nuova grandiosità; la navata centrale era particolarmente ampia e terminava con un'abside semicircolare. Nel XIII secolo vennero aggiunti un transetto e una nuova abside poligonale, arricchiti poi da elementi barocchi nel Settecento. Da antichi disegni appare quella che fu la novità peculiare della basilica e cioè l'elevazione della navata, tuttora percepibile sebbene le aggiunte di abside e transetto la rendano meno evidente. La navata è scandita da quaranta colonne, uniformi per dimensioni e materiale, dotate di capitelli ionici che erano divenuti non usuali a Roma dopo il II secolo. La trabeazione riprendeva il modello classico già riproposto nelle chiese costruite al tempo di Costantino, e cioè in S. Giovanni in Laterano, in S. Pietro e nel cimitero coperto presso S. Lorenzo. Le pareti della navata centrale di S. Maria Maggiore sono segnate da scomparti per mezzo di un ordine classico di alte paraste alla cui sommità si snodava un fregio di stucco a viticci, anch'esso di modello classico. Negli scomparti delimitati dalle paraste sono inseriti pannelli musivi che rappresentano i principali episodi della storia del popolo d'Israele, scelti dai libri dell'Antico Testamento e rappresentati come "res gestae" che sembrano indicare la sostituzione delle imprese della Roma imperiale, e offrono al popolo di Dio l'istruzione di quanto deve conoscere per la consapevolezza di una storia che è storia della salvezza. Dopo il concilio di Efeso del 431 fu apportata una prima modifica all'originaria struttura della basilica, rendendo più profonda l'abside e inserendo l'arco di trionfo. Questi lavori si svolsero durante il pontificato di S. e furono terminati intorno al 440. I mosaici della navata e quelli dell'arco costituiscono uno dei più importanti documenti dell'arte paleocristiana e il più antico ciclo conservato a Roma quasi integralmente (alcune scene dei mosaici della navata sono ricostruite). I mosaici dell'arco rappresentano un programma iconografico impostato su temi esegetici particolarmente elaborati e di non facile lettura. Il messaggio dominante sembra essere quello dell'epifania di Cristo, che è insieme manifestazione della sua umanità, chiamata a tutte le genti, compimento della storia d'Israele (raffigurata nelle scene della navata), pienezza della regalità, segno di contraddizione, primo annuncio della sua passione, rivelazione del congiungimento della storia al suo Creatore. Nell'elaborazione del programma iconografico dell'arco è stato più volte ipotizzato un influsso personale del futuro Leone Magno, arcidiacono e personalità eminente della Chiesa di Roma durante il pontificato di Sisto. Si tratta solo di ipotesi; va segnalato tuttavia il fatto che il sermone di Leone per l'epifania dell'anno 443 (sermone XXXIII) contiene alcuni rari motivi esegetici che permettono una lettura ben fondata delle scene epifaniche dell'arco. Al centro del contesto decorativo dell'arco trionfale è inserita la famosa iscrizione dedicatoria ("Xystus episcopus plebi Dei": Inscriptiones latinae christianae veteres, nr. 975a) che, pur solenne e magniloquente nella sua rigorosa essenzialità, è costretta in uno spazio esiguo, quasi di risulta: è infatti inserita in un'angusta striscia, compressa tra il medaglione con il trono gemmato vuoto ("etimasia"), le due figure di Pietro e Paolo e il vertice dell'arco. La dedica tuttavia, che come già gli epigrammi di papa Damaso ha il suo interlocutore diretto nel nuovo popolo di Roma ("plebs Dei"), conserva ancora una sua autonomia anche in virtù dell'accentuata diversificazione cromatica tra l'azzurro dello specchio epigrafico, il bianco delle lettere e l'oro dello sfondo. Un'altra iscrizione di apparato il cui testo è noto attraverso le sillogi (ibid., nr. 976), si estendeva sulla parte superiore della controfacciata dove era ancora visibile alla fine del XVI secolo contestualmente ad un apparato decorativo con le immagini di Maria circondata dai martiri e il ritratto di Sisto III. Si tratta di una solenne dedica celebrativa che evoca, nella prima parte, il dogma, definito ad Efeso (431), della divina maternità di Maria: "A Te, Vergine Maria, Sisto dedicò la nuova costruzione, degno riconoscimento al tuo grembo portatore di salvezza. O genitrice ignara dell'uomo, avendo Tu partorito, la nostra salvezza si produsse dalle [Tue] integre viscere". Presso la basilica di S. Maria Maggiore sembra che sia stato costruito un battistero per iniziativa di S.; secondo il Liber pontificalis (p. 234), S. decorò il battistero con colonne di porfido probabilmente da mettere in relazione con una costruzione a pianta centrale e deambulatorio, oppure con un ciborio sovrastante la vasca. Infine, il Liber pontificalis enumera i ricchissimi arredi donati da S. alla basilica, a cominciare da un altare di "argento purissimo" del peso di trecento libbre, e fornisce l'elenco dei possedimenti di cui la dotò (ibid., pp. 232-33). La costruzione della basilica di S. Maria Maggiore da parte di S. è particolarmente significativa in quanto è l'unica delle chiese patriarcali che fu fondata e dotata di arredi e di beni per iniziativa del vescovo di Roma senza alcuna ingerenza imperiale; essa è inoltre la prima basilica non cimiteriale titolata ad un santo. Dal punto di vista funzionale, la chiesa era probabilmente destinata, come la cattedrale lateranense, alla liturgia episcopale; in questo modo si tentava di spostare il polo di aggregazione religiosa, dalla zona periferica del Laterano, verso il centro della città. Altri lavori compiuti sotto il pontificato di S., e all'insegna della rinascita classica, sono quelli che realizzarono il rimaneggiamento del battistero lateranense. Il passo del Liber pontifica-lis attribuisce al pontefice il completamento del battistero già esistente: "Hic constituit columnas in baptisterium basilicae Constantinianae, quas a tempore Constantini Augusti fuerant congregatas, ex metallo purphyretico numero VIII, quas erexit cum epistolis suis et versibus exornavit" (p. 234). Gli scavi archeologici e le ricerche architettoniche degli anni Venti e Sessanta non hanno però ancora permesso di ricostruire le fasi più antiche dell'edificio in maniera definitiva ed univoca. Probabilmente vennero conservate le mura esterne dell'ottagono costantiniano; il rifacimento dell'interno, scandito dalle colonne in porfido fatte portare originariamente da Costantino, venne realizzato secondo il modello di edifici di età costantiniana, quale il mausoleo di S. Costanza sulla via Nomentana: come in questo edificio, lo spazio interno del battistero venne diviso in un alto vano centrale e in una navata anulare più bassa. Le pareti erano rivestite di marmi policromi e scandite da paraste che le delimitavano a scomparti. Una cupola sormontava lo spazio centrale e, secondo alcuni disegni ricostruttivi del sec. XVI, lasciava passare la luce attraverso otto grandi finestre che si susseguivano nella struttura a spicchi. Di una delle due absidi che completavano le estremità del nartece (quella di destra), si conserva il mosaico originale, con motivi di tralci a volute in verde e oro su fondo azzurro cupo. Al tempo di S. e forse alla sua diretta iniziativa si attribuisce l'iscrizione "ad fontem" del ristrutturato battistero lateranense (Inscriptiones latinae christianae veteres, nr. 1513): otto distici incisi sulle superfici degli epistili che definiscono la geometria dell'edificio. C'è indubbiamente una totale integrazione formale e sostanziale tra testo epigrafico e struttura monumentale; ciascun distico, come imposto dalla sua collocazione, è autonomo e in sé conchiuso come una sentenza: "Qui, da un seme divino nasce un popolo, che sarà immortale nel cielo, / che lo spirito fecondatore generò con l'acqua. // Immergiti, o peccatore, tu che devi purificarti nella sacra corrente: / l'onda rinnoverà quello che ha accolto come vecchio. // Non vi è alcuna differenza tra quelli che rinascono, / perché unica la fonte, unico lo spirito, unica la fede compongono in unità. // La madre Chiesa genera con parto verginale mediante l'acqua i figli, / che concepisce per virtù dello Spirito di Dio. // Se vuoi essere mondo, purificati in questo lavacro, / sia che ti trovi oppresso dal peccato originale, sia dalla tua propria colpa. // Qui è la sorgente della vita, che rigenera tutto il mondo, / traendo origine dalla ferita di Cristo. // Voi, rinati in questo fonte, sperate il regno dei cieli; / la vita beata accoglie coloro che non una sola volta sono stati generati. // Né il numero dei suoi peccati o la loro gravità atterrisca qualcuno: / nato in questo lavacro, sarà santo". Nell'area di un edificio di culto già esistente, presso la Prefettura Urbana, S. promosse la costruzione, finanziata dall'evergetismo imperiale, del "titulus Apostolorum" (S. Pietro in Vincoli), come ricordano due iscrizioni, note dalle sillogi e poste probabilmente sulla controfacciata e sull'arco dell'abside principale (Inscriptiones Christianae urbis Romae, II, nr. 67, p. 100; nrr. 2, 3, p. 134; Le Liber pontificalis, p. 234). A S. si deve inoltre il rifacimento del "titulus Lucinae", nel Campo Marzio, con dedica a s. Lorenzo; la basilica reimpiega parte di un'"insula" del III secolo forse concessa da Valentiniano III alla Chiesa per la costruzione dell'edificio. Recenti indagini archeologiche hanno portato alla luce il battistero paleocristiano a conferma del passo del Liber pontificalis in cui si parla anche di un "ministerium ad baptismum" fornito a S. Lorenzo in Lucina (Le Liber pontificalis, p. 234). Nella costruzione di nuovi battisteri all'interno della città (S. Maria Maggiore, S. Sabina, S. Lorenzo in Lucina) S. dimostra di voler creare più poli per l'amministrazione del sacramento in un momento in cui l'ampliamento della comunità cristiana probabilmente rendeva insufficiente il solo battistero lateranense. In ambito suburbano, S. fondò un monastero presso il complesso "ad Catacumbas" sulla via Appia; si tratta del più antico monastero romano di fondazione papale e si inserisce nell'ambito del fenomeno di potenziamento dei santuari suburbani in funzione della loro frequentazione. Inoltre il pontefice fece porre un'epigrafe, il cui testo è stato ricostruito dal de Rossi sulla base delle fonti, al di sopra della porta di accesso alla cripta dei papi nel cimitero di Callisto, sul lato interno, in commemorazione dei vescovi lì sepolti (Inscriptiones Christianae urbis Romae, II, nrr. 23, 23a, p. 66). Riguardo al fervore edilizio che caratterizza il periodo, è da osservare che, con S., diventa ancora più determinante il ruolo svolto dal papato nella costruzione e nella cura degli edifici cristiani: non furono più i ricchi benefattori ad intraprendere in proprio la costruzione dei luoghi di culto, ma i pontefici misero in atto propri programmi, con autorità e prestigio sempre crescenti e per mezzo di un'organizzazione ecclesiastica sempre più strutturata. S. morì il 19 agosto 440 e fu sepolto nella catacomba di Ciriaca presso la tomba del martire Lorenzo, sulla via Tiburtina (Le Liber pontificalis, p. 235). Il culto di S. tardò ad affermarsi (il suo nome viene ricordato solo a partire dal IX secolo). La sua memoria liturgica viene celebrata il 19 agosto. Fonti e Bibl.: Xysti III Papae Epistolae et Decreta, in P.L., L, coll. 583-618 (riproduce l'edizione di P. Coustant del 1721): in questa raccolta figurano dieci lettere, di cui la terza è di Giovanni di Antiochia a Sisto, e la quarta di Euterio di Tiana e di Elladio di Tarso. Le lettere di S. conosciute sono in tutto nove; raggruppate secondo le collezioni che le tramandano e inserite nel contesto dei documenti con cui vanno poste in relazione, sono edite in Collectio Veronensis 30-31, in Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, 2, a cura di E. Schwartz, Berlin-Leipzig 1925-26, pp. 107-10; in Collectio Atheniensis 99-101, ibid., I, 1, pt. VII, a cura di E. Schwartz, ivi 1929, pp. 143-45; in K. Silva-Tarouca, Epistularum Romanorum pontificum ad vicarios per Illyricum aliosque episcopos collectio Thessalonicensis, Romae 1937, pp. 36-43. Per lo stato delle edizioni cfr. H.J. Frede, Kirchenschriftsteller. Verzeichnis und Sigel, Freiburg 1995³, p. 757. Per le questioni generali riguardanti le edizioni delle lettere dei papi, cfr. Clavis Patrum Latinorum, a cura di E. Dekkers, Steenbrugis 1995³, p. 515. Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1955², pp. 232-37 e, per i Gesta de Xysti purgatione, ibid., pp. CXXVI-CXXVII. Studi di carattere generale e ambientazione storica: E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tübingen 1930, pp. 356, 381, 416-22; Dictionnaire de théologie catholique, XIV, 2, Paris 1939, s.v., coll. 2196-99; G. Bardy, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche-V. Martin, IV, Torino 1961, §§ 246, 254, 272-73, 374; B. Studer, Sisto III, in Patrologia, III, a cura di A. Di Berardino, Torino 1978, pp. 556-57; G. Zecchini, I "Gesta de Xysti purgatione" e le fazioni aristocratiche a Roma alla metà del V secolo, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 34, 1980, pp. 60-74; Dizionario patristico e di antichità cristiane, II, Casale Monferrato 1984, s.v., coll. 3244-45; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, II, Milano 1996, s.v., pp. 1398-99. Studi su aspetti specifici per gli sviluppi della questione cristologica dopo il concilio di Efeso: R.V. Sellers, The Council of Chalcedon, London 1953, pp. 15-7; Th. Èagi-Bunic, "Deus perfectus et homo perfectus" a Concilio Ephesino (a. 431) ad Chalcedonense (a. 451), Freiburg 1965, pp. 19-73; L.I. Scipioni, Nestorio e il concilio di Efeso, Milano 1974, pp. 246-77; A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, I, 2, a cura di E. Norelli-S. Olivieri, Brescia 1982, pp. 883-929; per gli interventi di S.: Ch. Pietri, Roma Christiana. Recherches sur l'Église de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III (311-440), I-II, Roma 1976: I, pp. 25-8, 506-09; II, pp. 955-66, 1139-47; per gli sviluppi dell'architettura e dell'arte cristiana a Roma durante il pontificato di S.: G. Wilpert, La proclamazione efesina e i mosaici della basilica di S. Maria Maggiore, "Analecta Sacra Tarraconensia", 7, 1931, pp. 197-213; R. 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