Santo Stefano a Umm er-Rasas
Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’individuazione del sito di Umm er-Rasas si deve ai primi esploratori e studiosi occidentali che, nel corso dell’Ottocento, visitarono il campo di rovine posto in una posizione preminente dell’altopiano a una trentina di chilometri a sud est di Madaba in Giordania. L’estensione e l’entità delle testimonianze archeologiche furono forse intuite già da questi pionieristici surveys, ma certamente nulla lasciava presagire la straordinaria messe di ritrovamenti scaturita dalle sistematiche campagne di scavo dell’Institutum Biblicum Franciscanum, dirette da Michele Piccirillo a partire dal 1986. Le strutture indagate sono in parte concentrate entro il perimetro di un campo fortificato (160 x 140 metri ca.) e in parte dislocate in un comprensorio extra moenia posto a nord; qui si trova il complesso di edifici di culto che va sotto il nome di Santo Stefano, per la dedicazione della chiesa di maggior importanza ivi scoperta. In base ai dati di scavo e alla datazione fornita dalle iscrizioni musive, la chiesa più antica è quella posta lungo il lato nord del complesso: si tratta di un edificio a pianta basilicale concluso da un’abside, affiancata presumibilmente in origine da due ambienti sussidiari. La chiesa è interamente decorata da mosaici pavimentali, datati con precisione al 586 da un’iscrizione musiva posta dinanzi alla base dell’altare, nella quale è ricordato anche il nome del committente, il vescovo Sergio di Madaba (576-603). Altre iscrizioni ricordano i nomi di alcuni benefattori e, in forma anonima, i mosaicisti che realizzarono il pavimento, che presenta, nella nave centrale, un tappeto con girali di acanto, abitati da figure di uomini impegnati in scene di caccia e di vita quotidiana, delimitato da una fascia con tralci di vite, anch’essi abitati, che si diramano da personificazioni delle Stagioni poste agli angoli della fascia di bordura. Gli elementi figurati sono stati tutti resi illeggibili da un intenzionale intervento di obliterazione delle immagini, realizzato togliendo ad una ad una le tessere e quindi riposizionandole, opportunamente mescolate, per colmare la lacuna nel pavimento. Si sono salvate solo poche figure, tra cui gli agnelli della zona presbiteriale e la Stagione dell’angolo sud-est, perché già coperta dalla base dell’ambone aggiunto in un secondo momento all’arredo della chiesa.
La costruzione della chiesa di Santo Stefano, anch’essa a pianta basilicale a tre navate con due pastophoria e un ambone antistante la recinzione presbiteriale, comportò la distruzione della sacrestia e di parte della navata sud della chiesa del vescovo Sergio, ponendosi quindi in un momento ancora più tardo: lo testimonia il largo numero di iscrizioni presenti nei pavimenti musivi, dalle quali apprendiamo i nomi del vescovo committente, Giobbe, non altrimenti noto, e, fatto del tutto eccezionale, quelli dei mosaicisti Staurachios ed Euremios di Esbous: ad essi si deve la realizzazione del mosaico del bema, a motivi rigorosamente aniconici, datato al 756. I mosaici della navata, che riprendono, con maggior complessità, lo schema di quelli della chiesa del vescovo Sergio, sono invece fatti realizzare nel 717 da mosaicisti, rimasti anonimi, per ordine di un altro vescovo di nome Sergio, con il concorso di tutta la popolazione del Kastron Maefaa (nome antico di Umm er-Rasas). Anche qui il ricco campionario di figure di donatori, fedeli, quadrupedi, volatili, pesci guizzanti nel fascione nilotico che delimita il tappeto centrale, sono stati tutti sistematicamente sfigurati con le medesime modalità che abbiamo visto per la chiesa precedente.
La scoperta delle chiese del complesso di Umm al Rasas ha consentito di stabilire con più precisione tempi e modalità del fenomeno, già noto dai resti pavimentali di altre numerose chiese dell’area siro-palestinese, definito come iconofobia, ovvero il rifiuto di veder rappresentati soggetti animati, secondo una concezione propria di alcuni ambienti culturali e religiosi islamici. In particolare la datazione del pavimento della navata della chiesa di Santo Stefano assicura che, a quella data (717) e in un territorio da tempo assoggettato agli Arabi, le locali comunità cristiane potevano liberamente decorare le loro chiese con figure di uomini e animali e che il divieto scattò qualche anno più tardi, forse in concomitanza con quell’editto promulgato dal califfo Yazid II (687-724) nel 723, che ordinava l’obliterazione e l’abbattimento di raffigurazioni e “immagini di diversi colori”. Sullo sfondo si muove ovviamente il nascente sentimento iconoclasta nell’impero bizantino, contro il quale e a favore del culto delle immagini si espressero anche insigni personalità del mondo siro-palestinese come Giovanni Damasceno e Teodoro Abu Qurrah. Ovviamente a Bisanzio nessuno si sognava di vietare indistintamente la rappresentazione di esseri animati; in ambito islamico, invece, il tema poteva avere un suo peso sulla base dell’interpretazione di alcuni hadith (detti tramandati) riferiti al Profeta e per la pressione esercitata dal pensiero giudaico, anch’esso tradizionalmente avverso alla raffigurazione di esseri viventi per tema di incappare in un peccato di idolatria. Che sia stata una decisione autonoma dei cristiani, o che sia stata invece imposta dai dominatori arabi (forse in ragione di un uso promiscuo tra cristiani e musulmani degli edifici di culto), la elisione delle figure nei mosaici pavimentali è comunque, per il procedimento adottato, un intervento eseguito da chi aveva a cuore la conservazione complessiva del pavimento, tanto per la bellezza e il decoro che assicurava all’edificio di culto, quanto per il suo valore di devota offerta da parte dei membri della comunità locale, i cui nomi e le cui effigi comparivano su questa sorta di ”tappeti di preghiera”, e va quindi ascritta interamente a maestranze cristiane.
A queste alterazioni si sottrassero ovviamente le rappresentazioni di città della Transgiordania, della Palestina e dell’Egitto, disposte in corrispondenza degli intercolumni e della fascia nilotica che delimita il tappeto della nave centrale. Queste vignette, riconoscibili grazie alle iscrizioni che le accompagnano, rientrano in una fiorente trafila dell’arte musiva locale – basti pensare ai pavimenti delle chiese di al-Quweismeh e di Ma’in degli inizi dell’VIII secolo e, prima ancora, al celebre mosaico pavimentale noto come Carta di Madaba: esse si rifanno per lo più alla tradizione cartografica ellenistico-romana, proponendo schemi stereotipati della città turrita da cui emergono i monumenti principali, in qualche caso ben riconoscibili, come ad esempio l’edicola del Santo Sepolcro a Gerusalemme.