Tommaso d'Aquino, santo
Tommaso d'Aquino (Thomas; Tomma), santo.
I II. Il contesto storico: 1. La vita, p. 626; 2. Prime polemiche intorno al tomismo, p. 627; 3. Il tomismo e l'ambiente filosofico del XIII secolo, p. 628, Temi del dibattito, p. 630, La dottrina tomista della materia, p. 631, Tommaso e il platonismo, p. 632; 4. La formazione filosofica di Dante e il tomismo, p. 632. - II. La presenza di Tommaso in Dante: 1. Tommaso tra Aristotele e Dante, p. 633; 2. Tommaso maestro di metodo, p. 634; 3. Tommaso nel Paradiso, p. 634. - III. Dottrine dantesche e insegnamento di Tommaso, a) Cosmogonia: 1. La creazione, p. 635, L'oggetto della creazione, p. 635, Materia prima e creazione, p. 636; 2. Gli angeli, p. 637, Esistenza, natura e origine degli angeli, p. 637, Angeli e cieli, numero e ruolo causale degli angeli, p. 638, Gli ordini angelici, p. 639, Intelletto, volontà e memoria angelica, p. 639; 3. I corpi celesti, p. 639, I primi nove cieli, p. 640, Il cielo Empireo, p. 640. b) Antropologia: 1. Rapporto anima-corpo, p. 641; 2. Natura dell'anima, p. 642; 3. L'origine dell'uomo, p. 644; 4. Il fine dell'uomo, p. 645, La nozione di desiderio naturale, p. 645, Il fine naturale dell'uomo in quanto essere immortale, p. 646, Il fine naturale dell'uomo in quanto essere mortale, p. 647, I duo ultima, p. 647. - IV. Conclusioni generali, p. 648.
È certo che T. esercitò una profonda influenza sul pensiero di D., ma definire la natura e l'ampiezza di tale influenza è questione non facile e molto dibattuta. In questa voce il problema sarà studiato sotto tre aspetti: il contesto storico, l'atteggiamento complessivo di D. nei riguardi di T., il confronto analitico di alcune specifiche posizioni dottrinali. Le principali questioni toccate in tale confronto riguarderanno, come vedremo, le concezioni di D. e di T. in merito all'origine e alla struttura dell'universo (cosmogonia), e alla composizione anima-corpo dell'uomo (antropologia). Tali questioni saranno oggetto di due trattazioni separate, mentre in un paragrafo conclusivo valuteremo i risultati dell'analisi per trarne conclusioni di ordine generale.
I. Il contesto storico.
1. La vita. - T. nacque a Roccasecca (1225-26) dai conti d'Aquino. Oblato nel monastero di Montecassino, studiò poi a Napoli, dove ebbe maestro Pietro d'Irlanda. Entrò nell'ordine dei domenicani dopo aver superato aspri contrasti familiari, e proseguì gli studi a Parigi e poi a Colonia (qui fu suo maestro Alberto Magno). Tornato a Parigi, insegnò come baccelliere (1252-56), commentando alcuni libri della Bibbia e le Sentenze di Pietro Lombardo (v.). Lo scoppio della polemica tra i maestri secolari della facoltà di teologia e i maestri appartenenti agli ordini mendicanti ritardò il conseguimento della licentia docendi, che venne solo nel 1256; nel 1257 fu incluso nell'albo dei maestri di teologia. Alla sua attività magistrale di questo periodo si devono, oltre ai commenti ricordati, le Quaestiones disputatae de veritate e alcuni Quodlibeta. Nel 1259 torna in Italia, ed è nominato lector Curiae da Urbano IV nel 1261. Alla curia romana svolge infatti la sua attività magistrale fino al 1268. La sua produzione è intensa: termina la Summa contra Gentiles, stende il commento al De divinis nominibus dello pseudo-Dionigi Areopagita (v.) e all'Etica a Nicomaco di Aristotele; avvia l'Expositio della Metafisica e lavora alla Summa theologiae e al De Regimine principum. Alla curia ebbe inizio la sua collaborazione con Guglielmo di Moerbeke, che per lui tradusse o revisionò la traduzione di opere di Aristotele e di altri filosofi greci. Nel 1269 è nuovamente a Parigi, e l'anno seguente interviene nella polemica suscitata alla facoltà delle Arti dai maestri averroisti con il De Unitate intellectus contra Averroistas, mentre difende il suo aristotelismo dalle accuse dei teologi agostiniani; completa il commento alla Metafisica, inizia quello alla Politica (incompiuto). Tornato a Napoli nel 1272, lavora alla Summa theologiae (fino a III 90; il Supplementum è di Giovanni da Piperno) e scrive il Compendium theologiae. Nel 1274 lascia Napoli alla volta di Lione, per partecipare al concilio ivi convocato, ma muore a Fossanova il 7 (o 9) marzo dello stesso anno. Fu canonizzato da Giovanni XXII nel 1323.
Da rilevare che in Pg XX 69, D. accredita la fantasiosa versione della morte di T. data da G. Villani (Cron. IX 218), secondo cui il santo sarebbe stato avvelenato su ordine di Carlo I d'Angiò. Il nome di T. è ricordato inoltre in Pd X 99 (nella forma latina Thomas), XII 110 (nel latinismo ibrido Tomma: v. Parodi, Lingua 235) e 144, XIV 6, Cv II XIV 14, IV VIII 1, XV 12, XXX 3, Mn II IV 1 e 3.
Gran parte della vita di D. coincide col primo e, forse, più turbolento periodo della storia del tomismo, il mezzo secolo, cioè, che va dalla morte di T. (1274) alla sua canonizzazione (1323). Il tomismo, infatti, proprio perché costituiva una sintesi speculativa di estremo vigore e originalità, suscitò una quantità di controversie e opposizioni, che si protrassero nei decenni seguenti la morte del santo, in buona parte su iniziativa di membri dell'ordine francescano.
Quando negli anni immediatamente posteriori al 1290, D. intraprese la propria educazione filosofica frequentando le scuole de li religiosi e... le disputazioni de li filosofanti (Cv II XII 7), egli dovette cogliere l'eco di tali controversie o in Santa Maria Novella o in Santa Croce, cioè in uno dei due conventi fiorentini (domenicano il primo, francescano il secondo) a cui il passo citato certamente allude (v. SCUOLA). Proprio in questo periodo il tomismo stava rapidamente avviandosi a costituire la tradizione ufficialmente riconosciuta dei domenicani (v. la legislazione del capitolo generale dell'ordine del 1278, 1279 e 1286, in Monumenta Ordinis Fratrum Praedicatorum Historiae, ediz. Reichert, III, 199, 204, 235), divenendo così un importante fattore per il loro spirito di corpo e per la loro rivalità con i francescani. Cosa D. pensasse di tale deplorevole discordia lo lasciano intendere i canti X-XII del Paradiso, anche se egli non espresse mai delle opinioni sul tomismo in quanto tale. È interessante notare, per inciso, che T. quasi certamente si fermò per qualche tempo a Firenze nell'estate 1272, per prendere parte al capitolo generale dei domenicani che si era aperto colà il 12 giugno. Egli aveva infatti lasciato Parigi in aprile ed era in viaggio alla volta di Napoli per organizzare un nuovo studium generale dell'ordine per la provincia romana (cfr. A. Walz, San T. d'Aquino, 1945, 157-159).
2. Prime polemiche intorno al tomismo. - Che il tomismo fosse destinato a suscitare polemiche era fatale. Gran parte delle sue posizioni fondamentali T. era venuto elaborandole attraverso un'analisi critica delle filosofie non cristiane (specialmente nella grande Summa contra Gentiles) e scegliendo deliberatamente Aristotele come sua principale guida in filosofia. Effetto immediato di tale scelta fu quello di evidenziare anzitutto l'aspetto ‛ critico ' del suo pensiero. Il tomismo, quale emerse negli anni tra il 1260 e il 1280, fu visto di conseguenza come una formidabile critica, da un lato, dell'intera tradizione neoplatonica nella sua veste greca, araba e cristiana e, dall'altro, dell'aristotelismo falsamente ‛ puro ' quale T. considerava quello di Averroè, " non tam peripateticus... quam peripateticae philosophiae depravator " (De Unitate intellectus contra Averroistas, cap. 2).
Ma nella sua carica critica il tomismo risultò ancor più pericoloso allorché parve scuotere posizioni teologiche inveterate o, più precisamente, certe posizioni filosofiche più o meno neoplatoniche, che si ritenevano in qualche modo inseparabili dalla sana teologia e sanzionate dall'autorità di Agostino, maestro riconosciuto della teologia occidentale. Ma a questo punto si rende necessaria una precisazione. La resistenza dei conservatori al tomismo, quale emerse a Parigi e Oxford tra il 1270 e il 1290, fu solo in senso lato agostiniana. Le questioni in discussione tra T. da una parte e gli oppositori in nome della tradizione dall'altra (Bonaventura e in certo senso persino Alberto Magno, a detta di Nardi, e inoltre Kilwardby, Pecham, Guglielmo de la Mare) erano infatti di natura più filosofica che teologica. Il contributo di studiosi moderni come D. Callus, P. Glorieux, É. Gilson e F. Van Steenberghen, è valso molto a chiarire gli antecedenti filosofici di tale corrente antitomista tra il 1270 e il 1280.
In sostanza, si trattò di quell'aristotelismo neoplatonizzante ed eclettico che, tra il 1230 e il 1250, aveva incontrato i favori di teologi come Gugliemo di Auvergne e Alessandro di Hales. Se nel 1270 un sincretismo di questo genere appariva anacronistico, tuttavia, sotto la copertura del nome autorevole di Agostino, poteva ancora servire come difesa contro le ‛ novità ' tomiste. La situazione, quale la prospettano - fatte salve divergenze di dettaglio - molti studiosi attuali, è ben compendiata dalle considerazioni di Van Steenberghen a commento della celebre condanna pronunciata dal vescovo di Parigi, nel 1277, contro le nuove tendenze in filosofia: " È esatto dire che la condanna colpisce la filosofia aristotelica qual era insegnata a Parigi alla facoltà delle Arti da un lato e da Tommaso d'Aquino e i suoi primi discepoli dall'altro.... Ma a quale filosofia veniva opposta la filosofia condannata? A quella che era in auge da una quarantina d'anni presso la maggior parte dei teologi parigini, secolari, francescani e anche domenicani (eccettuato Tommaso d'Aquino). L'opposizione tra questa filosofia e quella di s. Tommaso non era opposizione tra un sistema agostiniano e un sistema aristotelico, ma tra due forme non parimenti evolute dell'aristotelismo latino: ancora inconsistente ed eclettico presso i teologi... fino a Bonaventura, l'aristotelismo aveva assunto la forma d'una robusta sintesi in Tommaso d'Aquino ". E la sintesi tomista appariva sospetta in ragione della sua " incontestabile parentela con l'aristotelismo di Sigieri e dei suoi partigiani " (Histoire de la philosophie, I, Période chrétienne, 1964, 113-114).
Se con l'attacco sferrato contro il tomismo quei teologi credevano di operare in difesa del dogma e della tradizione cattolica, essi di fatto stavano difendendo certe determinate tesi filosofiche che sinceramente ritenevano in armonia con la fede e, nella sostanza, già sostenute da Agostino (cfr. F.J. Roensch, The Early Thomistic School, 1964, cap. 4). E queste tesi, in quanto costituenti un corpo dottrinale profondamente imbevuto di neo-platonismo, rivestono una grande importanza per definire l'entità del tomismo dantesco. Le principali di queste tesi " neoagostiniane " - per adottare un termine di Van Steenberghen - erano: che la materia è presente in tutte le creature, quale fondamentale principio di distinzione da Dio (ilemorfismo universale); che la ‛ materia prima ' dei corpi naturali (la prima materia de li elementi di Cv IV I 8) non è pura potenza, come sosteneva T., ma è dotata di una seppur minima attualità o forma; che l'uomo è composto di una pluralità di forme, l'una sovrapposta all'altra: la forma corporeitatis, la vegetativa, la sensitiva, l'intellettiva, e che quest'ultima è dotata di una sua propria ‛ materia spirituale '; che, infine, il principio d'individuazione di ogni essere creato non è la materia ma la forma.
Il significato che tali proposizioni assunsero all'interno del movimento antitomista diverrà più chiaro col procedere della nostra analisi dottrinale, ma intanto, prima di aggiungere altro, sarà bene richiamare, brevemente, alcuni dati di fatto e alcuni avvenimenti.
Negli anni 1267-68 (e ancora nel 1273) s. Bonaventura, predicando a Parigi, ebbe a denunciare certi errori filosofici ricorrenti in quella università. Nel 1270 il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, condannò 13 proposizioni averroistiche (Chart. Univ. Paris., I, pp. 486-487) e intorno allo stesso periodo Egidio Romano pubblicava il suo breve ma assai efficace trattato De Erroribus philosophorum (ediz. Koch, 1944). Ma ciò nonostante, nella facoltà delle Arti dell'università l'averroismo continuava a diffondersi; giunse così nel marzo 1277, da parte di Tempier, la famosa condanna dei 219 ‛ errori ', una quindicina dei quali sono riconoscibili come tomisti (Chart. Univ. Paris., I, pp. 543-558). La condanna, ovviamente, mirava soprattutto a colpire l'aristotelismo averroistico e il suo principale sostenitore nell'università parigina, Sigieri di Brabante. T. era morto da poco - con gran rimpianto da parte degli ‛ artisti ' di Parigi (cfr. K. Foster, The Life of St. Thomas: Biographical Documents, 1959, 153-157) - e Sigieri era ormai fuggito in Italia ove, pare, venne trattenuto in custodia presso la curia fino alla sua infausta morte, avvenuta in Orvieto tra il 1281 e il 1284 (cfr. Pd X 133-138 e anche Fiore XCII 9-11).
Pochi giorni più tardi, il 18 marzo, l'arcivescovo di Canterbury, il domenicano Kilwardby, mosse un attacco contro il neoaristotelismo di Oxford e questa volta con particolare energia contro la tesi tomistica dell'unità della forma sostanziale dell'uomo, tesi che, piuttosto stranamente, era stata tralasciata da Tempier a Parigi. Per i domenicani di Oxford ebbe così inizio un periodo veramente difficile. Infatti il successore di Kilwardby, il francescano Giovanni Pecham (m. 1292), si rivelò un ancor più acceso antitomista (su ciò v. D.A. Callus, The condemnation of St. Thomas at Oxford, in Aquinas Papers, [Londra] 1946, e specialmente il contributo ai Mélanges... Gilson, 1959, pp. 123-160). Nel 1282 il capitolo generale francescano, riunitosi a Strasburgo, prese il serio provvedimento di adottare come punto di vista ufficiale dell'ordine sul tomismo il Correctorium di Guglielmo de La Mare, consistente in una sistematica ‛ correzione ' della dottrina tomistica sulla base di quella agostiniana e bonaventuriana (ediz. P. Glorieux, in " Bibliothèque thomiste " IX, 1927; l'analisi è in F.J. Roensch, op. cit., pp. 182-187). L'opera rappresenta una ‛ summa ' della reazione neoagostiniana contro Tommaso. Risposte da parte dei tomisti non mancarono, specialmente in Francia e in Inghilterra, tanto che la controversia proseguì ancora per un ventennio. L'Italia fu toccata meno dalla polemica per ragioni cui accenneremo più avanti. Degl'italiani in essa coinvolti basterà ricordare i domenicani Giovanni di Napoli (m. circa 1350), Ramberto de' Primadizzi di Bologna (m. 1308), Bartolomeo da Lucca (m. 1326), il francescano Matteo d'Acquasparta (m. 1302) e il celebre frate agostiniano Egidio Colonna (m. 1316).
Nel complesso, dato che Parigi e Oxford rappresentavano i due centri principali della speculazione occidentale, in Francia e in Inghilterra si ebbero i più accesi dibattiti intorno alle questioni filosofiche - quali l'unicità della forma umana, l'ilemorfismo e il principio d'individuazione - implicate nella polemica. In Francia una delle caratteristiche del dibattito fu l'opposizione intervenuta tra gli stessi domenicani (Hervé Nédellec e Durando di s. Porciano); la Germania invece fu ben poco interessata alla controversia.
In certo senso, capo dell'intiera reazione antitomista fu il francescano inglese Giovanni Pecham. Ai suoi occhi più di teologo che di filosofo, la posta in gioco, sostanzialmente, era l'autorità della rivelazione nei confronti della capacità della ragione umana.
Il tomismo - in questo senso - non rappresentava che uno degli aspetti di quel più vasto movimento ‛ razionalistico ' che " vilipensis sanctorum sententiis, philosophicis dogmatibus quasi totaliter innititur, ut plena sit idolis domus Dei " (Registrum Epist. III, p. 871). Nella sua qualità di arcivescovo, Pecham ebbe modo di rafforzare le proprie vedute con sanzioni canoniche e, del resto, anche le autorità domenicane, come si è visto, non erano meno sollecite nell'adottare metodi analoghi per fare del tomismo la dottrina ufficiale del loro ordine. Ciò che un singolo aveva conseguito per amore di verità, veniva ora imposto come ortodossia istituzionale. Esempio quanto mai illuminante di una simile contaminazione di problemi intellettuali e passione di parte - esempio vicino a D. e nello spazio e nel tempo - è il decreto con cui il capitolo provinciale domenicano della provincia romana, tenutosi ad Arezzo nel 1315, condannava aspramente frate Uberto Guidi " florentinus " per aver criticato pubblicamente la " sanam et sanctam doctrinam venerabilis doctoris fr. Thomae de Aquino " (Monumenta Ord. Fratr. Predic. Hist., XX 197).
È nel clima di questa spaccatura sempre più profonda tra i due grandi ordini, di quest'irrigidirsi - attraverso un'aspra opposizione dottrinale - della loro già naturale rivalità, che vanno letti i canti X-XIII del Paradiso. Questi canti costituiscono un'appassionata protesta contro il fatto, già rilevato da Pecham nel 1285 (Registr. Epist. III, pp. 901-902), che " salvo i fondamenti della fede ", il contrasto tra i due ordini era pressoché totale. Eppure, se ambedue questi ordini erano stati fondati ad un fine, perché mai separare Domenico da Francesco e Bonaventura da Tommaso? E questi canti non sembrano suggerire quanto meno l'idea che, se D. fu un tomista, egli non desiderò di essere considerato tale in senso troppo esclusivo?
3. Il tomismo e l'ambiente filosofico del XIII secolo. - Fin qui ci siamo occupati più delle ripercussioni dell'opera di T. che non del suo concreto apporto storico e più, difatti, di coloro che l'attaccarono che non di coloro che la difesero. Ma è chiaro che molto ancora ci sarebbe da dire di essenziale. D. infatti, qualunque cosa sia stato, non fu certo un anti-tomista, né inoltre c'è da supporre che quando prese a interessarsi di T. egli avesse grande dimestichezza con i dibattiti teologici tra frati.
Ciò che D., in quel momento, desiderava sopra ogni cosa erano la verità e la sapienza, ovunque fosse dato trovarle, e quanto sappiamo delle sue propensioni intellettuali induce a credere che l'iniziale entusiasmo suscitato in lui dalla lettura di Boezio e di Cicerone (Cv II XII 2-4) dovette spingerlo come prima cosa allo studio del mondo sensibile tramite la scienza e la filosofia: procedendo da quello che conoscemo meglio in quello che conoscemo non così bene... in quanto questa via di conoscere è in noi naturalmente innata (II I 13). Orbene, se maestro sommo in questi studi era ovviamente Aristotele, lo maestro de l'umana ragione (IV II 16), i maestri riconosciuti nel campo degli studi aristotelici, nel tardo Duecento, erano appunto i domenicani, che questa posizione si erano assicurati col grande seguito di parafrasi e commenti compilati da Alberto Magno prima, e poi da T., " praecipui viri in philosophia ", come ebbe a chiamarli il maggior esponente del radicalismo aristotelico, Sigieri di Brabante (De Anima intellectiva, ediz. B. Bazán, Lovanio-Parigi 1972, 81). Ci sono pertanto tutte le ragioni per ritenere che D., per la propria formazione aristotelica, ebbe a frequentare in modo particolare Santa Maria Novella; tale supposizione è confortata da quello che sappiamo sulla diversità dell'ambiente intellettuale di questo convento rispetto a quello di Santa Croce, diversità documentata dalle loro rispettive biblioteche (cfr. E. Guidubaldi, D. europeo, II, pp. 73-105, ove sono riassunte le ricerche di Mattesini, Davis, Orlandi e altri).
La storia dell'aristotelismo duecentesco è troppo nota nelle sue linee generali, perché occorra ripeterla in questa sede. Di grande importanza per il nostro argomento è invece porre in rilievo uno dei tratti più costanti della sua evoluzione, il tentativo, cioè, di operare una sintesi tra corpus aristotelico e tradizione neoplatonica. La tradizione neoplatonica divenne in parte accessibile all'Occidente, ovviamente, attraverso Agostino, lo pseudo-Dionigi e Boezio; mentre la traduzione latina del corpus aristotelico ebbe inizio con il secolo XII: avviata con la versione dal greco di buona parte delle opere di Aristotele, essa fu compiuta con versioni dall'arabo di opere già tradotte, o non ancora note, e di altre non aristoteliche ma attribuite allo Stagirita (Liber de causis, ricavato dall'Elementatio theologica di Proclo; Theologia Aristotelis, derivata dalle Enneadi di Plotino); insieme, furono tradotte le opere di ‛ peripatetici ' che avevano risentito fortemente dell'influenza neoplatonica, quali Avicenna e Algazel. Ne risultò un corpus peripateticorum vasto ed eterogeneo, che se conteneva tutto intero Aristotele, ne condizionava la lettura fornendone una determinata chiave interpretativa. L'opera di acquisizione di Aristotele si concluse con una nuova versione dal greco dell'intero corpus aristotelico compiuta da un collaboratore di T., Guglielmo di Moerbeke (1215-1286), il quale rese accessibili a T. anche alcune opere dei tardi commentatori greci nonché la stessa Elementatio di Proclo (v. M. Grabmann, G. di Moerbeke..., in Miscell. hist. pont. XI 20 [1946] e anche Bulletin thomiste VIII [1947-1953] 221-231). Nel frattempo, già dal 1235, si disponeva della versione latina dei grandi commentari di Averroè.
Per valutare il ruolo svolto da T. nell'immane compito di assimilazione di tutto questo materiale nella cultura occidentale, sceglieremo, tra i tanti punti di vista, quello che meglio corrisponde al nostro scopo: l'atteggiamento di T. nei confronti del platonismo. Come già Platone era stato sottoposto a critica da parte di Aristotele, anche il neoplatonismo conobbe alcuni momenti salienti di revisione e di critica nell'arco di tempo che va dall'età di s. Agostino (IV-V sec.) al tardo Duecento. I tre momenti principali di questo processo di revisione sono da identificare col neoplatonismo cristiano (Agostino e lo pseudo-Dionigi), l'aristotelismo di Averroè (m. 1198), e il sistema di T. d'Aquino.
Quanto al primo basterà notare quale esso dovette apparire agli occhi di T., il quale sia in Agostino che in Dionigi non vide soltanto, com'è ovvio, due ‛ platonici ' ma anche due ‛ correttori ' del platonismo in virtù della loro fede cristiana. Ambedue, infatti, avevano identificato le forme sussistenti per sé (le " quaedam substantiae creatrices " dei platonici) con le idee riposte nella mente divina (Sum. theol. I 84 5; In Liber de Causis, ediz. Saffrey, 1954, pp. 20, 24, 28, 68), mentre un'accorta interpretazione di Agostino rendeva la sua noetica rispettosa della distanza tra mente umana ed essenza divina (De spiritualibus creaturis 10 ad 8, cfr. Sum. theol. I 84 5; v. anche É. Gilson, in " Archives d'histoire doctrinale et littéraire du moyen-âge " I [1926] 1-127).
Il secondo momento è costituito dalla critica mossa da Averroè contro i filosofi mussulmani che l'avevano preceduto, in particolare Avicenna. Una critica ispirata, questa volta, non da motivi religiosi, ma al contrario dal desiderio di depurare la filosofia da incrostazioni teologiche e mistiche. La filosofia, nella sua purezza razionale, era tutta in Aristotele, mentre le incrostazioni erano quelle lasciate dal neoplatonismo, alla cui rimozione Averroè pose mano avvalendosi del metodo del ‛ commento letterale ' al testo di Aristotele. Fu così che, nell'interpretazione del testo aristotelico, Averroè venne considerato la somma autorità, e ciò fino a quando la sua preminenza in materia non venne messa in forse da T. che, in tutti i casi, fu anch'egli da questo punto di vista un alunno di Averroè. La sostituzione da lui operata del metodo parafrastico di Alberto Magno, con un'analisi rigorosa, parola per parola, del testo di Aristotele, non faceva che percorrere la via seguita da Averroè per perfezionare l'opera compiuta da Avicenna. E un fatto importante da sottolineare è che, alla fine del Duecento, nel momento in cui D. stava iniziandosi alla filosofia con uno studio accurato di Aristotele, le due grandi autorità riconosciute in questo campo erano proprio Averroè e T., e che quest'ultimo godeva di una reputazione forse superiore a quella del filosofo arabo (cfr. C. Fabro, in Enciclopedia Cattolica, XII 265-266).
In effetti, per i contemporanei di D. averroismo e tomismo rappresentavano i due sistemi che con più diritto potevano aspirare al titolo di autenticamente aristotelici. Ambedue i sistemi, infatti, consideravano la materia prima come pura potenza e la " materia signata quantitate " come principio distintivo degl'individui di una stessa specie. Ambedue, inoltre, facevano mostra di un rigore scientifico quale non era dato trovare in sistemi d'ispirazione più spiccatamente platonica, e ambedue operavano una netta distinzione - ma con esiti totalmente differenti - tra ciò che è dimostrabile razionalmente e ciò che non lo è.
Quando T. sostenne contro il neoagostinismo che l'eternità del mondo non poteva essere ‛ confutata ', egli corse il rischio di essere preso per un averroista. Storicamente parlando, la differenza più importante tra averroismo e tomismo è costituita dall'antropologia. Mentre per T. il principio intellettivo dell'uomo costituisce la forma sostanziale del corpo, e perciò si moltiplica col moltiplicarsi degli esseri umani individuali, per Averroè esso è una sostanza ‛ separata ', e perciò una e unica per tutti. E T. sostenne che la sua posizione era vera non solo in sé stessa ma anche per Aristotele (De Anima III 4-5, 429a 10 - b4, 430a 15-25; cfr. De Unitale intellectus contra Averroistas, capp. 3-5).
Per quanto riguarda il terzo momento della critica al neo-platonismo - il sistema stesso di T. - più che tentarne una diretta ricostruzione, lasceremo che emerga nelle sue grandi linee nel breve profilo storico che faremo della sua formazione e delle sue ripercusssioni (per una breve, ma attendibile e felice esposizione, v. l'articolo già citato di C. Fabro, in Enc. Catt., XII 252-297).
Nel complesso, lo sbocco naturale a cui pervenne il movimento aristotelico è indicato da D. tra il 1306 e il 1307: e tiene questa gente [i Peripatetici] oggi lo reggimento del mondo in dottrina... e puotesi appellare quasi cattolica oppinione (Cv IV VI 16). Anche se riferite direttamente alla filosofia morale, le parole di D. possono esser prese naturalmente in senso molto più vasto. Aristotele, infatti, era a quel tempo il supremo maestro dell'Europa dotta in tutte le questioni accessibili alla ragione naturale; e, ovviamente, una profonda influenza egli esercitò anche sulla teologia. Quanto fosse profonda, lo si può giudicare dalla condanna postuma decretata dal concilio di Vienne, nel 1312, nei confronti del francescano e inflessibile antitomista, Pier Giovanni Olivi (v.), per l'eccessivo dualismo da lui professato nei riguardi del rapporto anima-corpo. L'anima razionale, dichiarava il concilio, è " per se et essentialiter humani corporis forma " (Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, 1963, p. 284). Intesa come salvaguardia nei confronti del misticismo eterodosso e anche, non c'è dubbio, dell'averroismo, quella formula segna la prima adozione ufficiale, da parte della Chiesa, di una tesi specificamente tomista. Essa a un tempo rappresentava una sconfitta per i francescani più accesamente anti-tomisti e un primo passo verso la canonizzazione di T. nel 1323.
Nel 1323 D. era già morto: nel suo T., che aveva celebrato s. Francesco nel cielo del Sole e che si era trovato fianco a fianco col suo antico antagonista Sigieri di Brabante, s'incarnava un ideale di riconciliazione che la canonizzazione avrebbe dovuto realizzare ma che di fatto non realizzò. Se, nel suo complesso, la rappresentazione dantesca presuppone il mezzo secolo di discordie dottrinali che avevano preceduto la composizione dei canti X-XII del Paradiso, la presenza in essi di Sigieri riporta in particolare alla grande crisi parigina del 1270, all'urto verificatosi tra la facoltà di teologia e il vescovo Tempier da un lato, e un gruppo di filosofi della facoltà delle Arti guidati da Sigieri, dall'altro. Quanto alla posizione di Sigieri (v.), tra gli studiosi c'è disaccordo: per Mandonnet si trattò di un averroista puro e, copertamente, di un eretico; per Van Steenberghen si trattò di un aristotelico puro, la cui interpretazione di Aristotele rimase aperta, oltre che all'influenza di Averroè, anche a quella di pensatori come Proclo, Alberto Magno e T., e la cui ‛ eresia ' altro non era che un'intensa vocazione di filosofo per il proprio compito e per l'autonomia della ragione, nel suo ambito naturale. Gilson e Nardi hanno invece assunto una posizione intermedia (v. l'art. di B. Nardi, in Enciclopedia Cattolica, XI 560-562).
Per quanto ci riguarda, basterà rilevare due fatti: anzitutto che il trattato polemico di T., il De Unitate intellectus contra averroistas (1270), fu scritto certamente contro Sigieri (cfr. B. Nardi, art. cit., p. 560), e, inoltre, che i teologi dell'ala conservatrice tentarono, da parte loro, di coinvolgere T. nella condanna pronunciata da Tempier, nel 1277, contro Sigieri e il suo gruppo e, in genere, contro il razionalismo eterodosso. E sarà bene ricordare che le 219 proposizioni condannate comprendevano un insieme di dottrine assolutamente incompatibili col cristianesimo. In particolare: che l'universo emana da Dio eternamente e necessariamente, secondo una catena causale che vede prima le intelligenze eterne, poi i corpi celesti e, infine, il mondo sub-lunare, le cui forme transeunti sono tratte dalla materia increata; che di queste ultime Dio è solo " causa remotissima " e pertanto non può averne conoscenza ‛ immediata ' (il che comporta la negazione della Provvidenza); che l'individuo come tale non ha un'anima razionale, in quanto soggetto effettivo del suo pensiero e della sua volontà mediante l'immaginazione; che l'individuo come tale non ha libero arbitrio e non è immortale; che non ci fu un primo uomo " nec erit ultimus ", ma si dà solo una serie infinita d'individui transeunti, congiunti con un singolo intelletto, separato e immortale (Chart. Univ. Paris., I, pp. 486-487, 543-558; cfr. P. Mandonnet, Siger de Brabante..., II, pp. 175-191).
Anche se questo corpo di dottrine, quale fu messo assieme da Tempier, non ha una sua piena coerenza interna (e perciò non può venir designato semplicemente come averroismo), tuttavia trova il suo elemento unificante in un certo atteggiamento che potremmo definire razionalistico e, in particolare, nella convinzione dell'autonomia e dell'autosufficienza della filosofia (cfr. le tesi nn. 16, 37, 40, 150, 154 e 177). Non a caso l'atteggiamento espresso nella condanna è significativamente in linea con l'attacco portato da s. Bonaventura a Parigi, tra il 1267 e il 1273, in una celebre serie di Collationes, proprio contro questa nozione dell'autosufficienza della filosofia. Quando si consideri che i domenicani Alberto Magno e T. erano già noti per aver sostenuto, a più riprese, una netta ‛ distinzione ' tra teologia e filosofia, diviene difficile non convenire con Gilson quando afferma che, in questo senso, i due domenicani erano in qualche modo i bersagli indiretti sia di Bonaventura che di Tempier (La philosophie de S. Bonaventure, Parigi 1953, pp. 27-33; quanto al problema della sostanziale differenza tra teologia e filosofia, e dell'autonomia di quest'ultima, D., come vedremo meglio dopo, tende a schierarsi con i domenicani, e non è da escludere che questa sia una delle ragioni dell'esaltazione di Sigieri di Brabante in Pd X 133-138). Si è comunque concordi nel ritenere che la condanna comprendeva alcune tesi, come quelle sull'immaterialità degli angeli, sulla materia come principio d'individuazione, sul rapporto tra intelletto e volontà, nelle quali T. avrebbe potuto riconoscersi.
Temi del dibattito. La condanna del 1277 rappresentò una svolta decisiva. Essa espresse, e promosse insieme, quel processo di separazione tra ragione e fede, tra teologia e filosofia, che segnò il punto di rottura della sintesi medievale. E, com'è ovvio, non si trattava di una semplice separazione d'idee ma, implicitamente, anche di forme di cultura. Nella separazione avvenuta a Parigi, nel 1277, tra facoltà di teologia e facoltà delle Arti, possiamo scorgere in nuce quella che poi sarà la separazione tra cultura del chierico e cultura del laico e che, già delineatasi al tempo di D., il poeta tentò in certo senso di superare. Ma prima di anticipare conclusioni, sarà bene completare il quadro delle controversie suscitate dal tomismo.
Queste controversie vertevano soprattutto su tre punti: l'unità della natura umana, il rapporto tra speculazione umana e ‛ illuminazione ' divina, e quello tra materia e individualità.
Quanto al primo punto abbiamo già rilevato come la tesi tomista dell'unità della forma umana fosse assente dalle proposizioni condannate da Tempier. La cosa può risultare sorprendente, non solo perché la tesi opposta della pluralità delle forme era vigorosamente sostenuta da Bonaventura, dal suo discepolo Pecham e in genere dai francescani, e non solo perché Pecham, nel 1285, aveva affermato che la tesi di T. era stata duramente e nettamente combattuta nel 1270 dai teologi parigini, ma anche perché Pecham stesso, in una lettera precedente, aveva insinuato che la teoria dell'unità della forma era un'invenzione degli averroisti condannati nel 1277 (Register. Epist. 841-842, 871, 899). Alla prova dei fatti, questo tentativo di screditare la tesi di T. fallì in pieno, dal momento che la Chiesa, come abbiamo visto, la fece virtualmente propria al concilio di Vienne, e D. stesso sembra quanto meno ad essa vicino in Cv III II 11-14 e Pg IV 1-6.
Quanto al rapporto tra speculazione umana e illuminazione divina va detto che la critica di T. ad Agostino toccava un punto ben più delicato, quello in cui attività intellettuale e sensibilità religiosa s'incontrano e si fondono. Negare (tranne che in un senso tutto particolare) che l'anima conosce il mondo " in rationibus aeternis " (Sum. theol. I 84 5) oppure - come si era espresso Bonaventura - che " intellectus noster nihil intelligit nisi per primam lucem " (I Sent. 8 1 1 2) rappresentava una minaccia sia per la spiritualità tradizionale che per la gnoseologia comunemente accettata. Una simile negazione appariva infatti non soltanto un cedimento al semiagnosticismo, ma altresì un allontanamento da quell'intima, illuminante presenza di Dio nella mente umana, che era stato il tema più suggestivo dell'insegnamento di Agostino. Nessuna meraviglia, quindi, se Pecham ne rimase sgomento. Su questo punto - disse con rammarico - persino Avicenna si era dimostrato più sapiente di un teologo cristiano: mentre il filosofo arabo si era avveduto che il principio attivo del nostro pensiero (" intellectus agens ") sta oltre e al di sopra delle menti umane, i tomisti ne avevano fatto null'altro che una " pars animae " (Quaestiones de anima, ediz. H. Spettmann, p. 73). Più tardi esamineremo la posizione di D. al riguardo; per ora basti accennare al fatto che il discorso sulla discrezione e l'umiltà intellettuale posto in bocca a T. in Pd XIII 109-142, risulta, da questo punto di vista, pienamente a tono.
Per la posizione assunta su ognuna delle questioni anzidette, il tomismo si presentò come un nuovo aristotelismo, cristianizzato, in alternativa e in contrasto con la visione agostiniana e avicennistica, ormai identificatasi con una parte della tradizione francescana. In certo senso si trattò di una rinnovata opposizione Platone-Aristotele in ambiente cristiano, nella quale il ruolo di T. fu quello di critico del neoplatonismo cristiano. Sebbene anche lui, come poi chiariremo, fosse profondamente debitore della tradizione platonica, la sua critica ebbe come apparente risultato quello di accentuare il divario tra uomo e Dio, tra umanesimo e religione. La sua teoria dell'unità della forma umana, una volta ammessa, rendeva infatti meno agevole provare l'immortalità dell'anima; e, così pure, la sua critica della noetica agostiniana, una volta ammessa, rendeva l'unione intellettuale con Dio, più nettamente di prima, effetto non della capacità naturale ma della grazia.
Per quanto riguarda il terzo punto in questione, quello sul rapporto materia-individuo, diremo subito che il concetto tomistico di materia fu il risultato di un profondo ripensamento del nesso aristotelico potenza-atto. L'attualità primaria, per T., è l'esistenza stessa, l'esse. Tutto ciò che non s'identifica con l'esistenza è, nel più profondo significato, privo di attualità; se esso esiste, esiste solo in quanto potenza attuata, ed è questa potenzialità rispetto all'esse che definisce, e in modo sufficiente, la creatura come tale. Per la tradizione agostiniana, viceversa, segno distintivo della condizione creaturale era la presenza di una qualche specie di materia, ‛ spirituale ' oppure corporea, intesa come principio passivo di ogni cangiamento e di ogni possibile determinazione. Ora invece, grazie alla sua concezione dell'esse, T. poteva proporre una nozione di forme create che fossero del tutto prive di materia. Per lui, quindi, la forma non era più primariamente e per sé, ciò che determina la materia, ma piuttosto un partecipe in esse (Sum. theol. I 50 5). Se l'esistenza della forma è perciò immediata, quella della materia è possibile solo attraverso la forma (Sum. theol. I 50 2); la forma inoltre, in quanto è atto, rinvia in primo luogo alla fonte e misura di ogni attualità, cioè all'esse (I 3 4, 4 1 ad 3), e soltanto in via subordinata alla materia - cioè non in quanto forma in assoluto ma in quanto forma determinata, " talis forma " (De Subst. separatis, c. 7). Di qui deriva la possibilità che esistano forme totalmente immateriali nella cui essenza, se si eccettua la dipendenza da Dio quanto all'esse, non è incluso alcun principio passivo. E tali forme corrispondono a quelle più alte sostanze intellettuali, chiamate tradizionalmente angeli (Sum. theol. I 50 2; Cont. Gent. II 49-51). D., su questo punto (cfr. Cv II IV 2, Pd XXIX 22-36), segue T. - che a sua volta seguiva Averroè - in contrasto con l'insegnamento di s. Bonaventura (cfr. É. Gilson, La philosophie de s. Bonaventure, cit., pp. 197-201).
La dottrina tomista della materia. La dottrina tomista della materia presenta altri tre aspetti di rilievo: la nozione di materia prima, il rapporto materia-corpi e quello materia-principio d'individuazione.
Con materia prima T. intese designare un principio di pura potenzialità comune a tutti i corpi. Essa, in sé e per sé, non esiste, poiché per esistere richiederebbe una qualche attualità o una qualche forma. Essa, di conseguenza, non poté mai preesistere alla forma e dovette essere creata ‛ informata '; in caso contrario si sarebbe dato un " ens actu sine actu, quod implicat contradictionem " (Sum. theol. I 66 1, cfr. Pot. IV 1). Con questa conclusione, che pure sembra ovvia, D. è in contrasto - stando almeno alla lettera - nel racconto della creazione di Pd XXIX 22 ss., ma su tale difficoltà torneremo nella terza parte.
Un problema più complesso nasce dal confronto delle spiegazioni avanzate da T. e da D. in merito all'origine della distinzione e differenziazione delle forme nel mondo sublunare e materiale. Detto in breve, si tratta del problema di quale ruolo hanno, nella cosmogonia, le cause create e, in particolare, gli angeli. D. sembra accordare agli angeli un ruolo più importante che non T.; per quest'ultimo, infatti, la materia non esistette mai come " forma communis " né come una qualche " forma corporeitatis " posta a fondamento delle altre (contro Avicebron); essa piuttosto dovette sin dagl'inizi essere creata " sub formis distinctis " (Sum. theol. I 66 1 e 2; 76 6 ad 2; Cont. Gent. IV 81). Questa tesi sembra forse contraddetta da D., ad esempio, in Pd VII 124-141.
Quanto al rapporto tra materia e corpi, abbiamo visto che per T., se possono esistere forme senza materia, non esiste materia senza forma. Tutto ciò che esiste è sempre una potenza in atto, nella forma che gli è propria, e pertanto costituisce sempre un ‛ composto '. Orbene, ognuno di tali composti, in quanto ha un'esistenza reale e non puramente mentale, costituisce un corpo di un tipo determinato: o celeste (le sfere celesti, le stelle, i pianeti) oppure terrestre (i corpi sublunari, gli elementi e le loro combinazioni). Anche se tratti ambedue dalla materia prima, corpi celesti e corpi terrestri hanno natura completamente diverse. La principale differenza consiste nel fatto che nei corpi celesti l'unione di materia e forma è perenne (una stella è per natura incorruttibile), mentre nei corpi terrestri essa ha una durata limitata nel tempo e, pertanto, il composto è per natura corruttibile (Sum. theol. I 66 2). La coestensione di materia e mondo corporeo sussiste in quanto la quantitas dimensiva, che è la caratteristica dei corpi, consegue immediatamente dalla materialità di una data sostanza (Comm. Metaph. V lect. IX). Su questo punto T. e D. non presentano differenze di rilievo.
Per quanto riguarda il rapporto tra materia e principio d'individuazione va detto che per T. la molteplicità degl'individui di una medesima forma specifica deriva, in ultima analisi, dalla determinazione quantitativa della materia (Sum. theol. I 86 3). Gli angeli, pertanto, essendo pure forme, non possono differire come individui di una stessa specie; ogni angelo, quindi, costituisce una specie a sé stante (I 50 2; cfr. 47 2). Anche in questo la coerenza dell'aristotelismo di T. suonò offesa: la riduzione di ogni differenza tra persone al corpo (materia) piuttosto che all'anima (forma), apparve infatti come una negazione della personalità umana. Anche se questa, in realtà, è solo una grossolana semplificazione della tesi tomista (v. É. Gilson, Lo spirito della filosofia medievale, cap. X, e, in senso contrario, B. Nardi, Studi di filosofia medievale, 1960, pp. 214-215), fu nondimeno questa tesi ad essere decisamente rigettata da Scoto e dalla sua scuola, così da esercitare una scarsa influenza sui pensatori del XIV secolo. D. nell'insieme sembra accettarla (cfr. Cv III II 4, VI 6, VIII 7), senza tuttavia discuterla.
Dove invece la nozione di materia come principio d'individuazione appare ricca d'implicazioni per il nostro tema è in merito a un problema di cosmogonia assai dibattuto nel XIII secolo: del come, cioè, la molteplicità dell'universo - la distinctio rerum - poté derivare dall'unità divina. Da alcune proposizioni condannate nel 1277 (ad es. la n. 96 " Quod Deus non potest multiplicare individua sub una specie sine materia ", corrispondente alla n. 42 della lista di Mandonnet, op. cit., II 179), risulta evidente come nell'opinione tomista della materia come principio d'individuazione alcuni teologi avvertirono una minaccia contro la dottrina ortodossa della creazione e una posizione pericolosamente vicina alla tesi neoplatonica di Avicenna, tesi secondo cui ciò che è derivato ‛ immediatamente ' dall'Uno, dev'essere anch'esso uno (l'intelligentia prima). Com'è possibile concepire una pluralità di angeli, una volta privati di materia? Per T. un'obiezione del genere non rappresentò una difficoltà e, a quanto pare, non dovette rappresentarla neppure per D. il quale sostenne anche lui che gli angeli erano pure forme (Pd XXIX 22, 35-36). Tuttavia, in alcuni passi, specie nel Convivio (cfr. III II 4), D. sembra esagerare, da un punto di vista tomista, l'importanza della materia come causa della diversitate dell'universo. Anche su questo punto torneremo nella terza parte.
Tommaso e il platonismo. Se nel precedente breve profilo del tomismo abbiamo dato rilievo soprattutto al suo carattere aristotelico e al fatto che, storicamente, esso vide la luce come critica del neoplatonismo, non dobbiamo tuttavia ignorare che T. fece altresì ampio uso di modi di pensare che sono, in ultima analisi, platonici. Sembra infatti che il suo interesse per il platonismo divenne via via più intenso col maturare del suo pensiero, di pari passo, cioè, con la sua crescente padronanza degli scritti aristotelici.
Non per nulla le due opere più importanti in cui T. si misurò direttamente con la metafisica platonica (l'Expositio super librum de Causis del 1271-72, e il De Substantiis separatis, probabilmente del 1272: cfr. H. D. Saffrey, op. cit., pp. XXXIII-XXXVII) appartengono agli ultimi anni della sua vita. Ambedue le opere presuppongono inoltre la traduzione dell'Elementatio theologica di Proclo completata da Moerbeke nel 1268, il cui studio mise in grado T. d'identificare in essa, per la prima volta, la fonte diretta del De Causis. Questo trattato, è noto, fu un'importante fonte per D. e così pure alcune, forse, delle opere di un altro autore neoplatonico che influenzò grandemente T.: lo pseudo-Dionigi (v.). L'Expositio in Dionysium de Divinis Nominibus fu infatti composta da T. prima del 1268. L'interesse degli studiosi contemporanei (Geiger, Fabro, Lonergan) per questo aspetto del tomismo, sta dimostrando sempre più chiaramente come nella sintesi tomista si combinino insieme tanto la tradizione aristotelica che quella platonica (v. Fabro, art. cit., pp. 268-274). Ed è proprio il caso di dire e questo ti sia sempre piombo a' piedi (Pd XIII 112), quando scorgiamo del ‛ neoplatonismo ' in D.; se esso infatti può costituire l'indizio di una divergenza di principio con T., non ci consente tuttavia di darla immediatamente per scontata.
4. La formazione filosofica di Dante e il tomismo. - Poco sappiamo sulle circostanze esterne dei contatti di D. con il tomismo. L'allusione di Cv II XII 7, come abbiamo detto, ci permette solo di congetturare che il suo desiderio per una cultura filosofica dovette porlo in contatto con i domenicani di Santa Maria Novella, dove si tenevano regolari letture di filosofia aperte, sembra, anche ai laici.
Questo convento divenne uno dei due principali centri di studio (studia generalia) della Provincia romana dei domenicani, allorché nel 1294 quest'ultima venne separata dalla nuova " provincia regni " (cfr. A. Walz, Compendium historiae Ord. Praed., 1948, p. 221). All'epoca, l'insegnante di maggior spicco era Remigio de' Girolami (v.), un aristotelico di valore già allievo di T. a Parigi nel 1268-72 (cfr. M. Grabmann, Mittelalterliches Geistesleben, I, pp. 361-369; L. Minio Paluello, in " Italian Studies " XI [1956] 56-71). Che D. frequentasse le sue lezioni è cosa possibile; in ogni caso è certo che se egli ebbe modo d'imparare filosofia a Santa Maria Novella, si trattò dell'aristotelismo quale veniva offerto dai commenti di T., riconosciuto ormai come " famosus expositor " (cfr. C. Fabro, art. cit., p. 266).
A questo punto è tuttavia opportuno far bene attenzione a due cose. In primo luogo che sarebbe avventato presumere in D. una vasta conoscenza delle opere di T. (eccetto forse i commenti a cui si è accennato). I riferimenti espliciti a tali opere sono infatti soltanto cinque: due al commento all'Etica Nicomachea (Cv II XIV 14, IV VIII 1) e tre alla Summa contra Gentiles (IV XV 12 e XXX 3, Mn II IV 1-3). È probabile d'altro canto che un attento esame di tutte le numerosissime citazioni dantesche di Aristotele - che riveda peraltro il lavoro eccellente ma ormai datato di E. Moore (Studies in D., I, Oxford 1896, 92-156) - rivelerebbe che non poche di esse sono in realtà solo citazioni del corrispondente commento di T. (per Cv II XIII 6, v. la nota di É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1953³, 102-103, e per Cv II XIII 18, Busnelli-Vandelli, ad l.). In sostanza è molto probabile che la conoscenza diretta dei commenti aristotelici di T. da parte di D. sia stata più estesa che non quella delle altre opere dell'Aquinate.
In secondo luogo, si deve tener presente che l'influenza del tomismo in Italia fu condizionata dalla particolare situazione in cui si trovava la vita intellettuale e accademica di questo paese, in cui non esistevano centri di studi teologici paragonabili a quelli di Parigi, Oxford e Colonia.
Le più antiche università italiane fondate prima del '300 (Salerno, Bologna, Padova, Napoli) non possedevano facoltà di teologia, e anche se in questi centri la filosofia aristotelica era molto coltivata, il suo insegnamento rimase in gran parte nelle mani di laici e di medici (H. Rashdall, The Universities of Europe in the Middle Ages, ediz. a c. di F. M. Powicke e A. B. Emden, I, Oxford 1936, 234-235, 250-253). La conseguenza fu che nei centri intellettuali italiani, in genere i legami tra teologia e filosofia rimasero assai meno stretti che non in quelli del Nord Europa; di qui deriva quella che Kristeller ha indicato come " una carenza dell'insegnamento teologico nelle università italiane, destinata a perpetuarsi per molti secoli " (P. O. Kristeller, Le thomisme et la pensée italienne de la Renaissance, Montréal-Parigi 1967, 43). Rispetto a Parigi o a Oxford le università italiane non risentirono granché delle prime controversie sul tomismo; lo stesso tomismo s'identificò in buona parte con l'ordine domenicano. In Italia i rappresentanti più insigni furono Ramberto de' Primadizzi di Bologna, Giovanni di Napoli, Bartolomeo da Lucca e quel Remigio de' Girolami fiorentino, la cui meditazione su problemi etico-politici presenta, per alcuni aspetti, un'impressionante somiglianza con quella di D. (cfr. L. Minio Paluello, art. cit.).
Ma, in generale, l'ambiente italiano in cui si colloca l'attività intellettuale di D. rimane tuttora largamente inesplorato, anche se qualche eccellente studio preliminare ha cominciato a gettar luce su di esso. È in particolare il caso di B. Nardi il quale ha dimostrato che un celebre contemporaneo di D., il medico Pietro d'Abano (v.), fu " in psicologia aristotelico al modo di Tommaso d'Aquino ": in lui infatti ci sono segni evidenti, ancor più che in D., di uno studio della critica di T. alla tesi averroistica dell'unità dell'intelletto (Saggi sull'aristotelismo padovano dal sec. XIV al XVI, Firenze 1958, 1-74; v. anche M. Grabmann, Gentile da Cingoli, ein italienischer Aristoteleserklär aus der Zeit D.s, in " Sitzungberichte der Bayerische Akademie der Wissenschaften ", philos.-hist. Abt., 1940, 9; P. O. Kristeller, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di B. Nardi, I, Firenze 1955, 425-463; C. J. Ermatinger, Averroism in early Fourteenth Century Bologna, in " Mediaeval Studies " XVI [1954] 35-36). Per i rapporti tra D. e la dottrina tomista è da vedere più estesamente la terza parte di questa voce.
II. La presenza di Tommaso in Dante.
Ogni lettore di Pd X-XIII converrà con Gilson che " non si può dubitare del fatto che Dante ammirò e amò profondamente san Tommaso " (D. et la philosophie, cit., p. 118). Ma D. ammirò e amò anche Aristotele, Virgilio, Boezio e altri ancora: cos'è dunque che caratterizza, nelle sue motivazioni e nei suoi modi di manifestarsi, la considerazione di D. per Tommaso? Per trovare una risposta sarà bene anzitutto prendere in esame quei passi delle opere in prosa, il Convivio in particolare, dove si allude a T., e chiedersi in che misura D. fosse consapevole di un debito nei confronti dell'Aquinate, sia come studioso o uomo di cultura, sia come pensatore. Dopo di che potremo procedere a considerare, brevemente, la figura di T. nel cielo del Sole.
1. Tommaso tra Aristotele e Dante. - Come studioso, il debito di D. verso T. appare nel modo più chiaro nel Convivio: è questa, infatti, l'opera dantesca più apertamente aristotelica (di contro agli 80 riferimenti ad Aristotele in essa contenuti, se ne contano 31 nella Monarchia, 13 nella Quaestio e 13 nelle epistole) e nella quale si ritrovano prove concrete che D. studiò Aristotele con l'ausilio dei commentari di Tommaso.
In Cv II XIV 14 e IV VIII 1 troviamo infatti due riferimenti espliciti al commento di T. all'Etica Nicomachea, sul secondo e più interessante dei quali avremo modo di ritornare. Ma forse ancor più significativi sono un certo numero di passi, nei quali è ravvisabile, più o meno chiaramente, un ricorso implicito ai commenti aristotelici di T. (da vedere al riguardo i seguenti luoghi, in particolare i primi cinque: Cv II XIII 6 e 18, IV VIII 6, XI 9, VIII 8, XV 16, e I XII 10, II III 12 e 10, XIV 15, III XI 14, IV XXVII 3). In tutti questi passi l'autore citato è Aristotele e, di solito, in citazione diretta da un'opera di cui è riportato il titolo (dove il titolo non è dato, come in IV VIII 6, XXVII 3 e XI 9, l'opera è facilmente identificabile: l'Etica nei primi due luoghi e la Fisica nel terzo). Ma un attento confronto, caso per caso, delle parole di D. sia con i luoghi aristotelici a cui sembra far riferimento (nella versione latina, ovviamente), sia con la corrispondente esposizione di T., mostra che la citazione dantesca spesso è assai più vicina al testo di T. che di Aristotele.
Nei due passi di Cv II III 2 e IV XIII 8, le parole di D. sembrano un riecheggiamento del luogo di Cont. Genit. I 5; tanto è vero che nel secondo di questi passi le parole di D. E però dice Aristotile nel decimo de l'Etica, contra Simonide poeta parlando, che " l'uomo si dee traere a le divine cose quanto può ", sono, chiaramente, una semplice traduzione della parafrasi di Eth. Nic. X 7, 1177b 31-34, fatta da T. nel citato luogo della Summa: " contra eum [Simonide] Philosophus dicit quod homo debet se ad immortalia et divina trahere quantum potest ". E si noti, inoltre, che mentre nel X dell'Etica Aristotele non menziona mai Simonide (v.), vi allude invece T. (con riferimento a Metaph. I 2) e proprio nel commento al passo dell'Etica ricordato da D. (X lect. XI). Che però D. avesse in mente la Summa contra Gentiles piuttosto che il commento all'Etica, è dimostrato dal confronto del " debet se ad... divina trahere " della prima con il " debet intendere ad immortalitatem " del secondo. Ancora lo stesso passo di Cont. Gent. I 5 è riecheggiato in Quaestio 77, e in stretta connessione con l'altra, rivelatrice frase del § 75 dove, nel citare Aristotele in secundo De Coelo, D. afferma che certe questioni a multa praesumptione procedunt. Anche qui ‛ praesumptio ' è preso dal commento di T. che aveva usato questo termine come sinonimo di ‛ promptitudo ', presente nella traduzione latina di Aristotele da lui commentata (" magnae promptitudinis, id est magnae praesumptionis ", Comm. in de Caelo II lect. VII, con riferimento a Cael. II 5, 287b 30).
Daremo ancora tre esempi, sempre dal Convivio, dello stesso tipo di procedimento. In Cv II XIII 6 è detto: sì come dice lo Filosofo nel sesto de l'Etica... che 'l vero è lo bene de lo intelletto. La frase, in realtà, non è di Aristotele. Qui, senza avvedersene, D. cita un'espressione che ricorre due volte nel commento di T. (I lect. XII e VI lect. III). E la sua fiducia nell'insegnamento di T. sembra averlo indotto in errore persino nel riferire il luogo della frase (nel sesto de l'Etica). Leggendo nel commento di T. (I lect. XII) " Et huius rationem assignat [Aristotele] quia omnia consonant vero. Et huius ratio est, quia, ut dicetur in VI huius, verum est bonum intellectus " D. evidentemente pensò che " in VI huius " si riferisse non al VI libro del commento ma a quello dell'Etica (" Egli credette - nota Gilson, in op. cit., p. 103 - che san Tommaso dicesse che l'aveva detto Aristotele e quindi, in piena fiducia, affermò che l'aveva detto Aristotele ").
In Cv II XIII 18 è detto: per che Pittagora, secondo che dice Aristotile nel primo de la Fisica, poneva li principii de le cose naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose esser numero. In realtà Aristotele nel I libro della Fisica non menziona mai Pitagora (v.). L'intera frase dantesca corrisponde esattamente alle parole del commento di T.: " quorum aliqui posuerunt principia parem et imparem, scilicet Pythagorici, existimantes substantiam omnium esse numeros " (Comm. Phys. I lect. X; cfr. E. Moore, Studies in D., IV, pp. 60-61).
In Cv IV VIII 6 quando lo Filosofo dice: " Quello che pare a li più, impossibile è del tutto essere falso ", non c'è riferimento a un'opera, ma è probabile che D. abbia avuto presente la resa libera che di Eth. Nic. VII 13, 1153 b 25-26 aveva fatto T.: " illud enim in quod omnes vel plures consentient, non potest esse omnino falsum " (Comm. Eth. VII lect. XIII).
Ancora, il detto di Cv IV XI 9 disse Aristotile che " quanto l'uomo più subiace a lo 'ntelletto, tanto meno subiace a la fortuna ", in realtà non è aristotelico. Qui D. traduce, forse a memoria, le parole con cui T. riassume la discussione sulla Fortuna di Phys. II 5, 197a 5-7 " Et... tamen quanto aliquid subiacet intellectui, tanto minus subiacet fortunae " (Comm. Phys. II lect. VIII, in fine).
Ai luoghi sopra citati possiamo aggiungere quello sulla giustizia di Cv I XII 10 per l'interessante coincidenza verbale che questo passo suggerisce tra il commento di T. al luogo del quinto de l'Etica, al quale qui D. evidentemente allude (Eth. Nic. V 1, 1129b 26-29), e la frase di Mn I XI 6 in fulgore suae [della giustizia] puritatis. Le parole attribuite ad Aristotele in Cv I XII 10 sono in realtà di Cicerone (Off. II XI 40), ma non è su questa errata reminiscenza che intendiamo soffermarci. Interessante invece - in rapporto al passo ricordato della Monarchia - è un'espressione che T., nel suo commento ad locum (Eth. V lect. II), pone in aggiunta alla celebrazione della bellezza della giustizia fatta da Aristotele (" neque hesperus neque lucifer ita admirabilis "); T. infatti modifica il finale di questo frammento di verso nell'espressione " ita fulget sicut iustitia ". In quest'espressione siamo tentati di vedere l'origine della metafora dantesca di Mn I XI 6.
I passi sopra ricordati, unitamente ad altri che potrebbero venir addotti, bastano a dimostrare che D., nello studiare Aristotele, fece molto uso dei commenti tomisti: di quello all'Etica soprattutto, ma anche di altri e, in particolare, per quanto è dato ritenere, quelli alla Fisica, alla Metafisica, al De Caelo et Mundo e al De Anima. Quanto alla cultura letteraria, ovviamente, D. dipendeva da altre fonti, e anche per alcuni aspetti della sua cultura scientifica, filosofica e teologica, egli dipendeva in misura diversa da altri maestri quali Alberto Magno, Avicenna, Alfragano, Tolomeo per la scienza naturale; il Liber de causis (del cui commento tomista non c'è traccia di una lettura in D.) per le sue tendenze neoplatoniche; lo pseudo-Dionigi e Bonaventura per determinati aspetti dell'angelologia e della teologia trinitaria. Ma come aristotelico, la formazione di D. avvenne principalmente tramite Tommaso.
2. Tommaso maestro di metodo. - Quanto al suo debito di pensatore verso T., ci pare legittimo distinguere tra dottrina e metodo. Tralasciando, per ora, l'analisi del contenuto dottrinale del pensiero dantesco in rapporto al tomismo (v. la terza parte di questa voce), in questa sede prenderemo in considerazione soltanto la via seguita da D. nell'affrontare i problemi speculativi, vale a dire il ‛ metodo ' a cui, in generale, il suo pensiero cercò di attenersi.
Ciò che risulta, specie dal IV trattato del Convivio e da Pd XIII 109-142, indica chiaramente che D., in sostanza, vide in T. un supremo modello di discrezione, nel senso che questo termine ha in Cv IV VIII 1: l'abilità, cioè, di conoscere l'ordine d'una cosa ad altra, in modo tale da saper ‛ discernere ' e operare distinzioni. Che proprio questo fosse l'aspetto del genio di T. che colpì maggiormente D., appare dai versi di Pd XIII 109 ss. che sono poi le ultime parole dette da T. nel poema. Questo fatto, tuttavia, è già chiaro nel Convivio e a mostrarlo basterà riflettere sull'interna connessione che lega tra loro alcuni passi del IV trattato. Tali passi - Cv IV V 9, VIII 1-5, XIII 8, XV 12-13 - sono tutti incentrati sul contrasto tra presunzione (e la conseguente inreverenza o tracotanza) e discrezione (e la conseguente reverenza), dove presunzione e discrezione designano qualità intellettuali, buona la seconda e cattiva la prima, mentre reverenza e inreverenza designano qualità più direttamente morali. Ma a un'osservazione più attenta questi quattro passi risultano suddivisi in due coppie: mentre infatti il primo e il quarto denunciano i presuntuosi sul piano intellettuale, i troppo sicuri di sé, i vanagloriosi, i precipitosi nel giudicare su questioni che oltrepassano la loro capacità d'intendere o che richiedono uno studio lungo e accurato, il secondo e il terzo raccomandano invece l'opposta qualità della discrezione intesa, dapprima, sotto l'aspetto morale della reverenza (IV VIII) e, poi, come moderatrice del desiderio intellettuale (XIII). Ebbene, tanto la denuncia che le raccomandazioni di D. sono confortate da un richiamo a T.: esplicito in IV VIII 1 e XV 12, implicito in XIII 8 (per la cui discussione v. sopra) e, probabilmente, anche in V 9 (dove l'espressione contra nostra fede parlare sembra derivare dalla stessa preoccupazione su cui si fonda il tributo a T. di IV XXX 3 Questo ‛ Contrali-erranti ' ... è nome d'esta canzone, tolto per essemplo del buono frate Tommaso d'Aquino, che a uno suo libro, che fece a confusione di tutti quelli che disviano da nostra Fede, puose nome Contra-li-Gentili). Questo ricorrere ripetutamente, e in connessione con la stessa tematica, a T. è tanto più rimarchevole in quanto nel Convivio - a parte il tributo ora ricordato che in certo modo suona come dedica dell'intera opera a T. - il nome dell'Aquinate è citato esplicitamente solo in un altro luogo (II XIV 14) e anche qui, non a caso, in riferimento a un aspetto morale della vita intellettuale. Va inoltre notato che in IV VIII 1-2 e XV 12, l'autorità di T. è associata e rafforzata con quella di Cicerone, e che nel secondo di questi passi, a preannuncio del canto XIII del Paradiso, è aggiunta anche quella di Salomone (§ 13).
In considerazione di quanto detto, sembra evidente che nella mente di D. la figura di T. assurse, in modo particolare, a simbolo e a ideale di ‛ discernimento ', di un uso della ragione, cioè, che fosse conforme alla natura (conoscere l'ordine d'una cosa ad altra, IV VIII 1) e ai limiti di essa (che a certo fine bada la nostra potenza, XIII 8). Per D., di conseguenza, T. rappresentò e insieme giustificò quell'uso propriamente ‛ umano ' della mente, consistente nello " intelligere componendo et dividendo... quod est ratiocinari " (Sum. theol. I 85 5).
3. Tommaso nel Paradiso. - Nei canti X-XIII del Paradiso la figura di T. è chiaramente presentata come un exemplum. Egli è il buono frate Tommaso d'Aquino di Cv IV XXX 3, quale D. vide e ammirò e quale si augurò che vedessero e ammirassero i suoi lettori, immagine celeste di quegli stessi valori che il poeta vedeva rappresentati e incarnati tipicamente da T., valori a un tempo razionali e religiosi, fusi in una sottile e mirabile sintesi. Se, indirettamente, questi canti esprimono tutto il debito che D. personalmente avvertiva per T., direttamente essi lo propongono al mondo cristiano come esempio di santità e sapienza tutte particolari: la santità del ‛ frate ', qual era possibile conseguire a un frate seguendo una delle due vie maestre, quella domenicana (Pd X 94-95), e la sapienza del ‛ teologo ', conforme a quel particolare modo di fare teologia che era il concedere alla ragione il riconoscimento dovuto.
Il motivo della santità emerge - sia nei discorsi pronunciati personalmente da T., sia nella celebrazione di Domenico come eroe della fede cristiana, fatta da Bonaventura (l'amoroso drudo, il santo atleta: XII 55-108) - attraverso il ripetuto richiamo al bene trascendente e soprannaturale quale fine specifico della vita cristiana e quale misura di ogni altro valore (X 82-84 e 124-126, XI 37-42 [in partic. l'un fine del v. 42], 82 e 106-139, XIII 52-54). Il motivo della sapienza, una sapienza tipicamente ‛ tomista ', emerge in particolare - oltre, ovviamente, dall'esser T. il portavoce del primo gruppo di sapienti cristiani (X 91-138) - dal ripetuto richiamo, nei suoi discorsi, alla necessità e alla bellezza del discernimento, della misura e della sobrietà razionali, richiamo che raggiunge il proprio acme nei versi di Pd XIII 109-142.
Ogni parola detta da T. è detta in qualità di loico e clerico grande (cfr. Cv IV X 6, dove però l'espressione non è rivolta a T.), e ciò perché tale apparve agli occhi di D., il quale proprio in questo avvertì il suo valore di esempio per gli altri teologi. Di qui deriva l'ammonimento con cui T. apre il suo secondo discorso: e qui è uopo che ben si distingua (Pd XI 27). Di qui l'elogio di Sigieri (X 133-138), poiché - a parte ogni altra intenzione - è certo che facendo celebrare a T. il suo avversario di un tempo, D. intese mostrare la teologia in un atto di omaggio per la filosofia, e in particolare per quel procedimento tipicamente umano che è il raziocinare (silogizzò invidïosi veri, v. 138; cfr. Sum. theol. I 58 3). Di qui l'uso significativo di discreto nella celebrazione di T. fatta in chiusura di discorso da Bonaventura (l'infiammata cortesia / di fra Tommaso e 'l discreto latino, Pd XII 144). Di qui, soprattutto, le tre grandi ‛ distinzioni ' che guidano e governano i discorsi dei canti X-XIII: quella degli ordini e delle funzioni all'interno della Chiesa e dello Studium (X 94-138, XI 28-42), quella del Verbo creatore e delle cause seconde (XIII 52-78), e quella del triplice ordine di eccellenza intellettuale, l'una rappresentata da Adamo e da Cristo, l'altra, cioè la sapienza del reggitore (regal prudenza), in quanto forma più alta di conoscenza ‛ pratica ' (XIII 91-108; cfr. v. 104), rappresentata in sommo grado da Salomone. Di qui, conseguentemente, l'esplicita e pressante raccomandazione di ‛ operare distinzioni ', di apprendere con cura l' ‛ arte ' di pensare prima di pronunciarsi su materie gravose, d'imparare a conoscere in qual caso affermare e in quale dubitare (XIII 109-142; cfr. quanto dice C. Fabro in merito alla " sobrietà teologica " di T., in Enciclopedia Cattolica, XII 280).
Peraltro, quest'ultima parte di Pd XIII non è che l'espressione finale di un'idea che vedemmo già affiorare nel Convivio, e sempre in rapporto più o meno dichiarato con T. (Cv IV V 9, VIII 1, XIII 8-9, XV 12). E se abbiamo notato come nel raccomandare la reverenza e nel denunciare la presunzione, D. accomuni al nome di T. quello di Cicerone (Cv IV VIII 1-2, XV 12) è pur vero che questo, a sua volta, è un modo implicito e alquanto sorprendente di associare la figura del santo al culto che D. aveva per Roma e per l'Impero. Mentre infatti, come ha puntualizzato Gilson (op. cit., p. 167), mai il T. storico mostrò interesse per una monarchia universale, il T. dantesco risulta, almeno implicitamente, associato a tale nozione in più di un luogo. Prima di tutto, se presa nel suo contesto, con la definizione di reverenza di Cv IV VIII dove si discute, tra l'altro, dell'autorità dell'imperatore; in secondo luogo con la definizione di miracolo tratta da T. (Cont. Gent. III 101) e inserita nel corso di una delle argomentazioni tese a provare la cura particolare di Dio per il popolo di Roma (Mn II IV 1-3); in terzo luogo, infine, con l'esaltazione di Salomone pronunciata da T. in Pd XIII. È infatti ben difficile dubitare che il motivo nascosto di tale esaltazione, o almeno uno dei motivi, fu quel sentimento della dignità e dell'autonomia del potere civile, che rappresentò uno degli aspetti della fede imperiale di Dante. Questo, naturalmente, non vuol dire che D. presentò mai esplicitamente T. come un sostenitore dell'Impero. Quello che D. fece, fu di accomunare al riconoscimento della dignità e dell'autonomia del potere civile, quella particolare dote di discernimento e di sobrietà teologica che ravvisò e ammirò in T., e che mancò di ravvisare in tanti altri uomini di Chiesa (cfr. Mn III III, passim).
III. Dottrine dantesche e insegnamento di Tommaso.
In questa sezione passeremo al confronto tra pensiero di D. e di T. in merito alla cosmogonia e all'antropologia, dedicando a ciascuna un'apposita trattazione.
a) Cosmogonia. - Oggetto di questa trattazione saranno rispettivamente: 1. La creazione, 2. Gli angeli, 3. I corpi celesti.
1. La creazione. - Quanto all'atto della creazione dell'universo, preso nella sua totalità, la posizione di D. fu sempre quella di un cristiano ortodosso, ma senza per questo denunciare una qualche particolare influenza tomista, tranne forse per quanto riguarda la creazione del tempo.
La creazione, per D., è l'atto assolutamente libero in virtù del quale Dio, dal nulla, trasse all'esistenza le cose (Pd XXIX 13-18; cfr. Cv III VII 2, VE I IV 6). Poiché Dio, bene infinito (Cv IV IX 3, Pd XIX 50-51, XXXIII 103-105), è assolutamente autosufficiente, quest'atto risulta totalmente gratuito e motivato unicamente dall'amore (Pd XXIX 13-18; cfr. VII 64-66, Pg XXVIII 91-92). Quanto al tempo, esso esiste unicamente nell'essere creato e, quindi, ebbe inizio con l'atto stesso della creazione (Pd XXIX 19-21; cfr. Tommaso Cont. Gent. II 35 " Deus... simul in esse produxit et creaturam et tempus ").
L'oggetto della creazione. Se ci volgiamo a considerare l'oggetto della creazione, la prima domanda che ci si pone è cos'è, esattamente, che viene creato. La risposta conforme all'ortodossia è " l'essere ", nel senso che ciò che, in assoluto, non è il nulla è l'essere. Pertanto, se esso è, e se non è ‛ necessario ' che sia, deve provenire ex nihilo. Creazione quindi, come spiega T., e come asserisce D. (Pd XXIX 15), è " ex nihilo facere " ovvero " a... materia praeiacente aliquid in esse producere " (Sum. theol. I 45 1, Cont. Gent. II 16).
Ma d'altro canto sia T. che D. - e questa pure era dottrina ortodossa - ammettono anche l'esistenza di agentia inferiora, di una natura agens, cioè di cause seconde che producono i loro effetti traendoli da una materia preesistente (Cont. Gent. III 66-69). Orbene, una simile distinzione tra due tipi di causalità, ha come suo presupposto una distinzione tra ciò che semplicemente ‛ è ', in quanto sussistente " in suo esse ", e ciò che esiste solo in quanto è forma di una realtà sussistente; e dato che creare, propriamente, è impartire l'esse, allora, in senso stretto, " creata sunt subsistentia.... sive sint simplicia, sicut substantiae separatae [cioè gli angeli], sive sint composita, sicut substantiae materiales [cioè ogni essere corporeo, sia terreno che celeste] " mentre le ‛ forme ' e gli ‛ accidenti ' dei composita, hanno come loro definizione più appropriata quella di concreata (Sum. theol. I 45 4; cfr. l'uso dantesco di ‛ concreare ' in Pd XXIX 31, II 19).
Da questo punto di vista, è dunque senz'altro possibile che le forme e gli accidenti dei composti siano effetti di cause diverse da Dio, vale a dire di quelle cause seconde - anch'esse create - che richiedono un ‛ soggetto ' o ‛ materia ' preesistente su cui operare. Ma nel contempo, proprio in quanto queste forme e questi accidenti sono partecipi " in esse " - e concorrono perciò alla generale costituzione di un dato ente sussistente - anch'essi devono essere definiti come ‛ creati ', e così pure la materia da cui essi sono tratti: " creatio " infatti " est productio totius esse " (Sum. theol. I 45 4 ad 3). E Dio, creando l'universo, lo ricolmò di cause seconde proprio perché la sua immagine potesse venir comunicata alle cose " non solum quantum ad hoc quod essent, sed etiam quantum ad hoc quod aliorum causae essent " (Cont. Gent. III 70). Ne consegue pertanto che, mentre tutto ciò che esiste, in quanto partecipe dell'esse, è nella sua totalità creato, molta parte di realtà si trova, inoltre, a dipendere da cause create operanti su una materia preesistente.
Questa duplice dipendenza si riscontra, in particolare, nel mondo sublunare le cui realtà materiali sono soggette a generazione e corruzione (generabilia et corruptibilia). In quanto dotate di esse, queste realtà dipendono unicamente dall'atto creativo di Dio, ma in quanto dotate di una certa determinata natura o ‛ forma ', la loro costituzione effettiva dipende - in ogni momento - dal fatto che la materia di cui sono composte è recata in atto, secondo un determinato processo ed entro una determinata forma, da agenti materiali già esistenti (Sum. theol. I 65 4). È vero che, in principio, appena creato il mondo, i composita materiali - ciascuno dotato della propria forma e natura specifica - vennero prodotti unicamente da Dio " cui soli ad nutum oboedit materia [prima] tanquam propriae causae " (ibid.; e cfr. I 71 1 ad 1; questo inoltre fu quanto si verificò col corpo del primo uomo, Adamo, I 91 2); tuttavia, una volta compiutasi questa produzione iniziale per opera diretta di Dio, il mondo materiale continuò a esistere grazie alla convergenza e alla cooperazione dell'azione creatrice di Dio e dell'azione delle cause seconde. Comunque, detto molto in breve, nel descrivere la convergenza di questa duplice attività causale, T. insiste sull'identità e sull'immediatezza dei loro effetti " licet alio et allo modo " (Cont. Gent. III 70), mentre D. a prima vista (cfr. ad esempio Pd VII 130-141) sembra assumere una diversa posizione.
Ma prima di confrontare le opinioni di D. e T. quanto alla produzione degli elementi e dei loro composti, occorre anzitutto definire la posizione di D. riguardo a quegli effetti che per T. erano dovuti non all'azione delle cause seconde ma " solius Dei ", e cioè: gli angeli, la materia prima, i corpi celesti e i corpi sublunari nella loro " prima productio " (Sum. theol. I 45 1 ad 1, 60 1, 44 2, 46 1 ad 3 e 5, 65 4).
Quanto agli angeli e ai corpi celesti, D. è pienamente d'accordo con T. (Pd VII 130-131, XXIX 22-23), mentre non c'è dubbio che per i corpi sublunari in genere, la sua posizione diverga. Per D., infatti, la costituzione originaria dei corpi sublunari è effetto essa stessa di una creata virtù insita nelle stelle (Pd VII 135-141) - strumenti, a loro volta, degli angeli (beati motor) - mentre soltanto in via più remota può dirsi effetto di Dio (II 127-129, Mn II II 2-3). Questa più attiva presenza delle cause seconde in D. risulta anche dal modo in cui il poeta descrive il formarsi del corpo di Adamo.
Rispetto al risalto attribuito in Pd XIII 73-84 alla funzione del cielo nella creazione di Adamo, l'importanza assegnatagli da T. in II Sent. 17 3 e Sum. theol. I 91 1-2 appare scarsissima.
Materia prima e creazione. Quanto alla materia prima, vanno fatte due precisazioni: in primo luogo, che, nel riferirsi alla fase iniziale dei suoi studi, in Cv IV I 8, D. ci ricorda alcune sue serie perplessità in merito alla questione se la prima materia de li elementi era da Dio intesa, e, in secondo luogo, che quando finalmente in Pd XXIX 22-23 affermerà che la ‛ materia prima ' fu creata direttamente da Dio, lo farà in termini che, presi alla lettera, non possono definirsi tomisti. Ma sarà bene esaminare ambedue le questioni.
L'interpretazione di Cv IV I 8 varia a seconda che si prenda intesa semplicemente nel senso di " intelletta ", o anche nel senso di " voluta ". Nel primo caso la difficoltà di D. riguarderebbe non già la creazione della materia prima ma, data per scontata tale creazione, verterebbe sul tipo di conoscenza che Dio ne ebbe. Nel secondo caso, invece, la perplessità di D. risulterebbe ben più seria; essa concernerebbe il problema del come la materia prima poté essere oggetto diretto dell'intenzione creatrice di Dio. E la cosa più probabile - come ha dimostrato B. Nardi contro G. Busnelli (D. e la cultura medievale, Bari 1949², 176-186, 248-251) - è che proprio in questo consistesse il problema di Dante. Se D. con intesa volle dire semplicemente " intelletta ", se il suo problema non aveva nulla a che vedere con la creazione, allora forse non è esagerato dire, con Nardi, che il giovane filosofo si sarebbe attardato a tormentarsi con un " problemino " o, quanto meno, con una disputa tra teologi abbastanza secondaria, dal momento che presupponeva come già risolta la ben più grave questione della creazione effettiva della materia da parte di Dio e della sua dimostrabilità razionale. I teologi in questione avrebbero dovuto essere gli agostiniani (i francescani soprattutto) da un lato, e i tomisti dall'altro, d'accordo tanto gli uni che gli altri sulla creazione della materia prima da parte di Dio, e in disaccordo solo perché i primi affermavano che Dio aveva avuta una " propria idea " della materia (in quanto per loro la materia prima era dotata per se di una certa attualità) e i secondi lo negavano (in quanto per loro non si dava attualità altro che in una forma e mediante essa: cfr. Tommaso Verit. III 5).
Ebbene, che una disputa teologica di tal genere potesse turbare la mente di D. in misura pari a quella indicataci dal passo del Convivio, appare davvero improbabile. Il periodo a cui D. si riferisce è quello della sua prima formazione filosofica, il che vuol dire intimo contatto con la tradizione greco-araba, tradizione che, come ben sapevano gli scolastici cristiani, o ignorava l'idea di creazione o la rifiutava. E può ben aver ragione Nardi nell'additare in Avicenna il filosofo che, entro quella tradizione, ebbe un ruolo di particolare rilievo per questo problema. Avicenna, infatti, rigetta espressamente il principio secondo cui Dio poté ‛ intendere ' la materia prima (nel senso di volerne l'esistenza) e in termini che D. poté benissimo aver riecheggiato nel passo in questione. Come ha dimostrato Nardi (op. cit., pp. 180-181, 249) il nome di Avicenna, all'epoca, era accomunato alla negazione della creazione immediata del mondo sublunare da parte di Dio. Anche se D. non negò mai tale dottrina, è probabile che avvertì la difficoltà di una sua accettazione sul terreno specificamente filosofico. Perfino nel Paradiso, come vedremo, sono ravvisabili le tracce di quello che Nardi chiama " il travaglio della coscienza di Dante per arrivare a conciliare con la fede dottrine seducenti e largamente diffuse... intorno alla produzione del mondo inferiore " (op. cit., p. 186).
L'affermazione più esplicita sulla creazione della materia da parte di D. è quella di Pd XXIX 22-36, dove il poeta descrive la struttura dell'universo quale derivò direttamente da Dio, all'inizio dei tempi. Si trattò di un universo che comprendeva, simultaneamente, tre livelli di essere: il puro atto o forma (gli angeli), potenza e atto congiunti (i corpi celesti) e la pura potenza o materia. Se è evidente che il mondo sublunare dovette formarsi a partire da questo terzo costituente fondamentale, pare altrettanto evidente che non una delle parti di quel mondo (che non fosse il suo sostrato di ‛ materia puretta ', o pura potenza) va inclusa nel triforme effetto sorto dall'atto creativo originario. Quanto dire che né i quattro elementi, né i ‛ corpi misti ' composti da essi, né la piante, né gli animali, possono dirsi ‛ creati ' in senso proprio.
Questo punto dottrinale esige un solido chiarimento e per questo prenderemo brevemente in esame altri importanti passi, anzitutto due luoghi dello stesso Pd XXIX. Ai vv. 37-45 D. insiste, e su questo avremo modo di tornare, sul fatto che i corpi celesti in movimento coesistettero sin da principio con i loro angeli motori, il che parrebbe implicare che ‛ non appena ' corpi celesti e angeli presero a esistere essi, quali cause seconde, iniziarono a produrre i loro effetti operando sulla ‛ potenza pura ' creata assieme ad essi. E questi effetti - a giudicare da Pd VII 133 ss. - furono appunto gli elementi e le altre cose che di lor si fanno. Pertanto, quando di lì a pochi istanti si verificò la caduta di Lucifero (XXIX 49-57), essa non soltanto turbò il suggello d'i vostri alimenti - cioè la ‛ materia puretta ' che ne costituiva il fondamento - ma anche, come sappiamo da If XXXIV 121-126, la terra e le acque che si erano già formate e non per effetto della creazione (cfr. B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967², 349). Fu da questo sconvolgimento che trasse origine l'Inferno della Commedia. Esso fu preceduto, nel tempo, solo dalle cose create / … etterne (If III 7-8) - vale a dire solo dagli angeli, dai cieli e dalla materia prima - etterne (nel senso d'incorruttibili) proprio perché sorte immediatamente da Dio con la creazione (Pd VII 67-69). È da notare che anche per T. si tratta di incorruptibilia, e altresì di ingenerabilia; il suo procedimento dimostrativo, tuttavia, è più di tipo aristotelico, in quanto prende le mosse dalla natura intrinseca di quegli effetti e non dalla loro condizione di esseri creati; v. Cont. Gent. II 42 in fine, e 55; Sum. theol. I 97 1, Comm. in Phys. I lect. XV.
Per comprendere esattamente la tesi dantesca sarà bene tener presente che essa non implica un intervallo di tempo tra creazione della materia prima e produzione delle forme materiali non create. Il punto essenziale è che mentre la prima proviene direttamente da Dio, le seconde provengono direttamente dai cieli per mezzo della loro virtù informante la quale, proprio perché identica alla luce, opera istantaneamente (Pd VII 141, XXIX 25-27).
Ciò ammesso, ci si avvede come il contrasto tra un passo della Quaestio e la dottrina esposta nella Commedia è soltanto apparente. D., infatti, dice che omnes formae, quae sunt in potentia materiae [primae], devono essere di fatto semper in actu, perché altrimenti Motor coeli deficeret ab integritate diffusionis suae bonitatis, quod non est dicendum (55 45-46). In altri termini, D. ritiene assiomatico che Dio nel creare la materia prima non ebbe altro scopo che d'imprimere in essa le forme presenti ydealiter nella sua mente (§§ 46; e cfr. Mn II II 1-3) e che è inconcepibile che questa finalità divina potesse anche per un solo istante venir vanificata. La dimostrazione dell'impossibilità che la materia poté esistere realmente anche per un solo istante priva di forme, è desunta dalla natura stessa di Dio e dalle sue intenzioni di autore della Natura universalis (Quaestio 44-45).
Un caso del tutto diverso è invece quello di Mn I III 8-9 dove, nonostante venga affermata questa medesima impossibilità, " la ragione che se ne dà ", come osserva Nardi, " è sensibilmente diversa " (Saggi, cit., p. 345). Qui, infatti, l'affermazione viene dedotta dalla natura stessa della potenza: aliter esset dare potentiam separatam, quod est inpossibile, con una proposizione cioè chiaramente aristotelico-tomista e che, almeno a prima vista, risulta in contrasto con Pd XXIX 22-23 e 34. Ciononostante, sarebbe avventato supporre in D. un reale contrasto tra questa proposizione e la tesi di Pd XXIX, secondo cui, mentre la materia prima fu creata direttamente da Dio, le forme che la attuano derivano direttamente dalle cause seconde. E quest'ultima tesi, certamente, non è tomista. La nozione di materia che essa implica ha una qualche affinità con il pensiero di Scoto (v. A. Mellone, Le dottrine di D.A. sulla prima creazione, Nocera, Salerno, 1950; É. Gilson, Jean Duns Scot: introduction à ses positions fondamentales, Parigi 1952, 432-444; B. Nardi, D. e la cultura medievale, Bari 1942, 253-254).
2. Gli angeli. - Quanto agli angeli occorre precisare che l'angelologia scolastica, pur trovando il suo elemento unificante nel comune tentativo di fondere i dati biblici con la speculazione greco-araba sulle ‛ pure intelligenze ', si diversifica poi a seconda delle tendenze delle diverse scuole teologiche. L'angelologia dantesca, pur risultando da una fusione di quei medesimi dati biblici e filosofici, difficilmente può ricondursi a una scuola o a un autore determinato. Essa, se confrontata con la sottile e complessa angelologia di T., risulta al tempo stesso estremamente originale e alquanto sommaria.
Esistenza, natura e origine degli angeli. Quanto al problema dell'esistenza degli angeli, D. vi accenna soltanto in Cv II IV-V, e per di più di sfuggita, in quanto passa subito al problema del loro numero (v. oltre), anche se in realtà, a riprova della loro esistenza egli parla, nell'ultimo paragrafo del cap. IV, di un riflesso nella mente umana di alcuno lume de la vivacissima loro essenza.
Questo argomento è una lontana reminiscenza dell'ultima proposizione contenuta nel corpo dell'articolo di Sum. theol. I 50 1, in cui T. riassume le prove (esposte più ampiamente in Cont. Gent. II 46 e 91) sull'esistenza delle creature incorporee. Di questa verità, dice D., Aristotele e Platone ebbero una qualche sommaria consapevolezza, ma la verità si svelò completamente solo con la rivelazione. Riferendosi poi alla tradizione platonica, D. accenna a un rapporto tra angeli e divinità pagane (cfr. Pd IV 52-63, VIII 1-12). Niente di simile si trova in Tommaso.
Quanto alla natura degli angeli, D. afferma trattarsi di sustanze separate da materia (Cv II IV 2), il che ripeterà perentoriamente in Pd XXIX 22 e 33. In questo, ovviamente, egli concorda con T., mentre nessun interesse mostra per l'ulteriore deduzione fatta da T. sulla diversità in specie di ciascun angelo (Sum. theol. I 50 4).
Quanto all'origine degli angeli, D. concorda con T. tranne che su due punti. In Pd VII 67-69 Beatrice prova l'immortalità degli angeli deducendola dal fatto che essi derivarono sanza mezzo da Dio. Qui, come probabilmente vide bene Nardi, c'è una traccia del principio avicennistico " a stabili, in quantum stabile, non est nisi stabile ", un principio che certamente T. considerava rischioso se applicato alla creazione (cfr. Verit. XXIII 5; In lib. de Causis, ediz. Saffrey, cit., pp. 74-75; e B. Nardi, Saggi, cit., pp. 350-352, D. e la cultura medievale, cit., pp. 250-251). Ancora, in Pd XXIX 37-45, D. dichiara per bocca di Beatrice che Gerolamo errò nell'affermare che gli angeli furono creati assai prima del mondo materiale.
Orbene, anche se l'opinione della simultaneità delle due creazioni era la più comune nell'Occidente latino, ed è detta da T. " probabilior " (Sum. theol. I 61 3), tuttavia, quello che T. avrebbe trovato intollerabile è il dogmatismo con cui viene affermata da Dante. Ciò per due ragioni: anzitutto per la scarsa riverenza nei confronti di un padre della Chiesa e, in secondo luogo, per l'argomento addotto da Beatrice, e cioè che la Scrittura in molti lati dichiara vero quanto da lei affermato, e che il contrario è irrazionale in quanto implicherebbe che gli angeli, motori dei cieli, sarebbero esistiti per lungo tempo sanza sua perfezion. Su quest'ultimo argomento parleremo tra poco. Quanto al precedente, esso è espressamente rigettato da T. nel De Substantiis separatis, dove afferma che " non potest ex scripturis canonicis expresse haberi quando creati fuerint angeli " (cap. 17, ediz. F. I. Loscoe, 1962, p. 139).
Angeli e cieli, numero e ruolo causale degli angeli. Per il rapporto angeli-cieli, abbiamo appena visto in che modo D. concepiva la sequenza temporale di tale rapporto, unitamente alla sua audace affermazione secondo cui alcuni almeno degli angeli (i motori) trovano la loro perfezione nel muovere i cieli materiali. Ebbene, proprio quest'ultima affermazione è strettamente legata ad altre due tipiche posizioni dantesche, nelle quali il pensiero del poeta sembra discostarsi da T.; esse riguardano il numero degli angeli in relazione ai cieli, e il loro ruolo causale nella formazione del mondo sublunare.
La prima questione nacque dal fatto che, mentre la Bibbia parlava di migliaia di angeli (Dan. 7, 10), Aristotele aveva limitato il numero delle sostanze immateriali a quello richiesto per giustificare i movimenti delle sfere celesti (Sum. theol. I 50 3; cfr. Cv II IV 3).
T. definì la questione rigettando l'argomentazione di Aristotele come inconcludente (ibid.; e v. Subst. sep. capp. 2-4). Oltretutto, va tenuto presente che egli si mostrò assai meno interessato di D. alla funzione degli angeli quali motori. Come si può ben capire, si trattava di una questione a cui T. attribuiva scarsa importanza. Egli ammette, è vero, che angeli e creature corporee " in constitutionem unius universi conveniunt " (Sum. theol. I 61 3), ma egli rigetta altrettanto fermamente l'errore di " quidam moderni, quod angeli absque creatura corporali esse non possint ", in quanto esso sminuisce la dignità della natura angelica, la quale " cum naturaliter sit prior quam creatura corporalis, nullo modo a creatura corporali dependet " (Pot. III 19, Subst. sep. capp. 2, 17 e 18; i ‛ moderni ' criticati da T. dovrebbero essere, in particolare, gli averroisti: cfr. B. Nardi, D. e la cultura medievale, cit., pp. 234-240). Quest'ultima affermazione è sicuramente contraddetta da Pd XXIX 43-45. Oltretutto, per T. - concorde in questo con la tradizione patristica - esistono moltissimi angeli, e anche interi ‛ ordini ' angelici, che non hanno alcun rapporto diretto col moto dei corpi celesti (Sum. theol. I 50 3, 110 1 ad 3; Cont. Gent. II 92). Su questo punto la posizione di D. non risulta molto chiara. Mentre in Cv II IV 8-15 lascia intendere che molti angeli non sono motori, in IV 13 assegna ai tre ordini inferiori il compito di muovere i tre cieli inferiori della Luna, di Mercurio e di Venere. In Pd XXVIII 46-129, poi, il legame tra angeli e cieli viene da D. ribadito ed esteso: gli angeli aumentano enormemente di numero, ma tutti rimangono compresi in nove ordini che corrispondono esattamente ai nove cieli materiali. In generale, la concezione dantesca del rapporto tra sostanze immateriali e mondo corporeo, si dimostra assai più vicina a quella aristotelica che non a quella tomista.
Quanto al ruolo causale degli angeli, abbiamo già rilevato come D. tenda a sottolineare il ruolo delle cause seconde - cioè degli angeli che operano mediante i cieli - nella produzione del mondo sublunare. Che si tratti, come afferma Nardi, di una tendenza neoplatonica, possiamo convenire, ma che ciò implichi, come lo stesso Nardi sostiene (cfr. Saggi, cit., p. 354), " il concetto... della creazione delle cose contingenti per mezzo d'intermediari " ci sembra alquanto improbabile. Nardi sta parlando del D. maturo, del poeta del Paradiso, come di uno che ormai avrebbe parzialmente corretto la concezione nettamente neoplatonica del Convivio, secondo la quale " le intelligenze motrici dei cieli, in quanto spezialissime cagioni d'ogni forma generata " sarebbero " sufficienti anche alla generazione della forma umana " (v. D. e la cultura medievale, cit., p. 255, con riferimento a Cv III VI 4-6). Ora, la difficoltà d'interpretazione che questo e altri analoghi passi del Convivio presentano, sono ben note, e non è questa la sede per poterle discutere adeguatamente (ma v. Busnelli-Vandelli, I 318-322, 457-459, II 251-260, 392-404; B. Nardi, D. e la cultura medievale, cit., capp. VI e VIII, Saggi di filosofia dantesca, cit., capp. II, III, V, XII, Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 75 ss.). Pertanto, limitandoci anche noi al D. maturo, tenteremo di stabilire se nel concepire gli angeli come cause del mondo sublunare la sua dottrina si discostò in modo notevole da quella di Tommaso.
La dottrina tomista sulla produzione del mondo inferiore può ridursi a cinque punti: 1) L'esistenza di questo mondo, preso nella sua totalità, è mantenuta da un continuo fluire di esse proveniente da Dio, il quale essere termina direttamente e immediatamente nei ‛ composti ' sussistenti che compongono tale mondo (cfr. ad esempio Sum. theol. I 44 e 45); 2) in principio, le ‛ forme ' di tali composti furono anch'esse dovute all'azione diretta di Dio che le trasse dalla materia prima (cfr. I 66 1, 91 2); 3) dopo quest'iniziale e diretto intervento divino, tutti i composti viventi generati ex semine continuano ad essere causati, quanto alla forma sostanziale, direttamente da agenti appartenenti alla loro specie (agens univocum); 4) la produzione delle forme più basse di vita, quelle generate per putrefazione e le mutazioni della materia inanimata, sono dovute al moto dei corpi celesti, che sono a loro volta governati da angeli (Cont. Gent. II 22, 99-100, III 23, 69, 78, 82, 86 e 91); 5) gli angeli non impartiscono mai direttamente le forme alla materia: " omnis informatio materiae vel est a Deo immediate, vel ab aliquo agente corporali, non autem immediate ab angelo " (Sum. theol. I 110 2).
Confrontando queste posizioni con quelle della Commedia, va detto che al primo punto è attribuito scarso rilievo, dato il poco interesse che D. mostra per l'esse in quanto tale (ma v. Pd I 113, XXVI 58, XXIX 15, Ep XIII 53-57). Quanto al secondo punto, è accettato in Pd XIII 79-84, ma solo per i casi particolari di Adamo e di Cristo. Il terzo punto sembra negato indirettamente da Pd VII 139-141; tuttavia sarebbe strano che in questi versi D. avesse inteso opporsi all'intera concezione aristotelico-tomista dell'agens univocum. Il poeta poté davvero proporre un radicale ‛ estrinsecismo ' causale, come quello attribuito da T. ad Avicenna: " posuit omnes formas substantiales ab intelligentia agente effluere " (Cont. Gent. III 69; cfr. 103 e Sum. theol. I 110 2)? Che nella Commedia sia presente una notevole influenza neoplatonica è indiscutibile, ma è altrettanto vero che esiste una forte e continua rivendicazione delle cause ‛ prossime ' (valga come esempio Pg XXV 37-75). Chi ci dice che quello di Pd VII 139-141 non sia un passo ellittico, dove ciò che non è espresso non è per questo negato? Per ciò che concerne il quarto punto, nella Commedia non c'è nulla che lo contraddica, e lo stesso vale per il quinto punto, in quanto gli angeli, nel poema, esercitano la loro azione causale sempre attraverso i cieli.
Gli ordini angelici. Quanto alle distinzioni tra gli ordini angelici, è ben noto che la gerarchia degli ordini offerta in Cv II V, risulta mutata in Pd XXVIII 98-139. D., che in un primo momento aveva seguito Gregorio Magno, nel Paradiso, conformemente alla maggioranza dei teologi del suo tempo, segue lo pseudo-Dionigi, anche se, come rileva T., queste due " dispositiones ordinum.... parum vel nihil differunt si ad rem referantur " (Sum. theol. I 108 6 ad 4). La dottrina esposta in Cv II V 7-10, sulla triplice distinzione degli ordini e delle gerarchie angeliche in rapporto al diverso modo di contemplare le tre persone della Trinità, deriva probabilmente da Bonaventura o da Pietro Lombardo (v. Busnelli-Vandelli, I 248-249). T. invece presenta una diversa distinzione degli ordini angelici (Sum. theol. I 108 passim). Per il problema, v. anche GERARCHIA ANGELICA.
Intelletto, volontà e memoria angelica. Quanto all'intelletto, alla volontà e alla memoria angelica, ci sono due punti da chiarire.
Il primo è che D., nel sostenere che il godimento dei beati, in quanto fondato sulla conoscenza (ne l'atto che vede, / non in quel ch'ama, che poscia seconda, Pd XXVIII 109-111), è in primo luogo intellettuale, si schiera apertamente con i domenicani e contro i francescani. Questo principio, anche se è esplicitamente affermato solo in riferimento agli angeli, è evidentemente valido per tutti i beati in generale ed è difficile supporre che, nell'adottarlo, D. non fosse consapevole di compiere una scelta coerente col tomismo e contraria alla scuola di Bonaventura (v. Tomm. Sum. theol. I II 3 4, Cont. Gent. III 26).
Il secondo punto concerne la memoria angelica. D. insiste sul fatto che gli angeli non hanno bisogno di ricordare per concetto diviso (Pd XXIX 70-81), in quanto egli concepisce la reminiscenza come una sorta di distoglimento dalla contemplazione attuale de la faccia di Dio. T. si rivela più sottile; egli dice infatti che gli angeli sono naturalmente dotati di memoria, ma nel senso in cui Agostino aveva concepito tale facoltà, " secundum quod ponitur in mente ", e non nel senso di " pars animae sensitivae " (Sum. theol. I 54 5; qui il riferimento implicito dovrebb'essere ad Agostino De Trinitate XIV 8-15 e ad Aristotele Memor. et reminisc. 1, 450 14). Una volta raggiunto lo stato di gloria, gli angeli beati continuano a mantenere tutte le loro facoltà naturali (Sum. theol. I 62 7).
3. I corpi celesti. - Come ogni uomo colto del suo tempo, D. trasse buona parte delle sue conoscenze sui corpi celesti dalla fisica e dall'astronomia aristotelica. Questo corpus dottrinale lasciava comunque la possibilità a variazioni di dettaglio. Inoltre, derivando da fonti non cristiane, la sua compatibilità con questo o quel punto del dogma o della pratica religiosa, era oggetto di continue dispute, tanto più tenuto conto della notevole presenza, in esso, d'influenze neoplatoniche.
Questo punto è stato messo bene in evidenza da B. Nardi: " per quanto Aristotele avesse asserita la dipendenza del cielo e della natura da un unico principio [Metaph. XII 7, 1072b 14], e per quanto avesse innalzato agli onori di dottrina metafisica l'influsso delle sfere celesti sulle cose del mondo sublunare, tuttavia egli non aveva saputo ricavare dall'uno il molteplice, e, se spiegava in certa guisa il moto, non rendeva ugualmente ragione dell'essere delle cose mosse.... Fu compito della speculazione posteriore, soprattutto del neoplatonismo e del pensiero cristiano, colmare questa lacuna e porsi il problema della derivazione degli esseri da Dio. L'idea centrale del neoplatonismo è quella di una causalità per via di emanazione graduale.... In questa emanazione.... dei molti dall'Uno, il primo è causa del secondo, il secondo del terzo, e così di seguito. Al concetto di emanazione il cristianesimo sostituì quello di creazione ex nihilo. Ma pur corretto nell'idea principale, il neoplatonismo continuò ad esercitare sul pensiero cristiano la più larga influenza " (Saggi, cit., p. 16). Tale influenza si esercitò soprattutto attraverso gli scritti di Avicenna. Dice ancora Nardi: " Avicenna, conforme al suo concetto emanatistico... pose nel cielo una gerarchia di sfere animate ciascuna da un principio vitale e mosse da altrettante intelligenze separate, di cui la superiore è causa di quella inferiore.... Secondo la distanza della causa prima varia la perfezione.... delle intelligenze motrici e delle anime delle sfere; e, in conseguenza, anche i corpi celesti sono tra loro diversi nella specie " (ibid., p. 6), e ancora: " Come Aristotele dall'immobilità del primo motore aveva dedotta la perpetuità e l'unicità di un primo mosso, così Avicenna voleva che dalla prima causa non fosse prodotto, immediatamente, se non un effetto unico, cioè la prima intelligenza; la quale alla sua volta produceva la seconda intelligenza, l'anima del primo cielo e il primo cielo stesso.... e così via, di grado in grado, fino all'ultima intelligenza dalla quale procedeva l'anima della sfera più bassa.... nonché l'intelligenza che presiedeva al mondo della sfera più bassa... nonché l'intelligenza che presiedeva al mondo della generazione e della corruzione, e che egli chiamò dator formarum " (ibid., p. 16).
Pertanto, il sistema avicenniano comportava in primo luogo l'idea che l'intero universo fosse una graduale emanazione del molteplice dall'Uno e, in secondo luogo, che ognuno dei cieli fosse in qualche modo dotato di vita, in quanto riceveva un'anima dall'Intelligenza che era preposta al suo moto. Tale sistema comportava inoltre la nozione, derivata da Aristotele, che i corpi celesti fossero composti di una sostanza diversa da quella degli elementi del mondo sublunare, una ‛ quinta essenza ' ingenerabile e incorruttibile, che in tal modo veniva a costituire un ordine a sé stante degli enti materiali, a metà strada tra l'ordine stabile e permanente dei puri spiriti e il mondo inferiore delle ‛ brevi contingenze ', e con il compito di mediare l'azione o ‛ virtù ' di quel primo ordine sulla disposizione passiva del secondo.
Se questa, nelle sue linee generali, era la visione del mondo comunemente accettata ai tempi di D., essa recava in sé tre principi che la mentalità cristiana poteva accettare solo in parte: quello della ‛ necessità ' del processo causale che presiede alla produzione del mondo; quello della causalità ‛ mediata ' in tale processo; e quello dell'‛ animazione ' dei corpi celesti.
Specie nei primi due casi è chiaro che determinate concessioni non potevano esser fatte. Comunque, entro certi limiti, la posizione dei teologi ortodossi nei confronti di questa visione del mondo poté variare, con atteggiamenti ora più critici ora meno. Così, il vescovo di Parigi Tempier condannò nel 1277 l'opinione che gli " orbes coelestes " fossero " intelligentiarum.... organa, sicut auris et oculus sunt organa virtutis sensitivae " (prop. 102, in Chartularium universitatis Parisiensis, I, ad 1277, p. 549). Tale affermazione, mentre escludeva che le stelle e i pianeti fossero in sé stessi animati (Avicenna parlava infatti di un " coelum... animatum oboediens Deo ": cfr. B. Nardi, Saggi, cit., p. 26), implicitamente ammetteva che essi fossero mossi da Intelligenze; eppure anche quest'ammissione incontrò la resistenza di Roberto Kilwardby, il quale non si sentiva d'identificare tali intelligenze motrici con gli angeli " sicut nos catholici loquimur " (v. M.-D. Chenu, in Mélanges Mandonnet, " Bibliothèque thomiste " XIII 191-222).
Tuttavia l'opinione assai più consueta era quella di T. secondo cui " omnia corpora reguntur per angelos ", in conformità all'insegnamento dei " sancti doctores " e anche di tutti quei filosofi " qui incorporeas substantias posuerunt " (Sum. theol. I 110 1). E T. non trova neppure da obiettare al fatto che i " corpora caelestia " vengano chiamati " animata ", sempre che ne venga limitato il senso: " non sunt animata eo modo quo plantae et animalia, sed aequivoce " (ibid. I 70 3; ma nel In lib. de Causis, scritto più tardi, T. si mostra più scettico su questo punto: v. ediz. cit., pp. 38, 41, 61, ecc.). Egli inoltre ammette che i corpi celesti sono composti di una materia diversa da quella dei quattro elementi, e che quest'ultima, non essendo separabile dalla loro forma, è in grado di costituire dei corpi incorruttibili (ibid. I 9 2, 10 5, 66 2, Cont. Gent. II 33 e 36). Infine, T. sostiene che i corpi celesti sono cause attive di una molteplicità di effetti nel mondo sublunare, ma con due notevoli specificazioni: anzitutto che questi effetti non includono la produzione di piante o animali generati ex semine e, in secondo luogo, che essi non includono, salvo indirettamente, le operazioni dell'intelletto e della volontà umana (ibid. I 115 3 e 4).
I primi nove cieli. Per D. i corpi e le sfere motrici - tranne il cielo Empireo, per cui v. oltre - hanno suppergiù la stessa funzione che hanno per Tommaso. Creati immediatamente da Dio (Pd VII 130-133, XXIX 22-36) e dotati di una natura incorruttibile, essi sono mossi dagli angeli, e pertanto costituiscono gli strumenti della Provvidenza nella produzione degli effetti sulla terra (cfr. ad es. Cv II IV 1-2, V 13-15, Pd VII 135-141, VIII 97 ss., Mn I IX, II II 2-3).
Tuttavia, diversamente da T., D. in genere attribuisce una maggiore importanza al ruolo delle sfere e dei corpi celesti nel sistema causale del cosmo. Non è qui il caso di entrare in dettagli, ma basterà richiamare l'attenzione sulla stretta e marcata connessione - anche se non facilmente definibile - tra il costituirsi sulla terra delle varie forme di vita sia fisica che morale e lo raggio e 'l moto de le luci sante (Pd VII 141); una connessione continuamente presente e più volte esplicitamente affermata nel Paradiso, e che, nella misura in cui viene comunicata con un tono e un'evidenza tutta particolare, appartiene più al mondo del poeta che non del teologo. Come nel caso del ruolo causale degli angeli, anche qui la differenza con T. probabilmente è qualcosa di più che una questione di tono e di accento; infatti, come abbiamo già avuto modo di vedere, l'interpretazione più attendibile di Pd VII 133-141 è che per D. i corpi celesti, in quanto mossi e governati dagli angeli, sono le cause della vita nel mondo sublunare e in una misura tale che T. certamente non avrebbe condiviso (si veda anche Pd II 112-114 e il commento di Nardi, in Saggi, cit., pp. 20-25).
Visto in questa più ampia prospettiva, l'universo dantesco, proprio per il rilievo particolare attribuito alla processione causale che dal puro spirito giunge - attraverso la materia celeste - alla materia terrena, risulta certamente più vicino al neoplatonismo avicennistico di quanto lo sia l'universo di Tommaso. In ciò seguiamo, nelle linee generali, le conclusioni di Nardi, anche se su alcuni punti specifici le sue argomentazioni paiono spingersi troppo oltre, come quando nel commentare Pd II 133-144 egli afferma (Saggi, cit., p. 33) che " Dante sembra accettare la dottrina dell'animazione delle sfere celesti "; non è infatti da escludere che in questo caso il linguaggio di Beatrice sia metaforico.
Il cielo Empireo. La storia del concetto di empyreum è stata illustrata da Nardi in un magistrale capitolo dei suoi Saggi di filosofia dantesca (ediz. cit., pp. 167-214, e cfr. Nel mondo di D., Roma 1944, 65-75). Anche se tale concetto poteva vantare scarsi appoggi nel testo della Bibbia, e negli stessi padri della Chiesa, esso tuttavia divenne un dato acquisito della sacra doctrina a partire dal XII secolo, allorché venne incorporato nelle Sententiae di Pietro Lombardo (v.), cioè nel manuale ufficiale delle scuole teologiche.
Esso fu il risultato della fusione di alcuni dati biblici con l'astronomia greca quale si era venuta sviluppando sotto l'influenza del neoplatonismo. La tendenza generale fu quella di porre al di fuori e al di là della sfera mobile più esterna - cioè del nono cielo o primum mobile - una zona costituita di pura luce e priva di moto, contenente in sé l'intero cosmo fisico. Tale luce venne concepita come la parte più nobile e meno materiale del mondo corporeo, e pertanto come causa e misura del moto dei nove cieli fisici e come fonte della virtù attuante e vivificante da essi trasmessa al mondo sublunare. Una volta accolto nella tradizione cattolica, l'Empireo fu ritenuto il luogo della creazione degli angeli e della visione beatifica di Dio da parte degli eletti. in questi termini l'esistenza dell'Empireo fu accettata, si può dire, da tutti i teologi del sec. XIII.
Le critiche a cui tale concezione andò incontro furono più di tipo filosofico che teologico in senso stretto, e a muoverle furono teologi più marcatamente aristotelici come Alberto Magno e Tommaso. Ambedue accettarono l'Empireo come una realtà soprannaturale, come " habitatio beatorum "; tuttavia - per lo meno nei loro primi scritti - si mostrarono scettici di fronte alle prove ‛ filosofiche ' addotte per dimostrare l'esistenza di esso come decimo cielo, un'esistenza dedotta o dalla supposta necessità di porre una causa materiale per il moto del Primo Mobile, o dalle esigenze intrinseche alla ‛ metafisica della luce ' che, sulla base della tradizione del Grossatesta, incontrava i favori di francescani come Bacone e Bonaventura (v. Nardi, op. cit., pp. 192-201). In tal senso T., nel giovanile commento alle Sentenze, affermava che " caelum empyreum investigari non potest; quia quidquid de caelis cognoscimus, hoc est per visum aut per motum. Caelum autem empyreum nec motui subiacet nec visui... unde nec naturali ratione sed per auctoritatem est habitum "; egli peraltro negava che questo cielo - la cui esistenza concedeva " per auctoritatem " - avesse una qualsiasi influenza sul restante mondo corporeo " quae rationabiliter poni possit " (II Sent. II II 1 3). Più tardi T. ritrattò quest'ultima opinione, ammettendo una qualche influenza dell'Empireo sui cieli inferiori, perché altrimenti " non contineretur sub unitate universi " (Quodlibet VI XI 19; cfr. Sum. theol. I 66 3 ad 2). Anche se nel citato Quodlibet T. sembra pure attribuire un qualche peso agli argomenti desunti dal moto dei corpi celesti in favore dell'Empireo, egli tuttavia continua a rigettare quelli derivanti dall'identificazione di ogni influsso con una trasmissione di luce, " nisi lux metaphorice accipiatur pro omni actu ". L'effettiva dottrina tomista consiste, in ultima analisi, nel considerare l'Empireo come un corpo contenente in sé tutto il restante mondo materiale, privo di moto, di natura esclusivamente luminosa, e sede della creazione degli angeli e della visione dei beati (Sum. theol. I 61 4, 66 3 e 4, 68 4).
In questa voce, dobbiamo limitarci a considerare le affermazioni dantesche sull'Empireo solo in rapporto alla dottrina di T. (cfr. Cv II III 8-12, Pd XXVII 109-114, XXX 38-42 e passim, Ep XIII 66-74). Pertanto accenneremo soltanto di sfuggita al disaccordo tra B. Nardi e A. Mellone, in merito al problema se D., nella Commedia, mantenne o meno l'opinione espressa nel Convivio (II III 9) secondo cui l'Empireo è la causa immediata del movimento del Primo Mobile.
La dottrina esposta nel Convivio è un misto di dati cristiani e di aristotelismo platonizzante. L'Empireo è considerato corporeo e materiale (§ 8), contenente in sé il Primo Mobile, e - in quanto dotato per natura della perfezione dell'assoluta immobilità (divinissimo ciel quieto) - capace di muovere quel cielo mediante il ferventissimo appetito suscitato in esso (§ 9). La sua immobilità è proporzionata alla perfezione di Dio, che in esso trova il suo luogo appropriato (§ 10). Anche se corporeo, l'Empireo non è situato in un luogo ma unicamente nella mente divina, dalla quale trae la propria forma (§ 11). Esso infine, secondo quanto insegna la Santa Chiesa, è la dimora dei beati (§ 10). Tutto ciò, se riflette la comune tradizione scolastica, denuncia tuttavia un orientamento di tipo filosofico che non si ritrova né in Alberto, né in T., quello cioè di guardare all'esistenza dell'Empireo come a una necessità razionale, allo scopo di rendere ragione della circolazione del Primo Mobile. Un argomento che in T., evidentemente, non incontrò mai una forte considerazione, neppure nei suoi ultimi scritti.
Se la Commedia ripete la dottrina del Convivio nel considerare l'Empireo al di fuori e al di là del Primo Mobile e privo di moto (Pd I 22, II 112, XXII 65-66, XXVII 112-113), contenuto solo da Dio (XXVII 113-114; cfr. XIV 30) e dimora dei beati (IV 28-36, XXII 61-72, XXX 42-45, 100 ss.), essa presenta, in ogni caso, un'importante differenza. Nel poema, infatti, l'Empireo non è più concepito come un corpo, ma come un'entità puramente spirituale. Per questo motivo Nardi, che si avvide di tale differenza, identificò l'Empireo del Paradiso " col ‛ lumen gloriae ' dei teologi " (Saggi, cit., p. 208), mentre Mellone, forse con maggiore esattezza, lo ha identificato con la " visione beatifica " (La dottrina di D.A. sulla prima creazione, cit., p. 39, a proposito di Pd XXX 38-42, e cfr. I 4 e 121-123, XXII 67, XXVII 112).
Da questa spiritualizzazione dell'Empireo derivano allora due conseguenze: da un lato una sua accentuata caratterizzazione come termine definitivo del desiderio spirituale (Pg XV 52-54, 67-69, Pd I 122, XXII 64-65) e, dall'altro, una sua implicita esclusione dagli effetti della prima creazione, in quanto esso non fu semplicemente un qualcosa dato ‛ in principio ', anche rispetto agli angeli, ma un qualcosa da conquistare attraverso una positiva risposta alla grazia (XXIX 58-66; da notare che ai vv. 22-36 l'Empireo non è menzionato tra le cose create in origine). Inoltre, se è giusta la posizione di Mellone nei confronti di Nardi, può delinearsi una terza conseguenza, che segnerebbe un'ulteriore diversità della Commedia dal Convivio; se nel poema infatti, come afferma Mellone, l'Empireo non è più visto in relazione al Primo Mobile come causa specifica del suo movimento, allora l'Empireo non andrà più considerato, come nel Convivio, parte della natura del mondo (Pd XXVII 106). Ma questo è problema che possiamo lasciare da parte. Ciò che è decisamente originale nella Commedia, rispetto all'insegnamento teologico tradizionale, è l'aver rappresentato l'Empireo come cielo incorporeo o spirituale.
Questa, come dice Nardi, fu la " vera novità " (op. cit., p. 207) e su ciò Mellone concorda (op. cit., pp. 30-31) anche se poi aggiunge, giustamente, che T. nel trattare dell'ascensione di Cristo (Sum. theol. III 57 4 " Utrum Christus ascenderit super omnes coelos ") giunse a posizioni alquanto vicine a quelle di D.: infatti, pur rimanendo apparentemente dell'idea che l'Empireo è corporeo, T. colloca il corpo di Cristo asceso alla gloria eterna " extra totam continentiam coelestium corporum ", compreso cioè il decimo cielo, l'Empireo (cfr. Mellone, op. cit., p. 50).
Quanto all'epistola XIII, la dottrina dell'Empireo in essa esposta non presenta alcuna novità rispetto alle idee tradizionali; semmai, alcune espressioni (specialmente §§ 25 e 70) sembrerebbero a prima vista contraddire la spiritualizzazione dell'Empireo operata nella Commedia. Pertanto la lettera non offre, al riguardo, nessun termine ulteriore di confronto con il tomismo.
b) Antropologia. - Nelle precedenti sezioni abbiamo accennato più volte alla teoria dantesca della natura umana in relazione al tomismo, in particolare per ciò che concerne l'unità dell'uomo e la sua origine. Scarsa attenzione abbiamo invece rivolto a un terzo fondamentale problema, quello del fine ultimo della vita umana. A questi tre aspetti - costituzione intrinseca, origine e fine dell'uomo - sarà dedicata questa sezione.
1. Rapporto anima-corpo. - Fonti principali dell'antropologia dantesca sono il Convivio, i capitoli di Mn I III, III XI e XV, e naturalmente la Commedia. Un'attenzione tutta particolare dovremo dedicare al Convivio, in quanto riteniamo che se la Commedia, come disse Nardi, rappresenta una " revisione di opinioni e giudizi che s'incontrano negli, scritti anteriori " (Saggi e note, cit., p. 75), è pur vero che tale revisione, rispetto al nostro argomento, fu in gran parte soltanto una modificazione di posizioni già raggiunte nel Convivio.
Tali posizioni possono riassumersi nel modo seguente: l'uomo, anche se al pari dei corpi misti, delle piante e degli animali è un composto di materia e forma, si differenzia tuttavia dagli altri esseri terreni per il fatto che la sua forma o ‛ anima ', in quanto essere intellettuale, è in parte da materia libera (Cv III VII 5). L'anima umana, infatti, proprio perché intellettuale, è la più nobile di tutte le forme esistenti sotto il cielo, il che significa che essa partecipa in grado più elevato alla natura divina, dalla quale ogni cosa trae la propria esistenza (II 5-6, VII 2). Se ogni cosa è nobile nella misura in cui attua la perfezione propria alla sua natura (IV XVI 5), la natura della nobiltà dell'anima razionale trova la propria caratteristica nell'appartenere al più alto di quei due mondi in cui, per così dire, l'universo del Convivio appare suddiviso: mondo spirituale e mondo corporeo, mondo delle forme immerse nella materia e mondo delle forme libere da essa. È vero che l'anima è libera solo da una parte, mentre da un'altra è impedita (III VII 5), ma è anche vero che proprio queste espressioni sembrano voler dire che la vita propria dell'anima è al di fuori del dominio della materia.
Sui problemi posti da tale questione torneremo in seguito, per ora sarà bene esaminare quanto D. afferma sui rapporti tra l'anima da un lato, e il mondo spirituale di Dio e degli angeli dall'altro. Dio, la cui natura è puramente intellettuale (III VII 5), raggia nella ragione umana come in angelo, e ciò spiega perché l'uomo è divino animale da li filosofi chiamato (II 14). Ma D. non diede mai una spiegazione di quel come in angelo, e neppure diede un nome all'intermediario tra luce divina e mente umana, al quale Alberto Magno (che D., in questa sede, probabilmente ha presente) diede l'appellativo, sulla scorta di Avicenna, di " intellectus agens " (cfr. i testi citati in B. Nardi, Studi di filosofia medievale, pp. 110-117). D. tuttavia sembra affermare che la nostra mente, per sua natura, è illuminata direttamente dalla divina luce (cfr. Cv III XIV 4-5), anche se, di fatto, la sua conoscenza dipende da un organo di senso - la ‛ fantasia ' - e, di conseguenza, dal corpo (IV 9-10). Per di più, egli prosegue col definire tale dipendenza come un ‛ difetto ' o una ‛ privazione ' temporanea, impostaci dal misterioso volere di Dio (§ 10).
Tali affermazioni parrebbero implicare che, se non fosse per la temporanea e ‛ occasionale ' congiunzione con il corpo, la mente umana opererebbe come quella di un angelo. È meglio, naturalmente, non sollecitare eccessivamente testi come questi, dove - almeno in questa parte del trattato - l'esattezza tecnica del linguaggio lascia molto a desiderare. Rimane però significativo che D. si conceda espressioni che, prese alla lettera, rappresenterebbero in qualche modo come puramente occasionale, rispetto alla sua natura intrinseca, l'unione dell'anima col corpo in questa vita. Al riguardo si confrontino le metafore di II IV 17, VIII 15, III IV 10 e IV XXI 9 e si tenga presente la sorprendente affermazione di II VIII 6 sullo stato dell'anima una volta separata dal corpo, dopo la morte: perpetualmente dura in natura più che umana. Non c'è dubbio che un'espressione del genere, presa alla lettera, dovrebbe implicare: in primo luogo, che unendosi con il corpo l'anima assume vita soltanto ‛ umana '; in secondo luogo, che esiste una vita migliore a cui essa è abilitata una volta sciolta da tale unione; in terzo luogo, che questa vita migliore non è un dono superadditum alla sua natura intrinseca - come la " gratia supernaturalis " dei teologi - ma ne costituisce la vera e propria attuazione.
Quest'interpretazione sembra confermata dal passo di Cv IV XXII 13-14 dove D. parla dell'attuazione, possibile solo dopo la morte, della nostra nobilissima parte... sì come è lo 'ntelletto. E se questa nobilissima parte può essere chiamata ‛ umana ', meglio ancora sarà definirla ‛ angelica ' (III II 11). Ma se è angelica, allora è anche ‛ divina ': l'una identificazione, infatti, comporta anche l'altra. Una volta affermato che la divina luce... raggia nella ragione umana come in angelo, D. può infatti agevolmente passare a presentarci la mente come ciò che accomuna tra loro Dio, angeli e uomini e, di conseguenza, come ciò che dà diritto ad angeli e uomini di esser definiti ‛ divini ': ché solamente de l'uomo e de le divine sustanze questa mente si predica... né mai d'animale bruto predicata fue... Onde si puote ormai vedere che è mente: che è quella fine e preziosissima parte de l'anima che è deitade (III II 14-19, e v. MENTE). Al riguardo noteremo soltanto che per T. l'attribuire e ‛ divinità ' agli angeli era un uso linguistico tipicamente platonico (cfr. il commento al Liber de causis lect. III, ediz. Saffrey, cit., pp. 18-21, e De Subst. separat. capp. 1, 4, 13) e, ugualmente, qualsiasi affermazione tendente ad assimilare secundum speciem anima umana e angeli (cfr. Sum. theol. I 75 7, De Anima 7).
2. Natura dell'anima. - Questa tendenza, come si è visto, emerge chiaramente nel Convivio, soprattutto nel III trattato. Nel IV trattato, invece, essa compare molto di meno e la ragione è evidente. Mentre quest'ultimo, infatti, si presenta come un trattato di etica dedicato alla vita umana nella sua dimensione temporale e corporea, il III trattato è un saggio di metafisica religiosa, la cui tematica trascende i limiti umani: suo oggetto infatti è la sapienza filosofica in generale considerata, certo, in quanto partecipata all'uomo, ma anche in quanto ne trascende i limiti, in quanto - cioè - vita dell'intelletto in sé, quale si manifesta in Dio, negli angeli e nell'uomo (v. III XII 12-13, XIII 7).
Il taglio argomentativo, però, è tutt'altro che ‛ scientifico '. D. infatti è ben più preoccupato di proclamare la nobiltà e la bellezza della vita intellettuale, che non di analizzarne partitamente la natura. La carica ideale che affiora in queste pagine vale a spiegarne la generale carenza di ‛ rigore filosofico '; una carenza assai simile a quella rimproverata da T. a quanti ignoravano o minimizzavano le essenziali differenze di grado nell'ordine intellettuale. A tal proposito, il passo di Sum. theol. I 75 7 ad 2 può certamente essere letto tenendo presente D.: T. si accinge a rispondere all'argomento secondo cui " anima et angelus sunt unius speciei " in quanto ambedue partecipano della " intellectualitas ", la quale è ‛ nobile ' a tal punto da non poter subire ulteriori specificazioni. T. risponde: " differentia specifica ultima est nobilissima inquantum est maxime determinata, per modum quo actus est nobilior potentia. Sic autem intellectuale non est nobilissimum, quia est indeterminatum et commune ad multos intellectualitatis gradus ". Ancora, in Cont. Gent. II 94, T. indica quella che per lui è la differenza cruciale: " propria.... operatio substantiae separatae et animae intellectivae est intelligere. Est autem omnino alius modus intelligendi substantiae separatae et animae: nam anima intelligit a phantasmatibus accipiendo; non autem substantia separata, cum non habeat organa corporea, in quibus oportet esse phantasmata. Non sunt igitur anima humana et substantia separata unius speciei ".
È vero che D., com'è stato notato, parla della dipendenza del nostro intelletto dall'immaginazione (Cv III IV 9-10), ma quello che egli manca di rilevare, dal punto di vista tomista, sono le conseguenze ontologiche di tale fatto. Così, ancora, egli parla certo di gradi... ne l'ordine intellettuale de l'universo (III VII 6), ma non si sofferma a considerare, analiticamente, se tali gradi non implichino per caso differenze di ‛ natura ' o di ‛ essenza '.
D. non affrontò mai direttamente il problema capitale dell'antropologia scolastica del Duecento: se l'anima, cioè, è una sostanza spirituale, come sostiene la tradizione cristiana (ma allora, come può essere forma e atto del corpo, come sostiene Aristotele?), o se è invece forma del corpo (e allora, come può essere una sostanza spirituale?). La soluzione di T. fu di pensare a un tipo di sostanza spirituale che potesse essere, per sua intrinseca natura ed essenza, anche forma del corpo. Così facendo, T. fu in grado di definire l'uomo come un essere di tipo completamente diverso sia dagli angeli che dagli animali. D., ovviamente, avvertì questa posizione in qualche modo mediana dell'uomo (cfr. Cv III VII 5-6, Mn III XV 3-6, VE I II), ma la considerò come una misteriosa congiunzione di nature diverse in un'unica essenza (cfr. Mn III XV 3-6).
Persino nella Commedia, e persino in quei luoghi (come in Pg XXV 61-75) dove D. sembra superare tale dualismo, sussiste pur sempre un margine di dubbio tale da lasciarci, quanto meno, incerti se D. avesse fatto propria la soluzione radicale di Tommaso. Almeno fino alla Commedia l'antropologia dantesca, come quella di Alberto Magno, rimase sicuramente un compromesso tra platonismo e aristotelismo. Del resto, i termini in cui Alberto Magno parla dell'anima sono perfettamente applicabili all'anima umana quale fu intesa da D. nel Convivio. Seguendo Avicenna, Alberto Magno riteneva che si potessero dare due diverse definizioni dell'anima, a seconda del punto di vista: " Secundum esse quod habet in se, et sic non diffinitur in comparatione ad corpus; vel secundum comparationem ad corpus, et sic diffinitur " (Summa de creat. II 4 1). Nell'affermare che l'anima, in relazione al corpo, è ‛ forma ', Alberto Magno non intese riferirsi direttamente alla sua ‛ essenza ' - come fa T. - ma piuttosto all'operazione delle sue ‛ potenze ' comunicanti con il corpo. Come nota Nardi, " l'anima razionale... non è unita all'organismo per la sua essenza che è incorporea, bensì per mezzo delle sue facoltà organiche " (Studi, cit., p. 139, e cfr. i testi riportati; É. Gilson, La philosophie au moyen âge, Parigi 1952², 511).
È forse in questo aristotelismo platonizzante che andranno ricercati i presupposti del Convivio; certo, non vanno dimenticati quei passi dove, almeno a parole, D. si orienta maggiormente in senso ‛ platonico ', col suggerire l'idea che il corpo è d'impedimento e d'impaccio all'intelletto (la qual cosa, per T., era proprio ciò che avrebbe dovuto affermare chi avesse sostenuto, erroneamente, la provenienza immateriale e non corporea delle species intelligibiles ricevute dall'anima: Sum. theol. I 84 4). Ma non c'è dubbio che, anche nel Convivio, espressioni del genere hanno un intento in qualche modo retorico; nello stesso Convivio, infatti, D. considera il corpo come parte di una sola sustanza e come partecipe della nobiltà dell'anima razionale (III III 5, VI 11, VIII 1-12). Nella Commedia poi, questo aspetto, almeno, dell'originario dualismo dantesco è totalmente assente.
A conclusione di quanto detto riassumeremo, per punti, la posizione di D. in merito alla natura dell'anima, alla sua unione con il corpo e all'unità sostanziale dell'uomo.
L'anima è una forma che include in sé tre potenze vitali, la ‛ vegetativa ', la ‛ sensitiva ' e la ‛ intellettiva ' (Cv III II 14; cfr. Tommaso Sum. theol. I 76 4, Alberto Magno Sum. theol. II 70 sol.). Nel sostenere la totale immaterialità della potenza intellettiva, D. concorda con T. e Alberto Magno, ma, come abbiamo visto, egli pone l'accento, assai più che T., sulla sua affinità con la mente angelica, e in ciò si avvicina alla posizione di Alberto (cfr. Sum. de creat. II 4 sol. " substantialis differentia animae et angeli est in hoc quod anima inclinatur ad corpus ut actus, angelus autem non ").
Quanto all'unione con il corpo, se D. la considera come qualcosa che delimita e ostacola l'anima, quando poi ne discorre in termini più propriamente filosofici egli considera l'anima come forma, atto, a perfino ‛ causa ' del corpo (Cv III VI 11). Questo tipo di terminologia, ovviamente, si ritrova, ma con sfumature diverse, sia in Alberto Magno che in Tommaso. La differenza, molto in breve, consiste nel fatto che mentre per T. tutto ciò che esiste nell'uomo realizza la propria esistenza all'interno dell'anima razionale e in virtù di essa (cfr. Sum. theol. I 76 4), per Alberto Magno, probabilmente (giacché su questo punto non è molto chiaro) la materia che l'anima trae in vita già possiede e ritiene in sé la sua natura propria di corpo semplice; la materia, cioè, ha già una sua propria " forma corporeitatis ", sulla quale l'anima esercita certamente la sua azione, senza però averla tratta all'esistenza.
Qual è la posizione di D. su questo fondamentale problema? Dare una risposta sicura è impossibile (ma già questo è significativo) anche tenendo presente la Commedia; è tuttavia probabile che D. si trovasse più vicino ad Alberto Magno che a Tommaso. Oltre la Commedia i passi di maggior rilievo sono quelli di Cv III III 5, IV VII 14-15, e di Mn I III 6, III XI 5. Particolarmente importante è il primo passo che, per nostra sfortuna, è corrotto. Il testo della '21, quello di Busnelli-Vandelli e quello della Simonelli offrono ognuno una lezione differente. Accettando la lezione Busnelli-Vandelli o, con diversa punteggiatura, quella della Simonelli, dalla frase di D. (prendendo tutta [sua] forma come soggetto di puote avere) un senso tomista è ‛ possibile ' trarlo, ma ciò che ne risulta non è in nessun caso chiaro al punto da giustificare la tesi di Busnelli secondo cui, qui come altrove, D. non fa altro che seguire " il suo maestro l'Aquinate " (v. Busnelli-Vandelli I 451-457 e cfr. B. Nardi, Saggi, cit., pp. 359-361).
L'anima umana, inoltre, è un'unione di varie potenze, vertudi e nature (Cv III II 14, III 5, VIII 1, IV VII 14, XXI 2 ss., VE II II 6, Mn I III 6-7, XV 4-6) e, congiunta col corpo, essa svolge il ruolo di principio attivo che vivifica e organizza la materia corporea con mirabile sagacia, al servizio della ragione (Cv III VIII 1-7, XV 4, IV XXI 2). Infine, l'uomo in quanto essere è da considerarsi come una sola sustanza (III III 5, Mn III XI 5).
Tutto ciò, come abbiamo avuto modo di rilevare, anche se D. non dissentì mai esplicitamente dalle posizioni di T., è tuttavia compatibile con una metafisica differente da quella tomista.
Tutte le opinioni ora ricordate si ritrovano nella Commedia, con alcune precisazioni e chiarimenti, che tuttavia non significano necessariamente una ‛ conversione ' al tomismo. All'uomo è riconosciuta un'anima unica, comprensiva dell'intelletto possibile, e quest'ultimo, unendosi come anima razionale al corpo, forma una sostanza che vive, a un tempo, come vegetativa, sensitiva e razionale (Pg IV 1-6, XXV 64-75). Queste stesse affermazioni le ritroviamo in Alberto Magno, la cui antropologia per molti versi differisce notevolmente da quella di T. (cfr. De Anima I 12, Sum. de creatur. II 55 4 part. 1; Sum. theol. II XV 77, m. 2). Ancora, l'anima è considerata una forma sostanziale unita alla materia (Pg XVIII 49-54), il che implica che, una volta separata dal corpo, l'anima manca del proprio naturale complemento e della propria perfezione (If VI 106-111, Pd XIV 43-45). E questa, in una forma o nell'altra, era dottrina comune tra i teologi (v. Dictionnaire de théologie catholique, XIII 2, col. 2550 ss.). Lo stesso non si può dire per l'argomento di Pd VII 145-148 che deduce la futura resurrezione della carne dal fatto che i corpi di Adamo e di Eva furono creati direttamente da Dio; questo neppure è argomento usato da Tommaso.
A proposito dell'unione anima-corpo nell'uomo, possiamo ricordare (ma vedi oltre) l'affermazione di Pd IV 40-42 sulla dipendenza del pensiero dalla sensazione, che richiama quella di Cv III IV 9 (e cfr. VE I III 1-2). Ma anche qui, per quanto si voglia, non si tratta di dottrina specificamente tomista. Alberto, ad esempio, sostiene che " omnis nostra scientia oritur ex sensibus " (De Anima III 19), e di affermazioni analoghe, con presupposti estremamente diversi, se ne possono incontrare in Scoto (v. É. Gilson, L'esprit de la philosophie médiévale, cit., pp. 252-253).
3. L'origine dell'uomo. - Col termine di ‛ origine ' intendiamo qui riferirci al processo attraverso il quale gli esseri umani giungono all'esistenza. Naturalmente, sia per D. che per T., l'origine di Adamo, in questo senso, differì da quella dei suoi discendenti; ma tale differenza, come già abbiamo notato, fu formulata dai due autori in maniera non del tutto identica. Per T., infatti, il corpo del primo uomo fu prodotto mediante un'azione diretta di Dio sulla materia terrestre, il limum terrae di Gen. 2,7 (cfr. Sum. theol. I 91 1-2).
Il diretto intervento di Dio fu reso necessario dalla non preesistenza di un corpo umano da cui derivare per normale processo generativo il corpo di Adamo, e dall'incapacità di un qualsiasi altro agente intermedio - fosse un angelo o un qualunque corpo celeste - a produrlo. T., è vero, ammette la possibilità che Dio abbia usato gli angeli come strumenti per le sue finalità, ma tuttavia sembra escludere del tutto i corpi celesti (ibid., ad 1 - ad 3).
È questo il punto su cui D., a giudicare da Pd XIII 52-84, si trova in disaccordo. Qui, infatti, è chiaro che strumento della produzione di Adamo fu il cielo. Meno chiara è la differenza in VII 142-148, a causa dell'espressione sanza mezzo.
Il confronto tra D. e T. diventa più complesso quando si affronti il problema del normale processo generativo dell'uomo.
In via generale, possiamo dire che gli scolastici distinguevano quattro fattori operanti nella procreazione: il semen maschile, la ‛ materia ' fornita dalla madre, il coelum, e Dio. Quanto al feto, si riteneva che passasse attraverso tre stadi, corrispondenti all'acquisizione successiva dell'anima ‛ vegetativa ', di quella ‛ sensitiva ' e infine di quella ‛ intellettiva '. La dottrina di T. può venir riassunta nel modo seguente: la vis activa del semen non ha di per sé un'anima, ma è un semplice strumento per la produzione delle anime che si succedono nel feto (Sum. theol. I 118 1 ad 3); il coelum non ha una diretta funzione nel processo di generazione, ma opera solo entro e attraverso la vis attiva del semen (loc. cit., e cfr. 115 3 ad 2); la funzione seminale della vis activa termina non appena il feto ha acquisito l'anima ‛ sensitiva '; l'anima ‛ sensitiva ', a stretto rigor di termini, non si trasforma in anima ‛ intellettiva ', in quanto quest'ultima è effetto solo del diretto intervento di Dio (I 118 2); neppure è corretto affermare che l'anima ‛ vegetativa ' si trasformi in ‛ anima sensitiva ', in quanto uno stesso essere non può, anche successivamente, assumere due forme sostanziali differenti in specie. Il processo si svolge in modo tale che non appena il feto assume un'anima ‛ sensitiva ', l'anima precedente, quella ‛ vegetativa ', cessa puramente e semplicemente di esistere, si ‛ corrompe '; lo stesso avviene per la ‛ sensitiva ' (in quanto forma sostanziale) non appena la ‛ intellettiva ' è creata da Dio (loc. cit., e cfr. Cont. Gent. II 89, Pot. III 9 ad 9). La forma sostanziale definitiva, cioè l'anima ‛ intellettiva ', contiene virtualiter ambedue le anime precedenti; essa costituisce l'unica e sola forma sostanziale dell'essere umano, e " virtute continet omnes inferiores formas; et facit ipsa sola quidquid imperfectiores formae in aliis faciunt " (Sum. theol. I 76 4).
La posizione di D. è esposta una prima volta in Cv IV XXI 1-5 secondo l'oppinione d'Aristotile e de li Peripatetici, e poi in Pg XXV 37-75, ma tra i due testi esistono differenze, quanto meno di accento.
Nel Convivio sono indicati tre fattori principali che agiscono nel processo di generazione, la quale, a sua volta, passa attraverso quattro stadi. I tre fattori principali sono: la vertù formativa del seme (il termine deriva probabilmente da Alberto Magno), la vertù celestiale e il motore del cielo. I quattro stadi della generazione sono: il disporsi della materia (fornita dal corpo femminile) all'azione seminale della vertù formativa; questa medesima azione, consistente nell'organare l'embrione per predisporlo a ricevere l'azione vivificante della vertù celestiale; l'azione di questa virtù celeste che produce.... l'anima in vita; e, infine, l'azione del motore del cielo che induce l'intelletto possibile.
Ciò che colpisce, in questa descrizione, è lo scarso rilievo attribuito alla vertù formativa del seme, nell'animazione del feto. D. dice soltanto che la sua funzione è di ‛ preparare ' gli organi del feto, organi che sembrerebbero presupporre un'anima ‛ vegetativa ', mentre invece l'impartire la vita al feto è esplicitamente riservato alla vertù celestiale, e questa vita pare includere anche quella ‛ sensitiva ', in quanto essa è immediatamente seguita dall'induzione dell'intelletto possibile da parte del motore del cielo. Va notato, inoltre, che la struttura grammaticale dell'ultima frase (§ 5) lascia un po' incerti se identificare questo motore con Dio o con un angelo, e che il rapporto tra intelletto possibile e vita preesistente nel feto rimane senza una spiegazione.
Per ognuno di questi punti il brano di Pg XXV 37-75 costituisce una revisione e un chiarimento. L'intero processo è fatto dipendere da due principi fondamentali: la virtute informativa del seme (a sua volta ricondotta, attraverso il sangue perfetto del v. 37, al cor del generante del v. 59) e Dio, che, una volta compiutasi l'opera della natura, crea l'anima razionale (vv. 67-75). La vertù celestiale scompare, o quanto meno è assorbita nella virtute informativa proveniente dal cor del generante, e questo, se confrontato con l'esposizione del Convivio, rappresenta un certo ravvicinamento alle posizioni di Tommaso.
D'altra parte, come ha argomentato con grande dottrina B. Nardi, il modo in cui D. rappresenta lo sviluppo del feto attraverso stadi successivi è l'equivalente di una tesi esplicitamente rigettata nella Summa theologiae (I 118 2 ad 2): " et ideo alii dicunt quod illa eaden anima, quae primo fuit vegetativa tantum, postmodum per actionem virtutis quae est in semine perducitur ad hoc ut ipsa eadem fiat sensitiva; et tandem ad hoc ut ipsa eadem fiat intellectiva... Sed hoc stare non potest ". Quest'allusione, secondo Nardi (Studi di filosofia medievale, cit., pp. 9-68, e cfr. D. e la cultura medievale, cit., pp. 187-209), è indirizzata ad Alberto Magno (specialmente Nat. et orig. an. I 4), e in questo lo studioso è confortato dai rimandi degli editori della Summa di " Ottawa " (I, col. 702 b 17). La posizione di D. sarebbe dunque molto vicina a quella di Alberto.
Il giudizio di Nardi riposa su un'interpretazione strettamente letterale di Pg XXV 52-75. Dopo aver descritto nei vv. 46-51 l'azione della virtute informativa che dapprima forma l'embrione e poi lo dota di vita vegetativa (coagulando prima, e poi avviva) D., proseguendo, dichiara (v. 52) che questa vita vegetativa (fattasi ormai anima del feto) non è altro che il risultato della trasformazione della virtù informativa stessa (Anima fatta la virtute attiva) la quale, secondo lo stesso processo, si appresta a diventare anima ‛ sensitiva ' (vv. 55-57) che sarà, a sua volta, in potenza rispetto all'anima ‛ intellettiva ' infusa da Dio (vv. 61-75, specialmente v. 73).
L'intero passo, preso alla lettera, sembra effettivamente descrivere non una serie di successive generationes, ma piuttosto una serie di alterationes - come avrebbe detto T. - di una medesima e unica sostanza. E, tutto considerato, questa interpretazione è forse quella che meglio risponde al senso del passo, senza tuttavia escludere del tutto che D. abbia voluto attribuirgli quel senso tomista che G. Busnelli vi scorge (Il Convivio, II, pp. 392-404). La questione, tuttavia, dopo la polemica Nardi-Busnelli, è venuta perdendo molta della sua attualità. Possiamo trovarci d'accordo con Nardi che D., nel trattare il problema, si trova forse più vicino ad Alberto Magno che a T.; ma abbiamo anche l'impressione che Nardi un tantino esageri l'importanza della questione. Oggi non c'è serio studioso di D. che consideri il poeta un tomista nel senso voluto da Busnelli. Al contrario, è certamente cosa ben più importante che D. si trovi d'accordo con T. e Alberto Magno contro Averroè, che non che si trovi (forse) d'accordo con Alberto Magno contro Tommaso. Nell'affermare che il possibile intelletto (Pg XXV 65) si unisce con l'anima del feto per trasformarsi in un'alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira (vv. 74-75), D. si schierò risolutamente con i filosofi cristiani in contrapposizione ad Averroè, e se - come pare probabile - egli si differenziò da T. nel riconoscere una maggiore continuità al processo che culmina in quell'alma sola, è certo che si trattò di una divergenza tra le meno importanti.
4. Il fine dell'uomo. - Sia per D. che per T. il fine assolutamente ultimo della vita umana è soprannaturale e s'identifica con la visione beatifica di Dio ad quam propria virtus ascendere non potest, nisi lumine divino adiuta (Mn III XV 7; cfr. Sum. theol. I 12 4-5, Cont. Gent. II 49-54). Per ambedue i pensatori, inoltre, il raggiungimento " ex parte hominis " di tale ultimo fine è prima di tutto un atto intellettuale e - solo in via subordinata - un atto della facoltà appetitiva, la volontà, che gode della realtà divina una volta fatta oggetto d'intellezione (Pd XXVIII 106-111; cfr. Sum. theol. I II 3 4 e Cont. Gent. III 26). Di qui è legittimo inferire che D. fosse d'accordo con T. nel sostenere che " intellectus est simpliciter nobilior quam voluntas " (Sum. theol. I 82 3-4; cfr. Cv IV XXII 13). Nel suo modo di concepire la natura della beatitudine e la gerarchia delle facoltà che essa presuppone, D. è certamente più vicino all'intellettualismo tomista che non al volontarismo della tradizione francescana.
La nozione di desiderio naturale. Questo per quanto riguarda il fine ‛ soprannaturale ' e assolutamente ultimo dell'uomo. Per quanto invece rigurda il fine ‛ naturale ' dell'uomo, il pensiero di D. presenta tratti di maggiore originalità. Allo scopo prenderemo brevemente in esame il concetto dantesco di ‛ desiderio naturale ' e di ‛ fine naturale ', analizzandolo in rapporto all'uomo, sia come essere immortale che come essere mortale.
In questo contesto, i termini di appetito, desiderio e amore, con i loro equivalenti latini, possono assumersi come sinonimi, mentre sarà utile distinguere un duplice valore che l'aggettivo naturale presenta sia nell'uso dantesco che in quello di Tommaso. In un primo senso, naturale denota semplicemente un'assenza di consapevolezza conoscitiva da parte del soggetto che desidera, in quanto, cioè, il desiderio procede " per solam naturalem habitudinem absque cognitione, sicut plantae et corpora inanimata " (Sum. theol. I 59 1; cfr. 60 1 ad 1 e I II 26 1). È in questo significato più ristretto che D. parla ad esempio di amore... naturale in Pg XVII 91-93 (cfr. Cv IV XXII 5). In un senso più ampio, invece, ‛ desiderio naturale ' è quello specifico di ogni essere in quanto esso tende, di necessità, al bene che gli è proprio: " est autem hoc commune omni naturae, ut habeat aliquam inclinationem, quae est appetitus naturalis, vel amor. Quae tamen inclinatio diversimode invenitur in diversis naturis, in unaquaque secundum modum eius " (Sum. theol. I 60 1; cfr. 19 1, I II 10 1). È in questo secondo senso che D. attribuisce a ognuna delle cinque nature, comprese nell'unica essenza umana, un suo proprio speziale amore (Cv III III 5-11). Il fatto che, in quanto posti in un'unica sostanza, questi cinque ‛ amori ' dovranno in qualche modo costituire un'unità, è questione su cui il Convivio non si sofferma (vedi però XV 4).
Ciò che è posto in evidenza, semmai, è la ‛ differenza ' che caratterizza, rispetto agli altri amori, l'amore proprio della quinta e ultima natura (III III 11), cioè l'amore proprio dell'uomo in quanto uomo, dell'uomo in quanto dotato d'intelletto (IV XXII 10, III III 2), in altri termini: la umana fame (I I 13). Ebbene, dato che oggetto perenne di questo appetito naturale dell'uomo è Dio, in quanto è percepito nelle creature e attraverso di esse (III II 8, IV XII 14-17; cfr. Pg XVII 127), ne consegue che sino a quando l'anima conosce Dio semplicemente attraverso i suoi effetti creati, e non nella sua vera quiddità o essenza, è destinata a rimanere in uno stato d'insoddisfazione. Questa dottrina è presente non soltanto nella Commedia (Pg XXI 1-3, Pd IV 124 ss., V 7-12, XXXIII 46-47) ma anche, in modo implicito, nel Convivio (oltre i testi già citati, cfr. IV XXII 13-18).
Fin qui D. è perfettamente d'accordo con Tommaso. Una differenza, comunque, emerge dal modo in cui D. concepisce il rapporto tra desiderio di Dio e stato della vita terrena. T. aveva sostenuto, con una fermezza e una chiarezza superiore a quella di qualsiasi altro teologo, che l'anima " secundum status praesentis vitae non può raggiungere per natura altro che una debole e indiretta conoscenza di Dio (Sum. theol. I 88 1, Cont. Gent. III 42-46). D., pur accettando questa dottrina, ne fece però scaturire una conseguenza che non è dato trovare in T.: vale a dire che, siccome in questa vita non possiamo conoscere Dio se non per li suoi effletti, questo spiega perché, in questa vita, non abbiamo alcun desiderio ‛ naturale ' che miri a una più estesa conoscenza di lui: E però l'umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore... Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello che esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere (Cv III XV 9-10; cfr. IV XIII 6-9).
A quest'affermazione Nardi oppone quella di T.: " non... quietatur naturale sciendi desiderium in cognitione Dei, qua scitur de ipso solum quia est " (Cont. Gent. III 50, cfr. Sum. theol. I II 3 8), per poi concludere che su questo punto sussiste una " recisa opposizione fra S. Tommaso e Dante " (Dal " Convivio " alla " Commedia ", cit., pp. 79-80). Non c'è dubbio che, almeno sul piano verbale, un contrasto esiste; ma va tuttavia ricordato che nello stesso Convivio D. afferma, da un diverso punto di vista, che l'umano desiderio non trova mai appagamento entro i limiti di questa vita; e per la semplice ragione che esso è fondamentalmente identico a quell'appetito d'amor naturale che, com'è detto in IV XXII 4-18, troverà il suo finale appagamento solo con la visione di Dio, sommo intelligibile, nell'altra vita. Per questo l'uso di umano desiderio in III XV 9 va inteso non in senso assoluto, ma strettamente connesso alle condizioni della vita terrena. D'altro canto è anche vero che nel Convivio e ancora, indirettamente, nella Monarchia (III XV 8) D. sottolinea, più che non faccia T., la relativa adeguatezza per l'uomo, in questa vita, di una conoscenza meramente filosofica di Dio per li suoi effetti (Cv IV XXII 13).
Il linguaggio di questi passi, oltre tutto, lascia addirittura trasparire l'idea che la possibilitade, da cui l'umano desiderio è presentemente condizionato e limitato, sia imposta dalla natura stessa dell'uomo, e che ogni ulteriore desiderio (il vedere in sé stessa la divina essenza) sarebbe in realtà un'aspirazione a una condizione ‛ sovrumana ', propria cioè di quella natura più che umana, in cui l'anima continuerà a vivere dopo la morte del corpo (Cv II VIII 6). In sostanza, in questo passo e così ancora in Mn III XV 3-6, D. arriva quasi ad affermare che la natura umana esiste, a stretto rigor di termini, solo in questa vita mortale, solo cioè finché anima e corpo rimangono congiunti.
In questi luoghi il dualismo del linguaggio dantesco è talmente marcato che sarebbe risultato inammissibile agli occhi di T. che, pure, nel parlare dello " status animae post mortem " si era spinto ad ammettere che, una volta separata dal corpo, l'anima acquisisce " alius modus essendi " il quale è " praeter rationem suae naturae " (Sum. theol. I 89 1).
Il fine naturale dell'uomo in quanto essere immortale. Difficile e molto dibattuta è la definizione del preciso rapporto che, nel tomismo, intercorre tra natura umana e concreta acquisizione della visione beatifica (per un quadro d'insieme v. A. Finili, in Dominican Studies [Oxford] I, pp. 313-359; II, pp. 1-15; V, pp. 159-184). Infatti se da un lato T. afferma che l'uomo desidera ‛ per natura ' la visio divinae essentiae, poi, dall'altro, afferma come altrettanto certo che tale visione, in quanto è ottenibile solo mediante il dono del lumen gloriae, è strettamente ‛ soprannaturale ' (Sum. theol. I 12 4 e 5). Ma questo, più che specificamente tomistico, è un paradosso inerente allo stesso cristianesimo e, a modo loro, lo ripetono anche gli ultimi canti del Paradiso (in partic. XXX 40-60, 100-192, XXXIII 1-33, 82-84, 139-141).
Una differenza netta appare, piuttosto, nella rappresentazione dantesca del Limbo. La tradizione teologica, T. incluso, divideva gli abitanti del Limbo in due categorie: i bambini morti senza battesimo prima di aver raggiunto l'età della ragione, e gli adulti che morirono prima della venuta di Cristo ma con la fede nella sua azione redentrice. I primi, in quanto non macchiati di peccati personali, erano salvi dalle pene dell'Inferno, ma in quanto non battezzati erano esclusi dalla gloria celeste. I secondi, invece, furono trasferiti in cielo dopo la discesa ad inferos di Cristo (Sum. theol. III 52 1-7 e Suppl. 69 passim).
A queste due categorie (If IV 25-63, Pg VII 31-33) D. ne aggiunge una terza, ignota alla tradizione teologica. Si tratta di Virgilio e dei suoi compagni, i nobili pagani, adulti come i patres trasferiti in cielo da Cristo, ma privi della fede salvifica o del battesimo, come i pueri che quel beneficio non poterono avere (If IV 31 ss., Pg VII 7-8, 25-36). T. non dice nulla di queste anime; e neppure avrebbe potuto, in via di principio, riconoscerne l'esistenza. Per lui infatti non è ipotizzabile che un qualsiasi uomo " in statu naturae corruptae ", cioè in quanto erede del peccato originale, possa rimanere effettivamente libero dal peccato mortale, ove non intervenga l'ausilio della grazia divina " sanans naturam " (Sum, theol. I II 109, 2-4 e 8, cfr. 89 6). Ciò significa che la descrizione che Virgilio dà di sé e dei suoi compagni in Pg VII 34-36 (quei che le tre sante / virtù non si vestiro, e sanza vizio / conobber l'altre e seguir tutte quante) non ha il benché minimo riscontro in T. per il quale, conformemente alla tradizione cristiana più autorevole, ‛ ogni ' essere umano adulto era destinato o alla salvazione o alla dannazione, in senso assoluto Da questo punto di vista il Virgilio dantesco, anche se poeticamente necessario, è teologicamente impossibile. È quanto notava, alla metà del XV secolo, l'arcivescovo domenicano di Firenze s. Antonino: " verum in hoc videtur [D.] errasse non parum, quia antiquos sapientes... describit esse in campis Elisiis... cum secundum fidem catholicam non sit dare tale statum in alia vita... ad illos qui habentes usum rationis de hac luce migrarunt " (citato da A. Solerti, Vite di D., Petrarca e Boccaccio scritte fino al sec. XVI, Milano 1904, 152).
Non priva di una qualche connessione con il presente argomento è un'altra peculiarità della rappresentazione dantesca dell'altra vita, che pur risultando assai meno sorprendente non manca tuttavia di una sua novità e originalità. Si tratta dei bambini collocati nell'Empireo (Pd XXXII 49-75), i quali appaiono dotati diversamente di grazia. Nardi ha dimostrato come quest'idea non abbia pressoché riscontri nella tradizione teologica, e avanza l'ipotesi che essa derivi da una personale intuizione di D. - assai insolita per l'epoca - dell'" irriducibile e originario carattere individuale della personalità ", poiché mentre quella diversa infusione della grazia è " ‛ sanza merzé di lor costume ', cioè senza il merito delle buone opere, non è senza proporzione alle disposizioni naturali.... Insomma la grazia rispetta la diversa fisionomia psicologica di ogni bambino e la diversa personalità che potenzialmente si cela in ciascuno di essi " (Nel mondo di D., cit., pp. 317-335). Interpretazione indubbiamente plausibile e che sembra coerente con altri passi dove D. sottolinea l'individualità delle disposizioni naturali che ogni essere umano riceve alla nascita (cfr. Cv III II 4, VII 2-3, 6-7, IV XXI 4-10, Pd VIII 127-135).
Il fine naturale dell'uomo in quanto essere mortale. Abbiamo già notato, a proposito del desiderio naturale, come nel Convivio affiori la tendenza a identificare la natura umana con quella dell'uomo terreno, in quanto composto di anima e corpo; questa tendenza ha un chiaro rapporto con la nozione secondo cui, nell'uomo, è presente - condizionato e limitato dal corpo animale - un alcunché di divino (divinum aliquid). Questo principio divino, nonché manifestarsi nel corpo e attraverso il corpo (Cv III VIII 1-2), trova la sua specifica manifestazione nella speculazione intellettuale (Il 14-19) la quale, in ogni caso, dato che nell'uomo l'intelletto è congiunto con il corpo, potrà essere soltanto intermittente (XIII 1-8). Nell'uomo, pertanto, viene a verificarsi un contrasto tra questa innata ‛ divinità ', che gli deriva dall'esser partecipe della natura intellettuale, e le concrete ed effettive condizioni di una vita che si svolge nel tempo.
Probabilmente, all'origine di questo tema dantesco sta l'affermazione di Aristotele (Eth. Nic. X 7, 1177b 26-30), e il relativo commento di T. (X lect. XI), secondo cui una vita interamente dedicata alla speculazione trascenderebbe la condizione umana, nel senso che " non... secundum quod homo est sic vivet, sed secundum quod divinum aliquid in ipso existit ". Potenzialmente, dunque, la vita dell'intelletto è superiore all'umana, e per D., come abbiamo visto, essa potrà trovare il suo pieno compimento solo nell'altra vita, nel momento in cui l'anima potrà finalmente iniziare una vita in natura più che umana (Cv II VIII 6).
È appunto questa l'idea su cui poggia la distinzione dantesca tra vita attiva e vita contemplativa, distinzione che comincia a delinearsi nel IV trattato del Convivio (in partic. XVII 9-12 e XXII 10-15) per proseguire, indirettamente, nella Monarchia. Anche se tradizionale, tale distinzione fu formulata da D. in maniera personalissima. In sostanza, D. qui tende (una tendenza, si badi, che ha lasciato tracce nella stessa Commedia) a considerare la vita umana, propriamente parlando, come una vita diretta verso fini attingibili su questa terra, e a riservare all'altra vita la possibilità, e lo stesso processo, della deificazione dell'uomo (il trasumanar di Pd I 70). In quanto cristiano, D. non poté mai concepire, neppure nei momenti di maggiore laicismo, tale deificazione come indipendente da un qualche intervento della grazia divina; tuttavia egli si mostra incline a identificare il momento di tale intervento gratuito con quello del passaggio dalla mortalità all'immortalità (v. K. Foster, Religion and Philosophy in D., in The Mind of D., a c. di U. Limentani, Cambridge 1965, 65-75). In ogni caso, una volta concepita la vita ultraterrena non solo come lo stato di piena soddisfazione raggiungibile dall'intelletto, ma anche come l'entrata in una natura più che umana, è naturale che D. giungesse - almeno temporaneamente - a identificare nella vita terrena la specifica realizzazione della natura umana; una vita diretta, perciò, a fini strettamente umani, a quell'aristotelico ‛ bene dell'uomo ' raggiungibile con mezzi strettamente umani, qual è appunto l'esercizio della ‛ virtù umana ' (Arist. Eth. Nic. I 13, 1102 a 14-15).
I ‛ duo ultima '. Questo aspetto, laico e mondano, del pensiero di D. viene messo a fuoco nella Monarchia, in cui tutta l'attenzione è diretta ai fini delimitati al piano temporale e alle cause seconde. Dio, a confronto della ‛ natura ', rimane in secondo piano, ove si eccettui, ovviamente, la sua capitale funzione di conferire direttamente autorità all'imperatore e al pontefice. Nella particolare prospettiva del trattato, Dio viene a costituire la condizione a-priori dell'attività naturale e dell'autorità delle istituzioni, e - in primo luogo - dell'istituzione naturale dell'Impero. L'idea imperiale di D., tuttavia, trovava da parte della Chiesa i maggiori ostacoli alla sua realizzazione; ed è per questo, allo scopo cioè di distruggere la base teorica su cui si fondava la minaccia ecclesiastica sull'Impero, che egli scrisse il III libro della Monarchia.
Solo nell'ultimo capitolo, però, emergono in modo chiaro i principi che ne stanno a fondamento, e con una sin troppo decisa definizione della propria posizione rispetto alla quale, nel Convivio, aveva proceduto per tentativi e accenni: l'uomo, tra tutti gli esseri, è solo che sia a un tempo mortale e immortale. Anima immortale e corpo mortale fanno ambedue parte dell'‛ essenza ' dell'uomo; ciononostante, dal momento che sia l'una che l'altro sono riconducibili a una ‛ natura ' di specie diversa - rispettivamente a quella degli " incorruptibilia " e a quella dei " corruptibilia " - e dal momento che omnis natura ad ultimum quendam finem ordinetur, ne consegue che - unico esempio in tutto l'universo - l'uomo ha due fini ultimi (duplex finis; duo ultima): Duos igitur fines providentia... homini proposuit intendendos: beatitudinem scilicet huius vitae, quae in operationes propriae virtutis consistit... et beatitudinem vitae ecternae, quae consistit in fruitione divini aspectus (Mn III XV 7). La via che conduce al primo fine è l'esercizio delle virtù morali e intellettuali (le morali, in particolare, in quanto sono propria in senso specifico; infatti, come dice D. in Cv IV XVII 2, esse sono da ogni canto... in nostra podestate; una frase, questa, profondamente indicativa, come dimostra É. Gilson, D. et la philosophie, cit., pp. 112-113). L'esercizio delle virtù, a sua volta, presuppone la luce della ragione qual è trasmessa nelle dottrine insegnate dai filosofi (per philosophica documenta). Questa luce e questi insegnamenti, del resto, sarebbero pienamente sufficienti se non fosse per la humana cupiditas, per la corruzione che di fatto ha investito l'uomo, nello stesso ordine naturale; ma proprio per questo l'autorità filosofica ha bisogno del concreto appoggio di un directivum politico, cioè dell'autorità dell'imperatore. Ne consegue, pertanto, che qui per D. l'uomo in quanto essere mortale ha un suo fine strettamente ‛ naturale ' e umano, e che umani saranno anche i mezzi con cui raggiungerlo.
Le affermazioni ora riportate bastano da sole per farci trovare d'accordo con Gilson, secondo il quale esse " hanno uno strano suono per orecchi abituati al linguaggio tomista ". Lo studioso francese passa poi a dimostrare con mirabile lucidità la " opposizione dottrinale tra Dante e san Tommaso " (con particolare riferimento al De Regimine principum I 14) in merito a due punti che sono direttamente attinenti al nostro argomento: il fine dell'uomo considerato entro i limiti della propria natura, e la sufficienza della ragione naturale - di fatto, la filosofia morale aristotelica - a mostrare quel fine e i mezzi con cui conseguirlo.
Per Gilson, e in ciò sostanzialmente concordiamo, mentre il secondo punto va visto in relazione con la presenza di Sigieri di Brabante nel canto X del Paradiso, quello veramente fondamentale è il primo, com'egli stesso chiarisce in un passo che vale la pena riportare per intero: " San Tommaso non nega certamente che l'uomo naturale possiede un fine naturale che va perseguito e raggiunto in questa vita. Semmai andrebbe detto, piuttosto, che di tutti i teologi medievali nessuno si adoperò più di lui al consolidamento di questa tesi. Essa è inseparabile dalla distinzione tra natura e grazia, che torna continuamente in tutta la sua opera come un principio infinitamente fecondo di unità nell'ordine. Di contro, se nella dottrina tomista la distinzione degli ordini importa sempre l'unità, gli è che questi ordini non si distinguono se non per riordinarsi gerarchicamente. Tommaso, quindi, non ammise mai che il fine naturale dell'uomo in questa vita fosse il fine ultimo dell'uomo in questa vita, in quanto l'uomo è in questa vita solo in vista dell'altra, e in quanto il fine di questa vita va perseguito solo in vista del fine dell'altra. Con perfetto rigore, tale da escludere a priori la tesi dantesca se presa nella sua esatta formulazione, Tommaso dichiara che il fine ultimo del corpo sociale non è già il vivere secondo virtù, ma il ‛ pervenire ' attraverso una vita virtuosa al godimento di Dio: non est ergo ultimus finir multitudinis congregatae vivere secundum virtutem, sed per virtuosam vitam pervenire ad fruitionem divinam. Pertanto, quando il tomista Guido Vernani mosse il suo famoso attacco alla Monarchia, non fece altro che seguire il suo maestro; quell'attacco " rappresentò null'altro che la resistenza opposta dal mondo tomista contro uno dei pericoli più gravi che mai l'avessero minacciato " (É. Gilson, op. cit., pp. 192, 199-200; e cfr. G. Vernani, De Reprobatione Monarchiae, c. 3, ediz. N. Matteini, in Il più antico oppositore di D.: Guido Vernani da Rimini, Padova 1958, 93-118).
Con la tesi dei duo ultima l'umanesimo di D. - nel senso moderno del termine - raggiunse il suo limite estremo. E di fronte al problema se nella Commedia D. recedette da tale posizione oppure la mantenne, solo due risposte paiono avere una qualche plausibilità: quella di Nardi, secondo il quale, su questo punto, la Commedia differisce in via di principio dal Convivio e dalla Monarchia (i duo ultima sarebbero " un punto d'arrivo, non un punto di partenza ", Saggi, cit., pp. 305-310; cfr. Nel mondo di D., cit., pp. 66-79) e quella che l'estensore di questa voce preferisce, secondo cui la differenza tra la Commedia e le altre due opere è in gran parte differenza di punto di vista e di tono.
Ma, in ogni caso, nessun critico attento mancherà di riconoscere i motivi passionali e pratici che stanno all'origine della posizione assunta da D. nella Monarchia, e ciò sia che D. intendesse dare, specificamente, " un fondamento razionale all'indipendenza dell'Impero dal Papato " (B. Nardi, Nel mondo di D., cit., p. 229; cfr. É. Gilson, op. cit., pp. 209-214) sia che, più genericamente, intendesse affermare la capacità della ragione e della volontà umana nel loro ambito proprio (cfr. K. Foster, op. p. 71). Quanto al mutamento d'impostazione mentale e di atteggiamento nella Commedia, basterà riferirci, in generale, al ruolo di Virgilio nel poema, totalmente determinato com'è dall'intervento soprannaturale di Beatrice in aiuto di D., e totalmente diretto com'è alla salvezza soprannaturale di quest'ultimo. Nella prospettiva della Commedia l'intero significato della vita terrena consiste nell'atto di volontà mediante cui l'uomo decide, su questa terra, il suo destino eterno (Ep XIII 25), mentre il desiderio naturale stesso, l'appetito d'animo naturale (Cv IV XXII 4), è visto unicamente come un desiderio, cosciente o no, di unirsi con Dio: La sete natural che mai non sazia / se non con l'acqua onde la femminetta / sammaritana domandò la grazia, / mi travagliava... (Pg XXI 1-4; cfr. Pd I 115-126, VII 142-144, XXXIII 46-47, 100-105).
IV. Conclusioni generali. - Gli elementi di fatto e le argomentazioni esposte nel corso di questa voce paiono giustificare le seguenti conclusioni generali: D. ebbe una grande ammirazione e reverenza per T., sia come teologo e sia anche come santo (sebbene non ancora canonizzato dalla Chiesa). Nella sua qualità di credente che aveva levato il collo / per tempo al pan de li angeli, del quale / vivesi qui ma non sen vien satollo (Pd Il 10-11; cfr. XXIV 76-77), D. vide in T. la maggiore autorità nel campo della sacra doctrina, e uno splendido modello di discernimento, di sobrietà e di finezza intellettuale (cfr. Pd XIII 109-142). Ma, per quanto grande, l'autorità di T. non escluse in via di principio, agli occhi di D., quella di altri teologi di tendenze e tradizioni diverse; né, comunque, dobbiamo supporre in D. una capacità di distinguere le varie scuole del tempo col rigore degli storici moderni ! Come dice Gilson, " seguire su un determinato punto Albero Magno certamente per lui non significava separarsi da san Tommaso " (op. cit., p. 158, n. 1).
D. ebbe un particolare debito di gratitudine nei confronti di T. come interprete di Aristotele. È infatti certo che egli fece un ampio uso dei commenti tomistici allo Stagirita; ed è anzi probabile che al riguardo nessun altro studioso di Aristotele, neppure gli stessi Alberto Magno e Averroè, rivestirono per D. un'eguale importanza.
Tomista, in qualsivoglia significato ristretto del termine, D. non fu mai. È vero che su certe questioni fondamentali il suo pensiero presenta maggiori affinità con l'aristotelismo cristiano di Alberto Magno e di T. che non con quello di qualsiasi altra scuola rivale, sia francescana che averroista; affinità, cioè, con quell'aristotelismo cristiano che, in forma abbozzata ed eclettica con Alberto Magno, raggiunse poi, con le due Summae di T., la sua forma più sistematica, originale e coerente. Nella netta distinzione che D. fa tra ambito di ragione e ambito di fede, tra filosofia e teologia e, al contempo, nella sua fiducia nell'armonia e nell'accordo fondamentale tra questi diversi modi di apprendere il vero; nel suo vigoroso sentimento - per lo meno nella Commedia - dell'unità corpo-anima dell'uomo; nel suo approccio intellettualistico al problema del libero arbitrio (ma Nardi riferisce questa concezione dantesca piuttosto a fonti averroistiche, cfr. Nel mondo di D., cit., pp. 287-303), nella gerarchia delle facoltà umane e nella natura della beatitudine finale; in tutti questi punti, il pensiero di D. sembra riflettere, direttamente o no, l'influenza di Tommaso.
Eppure quello di D. rimane pur sempre un pensiero ‛ personale ', e quanto più lo si studia tanto più ne appare l'originalità: abbiamo visto, ad esempio, con quanta libertà D. usi della distinzione, cara a T., tra ambito di fede e di ragione, ma ciò al fine di confermare l'altra sua tesi, certamente non tomista, del ‛ fine naturale ' dell'uomo (perlomeno nel Convivio e nella Monarchia).
E c'è poi, da ultimo, l'aspetto negativo di questa stessa indipendenza. Quanto di più specificamente caratteristico e originale c'è nella metafisica e nell'antropologia di T., non trova che un pallido riflesso, seppure lo trova, nel sistema dantesco. La chiave della metafisica di T. sta nella distinzione tra essenza ed esistenza (esse) nelle creature, e nella loro identità in Dio " ipsum esse subsistens " (Sum. theol. I 3 4, 13 11, Cont. Gent. I 22), mentre la chiave della sua antropologia sta nell'originale concezione dell'intellectus agens, vale a dire della funzione più caratteristica dell'intelletto umano in quanto tale, consistente nel rendere intelligibile la materia sensibile (cfr. Sum. theol. I 79 3-4, 84 6, 54 4, 55 2). Ebbene, quanto all'intellectus agens, D. arriva al punto di non citarlo neppure, mentre l'unica volta che usa della distinzione tra esse ed essentia (Ep XIII 56-61) è per farne un impiego marginale e incidentale. La nozione di esse come " proprius effectus Dei " fu ben lontana dal governare la teologia naturale di D. nella misura in cui ne fu governata quella di T. (cfr. Sum. theol. I 8 1, 45 5).