VITTORE I, santo
Eusebio di Cesarea (in Historia ecclesiastica V, 22) data l'accesso di V. all'episcopato nel decimo anno di Commodo, cioè nel 189, ma nel Chronicon lo pone all'avvento di Pertinace, nel 193, affermando che durò dieci anni: poiché anche in Historia ecclesiastica V, 28, 7 si conferma tale durata e si dice che l'episcopato terminò verso il 201, e questa data è quella indicata nel Chronicon per la sua morte, si dovrà ammettere la plausibilità di indicare il 189 per il suo accesso. La notizia nel Catalogo Liberiano è lacunosa per le date di accesso e di morte di V., ma gli attribuisce un episcopato di nove anni, due mesi e dieci giorni: nel Liber pontificalis si parla invece di un episcopato di dieci anni, due mesi e dieci giorni dal 186 al 197. Approssimativamente l'episcopato coincide così con l'ultimo decennio del II secolo. Tra le più antiche testimonianze su V. si ha quella di Ippolito nell'Èlenchos (noto anche come Refutatio omnium haeresium o Philosophoumena), quando ricorda che Marcia, la cristiana concubina di Commodo, si rivolse a V. per avere i nomi dei cristiani inviati ai lavori forzati in Sardegna, onde farli liberare: in questa occasione V. tra gli altri nomi non fece quello di Callisto, il suo secondo successore, forse perché condannato per reati comuni, e quando questi per le sue insistenze riuscì a tornare dalla Sardegna, lo tenne lontano da Roma, ad Anzio, con un modesto stipendio. Nelle trattative per la liberazione dei prigionieri ebbe una funzione di rilievo il presbitero Giacinto. L'episcopato di V. si caratterizza nelle fonti storiche principalmente come quello in cui la questione dell'osservanza pasquale arrivò al massimo della sua crisi. Della questione si è principalmente informati da Eusebio di Cesarea, che in proposito disponeva di un ricco dossier di documenti. Le Chiese di Asia, fedeli ad una antica tradizione, celebravano la Pasqua il 14 di nis¯an secondo il calendario giudaico, cioè il quattordicesimo giorno dal primo novilunio di primavera, corrispondente al giorno della Pasqua giudaica in cui si immolava l'agnello, e in quel giorno ponevano termine al digiuno pasquale. Le altre Chiese invece terminavano il digiuno e festeggiavano la Pasqua nella domenica successiva a quella data, sottolineando nel mistero pasquale il momento della resurrezione di Gesù, avvenuta tre giorni dopo la sua morte, in quella che per i cristiani è la domenica (dies dominica, cioè il "giorno del Signore" per eccellenza). Eusebio accenna a sinodi e assemblee di vescovi che si tennero in proposito, e afferma di possedere scritti di vescovi di Palestina riuniti sotto la presidenza di Teofilo di Cesarea e di Narciso di Gerusalemme, di vescovi riuniti a Roma sotto lo stesso V., di vescovi del Ponto presieduti da Palmas di Amastris, delle cristianità della Gallia, dei vescovi di Osroene, di Bacchillo di Corinto e di molti altri, tutti concordi sulla celebrazione della Pasqua nel giorno di domenica (Historia ecclesiastica V, 23, 3-4), mentre Policrate di Efeso in un'altra lettera sosteneva la posizione delle Chiese di Asia e di Frigia fedeli alla tradizione quartodecimana (ibid. V, 24, 1-8). Da uno dei frammenti di questa lettera, indirizzata da Policrate a V., risulta che era stato proprio V. a chiedergli di riunire i vescovi della sua zona (ibid. V, 24, 8). Questo solo dato non autorizza a concludere che anche le altre assemblee di vescovi, tranne ovviamente quella tenutasi a Roma, fossero state sollecitate dallo stesso V.: questi non aveva bisogno di ricorrere alle altre Chiese per giustificare la prassi liturgica romana, che si rifaceva ad una tradizione ritenuta di origine apostolica, e del resto non pare che il dossier di lettere sulla questione pasquale a disposizione di Eusebio contenesse altre lettere a V. oltre quella di Policrate. Non si conoscono gli argomenti della lettera di V. a Policrate, né se essa corrisponde a quella dell'assemblea riunita a Roma sotto V., di cui parla Eusebio. P. Nautin ricollega questa fase della controversia pasquale agli avversari di Policrate, che già si erano rivolti a Eleuterio per farlo condannare a causa di certi suoi atteggiamenti che essi consideravano lassisti, e tra questi poteva essere anche la durata del digiuno pasquale che terminava alla data del 14 di nis¯an in qualunque giorno della settimana esso cadesse, senza interessare i giorni che precedevano la domenica successiva a quella data. Probabilmente la richiesta di V. era finalizzata ad ottenere la messa in minoranza delle Chiese fedeli all'osservanza quartodecimana da parte delle altre Chiese asiatiche. Possiamo immaginare che V. nei confronti di Policrate si facesse forte dell'autorità che veniva alla tradizione liturgica romana dai suoi iniziatori, Pietro e Paolo: ciò spiegherebbe, nella risposta di Policrate, l'appello alle tradizioni apostoliche ed episcopali/martiriali delle Chiese di Asia (ibid. V, 24, 2-7). Un frammento più breve dello stesso passo della lettera di Policrate è riportato da Eusebio, ibid. III, 31, 4. La risposta di V. alla lettera di Policrate fu la decisione di scomunicare le Chiese di Asia e quelle ad esse vicine accomunate dalla tradizione quartodecimana: così almeno si desume dal racconto di Eusebio; ma secondo lo storico Socrate V. scomunicò Policrate. Qualunque sia stato il provvedimento di V., esso suscitò la reazione di alcuni vescovi, che intervennero presso V. con il peso della loro autorità (ibid. V, 24, 9-10). Tra questi Ireneo di Lione che, pur asiatico, confermò a Lione l'uso di celebrare la Pasqua nel giorno della domenica, ma sostenne il diritto per le Chiese d'Asia di mantenere la loro tradizione conservando la pace e la comunione con le altre Chiese, rifacendosi alla tolleranza manifestata in proposito dai vescovi di Roma da Sisto I ad Aniceto (ibid. V, 24, 11-14) e soprattutto all'accordo pacifico di Aniceto di Roma e Policarpo di Smirne, che aveva confermato tra loro la pace pur restando ognuno sulle proprie posizioni (ibid. V, 24, 16-17). A detta di Girolamo (De viris illustribus 34), V. avrebbe scritto un Super quaestionem paschae, che si deve ritenere perduto: non sono sufficienti gli argomenti addotti per identificarlo con un testo segnalato da Fozio (Bibliotheca 115) dal titolo, peraltro contraddittorio nella seconda parte, di Discorso contro i giudei e gli eretici che li seguono e i cosiddetti quartodecimani che non celebrano la festa della santa Pasqua nel primo mese come gli ebrei. Conviene ricordare a questo proposito che Girolamo attribuisce a V. "alia quaedam opuscula" (De viris illustribus 34: si veda anche la sua presumibile aggiunta in Eusebio, Chronicon, ad a. 193: "cuius extant mediocria de religione opuscula"). Importante è quanto Girolamo afferma nella notizia su Tertulliano (De viris illustribus 53) secondo cui questi sarebbe stato "primus post Victorem et Apollonium Latinorum", cioè il primo autore cristiano in lingua latina, anche se la presumibile data del 183 per il martirio del senatore romano Apollonio, autore di un'apologia perduta, darebbe a lui il primo posto nella serie. Per quanto Eusebio non faccia riferimenti cronologici, né sia più preciso sulle cause che determinarono la controversia (Historia ecclesiastica V, 15), si può ritenere che fosse contemporaneo di V. il presbitero romano Blasto, decaduto dal sacerdozio, che lo Pseudo Tertulliano (Adversus omnes haereses 8, 1) presenta come un quartodecimano. Si è pensato che lo scisma di Blasto, sul quale intervenne Ireneo di Lione con una lettera allo stesso suo iniziatore (Eusebio, Historia ecclesiastica V, 20, 1), fosse una reazione locale romana al tentativo di V. di unificare la data della celebrazione della Pasqua. Come Blasto, sarà stato contemporaneo di V. anche un altro presbitero romano destituito dal sacerdozio e ricordato insieme a lui da Eusebio (ibid. V, 15), Florino, cui Ireneo di Lione indirizzò una lettera che aveva per argomento la monarchia (cioè l'unità divina) e il fatto che Dio non è l'autore dei mali: nel fornire questa notizia, Eusebio di Cesarea afferma anche che Florino era caduto nell'errore di Valentino (ibid. V, 20, 1), il maestro gnostico che aveva operato a Roma dall'episcopato di Igino a quello di Aniceto. Da un frammento, riportato da Eusebio di Cesarea, di un trattato anonimo contro l'eresia di Artemone - rappresentante nel primo quarto del sec. III di una forma di adozionismo (dottrina secondo cui Gesù sarebbe stato un uomo adottato da Dio Padre come Figlio di Dio per i suoi meriti) - si è informati che i seguaci dell'eretico pretendevano che la loro dottrina fosse quella professata dagli antichi e dagli stessi apostoli, la quale si sarebbe mantenuta fino a V., mentre sarebbe stata alterata a partire dal successore Zefirino. L'anonimo polemista argomenta contro questa tesi sostenendo che proprio V. aveva escluso dalla comunione ecclesiastica Teodoto il Cuoiaio, che era stato l'iniziatore di questa dottrina con l'affermare che il Cristo è un mero uomo (ibid. V, 28, 3-6). Si è anche supposto che fosse V. il vescovo di Roma che sarebbe stato sul punto di riconoscere il movimento profetico di Montano, Prisca e Massimilla, trasmettendo la pace alle Chiese di Asia e di Frigia, se non lo avesse distolto Prassea, di cui parla Tertulliano (Adversus Praxean 1, 5), ma è più probabile che il vescovo in questione fosse il suo successore Zefirino, sotto il quale si ebbe a Roma una ripresa del montanismo. Il Prassea combattuto da Tertulliano era l'esponente della dottrina monarchiana, secondo cui Dio è unico, ed è il Padre, mentre Figlio è solo un nome o un modo di manifestarsi del Padre, per cui si può affermare che il Padre sia nato, abbia patito e sia morto: la dottrina è nota anche come modalismo o patripassianismo. Indipendentemente dalla ipotesi appena ricordata sulla identificazione di V. con il vescovo di Roma venuto a contatto con Prassea, e che presupporrebbe un V. non ancora vescovo di Roma, si menziona qui per completezza d'informazione quella di segno opposto, e che cioè il Prassea contro il quale Tertulliano scrive il suo trattato, e non citato da altri autori, potesse essere se non il soprannome di un altro esponente della eresia monarchiana come Epigono o Cleomene, lo stesso V. o il suo secondo successore Callisto. Tuttavia l'opinione prevalente è che Prassea fosse un personaggio distinto da altri esponenti dell'eresia monarchiana. È da ritenersi falsa la notizia riportata nel Libellus synodicus (o Synodicum), tardiva raccolta di canoni conciliari inserita nelle collezioni conciliari di età moderna, secondo cui un sinodo romano presieduto da V. avrebbe anatematizzato insieme a Valentino anche gli eretici Noeto e Sabellio, in quanto la condanna di questi ultimi è posteriore all'episcopato di Vittore. L'episcopato di V. rappresenta una tappa significativa nel processo di consolidamento e di affermazione del vescovo di Roma nei confronti delle altre Chiese, anche se si è ancora lungi dal poter parlare di un primato di qualunque tipo. Nella questione pasquale V. riuscì a imporre la convocazione di un sinodo di vescovi asiatici, e ritenne di poter scomunicare chi non si atteneva agli usi liturgici della maggior parte delle Chiese, anche se Policrate di Efeso gli resistette, e i suoi drastici provvedimenti, messi in atto o solo annunciati, suscitarono lo scontento di altri vescovi che, con l'intervento di Ireneo, riuscirono a piegarlo. L'iniziativa di V. nel chiedere proprio a Policrate di Efeso, rappresentante dell'osservanza quartodecimana, di riunire una assemblea di vescovi è segno di una autorità che, se si vede arrogata per la prima volta da un vescovo di Roma, gli era riconosciuta almeno in quel frangente da altre Chiese. Si vede infine per la prima volta un vescovo di Roma in rapporti con il palazzo imperiale per la liberazione dei cristiani prigionieri in Sardegna, se non direttamente tramite la mediazione del presbitero Giacinto e di Marcia, concubina di Commodo. Il Liber pontificalis riferisce su V. una serie di notizie in parte senza alcun riscontro, in parte riconducibili al ricordo pur impreciso e sfocato che se ne aveva nella Chiesa di Roma soprattutto in relazione alla questione della Pasqua. V. sarebbe stato di origine africana, figlio di Felice, avrebbe stabilito che la Pasqua si celebrasse di domenica, come aveva fatto Eleuterio. Avrebbe istituito gli accoliti o i chierici soprannumerari ("Hic fecit sequentes cleros"), sarebbe morto martire, avrebbe stabilito che in caso di necessità si sarebbe potuto battezzare qualunque gentile dovunque si trovasse, in un fiume, in mare o in sorgenti, dopo aver recitato la professione di fede a un cristiano. Avrebbe ordinato quattro presbiteri, sette diaconi e dodici vescovi, avrebbe stabilito di interpellare i presbiteri e i vescovi per determinare il ciclo pasquale, e, mandato a chiamare Teofilo vescovo di Alessandria, con lui avrebbe stabilito che la Pasqua si potesse celebrare dalla quattordicesima lunazione del primo mese alla ventunesima, di domenica ("Hic fecit constitutum […] ut a XIIII luna primi mensis usque ad XXI diem dominicum custodiatur sanctum Pascha"; secondo la prima redazione del Liber pontificalis la questione discussa con Teofilo di Alessandria era "de Pascha vel de die prima […] de luna"). Sarebbe morto martire, sarebbe stato sepolto nel cimitero vaticano il 28 luglio, e la sua morte sarebbe stata seguita da dodici giorni di sede vacante. L'origine africana di V. dichiarata nel Liber pontificalis è in linea con quanto affermato da Girolamo sul fatto che V. sarebbe stato uno dei primi scrittori cristiani latini, ma, nello specifico, non si sa quanto credito si possa dare alle notizie del Liber pontificalis sui primi papi. Per quanto riguarda la celebrazione della Pasqua nel giorno della domenica, questo era da tempo l'uso della maggior parte delle Chiese, tranne quelle di Asia e di Frigia, e non si spiega pertanto l'attribuzione dell'iniziativa a V., e tantomeno a Eleuterio dal momento che manca qualunque cenno in questione nella notizia del Liber pontificalis dedicata a quest'ultimo: una simile prescrizione vi si legge invece nella notizia su Pio I come precetto dato a Erma, fratello di Pio, dall'angelo che gli è apparso (Liber pontificalis, nr. 11; nella prima redazione nr. 12). La questione della determinazione del ciclo pasquale è strettamente connessa a quella della fissazione della data della festa, ma è prematura all'epoca di Vittore. I termini in cui nella seconda redazione della notizia su V. si stabiliscono i giorni in cui può cadere la Pasqua, cioè dal quattordicesimo al ventunesimo giorno del primo mese lunare, sono quelli del ciclo fissato da Dionigi il Piccolo nel 525, in cui si armonizzava il ciclo pasquale in uso a Roma con quello fissato da Teofilo, patriarca di Alessandria (385-412), e perciò detto alessandrino: il testo della prima redazione del Liber pontificalis, con il riferimento al solo primo giorno della lunazione, si ricollega invece al ciclo presentato nel 457 da Vittorio di Aquitania a papa Leone I, centrato sulla determinazione del giorno del novilunio che poteva essere considerato pasquale. Nella notizia del Liber pontificalis il riferimento a Teofilo di Alessandria, del tutto anacronistico per l'epoca di V., si può spiegare con il fatto che il patriarca alessandrino era citato nella lettera dedicatoria del Cursus paschalis di Vittorio di Aquitania, tenuto presente dal primo redattore del Liber pontificalis o anche soltanto perché il suo nome era autorevolmente collegato alle questioni relative alla determinazione della Pasqua. Sono spurie le due decretali pseudoisidoriane attribuite a V., di cui la prima è una lettera a Teofilo di Alessandria sulla celebrazione della Pasqua, come una lettera a Desiderio vescovo di Vienne e una al vescovo orientale Paracoda, sullo stesso argomento. V. è citato nel Martyrologium Hieronymianum nella lista di vescovi di Roma riportata alla data del 23 dicembre; in qualche manoscritto più recente la sua commemorazione compare alla data del 28 luglio, passata poi nel Martyrologium Romanum. Nei martirologi medievali, a partire da quello di Floro, V. è ricordato come martire sotto l'imperatore Severo, in base alla notizia del Liber pontificalis e alla cronologia di Girolamo in De viris illustribus 34: in questi martirologi la data della sua commemorazione è il 20 aprile, per la sua confusione con un omonimo martire della via Nomentana ricordato nel Martyrologium Hieronymianum a quella data. La commemorazione di V. è stata espunta dal Calendarium Romanum del 1969 in quanto non risulta che V. sia stato martire, né si conosce la data del suo martirio. Fonti e Bibl.: Tertulliano, Adversus Praxean 1, 5, a cura di E. Kroymann-E. Evans, Turnholti 1954 (Corpus Christianorum, Series Latina, 2), p. 1159; Ps. Tertulliano, Adversus omnes haereses 8, 1, a cura di E. 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