Sanzione penale, sanzione amministrativa e ne bis in idem
Una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, avente ad oggetto un noto caso di manipolazione del mercato, obbliga l’interprete e lo stesso legislatore italiano a un profondo ripensamento dei meccanismi di “doppio binario” tra sanzione amministrativa e sanzione penale, e tra i relativi procedimenti applicativi: meccanismi che rischiano, oggi, di essere considerati incompatibili con il diritto fondamentale al ne bis idem – riconosciuto dall’art. 4, prot. 7, CEDU, ma anche dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea –, nella misura in cui abbiano ad oggetto la medesima condotta concreta, pur se diversamente qualificata.
Con la sentenza Grande Stevens c. Italia, del 4.3.20141, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato incompatibile con la garanzia del ne bis idem, riconosciuta dall’art. 4, prot. 7, CEDU, il sistema di doppio binario, amministrativo e penale, attorno al quale è strutturata nel nostro Paese la repressione degli abusi di mercato in seguito alle modifiche apportate dalla l. 18.4.2005, n. 62 al d.lgs. 24.2.1998, n. 58 (testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria: di seguito t.u.f.). E ciò nella misura in cui – come era in effetti avvenuto nel caso di specie sottoposto al suo esame – tale sistema strutturalmente prevede la possibilità di un doppio procedimento sanzionatorio avente ad oggetto lo stesso fatto storico, pur se diversamente qualificato (come illecito amministrativo o come reato).
Nessuna sorpresa, verrebbe subito da dire: le innovazioni apportate nel 2005 erano state, dopo tutto, subissate di critiche da parte dalla dottrina, che aveva in effetti colto nel novum legislativo molti dei profili ora rimproveratici dalla Corte europea; sennonché le implicazioni delle sentenza – peraltro a tutt’oggi non ancora definitiva – sembrano trascendere la materia degli abusi di mercato, giungendo a porre in discussione la compatibilità con il sistema convenzionale di tutti i settori ordinamentali (quello penale tributario in primis) analogamente strutturati attorno a un doppio, e parallelo, binario di tutela, i quali si espongono anch’essi a una delle critiche capitali formulate dalla Corte europea: quella, cioè, di creare le condizioni per una violazione “sistemica” del diritto individuale al ne bis in idem, riconosciuto dall’art. 4, prot. 7, CEDU.
Conviene anzitutto muovere dall’analisi della sentenza della Corte europea, pronunciata dalla seconda sezione il 4.3.2014 e divenuta definitiva il 7.7.2014, in seguito al rigetto da parte del panel a ciò deputato dell’istanza di rinvio alla Grande Camera, che era stata nel frattempo formulata dal Governo italiano.
2.1 Il caso di specie
Nel febbraio 2006 la Divisione mercati e consulenza economica della CONSOB contestava ad alcuni dirigenti della IFIL Investment (poi Exor s.p.a.) e della Giovanni Agnelli s.a.a., all’avv. Franzo Grande Stevens e alle società medesime di avere commesso l’illecito amministrativo dimanipolazione del mercato cui all’art. 187 ter t.u.f. e il corrispondente illecito amministrativo dell’ente di cui all’art. 187 quinquies, per avere concorso a vario titolo nella diffusione al mercato di un comunicato stampa falso.
In esito al procedimento di cui all’art. 187 septies t.u.f., la CONSOB irrogava nel febbraio 2007 pesanti sanzioni pecuniarie amministrative (di importo compreso tra i 500.000 e i 4.500.000 di euro) alle persone fisiche e agli enti, oltre a sanzioni interdittive nei confronti delle persone fisiche.
Avverso tale provvedimento tutti gli interessati proponevano opposizione ai sensi dell’art. 187 septies t.u.f. avanti alla Corte d’appello di Torino, la quale – nel gennaio 2008 – riduceva significativamente talune sanzioni irrogate dalla CONSOB alle persone fisiche, rigettando nel resto tutte le altre doglianze dei ricorrenti.
Con sentenza pronunciata nel giugno e depositata nel settembre 2009, la Corte di cassazione rigettava tutti i ricorsi contro tali sanzioni, che divenivano così definitive.
Nel frattempo, sin dal novembre 2008 le medesime persone fisiche e giuridiche erano state rinviate a giudizio innanzi al Tribunale di Torino con l’accusa di avere commesso il delitto di manipolazione del mercato di cui all’art. 185 t.u.f., per avere diffuso il comunicato stampa già ritenuto falso (e già sanzionato) dalla CONSOB, creando così un pericolo di sensibile alterazione dei prezzi delle azioni FIAT.
Con sentenza pronunciata il 21.12.2010, il Tribunale di Torino assolveva gli imputati dai fatti loro ascritti. Adita per saltum dalla pubblica accusa, la Cassazione annullava tuttavia con sentenza del 2.6.2012 la pronuncia del Tribunale torinese. In sede di rinvio, il 28.2.2013 la Corte d’appello torinese condannava le due persone fisiche imputate,mentre assolveva le due società imputate ex d.lgs. n. 231/2001.
Contro tale sentenza interponevano ricorso i due imputati condannati, riproponendo tra l’altro un’eccezione di illegittimità costituzionale – già ritenuta manifestamente infondata nei precedenti gradi di giudizio – delle norme pertinenti del t.u.f. e dell’art. 649 c.p.p. per contrasto con il principio convenzionale del ne bis in idem.
2.2 La sentenza della Corte europea
Nel frattempo, nel corso del processo penale di primo grado, le tre persone fisiche e le due società imputate avevano presentato ricorso innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Pronunciandosi il 4.3.2014, la Corte tra l’altro dichiara all’unanimità che vi era stata violazione dell’art. 4, prot. 7, CEDU, in relazione al rifiuto del Tribunale di Torino e poi delle istanze successive di giudizio di por fine al procedimento penale contro i ricorrenti, una volta divenuto definitivo – in seguito alla pronuncia della Cassazione del giugno 2009 – il provvedimento di accertamento dell’illecito amministrativo di manipolazione del mercato e di irrogazione delle relative sanzioni.
In particolare, in merito a quest’ultimo profilo, la Corte sottolinea anzitutto come la garanzia consacrata nell’art. 4, prot. 7, CEDU tuteli l’individuo non già contro la possibilità di essere sanzionato due volte per lo stesso reato, ma ancor prima di essere sottoposto una seconda volta a processo per un reato per il quale è stato già giudicato, non importa se con esito assolutorio o di condanna.
Una simile garanzia, corrispondente a quella di cui all’art. 649 c.p.p., opera però secondo la Corte a prescindere dalla formale qualificazione come “penale”, da parte dell’ordinamento nazionale, del provvedimento definitivo che chiude il primo procedimento sul medesimo fatto. Ciò che rileva è, infatti, unicamente che il procedimento abbia natura “punitiva” secondo l’autonomo apprezzamento compiuto dalla Corte, in base ai noti criteri sviluppati a partire dalla sentenza Engel per definire la matière pénale, alla quale applicare l’insieme delle garanzie previste per il diritto e il processo penale, tra le quali – appunto – il ne bis in idem.
Proprio a tale proposito, un importante problema che si poneva alla Corte nel caso di specie era però rappresentato dalla riserva apposta dall’Italia all’atto della ratifica del prot. 7, avvenuta nel 1991: «La République italienne déclare que les articles de 2 à 4 du protocole ne s’appliquent qu’aux infractions, aux procédures et aux décisions qualifiées pénales par la loi italienne». Come pronosticato da attenta dottrina anche sulla base di precedenti concernenti altri Stati2, tuttavia, la Corte ritiene invalida tale riserva ai sensi dell’art. 57 CEDU, che esclude la validità di riserve di carattere generale: come, per l’appunto, quella formulata dal Governo italiano, che non indicava alcuna specifica disposizione dell’ordinamento giuridico interno da escludere dall’ambito di applicazione dell’art. 4, prot. 7.
La Corte non ha dubbi, allora, nel qualificare le sanzioni (pecuniarie e interdittive) comminate per l’illecito amministrativo di cui all’art. 187 ter t.u.f. come sanzioni sostanzialmente penali, e conseguentemente nel qualificare come afferente alla matière pénale il complessivo procedimento funzionale all’accertamento dell’illecito e alla loro irrogazione.
Dei tre criteri originari enunciati in Engel (qualificazione giuridica della sanzione nell’ordinamento nazionale, natura dell’illecito, natura e grado di severità della sanzione), la Corte valorizza in particolare il terzo criterio, alla luce non solo dell’obiettiva gravità delle sanzioni amministrative pecuniarie e interdittive in concreto irrogate, ma anche e soprattutto di quelle astrattamente comminate dal t.u.f., che prevede (nel testo oggi vigente) un importo massimo di 25.000.000 di euro, elevabili però sino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il profitto o il profitto conseguito dall’illecito, allorché esse appaiano inadeguate anche se applicate nel massimo (art. 187 ter, co. 1 e 5, t.u.f.); e che prevede altresì pesanti sanzioni interdittive a carico delle persone fisiche (art. 187 quater) e alla confisca anche per equivalente del prodotto o del profitto dell’illecito (art. 187 sexies). Simili parossistici livelli sanzionatori evidenziano secondo la Corte la natura schiettamente repressivo-punitiva dell’apparato sanzionatorio, con un’evidente funzione dissuasiva che è, per l’appunto, tipica delle sanzioni sostanzialmente penali, indipendentemente dalla loro qualificazione dall’ordinamento nazionale.
Se, dunque, il procedimento amministrativo avanti alla CONSOB – e i successivi procedimenti giurisdizionali avanti alla Corte d’appello e alla Cassazione di opposizione al provvedimento della CONSOB – avevano natura sostanzialmente penale, restava soltanto da verificare, ai fini dell’accertamento della lamentata violazione dell’art. 4, prot. 7, se il procedimento penale, pendente avanti al Tribunale di Torino alla data della pronuncia definitiva della Cassazione sul procedimento di opposizione alle sanzioni irrogate dalla CONSOB, avesse ad oggetto il medesimo fatto già giudicato nel primo procedimento.
La Corte richiama qui l’evoluzione della propria giurisprudenza sull’interpretazione del concetto di «reato per il quale [il soggetto] è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva»3; giurisprudenza culminata nel caso Zolotoukhine c. Russia, del 2009, nel quale laGrande Camera – risolvendo i precedenti dubbi interpretativi – affermò con nettezza che l’espressione “reato” utilizzata nel testo della norma deve intendersi come equivalente, a tutti gli effetti, a fatto storico, sì da attribuire la massima estensione possibile alla garanzia convenzionale. Ed allora, sulla base di un tale criterio, nessun dubbio poteva sussistere sull’affermazione che i ricorrenti fossero processati in sede penale esattamente per il medesimo fatto storico – le falsità contenute nel comunicato stampa diffuso il 23 agosto 2005 – per il quale erano già stati giudicati e sanzionati dalla CONSOB, con provvedimento divenuto ormai definitivo; a nulla rilevando, in proposito, l’obiezione delGoverno italiano secondo cui gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 185 e dell’illecito amministrativo di cui all’art. 187 ter sarebbero diversi.
2.3 Le ricadute immediate nell’ordinamento italiano
Nel dispositivo della sentenza, la Corte europea ingiunge allo Stato italiano di assicurare nel più breve tempo possibile la chiusura dei procedimenti penali eventualmente ancora in corso nei confronti dei ricorrenti, sì da por fine senza indugio alla violazione in essere del loro diritto al ne bis in idem di cui all’art. 4, prot. 7, CEDU.
A togliere lo Stato italiano dall’imbarazzo dell’individuazione dello specifico strumento processuale con cui adempiere l’obbligo statuito dalla sentenza è peraltro giunta, nel caso di specie, la prescrizione del reato, maturata nelle more del processo penale4.
Al di là però del caso specifico oggetto dell’intervento della Corte europea, occorre chiedersi quali effetti generali sia suscettibile di produrre la sentenza Grande Stevens nell’ordinamento italiano, distinguendo tra gli effetti de lege lata e quelli de iure condendo.
3.1 Le ricadute sugli altri processi penali in corso
L’indicazione che proviene da Strasburgo, come si è visto, è univoca: una volta chiuso con provvedimento definitivo il primo procedimento di natura ‘sostanzialmente’ penale (comunque qualificato dall’ordinamento nazionale), la pendenza di un secondo processo avente ad oggetto gli stessi fatti è lesivo del diritto fondamentale al ne bis in idem di cui all’art. 4, prot. 7, CEDU, ratificato dal nostro Paese in forza della l. 9.4.1990, n. 98. E se la perdurante pendenza del processo è convenzionalmente illegittima, allora occorrerà in questi casi trovare il modo di por fine immediatamente al processo, anche soltanto al fine di evitare di porre le basi per ulteriori condanne dello Stato italiano a Strasburgo.
a) Una prima strada, probabilmente non troppo impervia5, potrebbe essere quella di un’interpretazione convenzionalmente conforme dell’art. 649 c.p.p., tale da estenderne la portata anche all’ipotesi qui in esame.
In effetti, l’art. 649 c.p.p. è già stato oggetto di una interpretazione dichiaratamente analogica da parte delle Sezioni Unite della nostra Cassazione, che in una coraggiosa e illuminata sentenza risalente ormai a qualche anno fa ha esteso il principio generale del ne bis in idem ben oltre i confini disegnati da quella norma processale (che presuppone l’esistenza di una sentenza o di un decreto penale di condanna divenuti ormai definitivi), stabilendo che non può essere nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo sia semplicemente pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del p.m. 6
Un simile percorso argomentativo ben potrebbe essere sperimentato rispetto alla questione ora all’esame, che pone un problema di adeguamento dell’ordinamento processuale nazionale al sistema integrato dalle fonti sovranazionali vincolanti per l’Italia. L’art. 649 c.p.p. potrebbe, dunque, essere letto come norma espressiva di un principio generale dell’ordinamento di divieto di un secondo giudizio sul medesimo fatto, da ricostruire in conformità agli obblighi internazionali che vincolano il nostro ordinamento, nell’estensione loro attribuita dalla Corte di Strasburgo che ne è il giudice ultimo, in forza dell’art. 32 CEDU. Con conseguente obbligo per il giudice penale, in ogni stato e grado del processo, di pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, non appena abbia contezza dell’esistenza di un provvedimento che chiuda definitivamente un procedimento sanzionatorio amministrativo che abbia avuto ad oggetto il medesimo fatto storico contestato nel processo penale, ancorché ivi (ovviamente) diversamente qualificato.
b) Laddove però non dovesse ritenersi praticabile la strada di una semplice interpretazione conforme dell’art. 649 c.p.p., resterebbe evidentemente possibile la strada della proposizione di una questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 649 c.p.p. per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost. in riferimento all’art. 4, prot. 7, CEDU così come interpretato in Grande Stevens, nella parte in cui la disposizione impugnata non prevede che il giudice debba pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere anche nell’ipotesi in cui l’imputato sia già stato giudicato per il medesimo fatto, con provvedimento ormai irrevocabile, in un procedimento che – seppur formalmente qualificato come amministrativo dal diritto italiano – debba ritenersi di natura penale ai sensi della Convenzione europea e dei suoi protocolli.
Difficile negare la fondatezza di una simile questione, a fronte dell’inequivoca indicazione proveniente da Strasburgo7. Ameno che, naturalmente, la Corte costituzionale non riesca a individuare un qualche “controlimite” in grado di opporsi alla vincolatività del dictum della Corte per l’ordinamento italiano, dimostrando in particolare la contrarietà a qualche principio della Costituzione italiana della soluzione proveniente da Strasburgo, secondo la nota riserva affermata già nelle sentenze “gemelle” 24.10.2007, nn. 348 e 349.
Certamente non costituirebbero però valide ragioni le contrapposte istanze di tutela degli interessi tutelati dalle norme in materia di abusi di mercato: interessi ai quali deve certamente essere riconosciuta una copertura costituzionale (basti pensare al rilievo che assume il “risparmio” ai sensi dell’art. 47 Cost.), ma che non si vede perché debbano essere tutelati con modalità lesive del diritto fondamentale dell’individuo a non essere sottoposto a due o più procedimenti per uno stesso fatto, in ipotesi offensivo di quell’interesse.
Né, per ragioni che non possono essere compiutamente sviluppate in questa sede8, potrebbe sostenersi che la soluzione del “doppio binario” in materia di sanzioni contro gli abusi di mercato sia imposta dal diritto dell’Unione Europea. Anzitutto, se l’assunto corrispondesse a verità, la contrarietà degli obblighi rilevanti di fonte UE all’art. 4, prot. 7, CEDU determinerebbe l’invalidità di tali obblighi al metro dello stesso ordinamento dell’Unione Europea, che riconosce i diritti sanciti dalla Convenzione europea e dai suoi protocolli addizionali come propri principi generali di diritto (art. 6 TUE), e – conseguentemente – come criterio di validità di tutti gli atti di diritto derivato.
Ma l’assunto è senz’altro errato nel merito: il diritto dell’Unione imponeva ieri agli Stati membri (mediante la direttiva 2003/6/CE, oggi abrogata) di adottare sanzioni amministrative contro gli abusi di mercato, lasciandoli poi liberi di adottare anche sanzioni penali per i medesimi fatti;mentre oggi impone agli Stati membri – all’inverso – di adottare sanzioni penali per i fatti più gravi di abusi di mercato commessi con dolo (cfr. la nuova direttiva 2014/57/UE), stabilendo poi che gli Stati medesimi possano adottare sanzioni amministrative per i fatti di abusi di mercato analiticamente descritti nel coevo regolamento UE n. 596/2014, purché (come chiarito dal considerando n. 72 del regolamento) il diritto nazionale consenta l’imposizione di sanzioni penali e amministrative per lo stesso illecito. In ogni caso, il considerando n. 23 della direttiva 2014/57 esplicitamente ammonisce che «nell’applicare la normativa nazionale di recepimento della presente direttiva, gli Stati membri dovrebbero garantire che l’irrogazione di sanzioni penali per i reati ai sensi della presente direttiva e di sanzioni amministrative ai sensi del regolamento (UE) n 596/2014 non violi il principio del ne bis in idem».
c) Una terza strada per assicurare l’adeguamento del diritto italiano agli obblighi enunciati dalla Corte merita, ancora, di essere esplorata.
Il diritto fondamentale al ne bis in idem è oggi enunciato a chiare lettere – oltre che dall’art. 4, prot. 7, CEDU – anche dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), che è norma di diritto primario dell’Unione (art. 6, par. 3, TUE) e che è pertanto idonea a produrre effetto diretto negli ordinamenti degli Stati membri, con carattere di primazia rispetto ad eventuali norme nazionali contrastanti, nella misura – beninteso – in cui si versi nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione (art. 51 CDFUE)9. Ora, la materia degli abusi di mercato rientra indubitabilmente nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, come dimostra la direttiva 2003/6/CE e, oggi, la coppia rappresentata dalla direttiva 2014/57/UE (che disciplina precisamente l’uso del diritto penale da parte degli Stati membri per contrastare tali fenomeni criminosi) e dal regolamento n. 596/2014.
Quanto al contenuto dell’art. 50, le “Spiegazioni” ufficiali a tale norma – delle quali l’interprete è vincolato a «tener conto», come si legge nell’art. 6 TUE – testualmente recitano: «per quanto riguarda le situazioni contemplate dall’articolo 4 del protocollo 7, vale a dire l’applicazione del principio all’interno di uno Stato membro, il diritto garantito ha lo stesso significato e la stessa portata del corrispondente diritto sancito dalla CEDU». L’inciso conferma così l’avvenuta incorporazione all’interno dell’art. 50 non solo dell’acquis dell’art. 54 di Schengen, ma anche dell’acquis giurisprudenziale della Corte di Strasburgo sull’art. 4, prot. 7, indipendentemente dalla mancata ratifica di tale protocollo da alcuni importanti Stati membri dell’Unione10.
Tutto ciò spalanca la possibilità, per il giudice ordinario, di pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere direttamente sulla base dell’art. 50 CDFUE, senza “passare” per l’art. 649 c.p.p. e – conseguentemente – senza alcun previo coinvolgimento della Corte costituzionale, eventualmente previo esperimento di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE qualora residuassero dubbi sulla necessità di interpretare l’art. 50 CDFUE – come peraltro suggerito dalle stesse “Spiegazioni” poc’anzi citate – come norma inglobante l’assieme delle garanzie dedotte dalla Corte europea dall’art. 4, prot. 7, CEDU, ivi compreso il diritto a non essere sottoposti a un processo penale per la stessa condotta concreta per la quale si sia già stati sanzionati in via definitiva nell’ambito di un procedimento formalmente amministrativo, ma avente natura sostanzialmente “punitiva”.
3.2 Le riforme necessarie de iure condendo
Al di là poi dei rimedi che la giurisprudenza potrà (e dovrà) individuare de lege lata nel prossimo futuro, non v’è dubbio che il compito fondamentale per adeguare il diritto interno alle indicazioni provenienti dal diritto di Strasburgo sia quello del legislatore.
Occorrerà, in proposito, ripensare a fondo il sistema di tutela contro gli abusi di mercato, al fine di evitare l’attuale sovrapposizione di sanzioni penali e amministrative, e dei relativi procedimenti applicativi, verosimilmente individuando spazi applicativi autonomi dell’illecito penale e di quello amministrativo.
Come è stato subito colto da tutti i primi commentatori, d’altra parte, la sentenza Grande Stevens è destinata a produrre ripercussioni che trascendono la pur rilevante tematica degli abusi di mercato, e che potrebbero direttamente investire – nell’ordinamento italiano – il settore del diritto penale tributario.
Un settore anch’esso caratterizzato da un sistema di doppio binario di procedimenti amministrativi e penali, che procedono ciascuno per proprio conto e sono reciprocamente impermeabili (art. 20 d.lgs. 10.3.2000, n. 74).
È quanto meno dubbio, allora, che un sistema così congegnato possa essere considerato immune da censure ai sensi dell’art. 4, prot. 7, soprattutto a fronte della comprovata inefficacia del principio di specialità ex art. 19 d.lgs. n. 74/2000 ad evitare il cumulo dei procedimenti (e a volte delle stesse sanzioni) per quelli che sarebbero, con ogni verosimiglianza, considerati come “i medesimi fatti” avanti alla Corte di Strasburgo11.
Si pensi al delitto di cui all’art. 10 ter d.lgs. n. 74/2000 (omesso versamento di IVA). Come è noto, la Cassazione non ha qui ravvisato alcun ostacolo contro il cumulo delle sanzioni (e dunque, a fortiori, dei relativi procedimenti, tributario e penale) per l’omesso versamento dell’IVA, valorizzando in sostanza il diverso termine di adempimento degli obblighi amministrativamente e penalmente sanzionati12.
La circostanza, tuttavia, che il debito tributario il cui mancato pagamento si sanziona è in entrambi i casi esattamente il medesimo indurrebbe con ogni verosimiglianza la Corte di Strasburgo a riconoscere la violazione dell’art. 4, prot. 7, a partire dal momento in cui uno dei due procedimenti (tributario o penale, non importa) sia divenuto definitivo: e ciò, ancora una volta, sulla base della qualificazione del procedimento tributario e delle relative sanzioni come sostanzialmente “penali”. Qualificazione, quest’ultima, che appare pressoché certa, anche alla luce di altra recentissima pronuncia della Corte13.
Rispetto proprio al delitto di cui all’art. 10 ter d.lgs. n. 74/2000, d’altra parte, vale appieno l’argomentazione sviluppata nelle pagine precedenti circa la diretta applicabilità dell’art. 50 CDFUE. La materia dell’IVA rientra infatti nell’ambito di attuazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 51 CDFUE, come ha affermato a chiare lettere laGrande Sezione della Corte di giustizia nella sentenza Fransson. Di talché, una volta qualificato il procedimento tributario ormai definitivamente concluso come procedimento nella sostanza “penale”, il giudice italiano dovrebbe anche in questo caso pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, in diretta applicazione dell’art. 50 CDFUE.
Prospettive siffatte dovrebbero rendere evidente l’urgenza di un globale ripensamento, e una conseguente incisiva riforma, di tutti i settori dell’ordinamento caratterizzati dalla presenza di un doppio binario procedurale e sanzionatorio per i medesimi fatti.
E ciò nella consapevolezza – assai ben espressa dalle conclusioni dell’opinione parzialmente dissenziente dei giudici Karakaş e Pinto de Albuquerque nella sentenza Grande Stevens – che i problemi discussi sollevano un dilemma cruciale per gli Stati europei oggi, e che investe direttamente il ruolo rispettivo del diritto sanzionatorio amministrativo e del diritto penale. Quest’ultimo è il settore dell’ordinamento che possiede il maggiore potenziale lesivo dei diritti fondamentali della persona, e che proprio per questo offre il più elevato livello di garanzie all’individuo, anche a costo di una minore prontezza ed efficacia della risposta repressiva. Prontezza ed efficacia che il legislatore contemporaneo affida sempre più alla sanzione amministrativa, che non tocca la libertà personale e che per questo è di solito ritenuta compatibile con un minor livello di garanzie, in particolare sul versante procedimentale. Ma proprio questa logica per così dire “compensativa” è oggi in crisi: la Corte di Strasburgo evidenzia giustamente l’incidenza a volte imponente delle sanzioni “amministrative” su diritti fondamentali della persona (ancorché diversi dalla sua libertà personale); e conseguentemente richiede l’adozione di standard di garanzia identici a quelli che caratterizzano la materia penale, finendo così per appesantirne il procedimento applicativo e in definitiva per ridurre i vantaggi, in termini di prontezza ed efficacia repressiva, della sanzione amministrativa, ridotta a una sorta di duplicato minor della pena.
Se, in queste condizioni, valga davvero la pena di perseverare sulla via di un doppio binario (ripensato però ab imis, in modo da evitare in ogni caso il cumulo di procedimenti e di sanzioni per lo stesso fatto); o se piuttosto – secondo quanto ci consente la stessa Unione Europea – convenga tornare soltanto al buon vecchio diritto penale, anche nei settori più caratteristici della “modernità” come la tutela dei mercati finanziari, è oggi quesito cruciale, con il quale anche il legislatore italiano non potrà esimersi nell’immediato futuro dal confrontarsi.
1 Per più estese considerazioni sulla sentenza si consenta anzitutto il rinvio a Viganò, F., Doppio binario e ne bis in idem: verso una diretta applicazione della Carta?, in www.penalecontemporaneo.it., 30.6.2014. Sulla sentenza cfr. anche De Amicis,G., Ne bis in idem e ‘doppio binario’ sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza ‘Grande Stevens’ nell’ordinamento italiano, ibidem, 30.6.2014; Flick, G.M.- Napoleoni, V., Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto?, in corso di pubblicazione in Riv. soc.
2 Allegrezza, S., Art. 4 Prot. 7, in Bartole, S.-Conforti, B.-Zagrebelski, V., Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2012, 897 s.
3 Per una puntuale ricostruzione di questa giurisprudenza, cfr. ancora Allegrezza, S., op. cit., 900 ss.
4 Cass. pen., sez. I, sent. 17.12.2013, dep. 14.5.2014, n. 19915.
5 Per una significativa apertura in questo senso, cfr. anche Flick, G.M.-Napoleoni, V., Cumulo, cit., § 7.
6 Cass. pen, S.U., 28.6.2005, n. 34655.
7 In questo senso anche, in dottrina, Flick, G.M.-Napoleoni, V., Cumulo, cit., § 7.
8 Per un’estesa dimostrazione dell’assunto, cfr. Viganò, F., Doppio binario, cit., 16 ss.
9 In questo senso, cfr. C. giust. UE, Akeberg Fransson, par. 45 proprio con riferimento alla possibilità di diretta applicazione dell’art. 50 da parte del giudice nazionale in una materia in quella occasione giudicata dalla Corte pertinente all’ambito di applicazione del diritto dell’Unione.
10 Non pare, pertanto, possa condividersi l’opinione resa dall’Avvocato generale Villalón nelle proprie conclusioni nella causa Fransson, secondo le quali – a fronte della mancata ratifica, da parte di vari importanti Stati dell’UE, del prot. 7 CEDU – occorrerebbe ritenere che l’art. 50 CDFUE abbia una portata più ristretta di quella riconosciuta all’art. 4 di quel protocollo. Più ampiamente, sul punto, cfr. Viganò, F., Doppio binario, cit., 23 ss.
11 Più ampiamente sul punto Flick, G.M., Reati fiscali, principio di legalità e ne bis in idem: variazioni italiane su un tema europeo, in www.penalecontemporaneo.it, 14.9.2014, 15 ss.
12 Cass. pen., S.U., 28.3.2013 (dep. 12.9.2013), n. 37424.
13 C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 20.5.2014, Nykänen c. Finlandia.