Abstract
Si analizza il tema delle sanzioni amministrative dando conto dei loro caratteri fondamentali, della funzione svolta, dell’influenza delle disposizioni CEDU, dei principi applicabili, del rapporto con le sanzioni penali, nonché di alcuni profili relativi alla procedura sanzionatoria amministrativa e alla giurisdizione.
La sanzione amministrativa è una forma di reazione dell’ordinamento alla violazione di un precetto. È, secondo la ricostruzione più autorevole, una «pena in senso tecnico» (Zanobini, G., Le sanzioni amministrative, Torino, 1924).
La tesi che configura la nozione di sanzione amministrativa come pena di competenza dell’Amministrazione ha trovato una conferma nel diritto positivo, nella l. 24.11.1981, n. 689, che costituisce la legge generale sulle sanzioni amministrative pecuniarie.
Da tale impostazione si ricava che la sanzione amministrativa si caratterizza per il carattere afflittivo e per le finalità di prevenzione generale e speciale.
Non è quindi concettualmente corretto assimilare alla sanzione amministrativa ogni strumento di reazione da parte dell’Amministrazione, soprattutto quando si tratta di misure che tutelano direttamente (ed unicamente) un determinato interesse pubblico senza che vi sia anche un intento di punire l’autore dell’illecito.
Così, non sono qualificabili come sanzioni amministrative (in senso proprio) le misure ripristinatorie, che hanno lo scopo di restaurare la legalità violata ma non perseguono finalità afflittive e di prevenzione.
Parimenti, non sono riconducibli nella categoria delle sanzioni amministrative quelle misure negative che hanno un carattere preventivo e cautelare, essendo dirette non a sanzionare un illecito ma ad evitarne la sua consumazione.
Sono invece da ricondurre al genus delle sanzioni punitive le sanzioni amministrative pecuniarie, che rappresentano la più importante categoria di sanzioni amministrative insieme con le sanzioni interdittive. Queste ultime incidono sull’esercizio di un diritto o su provvedimenti che attribuiscono al trasgressore particolari benefici o diritti (ad esempio, revoca dell’autorizzazione al commercio). Vi sono tuttavia misure interdittive che non possono essere annoverate tra le sanzioni amministrative perché non hanno una funzione “punitiva”, non essendo conseguenza di un illecito ma l’effetto dell’accertamento di una inidoneità del soggetto a svolgere una certa attività. Si pensi alla revoca della patente per inidoneità psicofisica alla guida o ai provvedimenti di sospensione dalle cariche a seguito di una condanna previsti dal d.lgs. 31.12.2012, n. 235, considerati dalla Corte costituzionale mere conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso o il mantenimento delle predette cariche (C. cost. 19.11.2015, n. 236; C. cost. 16.12.2016, n. 276).
Nell’ambito delle sanzioni amministrative rientrano anche alcune ipotesi di confisca (quando presentano gli elementi essenziali dell’illecito sanzionatorio, quando siano cioè conseguenza di un illecito, abbiano un carattere personale e finalità afflittive e di prevenzione) e le sanzioni disciplinari (le quali hanno una loro normativa specifica essendo espressamente escluse dall’ambito di operatività della disciplina generale sulle sanzioni amministrative dall’art. 12, l. n. 689/1981).
Le tesi che, fondandosi su criteri di natura formale, evidenziano unicamente la finalità afflittiva delle sanzioni amministrative (c.d. tesi formalistiche) sono state affiancate da tesi che, basandosi su criteri di natura sostanziale, prendono in considerazione anche le finalità perseguite e gli interessi tutelati dalla sanzione (tesi sostanzialistiche).
Queste ultime hanno il merito di aver messo in luce un importante profilo relativo alla funzione svolta dalle sanzioni amministrative, che non si esaurisce nell’accertamento e nella punizione delle infrazioni, ma si qualifica anche come strumento di tutela (indiretta) di uno specifico interesse pubblico.
Pure la Corte costituzionale ha osservato che le sanzioni amministrative, a differenza da quelle penali, costituiscono «un momento ed un mezzo per la cura dei concreti interessi pubblici affidati all’Amministrazione» (C. cost., 14.4.1988, n. 447).
Il ruolo delle sanzioni amministrative nel perseguimento di un determinato interesse pubblico appare con chiarezza nei provvedimenti sanzionatori di competenza delle Autorità amministrative indipendenti, dove il potere sanzionatorio non è finalizzato esclusivamente all’attività repressiva ma è anche strumentale alle attività regolatoria e di vigilanza alle stesse affidato.
Del resto, non sussiste una incompatibilità ontologica tra punire e amministrare. Anzi, la sanzione, attraverso la sua funzione di deterrenza, non è che un modo di tutelare meglio, in via preventiva, dati interessi pubblici (in tal senso Goisis, F., Discrezionalità ed autoritatività nelle sanzioni amministrative pecuniarie, tra tradizionali preoccupazioni di sistema e nuove prospettive di diritto europeo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2013, 124).
Questa strumentalità con l’interesse pubblico porta a chiedersi se l’Autorità amministrativa goda nell’esercizio del potere sanzionatorio di un margine di scelta che le consenta di esercitare una discrezionalità amministrativa.
La dottrina e la giurisprudenza prevalente escludono l’esistenza di un profilo di discrezionalità amministrativa nell’esercizio del potere sanzionatorio riconducendo lo spazio di scelta di cui dispone l’Autorità (almeno) nella quantificazione della sanzione nell’ambito della discrezionalità tecnica o giudiziale (v., per tutti, Capaccioli, E., Principi in tema di sanzioni amministrative: considerazioni introduttive, in AA.VV., Le sanzioni in materia tributaria, Milano, 1979, 125 ss.; Cass., 11.4.2001, n. 5443).
Certo, sono molte le sanzioni, in particolare quelle che derivano da un processo di depenalizzazione, dove è difficile riscontrare momenti di discrezionalità.
Ve ne sono altre, però, segnatamente quelle di competenza delle Autorità indipendenti, che si caratterizzano per la presenza di spazi di discrezionalità.
È il caso, ad esempio, delle sanzioni amministrative dell’AGCM, dove la fattispecie illecita è individuata dal legislatore con una nozione del tutto indeterminata, come quella di «infrazioni gravi» (art. 15, co. 1, l. 10.10.1990, n. 287), che lascia un’ampia libertà di scelta in capo all’Autorità sanzionatrice. Tale procedura sanzionatoria, inoltre, come quella di altre Autorità indipendenti, può essere interrotta attraverso l’assunzione di “impegni” da parte dell’impresa che ha commesso l’illecito anticoncorrenziale (art. 14-ter, l. n. 287/1990), la cui accettazione da parte dell’Autorità comporta una valutazione senz’altro discrezionale.
Tutto ciò dimostra che il procedimento sanzionatorio non è incompatibile con una discrezionalità che può essere anche amministrativa, considerato che, in mancanza di altri criteri, la scelta non può che essere orientata alla realizzazione dell’interesse pubblico perseguito dall’autorità sanzionatrice.
Così, una parte sempre più consistente della dottrina e della giurisprudenza riconosce che l’esercizio del potere sanzionatorio amministrativo possa essere anche discrezionale (ad es., Goisis, F., op. cit., 79 ss.; Cons. St., sez. VI, 29.1.2013, n. 542).
Laddove ci sia una discrezionalità lasciata dal legislatore, tuttavia, è ragionevole ritenere che la p.a. debba spenderla prima di irrogare la sanzione, predeterminando (attraverso regolamenti, linee guida, ecc.) i criteri di applicazione e di determinazione delle sanzioni, considerato il carattere afflittivo di tali misure che impone il puntuale e rigoroso rispetto dei principi di determinatezza, imparzialità e prevedibilità della fattispecie illecita.
In tema di sanzioni amministrative di particolare importanza è l’orientamento della C. eur. dir. uomo che, muovendo dall’assunto che queste sanzioni e quelle penali hanno identità di funzioni, da tempo è giunta ad estendere le garanzie CEDU anche all’illecito amministrativo (Corte eur. dir. uomo, 21.2.1984, Öztürk c. Germania).
Segnatamente, la Corte europea riconosce le garanzie dell’art. 6 (e dell’art. 7) CEDU a tutte quelle sanzioni che possono essere ricondotte nella nozione di “materia penale” sulla base di tre criteri, tra loro alternativi, conosciuti come Engel criteria: a) la qualificazione giuridica della trasgressione secondo il diritto nazionale; b) la natura della sanzione, che deve svolgere una funzione punitiva e preventiva (e non deve essere circoscritta soltanto agli appartenenti a determinati ordini, acquistando altrimenti natura disciplinare); c) la severità e significatività del sacrificio imposto (C. eur. dir. uomo, 8.6.1976, Engel e altri c. Paesi Bassi). Il criterio più rilevante è senza dubbio quello che fa riferimento alla natura della sanzione.
La C. eur. dir. uomo ha così riconosciuto la natura penale a numerose sanzioni amministrative (si veda, ad es., con riferimento alle sanzioni Consob, C. eur. dir. uomo, 4.3.2014, Grande Stevens e altri c. Italia, caso n. 18640/10), con la conseguenza che le procedure di irrogazione di tali sanzioni devono assicurare il livello di tutela fissato dall’art. 6 CEDU.
Va evidenziato, tuttavia, che per i giudici europei le garanzie di cui all’art. 6, CEDU non vanno tutte necessariamente soddisfatte nella fase amministrativa, potendo essere recuperate, ai fini convenzionali, nella successiva fase giurisdizionale, davanti ad un giudice dotato di full jurisdiction, che abbia la possibilità di riesaminare, punto per punto, in fatto e in diritto, la fattispecie sanzionatoria, ponendo in essere un sindacato pieno e sostitutivo dell’operato dell’Amministrazione (in tal senso, ad es., C. eur. dir. uomo, 4.3.2014, Grande Stevens, cit.; v. anche Cons. St., sez. VI, 26.3.2015, n. 1595 e n. 1596).
Il diritto ad un equo processo sancito dall’art. 6, CEDU, tuttavia, implica una serie di garanzie (come il diritto di ogni individuo a che la causa sia esaminata equamente, entro un termine ragionevole, il diritto di essere informato, ecc.), che si sovrappongono con quelle rinvenibili nel principio del giusto procedimento (il quale sancisce il diritto al contraddittorio, ad un comportamento corretto dei pubblici poteri, il rispetto di canoni quali l’obbligo di motivazione del provvedimento, la conclusione entro termini certi del procedimento, la conoscenza degli atti, e così via). Cosicché, buona parte delle garanzie presidiate dall’art. 6, CEDU vanno comunque rispettate nella fase amministrativa di irrogazione della sanzione in virtù della regola del giusto procedimento.
Per alcune autorità indipendenti, inoltre, la normativa di settore dispone espressamente che il procedimento sanzionatorio è retto «dai principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori, della verbalizzazione nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie» (art. 24, l. 28.12.2005, n. 262; nella stessa direzione v. l’art. 9, l. 18.4.2005, n. 62; l’art. 45, co. 6, d.lgs. 1.6.2011, n. 93, ecc.). Canoni ai quali va riconosciuto il valore di principi generali, essendo di chiara derivazione europea ed espressione del generale principio del giusto procedimento; essi andrebbero perciò assicurati in tutti i procedimenti sanzionatori.
Va poi sempre garantito, a prescindere dal fatto che ci sia o meno una fase processuale davanti ad un giudice dotato di full jurisdiction, il principio di legalità sancito dall’art. 7, CEDU.
Giova ricordare, infine, che a partire dal 2007 la Corte Costituzionale ha riconosciuto alle disposizioni CEDU il rango di “norme interposte” (C. cost., 24.10.2007, n. 348 e 349), anche se di recente ha ridimensionato la portata della giurisprudenza CEDU ai casi di “sentenza pilota” o di “diritto consolidato”, ritenendo che nessun obbligo di adeguamento sussista a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo (C. cost. 23.3.2015, n. 49).
La finalità afflittiva che contraddistingue tutte le sanzioni amministrative fa emergere la loro diversità rispetto alle sanzioni civili. Nelle sanzioni amministrative, infatti, manca quel fine risarcitorio che costituisce viceversa il proprium delle sanzioni civili.
Più difficile è scorgere delle differenze tra sanzioni amministrative e penali poiché entrambe hanno una finalità punitiva e preventiva. Ciò ha consentito al legislatore di far ricorso al fenomeno della cd. “depenalizzazione”, trasformando illeciti penali in illeciti amministrativi (v., da ultimo, il d.lgs. 8.1.2016, n. 8).
L’identità tra sanzioni amministrative e penali emerge anche dall’art. 9, co. 1, l. n. 689/1981, dove è sancito il principio di specialità, in virtù del quale se uno stesso fatto è punito da una sanzione amministrativa e penale si applica la disposizione speciale: quindi, o la sanzione penale o quella amministrativa, ma non tutte e due contemporaneamente.
In questa direzione si muove anche la C. eur. dir. uomo, la quale, nella citata sentenza Grande Stevens, qualificando come penali le sanzioni amministrative della Consob, ha affermato che in virtù del principio del ne bis in idem, sancito dall’art. 4, co. 1, del Protocollo n. 7 CEDU, non è consentito un loro cumulo con le sanzioni penali quando queste abbiano ad oggetto la medesima condotta, così come avviene con gli artt. 185, co. 1, e 187-ter del d.lgs. 24.2.1998, n. 58.
Di recente, tuttavia, la Grande Camera della C. eur. dir. uomo ha rivisto questa presa di posizione, affermando che non viola l’art. 4, prot. n. 7 CEDU l’applicazione, in relazione al medesimo fatto, di sanzioni amministrative e penali in distinti procedimenti, quando fra gli stessi sia ravvisabile una «connessione sufficientemente stretta sul piano sostanziale e temporale» e purché siano assicurate sanzioni nel loro complesso proporzionate e prevedibili (C. eur. dir. uomo, 15.11.2016, n. 24130, A e B c. Norvegia; più di recente, C. eur. dir. uomo, 18.5.2017, Jóhannesson e a. c. Islanda). Secondo la C. eur. dir. uomo, una «sufficiently close connection» si configura in presenza dei seguenti elementi: a) i due procedimenti perseguono scopi diversi e complementari e riguardano la medesima condotta; b) vi è un loro svolgimento coordinato; c) la duplicità dei procedimenti è una conseguenza prevedibile; d) la sanzione irrogata nel primo procedimento è tenuta in considerazione nel secondo, in modo che venga rispettata la proporzionalità complessiva della pena.
Vista la difficoltà a trovare delle diversità tra sanzioni amministrative e penali, una parte della dottrina è andata per esclusione, considerando sanzione amministrativa la misura afflittiva non consistente in una sanzione penale (v., ad es., Casetta, E., Sanzione amministrativa, in Digesto disc. pubbl., XIII, Torino, 1997, 599).
Altra dottrina ha individuato invece delle differenze tra le due sanzioni, rinvenendole, tra l’altro, nel fatto che esse perseguono interessi distinti, sono, di norma, irrogate da soggetti differenti (p.a. e giudice penale), con procedure difformi, con atti aventi natura diversa (provvedimento e sentenza) e hanno forme di tutela diverse; inoltre è stato evidenziato che solo la sanzione penale può incidere sulla libertà personale ed avere una finalità rieducativa. Le due sanzioni sono altresì espressione di funzioni diverse.
Tra i principi che governano il settore delle sanzioni amministrative va ricordato anzitutto quello di legalità. Tale principio per le sanzioni amministrative è espressamente previsto solo a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 1 della l. n. 689/1981 (secondo cui «Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione»).
Per lungo tempo sia la dottrina maggioritaria che la giurisprudenza costituzionale pressoché unanime hanno ritenuto non applicabile alle sanzioni amministrative il principio nulla poena sine lege sancito dall’art. 25, co. 2, Cost., perché si reputava che tale precetto fosse stato dettato per le sole sanzioni penali, anche se non mancava qualche voce contraria in dottrina (ad es., Sandulli, M.A., Le sanzioni amministrative pecuniarie. Principi sostanziali e procedimentali, Napoli, 1983, 72 ss.) e una isolata e risalente sentenza della Corte costituzionale (C. cost., 3.7.1967, n. 78). Il fondamento costituzionale del principio di legalità per l’illecito amministrativo si rinveniva nell’art. 23 Cost.
Questo granitico indirizzo giurisprudenziale è stato di recente superato. Fondamentale è stata la giurisprudenza della C. eur. dir. uomo (che ha affermato l’attrazione delle sanzioni amministrative nell’ambito della materia penale) e il riconoscimento del rango di norme interposte alle disposizioni convenzionali. Così oggi la giurisprudenza costituzionale ritiene applicabile l’art. 25, co. 2, Cost., anche all’illecito amministrativo (C. cost. 4.6.2010, n. 196; C. cost., 18.4.2014, n. 104).
La Consulta, però, muovendo dall’autonomia dell’illecito amministrativo dal diritto penale (C. cost. 23.3.2015, n. 49), ha puntualizzato che l’art. 25, co. 2, Cost. si applica alle sanzioni amministrative limitatamente al suo contenuto essenziale, costituito dal principio di irretroattività, ma non comporta l’estensione a tali sanzioni di tutti i principi e delle garanzie previste dalla legge per le sanzioni penali, che rimangono nel margine di apprezzamento di cui gode ciascun Stato (C. cost., 24.2.2017, n. 43; C. cost., 7.4.2017, n. 68; C. cost., 11.5.2017, n. 109)
Quanto al principio di retroattività della norma più favorevole, esso è espressamente sancito solo per alcune sanzioni amministrative (ad es. le sanzioni tributarie), ma non è disciplinato, in via generale dall’art. 1 della l. n. 689/1981 (come avviene invece per le sanzioni penali con l’art. 2 c.p.). Alla luce di questo quadro normativo, la giurisprudenza è orientata nel senso di ritenere inapplicabile, in via generale, alle sanzioni amministrative il principio della retroattività in mitius (Cass., S.U., 20.5.2014, n. 11025).
Detto principio è però riconosciuto dal diritto dell’U.E. (v. art. 49, n. 1, della Carta diritti fondamentali UE e art. 2, par. 2, reg. CE 18.12.1995, n. 2988).
L’art. 7 CEDU non afferma invece espressamente tale principio, ma i giudici di Strasburgo, a partire dal 2009, hanno dato un’interpretazione evolutiva della Convenzione modificando il loro orientamento contrario ed ammettendo il principio di retroattività della legge meno severa (C. eur. dir. uomo, 17.9.2009, Scoppola c. Italia).
La nostra Corte costituzionale non ha però cambiato indirizzo, sostenendo che nell’affermare il principio della retroattività del trattamento sanzionatorio più mite, la C. eur. dir. uomo «non ha mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie» (C. cost., 20.7.2016, n. 193; C. cost., 19.7.2011, n. 236).
Dal principio di legalità scaturiscono una serie di corollari come il divieto di analogia e l’obbligo di tassatività e di determinatezza della fattispecie sanzionatoria, che deve essere predeterminata, chiara e conoscibile.
Altro principio che deve necessariamente informare le sanzioni amministrative è il principio di personalità (il rimprovero deve essere mosso nei confronti del trasgressore), dal quale discende l’esigenza di tener conto della capacità di intendere e di volere di chi ha commesso l’illecito, dell’elemento soggettivo (dolo o colpa; si noti che la giurisprudenza presume la colpa, facendo così gravare sul sanzionato una inversione dell’onere probatorio non espressamente prevista dal legislatore: Cass., 12.1.2017, n. 604; TAR Lazio, Roma, sez. I, 3.1.2017, n. 61), di eventuali cause di giustificazione, dell’intrasmissibilità dell’obbligazione agli eredi e della personalità del trasgressore nella quantificazione della sanzione; tutti canoni che trovano la loro codificazione positiva generale negli artt. 2, 3, 4, 7 e 11 della l. n. 689 del 1981. Un altro principio che si applica pacificamente alle sanzioni amministrative è quello di proporzionalità, che deve costituire un parametro di riferimento per il legislatore, l’amministrazione e il giudice.
Pur nella estrema varietà delle fattispecie di illecito amministrativo previste dal legislatore, nel procedimento sanzionatorio sono sempre identificabili due fasi: una prima, che ha carattere dichiarativo, nella quale è necessario procedere all’accertamento dei fatti e delle relative responsabilità; una seconda, di ordine costitutivo, nella quale si applica la sanzione (Paliero, C.E.-Travi, A., Sanzioni amministrative, in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, 403).
In particolare, nel procedimento sanzionatorio delineato dalla l. n. 689/1981, la prima fase, posta in essere dagli organi di vigilanza addetti al controllo, prende avvio con l’accertamento della violazione (art. 13), prosegue con la contestazione e la notificazione della violazione (art. 14) e si conclude con l’obbligo del rapporto all’Autorità competente (art. 17); la seconda fase, si incentra sugli adempimenti dell’Autorità competente (o, in mancanza, del Prefetto), che, se ritiene fondato l’accertamento, determina la somma dovuta e ingiunge il pagamento della sanzione con ordinanza motivata, altrimenti emette ordinanza motivata di archiviazione degli atti comunicandola all’organo che ha redatto il rapporto (art. 18), e non, si badi, all’interessato. Questa seconda fase è da ritenersi peraltro meramente eventuale, dal momento che tale procedimento sanzionatorio può concludersi con il pagamento volontario in misura ridotta da parte del trasgressore già nella prima fase di accertamento e contestazione della violazione (artt. 16 e 17, co. 1, l. n. 689/1981).
Il procedimento sanzionatorio dettato dalla l. 689/1981 costituisce un procedimento-tipo che trova applicazione generale ove non sia diversamente stabilito. Esso può essere derogato dalle normative di settore.
Secondo una parte della giurisprudenza, la l. 7.8.1990, n. 241 non si applica alle sanzioni amministrative regolamentate dalla l. n. 689/1981, sia perché quest’ultima, costituendo una lex specialis, prevale rispetto alla legge generale sul procedimento, sia perché le norme del procedimento sanzionatorio garantiscono un livello di tutela per l’interessato non inferiore al minimum assicurato dalla legge procedimentale (v., ad es., Cass., 15.5.2007, n. 11115).
Si tratta di una tesi non persuasiva, anche perché non è sempre vero che il procedimento sanzionatorio garantisce un livello di tutela superiore a quello previsto dalla l. n. 241/1990. Si pensi, ad esempio, che nella l. n. 689/1981 manca la previsione di un termine procedimentale, con la conseguenza che la Cassazione, non applicando i principi della l. n. 241/1990, ritiene di dover fare riferimento al termine di prescrizione, aprendo così alla possibilità che la procedura amministrativa sanzionatoria si concluda addirittura entro un termine quinquennale (Cass., S.U., 27.4.2006, n. 9591). In questi casi la l. n. 241/1990 potrebbe svolgere un’importante opera di integrazione.
Non va dimenticato, del resto, che il procedimento sanzionatorio è un procedimento amministrativo che non può sottrarsi ai principi generali dettati dalla l. n. 241 del 1990.
A conferma dell’applicabilità dei principi della l. n. 241/1990 ai procedimenti sanzionatori c’è l’art. 24 della l. n. 262/2005, il quale espressamente dispone che ai procedimenti, anche sanzionatori, di alcune Autorità indipendenti (Banca d’Italia, Consob, ecc.) si applicano i principi, in quanto compatibili, sul responsabile del procedimento, sulla partecipazione al procedimento e sull’accesso agli atti amministrativi dettati proprio dalla l. n. 241/1990.
Va segnalato, in conclusione, che con il d.lgs. 5.4.2017, n. 52 l’Italia ha dato attuazione alla Convenzione di Bruxelles del 2000 estendendo anche ai procedimenti per l’applicazione di sanzioni amministrative l’assistenza giudiziaria tra gli Stati membri dell’Unione Europea.
L’art. 22 della l. n. 689/1981 devolve al giudice ordinario la giurisdizione sulle sanzioni amministrative pecuniarie, facendo salve le deroghe previste dall’art. 133, d.lgs. 2.7.2010, n. 104 (c.p.a.) e dalle altre disposizioni di legge.
La deroga più importante è quella prevista dall’art. 133, co. 1, lett. l), c.p.a., che attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo il contenzioso sui provvedimenti sanzionatori di numerose Autorità indipendenti, anche se, dopo l’intervento della Corte costituzionale, sono state escluse la Consob e la Banca d’Italia, i cui provvedimenti sanzionatori sono così tornati alla giurisdizione del giudice ordinario (C. cost. 27.6.2012, n. 162, e C. cost. 15.4.2014, n. 94).
La scelta di attribuire alla giurisdizione ordinaria la maggior parte delle controversie in materia di sanzioni amministrative pecuniarie trova fondamento nella convinzione che la posizione giuridica del destinatario della sanzione sia di diritto soggettivo, perché si ritiene che siffatti provvedimenti siano rivolti alla mera retribuzione dell’illecito attraverso la sanzione inflitta al suo autore.
Tuttavia, come notato da attenta dottrina, in questo settore se «c’è un diritto, esso non può riguardare la misura dell’entità della sanzione (salvo il caso del superamento dei limiti edittali, naturalmente) ma altri aspetti (ad es., ciò che attiene alla sussistenza dell’illecito); e, inoltre, non può costituire l’unica situazione soggettiva» (Marzuoli, C., Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985, 136).
Ed in effetti, a ben vedere, sembra che si possa ritenere che nell’esercizio del potere sanzionatorio vi sia quantomeno una commistione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, in particolare nelle sanzioni devolute alla competenza delle Autorità indipendenti dove sono rinvenibili spazi di discrezionalità.
Se così è, il riparto di giurisdizione nel campo in esame non pare essere fondato sulla natura delle situazioni giuridiche soggettive, bensì su una ripartizione per materia, consentita dal nostro quadro costituzionale. È possibile infatti riconoscere con legge una giurisdizione esclusiva del giudice ordinario (oltre che del giudice amministrativo) senza violare i principi costituzionali in tema di riparto di giurisdizione. Ciò, del resto, è quello che è avvenuto in svariati e significativi settori, come ad esempio nella materia del pubblico impiego (anche se non mancano voci contrarie sul punto).
Quanto ai profili processuali, sia il giudice ordinario che quello amministrativo, pur nella diversità del loro regime processuale, hanno sostanzialmente i medesimi poteri di riformare, oltre che di annullare, il provvedimento sanzionatorio, con la possibilità di porre in essere un sindacato pieno e sostitutivo dell’operato dell’Amministrazione in grado di assicurare (almeno formalmente) una full jurisdiction che soddisfi i principi sanciti dall’art. 6, CEDU.
Al giudice ordinario è infatti riconosciuto l’ampio potere di «annullare in tutto o in parte l’ordinanza o modificarla anche limitatamente all’entità della sanzione dovuta» (art. 6, co. 12, del d.lgs. 1.9.2011, n. 150 che ha sostituito, senza modifiche, l’art. 23, l. n. 689/1981), mentre il giudice amministrativo ha in materia una giurisdizione esclusiva estesa al merito (art. 134, co. 1, lett. c), c.p.a.).
Un giudizio quindi non sull’atto ma sul rapporto, che si caratterizza come un tipo di giurisdizione piena e sostitutiva.
Si deve criticamente rilevare, però, che non sempre tali poteri, in particolare quello sostitutivo, vengono poi effettivamente esercitati dal giudice nel caso concreto, soprattutto quando il sindacato ha ad oggetto fatti complessi che richiedono valutazioni ed apprezzamenti comportanti un margine di opinabilità (v., ad es., Cass., S.U., 20.1.2014, n. 1013; Cons. St., sez. VI, 21.5.2013, n. 2722). Altra criticità si rinviene nella circostanza che, per costante giurisprudenza, nel giudizio di opposizione l’accertamento del fatto risultante dal verbale di accertamento fa piena prova fino a querela di falso (Cass., 6.10.2016, n. 20025).
Fonti normative
Art. 25, co. 2, e art. 117, co. 1, Cost.; artt. 6 e 7 CEDU; l. 24.11.1981, n. 689; art. 6 d.lgs. 1.9.2011, n. 150; art. 133 co. 1, lett. l), e art. 134, co. 1, lett. c), c.p.a.; artt. 3, 4, 5, 6 e 9 d.lgs. 5.4.2017, n. 52.
Bibliografia essenziale
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