Abstract
Partendo dal regime di cui al d.P.R. 10.1.1957, n. 3 degli impiegati civili dello Stato, si analizza l’evoluzione del procedimento disciplinare dalla riforma della cd. “privatizzazione”, alla regolamentazione legale realizzata dal d.lgs. 27.10.2009, n. 150 (cd. “Riforma Brunetta”) e alle modifiche ad essa apportate dai decreti attuativi della l. 7.8.2015, n. 124 (cd. “Riforma Madia”), che ne hanno definito il nuovo assetto. Illustrato l’istituto della sospensione cautelare, viene affrontato il tema dei rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare alla luce delle novità introdotte dalle recenti riforme.
Nel regime di cui al d.P.R. 10.1.1957, n. 3, cd. t.u., degli impiegati civili dello Stato, la irrogazione della sanzione disciplinare presupponeva un farraginoso procedimento rivolto a fornire all’incolpato, privo di garanzie sostanziali, tutte le tutele di carattere formale e procedurale e ciò in ragione della ampia discrezionalità di cui aveva goduto l’amministrazione nella valutazione della punibilità e della gravità delle infrazioni addebitate, a fronte della quale l’unica assicurazione del dipendente incolpato era rappresentata dal giudizio terzo ed imparziale della commissione di disciplina.
La struttura “paragiurisdizionale” del procedimento aveva prodotto il risultato di rendere poco efficace l’azione disciplinare, la natura della quale richiede invece rapidità di attuazione.
La giurisprudenza, anche nell’assenza di specifiche norme che ne imponessero l’osservanza, aveva comunque elaborato alcuni principi cui si doveva conformare la p.a. nell’esercizio del potere punitivo.
Tra tali principi, i principali erano quelli della contestazione; della sua immediatezza, specificità e completezza; del dovere di assicurare la possibilità di difesa all’incolpato; del dovere di motivare il provvedimento finale (cfr. Zappia, P., La responsabilità disciplinare nel lavoro privato e nel pubblico impiego, in Garofoli, P.-Liberati, A., a cura di, La responsabilità della pubblica amministrazione e dei suoi dipendenti, Milano, 2005, II, 848 ss.).
La minuziosa procedura di cui al t.u. è stata superata dal d.lgs. 23.12.1993, n. 546, correttivo del d.lgs. 3.2.1993, n. 29, che è intervenuto a regolamentare il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari (art. 27, co. 4-9, d.lgs. n. 546/1993), espressamente prevedendo la devoluzione al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, delle controversie riguardanti il rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche in materia di sanzioni disciplinari (art. 33 d.lgs. n. 546/1993) ed introducendo il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, finalizzato a formulare prescrizioni volte a specificare il contenuto dei doveri del dipendente così da superare la genericità delle previsioni contenute nel citato t.u. (art. 26 d.lgs. n. 546/1993).
Il processo di “privatizzazione” della materia disciplinare è stato completato con l’art. 55 d.lgs. 30.3.2001, n. 165, poi sostituito dall'art. 68 d.lgs. 27.10.2009, n. 150, che al co. 2, ha richiamato l’art. 2106 c.c. per esprimere il principio della gradualità delle sanzioni, le quali devono essere progressivamente crescenti in relazione alla gravità della condotta posta in essere; principio questo posto a tutela della dignità del lavoratore e che deve essere coniugato con la necessaria procedimentalizzazione del potere disciplinare, «nel senso che l’addebito mosso al lavoratore deve essere sempre filtrato da un procedimento disciplinare di talché la sanzione non può che conseguire ad un apprezzamento della gravità dell’addebito, per essere a questo proporzionale» (Zappia, P., op. cit., 880)
Il principio di proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto all’infrazione contestata era stato peraltro già riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa anche nel previgente ordinamento pubblicistico, risultando sindacabile l’irrogazione della sanzione sotto il profilo dell’eccesso di potere (cfr. Cons. St., sez. IV, 3.2.1998, n. 166).
Ora, attraverso la previsione esplicita dell’applicabilità dell’art. 2106 c.c. al rapporto di lavoro pubblico, il principio di proporzionalità è divenuto canone fondamentale per determinare la entità della sanzione da applicare (Cass., sez. lav., 27.8.2014, n. 18418; TAR Salerno, sez. II, 22.3.2001, n. 309, in Ragiusan 2002, 220-1, 476 ; Trib. Cosenza, 15.5.2000, in Giust. civ., 2001, I, 259).
Uno dei principi generali che hanno caratterizzato il procedimento disciplinare è il principio del contraddittorio, imposto dal rispetto e dalla garanzia del diritto di difesa del dipendente.
Già nell’art. 103 t.u., era previsto che l’amministrazione venuta a conoscenza di una possibile infrazione disciplinare commessa da un dipendente, doveva contestare “subito” allo stesso i fatti addebitati. La contestazione degli addebiti doveva indicare la specifica natura della condotta e del profilo sotto cui la stessa veniva addebitata.
La citata norma del t.u. indicava una regola di ragionevole prontezza e tempestività della contestazione da valutarsi caso per caso in relazione alla gravità della violazione ed alla complessità degli accertamenti preliminari ed esprimeva un principio generale che vieta di ritardare, compiuti gli accertamenti del caso, la contestazione al dipendente.
L’art. 55 del d.lgs. n. 165/2001 ha previsto che ogni provvedimento disciplinare, ad eccezione del rimprovero verbale, debba essere adottato previa «tempestiva contestazione scritta dell’addebito» al dipendente, espressione più cogente rispetto a quella utilizzata nell’art. 103 t.u., per evitare che il diritto di difesa dell’incolpato possa essere reso più gravoso a causa dell’eccessivo lasso di tempo intercorso rispetto al verificarsi degli eventi; tale esigenza deve essere tuttavia mediata da quella diversa di consentire all’amministrazione datore di lavoro una corretta valutazione del comportamento disciplinarmente rilevante del dipendente.
Il procedimento disciplinare è oggi regolato dall’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001, come modificato dal d.lgs. 25.5.2017, n. 75, che, con riferimento al principio in esame, dispone: «il responsabile della struttura presso cui presta servizio il dipendente, segnala immediatamente, e comunque entro dieci giorni, all'ufficio competente per i procedimenti disciplinari i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare di cui abbia avuto conoscenza».
La giurisprudenza ha ritenuto che l’immediatezza della contestazione debba essere valutata in senso relativo, non in relazione al materiale accadimento del fatto addebitato, bensì in relazione alla conoscenza che di esso abbia avuto il datore di lavoro (Cass., sez. lav., 21.2.2017, n. 4447; Cass., sez. lav., 27.6.2017, n. 15966; Cass., sez. lav., 25.1.2016, n. 1248).
Oltre al principio della immediatezza, devono ritenersi confermati nel settore del lavoro pubblico contrattualizzato anche i principi della specificità ed immutabilità della contestazione degli addebiti, formatisi in relazione al rapporto di lavoro privato, poiché si tratta di principi di civiltà giuridica che consentono al lavoratore di formulare una specifica difesa in relazione agli addebiti a lui mossi e garantiscono al medesimo che l’oggetto della contestazione non potrà subire modificazioni nel corso del procedimento (Cass., sez. lav., 9.6.2016, n. 11868; Trib. Nocera Inferiore, 5.5.2011, in Lav. giur., 2011, 8, 851; Cass., sez. lav., 30.6.2005, n. 13998).
Il d.lgs. n. 75/2017, intervenendo sull’art. 55 bis cit., ha individuato altresì l’autorità competente e le fasi essenziali del procedimento disciplinare, apportando ad esso significative modifiche.
Con riferimento al soggetto titolare del potere disciplinare, è previsto che, per le infrazioni di minore gravità per le quali è prevista la sanzione del rimprovero verbale, la competenza spetta al responsabile della struttura presso cui il dipendente presta servizio, secondo le procedure stabilite dal contratto collettivo.
Per tutte le restanti infrazioni, punite con sanzioni diverse dal mero rimprovero verbale, la competenza è in capo all’ufficio per i procedimenti disciplinari, che ciascuna amministrazione deve individuare secondo il proprio ordinamento e attribuire ad esso la titolarità e la responsabilità della materia.
È previsto che le amministrazioni possano stipulare convenzioni per la gestione unificata delle funzioni dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, senza l’assunzione di ulteriori oneri per la finanza pubblica.
Al di fuori dei casi di licenziamento senza preavviso, previsti dall’art. 55 quater, co. 3-bis e 3-ter, (fattispecie di falsa attestazione della presenza in servizio), il procedimento disciplinare si avvia con la segnalazione da parte del responsabile della struttura presso cui presta servizio il dipendente dei fatti ritenuti di rilevanza disciplinare di cui abbia avuto conoscenza, da effettuarsi “immediatamente” e, comunque, entro dieci giorni, all’ufficio competente per i procedimenti disciplinari.
L’ufficio per i procedimenti disciplinari provvede “con immediatezza” e, comunque, non oltre il termine di trenta giorni (termine perentorio) dal ricevimento della predetta segnalazione, ovvero dal momento in cui abbia altrimenti avuto piena conoscenza dei fatti, alla contestazione scritta dell’addebito ed alla convocazione del dipendente interessato, con un preavviso di almeno venti giorni (termine dilatorio), per l’audizione in contraddittorio a sua difesa.
Il dipendente in tale sede può farsi assistere da un procuratore o da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o alla quale abbia conferito mandato.
Con riferimento al dies a quo per l’attivazione del procedimento disciplinare, esso decorre dalla conoscenza piena dei fatti ritenuti di rilevanza disciplinare, deve trattarsi cioè non di una mera notizia o di una informazione incompleta, bensì di una esatta percezione di tutti gli elementi che possono integrare un’ipotesi di illecito disciplinare (Cass., sez. lav., 2.3.2007, n. 4932).
Il procedimento disciplinare deve concludersi con l’adozione dell’atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione, entro il termine di centoventi giorni (termine perentorio) dalla contestazione dell’addebito.
Il termine per la conclusione del procedimento si realizza con l’assunzione della determinazione di irrogare la misura sanzionatoria o di archiviare l’azione disciplinare; la successiva fase della comunicazione di essa al dipendente, pure se necessaria in quanto trattasi di atto recettizio, rimane estranea alla conclusione del procedimento e pertanto non incide sui termini di svolgimento del medesimo.
La disposizione in esame prevede che gli atti di avvio e di conclusione del procedimento disciplinare, nonché l’eventuale provvedimento di sospensione cautelare del dipendente, devono essere comunicati dall’ufficio competente di ciascuna amministrazione, per via telematica, all’Ispettorato per la funzione pubblica, entro venti giorni dalla loro adozione. Per esigenze di tutela della riservatezza del dipendente, il suo nominativo è sostituito da un codice identificativo che rende anonimo il riferimento contenuto nella comunicazione.
La comunicazione di contestazione dell’addebito al dipendente nell’ambito del procedimento disciplinare si effettua tramite posta elettronica certificata, nel caso in cui il dipendente dispone di idonea casella di posta, ovvero tramite consegna a mano. In alternativa all’uso della posta elettronica certificata o della consegna a mano, le comunicazioni sono effettuate tramite raccomandata postale con ricevuta di ritorno.
In ossequio al principio dell’alternatività delle forme di comunicazione, quelle successive alla contestazione dell’addebito possono avvenire tra l’amministrazione ed i propri dipendenti attraverso la posta elettronica o altri strumenti informatici di comunicazione, ai sensi dell’art. 47, co. 3, secondo periodo, del d.lgs. n. 82/2005, che ne prevede l’utilizzo nel rispetto delle norme in materia di protezione dei dati personali e previa informativa agli interessati in merito al grado di riservatezza degli strumenti utilizzati (art. 55 bis, co. 5, d.lgs. n. 165/2001).
La norma in esame ridefinisce le modalità di svolgimento del procedimento disciplinare in caso di trasferimento del dipendente ad altra amministrazione, introdotte dal d.lgs. n. 150/2009 e stabilisce che, qualora l’amministrazione di provenienza sia venuta a conoscenza dell’illecito disciplinare successivamente al trasferimento del dipendente presso altro ente, la medesima provvede a segnalare immediatamente e, comunque, entro 20 giorni dall’avvenuta conoscenza degli elementi costituenti l’illecito, i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare all’ufficio per i procedimenti disciplinari dell’amministrazione presso cui il dipendente è stato trasferito; dalla data di ricezione della predetta segnalazione, decorrono i termini per la contestazione dell’addebito e per la conclusione del procedimento disciplinare (art. 55 bis, co. 8, d.lgs. n. 165/2001).
Gli esiti del procedimento disciplinare vengono comunque comunicati anche all’amministrazione di provenienza del dipendente.
In ipotesi di trasferimento del dipendente ad altra amministrazione in pendenza di procedimento disciplinare attivato dall’ente di provenienza, è previsto l’onere in capo all’ufficio per i procedimenti disciplinari dell’amministrazione di provenienza di trasmettere tempestivamente il fascicolo del procedimento relativo al dipendente trasferito all’ufficio per i procedimenti disciplinari di quella di destinazione.
In tali casi il procedimento è interrotto per cui i nuovi termini di attivazione e di conclusione del procedimento decorrono dalla data di ricezione del relativo fascicolo.
L’art. 55 bis, al co. 9, dispone che la cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare, salvo il caso in cui per l’infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento o, comunque, sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio del dipendente.
Nelle indicate fattispecie sono comunque assunte le determinazioni conclusive del procedimento disciplinare, pur in assenza dell’attualità del rapporto di lavoro, ai fini degli effetti giuridici ed economici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro, quali, ad esempio, l’impossibilità di contrarre nuovamente un rapporto di lavoro con la p.a.
Particolare menzione meritano le disposizioni volte a garantire l’effettività del procedimento disciplinare (co. 9-bis, 9-ter, 9-quater dell’art. 55 bis d.lgs. n. 165/2001) in base alle quali i vizi del procedimento e dunque la violazione dei termini e delle disposizioni che lo disciplinano, ferma l’eventuale responsabilità del dipendente cui essi siano imputabili, non determinano la decadenza dall’azione disciplinare, né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente e sempre che le modalità di esercizio dell’azione disciplinare – anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto – risultino comunque compatibili con il principio di tempestività.
Su tali ultime disposizioni, che sembrano realizzare un inasprimento sanzionatorio poiché generalizzano il principio di derubricazione dei vizi formali a motivi che non comportano la decadenza della p.a. dall'azione disciplinare, il Consiglio di Stato aveva espresso un giudizio fortemente critico (parere n. 916, reso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato il 21.4.2017), suggerendo al Governo «la conservazione della natura perentoria almeno dei due termini di inizio e di fine del procedimento».
Tale ultima raccomandazione è stata accolta tanto che nel nuovo art. 55 bis, co. 9-ter, è stata inserita una clausola per cui sono da considerarsi comunque perentori il termine per la contestazione dell'addebito e quello per la conclusione del procedimento.
Come lo stesso Organo consultivo ha rilevato (cfr. parere n. 916/2017 cit.), «il procedimento disciplinare costituisce lo strumento non già per l’esercizio di un potere amministrativo in generale, bensì del potere disciplinare, che è una species del genus potere punitivo, ed è, pertanto, circondato da una serie di inderogabili esigenze di tutela della dignità e della libertà del dipendente».
La natura perentoria del termine per la contestazione dell’addebito (termine iniziale) nonché del termine per la conclusione del procedimento disciplinare (termine finale) garantisce la certezza delle posizioni giuridiche coinvolte dal procedimento e la necessità del tempestivo esperimento del medesimo ed ha la funzione di mantenere il nesso causale tra azione e reazione disciplinare, che costituisce fondamento dell’applicazione della misura sanzionatoria, in termini di percezione educativa del disvalore della condotta tenuta dal lavoratore.
Nell’ambito del rinnovato art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001 è prevista infine la nullità delle disposizioni di regolamento o interne comunque qualificate, nonché delle clausole contrattuali che prevedano per l’irrogazione di sanzioni disciplinari requisiti formali e procedurali ulteriori rispetto a quelli indicati per legge o che, comunque, aggravino il procedimento disciplinare.
La sospensione cautelare dal servizio, pur consistendo in un provvedimento in genere connesso all’instaurazione di un procedimento penale o disciplinare nei confronti dell’impiegato, viene adottata dalla p.a. indipendentemente ed autonomamente dal procedimento parallelamente intrapreso poiché ha una finalità particolare, non confondibile con quelle delle sanzioni punitive; ossia quella di allontanare immediatamente dal servizio l’impiegato quando vi sia pericolo che la sua ulteriore permanenza nell’organizzazione dell’ufficio possa arrecare danno agli interessi dell’amministrazione e ciò sia con riferimento alla regolarità del servizio sia riguardo al prestigio dell’amministrazione stessa (Esposito, M., Il potere disciplinare, in Rusciano, M.-Zoppoli, L., a cura di, Il lavoro pubblico, Bologna, 1993, 564).
La procedura per l’irrogazione della sospensione cautelare, sia facoltativa che obbligatoria, è semplificata proprio per potersi dare immediata esecuzione al provvedimento di natura precauzionale. Non si applica il principio del contraddittorio ed il provvedimento di sospensione può essere disposto sulla base di una cognizione sommaria che non richiede una approfondita ed esaustiva motivazione. La giurisprudenza, però, in relazione alla sospensione facoltativa, basata su una valutazione del tutto discrezionale e non collegata, diversamente da quella obbligatoria, a vicende dotate di specifica rilevanza penale, ha richiesto una più rigorosa esplicitazione delle considerazioni che hanno spinto l’amministrazione ad emettere il provvedimento di sospensione, tale da dimostrare la sussistenza del grave pregiudizio (TAR Marche, 9.5.2002, n. 362; Cons. St., sez. V, 24.2.1999, n. 199).
La disciplina della sospensione cautelare, contenuta negli artt. 91 e seguenti del t.u., è stata applicata a tutto il settore del pubblico impiego fino a quando la regolamentazione dell’istituto non è stata rimessa ai contratti collettivi nazionali di comparto (si ricorda a tal proposito che l’art. 3 d.lgs. n. 165/2001 ha escluso dalla cd. “privatizzazione” del rapporto di lavoro alcune categorie di dipendenti pubblici, in considerazione delle attività svolte o delle funzioni esercitate, stabilendo che le stesse rimangono disciplinate dai rispettivi ordinamenti; per tali categorie è rimasto immutato l’assetto complessivo del sistema delle fonti di disciplina propria dei relativi rapporti d’impiego).
La rimessione della regolamentazione dell’istituto alla disciplina negoziale ha confermato la natura privatistica del provvedimento di sospensione cautelare, quale espressione del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro nelle more dell’accertamento di eventuali responsabilità disciplinari o penali del dipendente.
L’art. 3 della l. 27.3.2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), recepito nelle disposizioni contrattuali, ha introdotto ulteriori strumenti cautelari e, in particolare ha previsto per i dipendenti pubblici rinviati a giudizio per alcuni tassativi reati contro la p.a., elencati nello stesso art. 3, il trasferimento ad ufficio diverso da quello in cui l’interessato prestava servizio al momento del fatto, con attribuzione di funzioni corrispondenti, per inquadramento, mansioni e prospettive di carriera, a quelle svolte in precedenza (Cass., sez. lav., 10.6.2016, n. 11988).
Se per la qualifica rivestita o per obiettivi motivi organizzativi non sia possibile effettuare il trasferimento d’ufficio, il dipendente può essere posto in aspettativa o in disponibilità con diritto alla conservazione del trattamento economico, ad eccezione di quello correlato alle presenze in servizio.
A fronte dell’esistenza dei presupposti normativi per adottare la misura della sospensione obbligatoria, l’amministrazione non ha alcuna discrezionalità nell’apprezzare la gravità dei fatti, ma deve immediatamente disporre tale misura.
Tali presupposti ricorrono allorché il dipendente pubblico sia colpito da misura restrittiva della libertà personale e ciò per tutta la durata dello stato della detenzione o comunque dello stato restrittivo della libertà.
Altra ipotesi di sospensione obbligatoria è prevista, dall’art. 4 della l. n. 97/2001, nei casi di condanna anche non definitiva per alcuni tassativi reati contro la p.a. (artt. 314, 317, 318, 319, 319 ter, 320, c.p. e art. 3, l. 9.12.1941, n. 1383), trattasi di una forma di tutela cautelare “avanzata” (Tenore, V., Studio sul procedimento disciplinare nel pubblico impiego, Milano, 2017, 565).
Ipotesi di sospensione obbligatoria dal servizio del dipendente è, altresì, quella di cui all’art. 289 c.p.p., in base alla quale il giudice penale può disporre la sospensione temporanea da un pubblico ufficio o servizio, relativamente ad alcune o a tutte le attività cui il dipendente è addetto, per finalità cautelari o probatorie connesse al processo ed alla prevenzione di nuovi reati; in tale ipotesi l’amministrazione dovrà limitarsi ad ottemperare al provvedimento giurisdizionale.
Tale ipotesi di sospensione cautelare giudiziale va, a sua volta, distinta dall’istituto della interdizione temporanea dai pubblici uffici, previsto dagli artt. 19 e 20 c.p., il quale consiste invece in una pena accessoria, che consegue di diritto ad alcune condanne penali.
L’istituto della sospensione facoltativa in materia disciplinare risponde ad esigenze cautelari e di tutela del prestigio, dell’imparzialità e dell’immagine interna ed esterna della amministrazione nonché alla necessità di consentire i riscontri istruttori necessari per l’accertamento dei fatti.
La prima ipotesi di sospensione facoltativa in pendenza di procedimento penale, riguarda il caso del dipendente che sia sottoposto a procedimento penale per fatti direttamente attinenti al rapporto di lavoro o comunque tali da comportare, se accertati, l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento; la seconda concerne invece il caso del dipendente già sottoposto a sospensione obbligatoria, in quanto colpito da misura restrittiva della libertà personale che, una volta cessato da tale stato di restrizione, sia destinatario di sospensione facoltativa fino alla sentenza definitiva, ma ciò solo ove ricorrano le condizioni poste alla base della prima ipotesi di sospensione facoltativa (Cass., sez. lav., ord., 19.7. 2017, n. 17769; Cass., sez. lav., 12.10.2016, n. 20544; Cass., sez. lav., 4.6.2014, n. 12560).
La revoca consegue automaticamente a seguito del decorso di cinque anni dall’adozione della misura della sospensione facoltativa o obbligatoria in pendenza di giudizio penale.
I contratti collettivi hanno, tuttavia, previsto una possibile durata ultraquinquennale in alcune tassative ipotesi, nelle quali l’amministrazione ritenga che la permanenza in servizio del dipendente provochi un pregiudizio alla credibilità della stessa, a causa del discredito che da tale permanenza potrebbe derivarle da parte dei cittadini o comunque per ragioni di opportunità e operatività dell’amministrazione stessa.
Il prolungamento oltre il quinquennio è comunque limitato ai soli fatti che possono dar luogo al licenziamento e richiede una congrua motivazione in ordine al pregiudizio alla credibilità della p.a.; l’estensione della durata della sospensione è sottoposta a revisione con cadenza biennale.
Accanto alle indicate ipotesi di sospensione facoltativa, si collocano quelle che possono realizzarsi in corso di procedimento disciplinare, quando è necessario espletare accertamenti su fatti addebitati al dipendente a titolo di infrazione disciplinare, punibili con la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione.
Tale sospensione cautelare facoltativa ha durata non superiore a trenta giorni.
In tutte le ipotesi di sospensione facoltativa l’amministrazione ha facoltà di revocare il provvedimento qualora non ritenga più sussistenti le originarie esigenze cautelari.
Un problema che è stato ampiamente dibattuto concerne la cd. “restitutio in integrum” del dipendente sospeso cautelarmente, che si verifica nel caso in cui il procedimento penale si concluda con formula assolutoria, ove non venga adottata alcuna sanzione disciplinare o questa non assorba il periodo di sospensione cautelare patita; in tali casi il dipendente ha diritto alla "restitutio in integrum" per il periodo di sospensione cautelare sofferto in eccedenza, tranne gli emolumenti connessi all'effettiva prestazione del servizio e detratto l'importo dell'assegno alimentare goduto (Cass., sez. lav., 28.8.2017, n. 20454; Cass., sez. lav., ord., 28.7.2017, n. 18849; Cass., sez. lav., 11.4.2017, n. 9304).
La questione si è peraltro parzialmente ridimensionata all’esito del d.lgs. n. 150/2009 che è intervenuto a superare la pregiudiziale penale, prevedendo che il procedimento disciplinare possa proseguire e concludersi anche in pendenza di procedimento penale e ciò dovrebbe consentire una contrazione delle misure di sospensione cautelare.
La disciplina dei rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale è contenuta nell’art. 55 ter del d.lgs. n. 165/2001 che, sebbene modificato ad opera del d.lgs. n. 75/2017, ha comunque ribadito la precedente disciplina in tema di superamento della pregiudiziale penale poiché è previsto che «il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale» ed anzi l’autonomia del procedimento disciplinare viene ampliata attraverso la previsione della possibilità per l’amministrazione di riattivare il procedimento disciplinare sospeso anche a fronte di un provvedimento giurisdizionale non definitivo (art. 55 ter, co. 1, penultimo periodo, d.lgs. n. 165/2001).
Il procedimento disciplinare può essere sospeso dal competente ufficio per i procedimenti disciplinari, limitatamente alle infrazioni per le quali è applicabile una sanzione superiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni, nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando, all’esito dell’istruttoria, detto ufficio non disponga di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione.
Deve trattarsi dunque di fattispecie disciplinari gravi in ordine alle quali l’accertamento dei fatti risulta di particolare complessità per le modalità di verifica delle condotte e delle relative circostanze ovvero allorché a conclusione dell’istruttoria condotta non siano stati acquisiti elementi probatori idonei alla irrogazione della sanzione disciplinare. Trattandosi dell’esercizio di un potere straordinario che viene concesso all’ufficio competente, la sospensione deve essere adeguatamente motivata in ordine alle ragioni che hanno indotto a disporla.
Il procedimento disciplinare sospeso può essere riattivato qualora l’amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, acquisiti in qualsiasi modo anche in costanza di sospensione e sufficienti per la conclusione del procedimento, ivi incluso, come sopra riferito, un provvedimento giurisdizionale non definitivo e, dunque, senza la necessità di attendere l’esito del giudicato penale.
Il procedimento disciplinare sospeso è riattivato successivamente alla pronuncia del giudice penale attraverso il rinnovo della contestazione degli addebiti, entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza ovvero dal ricevimento dell’istanza di riapertura e si applicano ad esso i termini generali, previsti dall’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001, che decorrono nuovamente ed integralmente, per la sua conclusione (centoventi giorni).
Ai fini delle determinazioni conclusive, l’ufficio per i procedimenti disciplinari applica nel procedimento riattivato le disposizioni di cui all’art. 653, co. 1 e 1-bis del c.p.p. in tema di efficacia della sentenza penale nel giudizio disciplinare, secondo cui la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso e la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso (l’art. 653 c.p.p. è stato così modificato dalla l. n. 97/2001 per evitare i cd. “automatismi espulsivi).
In materia di impugnazioni delle decisioni disciplinari, nel sistema previgente alla riforma del 2009, in aggiunta alla tutela giurisdizionale, era previsto il ricorso allo strumento arbitrale sia dinanzi ai collegi arbitrali di disciplina sia innanzi ai collegi di conciliazione (testo previgente art. 55 e art. 56, abrogato, d.lgs. n. 165/2001).
Il d.lgs. n. 150/2009 ha sancito l’abolizione delle commissioni arbitrali di disciplina ed ha stabilito che in sede di contrattazione collettiva non possano essere più istituite procedure di impugnazione di sanzioni disciplinari (art. 55, co. 3, d.lgs. n. 165/2001); i contratti collettivi hanno soltanto la facoltà di disciplinare procedure di conciliazione non obbligatoria da instaurarsi e concludersi entro un termine non superiore a trenta giorni dalla contestazione dell’addebito e comunque prima dell’irrogazione della sanzione.
In caso di applicazione concordata, la sanzione, che non può essere di specie diversa da quella prevista dalla legge o dal contratto collettivo per l’infrazione per la quale si procede, non è soggetta ad impugnazione.
La tutela giurisdizionale in materia di impugnativa di sanzioni disciplinari è naturalmente sempre ammissibile; diversamente da quanto si verificava con riferimento alla tutela arbitrale, essa non comporta alcuna automatica sospensione del provvedimento impugnato.
In tema di tutela dei diritti connessi al rapporto di lavoro, il d.lgs. n. 74/2017 ha apportato significative modifiche all’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001; in particolare, al co. 2 del citato art. 63 sono stati aggiunti alcuni periodi finalizzati a disciplinare le conseguenze del licenziamento illegittimamente disposto nei confronti del pubblico dipendente ed è stata prevista, al nuovo co. 2-bis, la possibilità per il giudice, nel solo caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità di rideterminare la sanzione in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato.
Nel co. 2 dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001 è previsto che il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanni l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione e, comunque, in misura non superiore a ventiquattro mensilità; da tale importo va tuttavia dedotto quanto il lavoratore abbia eventualmente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative.
Il datore di lavoro è anche condannato, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per il dipendente pubblico illegittimamente licenziato. Dall’entrata in vigore della nuova disposizione in tutte le ipotesi di licenziamento illegittimo al dipendente pubblico si applicherà la cosiddetta tutela reale.
La disposizione in commento, va precisato, si riferisce ad ogni tipo di licenziamento; pertanto, non solo a quello disciplinare, ma anche a quello per giusta causa e per giustificato motivo o alle altre ipotesi previste dalla contrattazione collettiva; ogni qual volta il licenziamento disposto nei confronti del dipendente pubblico è dichiarato nullo o annullato, ad esso va riconosciuto il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.
In relazione a tale disposizione, nel menzionato parere n. 916/2017 del Consiglio di Stato, è stato osservato che la tutela reale del pubblico dipendente dovrebbe essere garantita anche rispetto alla violazione di regole formali e procedimentali nel procedimento disciplinare, a differenza di quanto è previsto per il lavoratore privato, che vede riconosciuta, in questa ipotesi, solo una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, ai sensi del novellato art. 18, co. 6, st. lav.
Tale considerazione deve essere analizzata insieme a quelle, già riferite, svolte dallo stesso Organo consultivo in relazione alla previsione della derubricazione dei vizi formali a motivi che non comportano la decadenza della p.a. dall’azione disciplinare e al venir meno della perentorietà dei termini del procedimento disciplinare di cui al co. 9-ter dell’art. 55 bis cit., secondo cui: «la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare, previste dagli articoli da 55 a 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2011, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività».
Il Consiglio di Stato ha rilevato come il corretto esercizio del diritto punitivo, nel cui ambito rientra a pieno titolo il potere disciplinare, corrisponda ad un valore di rango costituzionale, anche per gli effetti che esso comporta sulla dignità del lavoratore quale persona. In tale ottica non possono considerarsi, ad avviso della Commissione speciale, un giusto contemperamento degli interessi in gioco la eliminazione del principio della perentorietà dei termini del procedimento disciplinare e la dequotazione dei vizi formali del procedimento.
In sede di emanazione definitiva del decreto, in recepimento delle osservazioni formulate, è stato introdotto, come innanzi esposto, un ulteriore periodo nel citato co. 9-ter volto a precisare la natura perentoria dei termini per la contestazione dell’addebito e per la conclusione del procedimento.
Nulla è stato però previsto in ordine alla previsione per la quale i vizi formali del procedimento non producono la decadenza dall’azione disciplinare.
Sul punto si è sostenuto che il legislatore delegato abbia operato un bilanciamento tra i principi di legalità, certezza e tempestività che caratterizzano l’azione disciplinare con quello di effettività della punizione del dipendente colpevole, avente pari valore e, peraltro, coerente con la norma di delega che, tra i principi e criteri direttivi, poneva l’«introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l'esercizio dell'azione disciplinare» (Magri, M., Il lavoro pubblico tra sviluppo ed eclisse della “privatizzazione”, in Giorn. dir. amm., 2017, 5, 581).
Ulteriore modifica è quella che ha aggiunto all’art. 63 d.lgs. n. 165/2001 il co. 2-bis, con il quale si attribuisce al giudice il potere di rideterminare la sanzione disciplinare annullata per difetto di proporzionalità.
Anche tale innovazione risponde ai rilievi che il Consiglio di Stato, in occasione del sopra menzionato parere, aveva espresso a proposito dell’introduzione del potere del datore di lavoro pubblico di riaprire il procedimento disciplinare in caso di annullamento della sanzione per difetto di proporzionalità, previsto da un ipotetico co. 9-quater dell’art. 55 bis, d.lgs. n. 165 /2001, espunto all’esito di tali rilievi.
L’Organo consultivo aveva infatti osservato che bisognava eliminare la disposizione poiché essa avrebbe realizzato una violazione della regola, applicabile a tutto il diritto punitivo, del ne bis in idem, ed aveva suggerito di conferire direttamente in capo al giudice del lavoro il potere di mutare il titolo della sanzione da applicare.
Fonti normative
Artt. 2104, 2105, 2106 c.c.; artt. 314, 317, 318, 319, 319 ter, 320, c.p.; art. 3, l. 9.12.1941, n. 1383; artt. 19 e 20 c.p.; art. 289 c.p.p.; art. 653 c.p.p.; artt. 78-133, d.P.R. 10.1.1957, n. 3; artt. 7 e 18, l. 20.5.1970, n. 300; d.lgs. 3.2.1993, n. 29; d.lgs. 23.12.1993, n. 546; l. 27.3.2001, n. 97; d.lgs. 30.3.2001, n. 165; l. 4.3.2009, n. 15; d.lgs. 27.10.2009, n. 150; l. 7.8.2015, n. 124; d.lgs. 20.6.2016, n. 116; d.lgs. 25.5.2017, n. 75.
Bibliografia essenziale
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