Abstract
Partendo dall’analisi del potere disciplinare nell’impiego pubblico prima della riforma di cui al d.lgs. 3.2.1993, n. 29, si analizzano le diverse fasi legislative che negli anni novanta del secolo scorso hanno condotto all’affermazione della sua natura contrattuale nonché le normative successivamente intervenute. Illustrate le sanzioni previste dalla contrattazione collettiva per le violazioni disciplinarmente rilevanti dei dipendenti pubblici “privatizzati”, si esaminano gli interventi sul codice disciplinare, realizzati dalla riforma del 2009 (cd. “Brunetta”) e dai decreti attuativi della l 7.8.2015, n. 124 (cd. “Madia”) anche con riferimento alle infrazioni disciplinari cui è collegata la sanzione del licenziamento disciplinare.
Il potere disciplinare può essere identificato come la potestà che un soggetto ha di imporre ad altri l’osservanza di un complesso di regole poste per il conseguimento dei fini di una certa istituzione.
Il campo tradizionale in cui si manifestano i doveri di natura disciplinare è quello dell’impiego pubblico.
La violazione dei doveri che un impiegato ha verso la p.a. realizza un illecito che comporta l’applicazione nei suoi confronti di sanzioni di natura disciplinare e disciplinari sono, altresì, qualificati l’illecito e la relativa responsabilità.
Il potere disciplinare deriva dal rapporto di servizio ed ha la funzione di mantenere l’ordine e la disciplina nello svolgimento di tale rapporto, assicurando l’adempimento dei doveri d’ufficio.
A differenza del diritto penale, fondato su un potere di supremazia generale, quello disciplinare non si attua a causa del verificarsi di condotte vietate esplicitamente da una norma di legge sotto la comminatoria di una sanzione, ma per qualunque fatto o comportamento che si manifesti come violazione di un dovere da parte di un impiegato ovvero non risulti confacente alla dignità dell’ufficio.
Si è detto che il potere disciplinare è posto a tutela di interessi che sono scelti e stabiliti dall’ordinamento giuridico e mutano in relazione al tipo di rapporto esistente tra il singolo e la p.a.; nell’impiego pubblico questi interessi sono rappresentati dal “buon andamento” e dall’“imparzialità” dell’attività e dell’organizzazione amministrativa, nel cui ambito sono determinate anche le responsabilità proprie dei funzionari, a norma dell’art. 97 Cost.
A fondamento del potere disciplinare è stato poi evocato l’art. 98 Cost., il quale stabilisce che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione e tale principio è stato posto in relazione sia a quelli contenuti nel predetto art. 97 Cost. sia all’art. 54, co. 2, Cost., nella parte in cui è stabilito il dovere di adempiere con fedeltà ed onore le funzioni pubbliche.
La rilevanza degli interessi coinvolti aveva giustificato la tradizionale indeterminatezza della materia disciplinare, nell’ambito della quale era ritenuto inapplicabile ovvero applicabile in modo attenuato ad essa il principio, vigente invece in materia penale, nullum crimen sine lege; tale assetto deve ritenersi superato dopo che la legge-quadro del pubblico impiego, l. 29.3.1983, n. 93, all’art. 22, aveva stabilito che «Il dipendente che contravviene ai doveri del proprio ufficio è soggetto alle sanzioni disciplinari previste dalla legge solo per atti che rientrano in categorie determinate», limitando in tal modo l’ambito di discrezionalità dell’amministrazione alla qualificazione del comportamento del dipendente.
Fino alla cd. “privatizzazione” del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, frutto delle riforme intervenute negli anni novanta del secolo scorso, nell’ambito delle molteplici teorie sul fondamento del potere disciplinare (per una complessiva ricognizione di esse, cfr. Tenore, V., Studio sul procedimento disciplinare nel pubblico impiego, Milano, 2017, 34 ss.), è risultata prevalere la concezione tradizionale, secondo cui il fondamento giuridico del potere disciplinare si rinviene nella cd. “supremazia speciale”, che deriva direttamente dallo Stato. Tale potere risulta finalizzato sia alla tutela del bene specifico al corretto adempimento della prestazione lavorativa sia, soprattutto, alla protezione del bene generale costituito dalla onorabilità, correttezza, imparzialità e buon andamento della amministrazione.
Diversamente dal lavoro privato, che si configura come un rapporto giuridico bilaterale, il cui contenuto è costituito da una serie di diritti ed obblighi che gravano su entrambe le parti, il rapporto di lavoro di pubblico impiego era considerato non come una relazione paritaria, bensì quale relazione di mera soggezione del dipendente nei confronti del soggetto pubblico che gestisce il rapporto.
Tale concezione di specialità, tipica ed esclusiva del pubblico impiego, ha comportato che l’esercizio del potere disciplinare, derivando unilateralmente dallo Stato anziché dal contratto, sia stato considerato una forma di espressione della relazione gerarchica e che le sanzioni disciplinari siano state irrogate sulla base di una potestà punitiva diretta ed immediata della p.a. a contenuto fortemente discrezionale.
L’art. 2 l. 23.10.1992, n. 421, ha dato inizio alla trasformazione del pubblico impiego, il successivo d.lgs. 3.2.1993, n. 29, ha previsto che i rapporti di lavoro dei dipendenti dell’amministrazione pubblica siano disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del c.c. e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa.
Si è così realizzata quella che è stata definita “una sorta di mutazione genetica” del rapporto di pubblico impiego e, in particolare, è stato previsto che nelle materie soggette alla disciplina del c.c., delle leggi sul lavoro e dei contratti collettivi le pubbliche amministrazioni operino con i poteri del privato datore di lavoro.
La prestazione di lavoro del dipendente pubblico non si svolge, pertanto, più tramite l’esercizio dei poteri di supremazia speciale della p.a., ma sulla base di una relazione di astratta parità, sicché, analogamente a quello che avviene nel rapporto di lavoro privato, essa è regolata solo dalle fonti dianzi ricordate.
L’art. 2, co. 1, lett. c), l. n. 421/1992, annoverava tra le materie soggette a riserva di legge e quindi sottratte alla privatizzazione «le responsabilità giuridiche attinenti ai singoli operatori nell’espletamento delle procedure amministrative» (n.1) e la «disciplina delle responsabilità» (n. 7); sembrava, dunque, che il legislatore volesse mantenere la fonte pubblicistica anche per la responsabilità disciplinare; la normativa successivamente intervenuta si è, invece, orientata in modo opposto. Il modello pubblicistico del potere disciplinare esercitato dalla p.a. ha perciò subito una radicale trasformazione attraverso la riconduzione sia dell’illecito disciplinare nell’area dell’inadempimento contrattuale sia dell’estensione ai pubblici impiegati del sistema disciplinare previsto dall’art. 2106 c.c. e dall’art. 7 l. 20.5.1970, n. 300, cd. Statuto dei lavoratori.
Con il primo decreto correttivo del d.lgs. n. 29/1993, il d.lgs. 23.12.1993, n. 546, il legislatore ha operato la “privatizzazione” anche della materia disciplinare, avendo disposto che ai dipendenti pubblici si applichi l’art. 2106 c.c. e l’art. 7, co. 1, 4 e 8, st. lav. e che la tipologia e l’entità delle infrazioni e delle relative sanzioni possano essere definite dai contratti collettivi (così art. 27 d.lgs. n. 546/1993, che riformula l’art. 59 d.lgs. n. 29/1993).
È solo con il d.lgs. 31.3.1998, n. 80, che si è completato il processo di uniformazione del potere disciplinare nel lavoro pubblico a quello del lavoro privato e ne è stata sancita in maniera definitiva la natura privatistica; in particolare, attraverso la modifica apportata nel corpo dell’art. 59 del d.lgs. n. 29/1993, è stato previsto che «la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi» e non più dalla legge e dai regolamenti, come tradizionalmente accadeva nell’impiego pubblico.
L’emanazione del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, ha determinato il definitivo assetto del processo di riforma poiché è in tale occasione che è stata rafforzata la natura contrattuale dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni. L’art. 5 del d.lgs. n. 165/2001 (in cui è confluito l’art. 4 del d.lgs. n. 29/1993) ha stabilito, infatti, che «le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro».
Tutti gli atti gestionali assunti nell’ambito del rapporto di lavoro, compresi quelli di esercizio del potere disciplinare, hanno, dunque, natura negoziale; ne consegue che l’esercizio del potere disciplinare avviene attraverso la emanazione di atti negoziali mediante i quali si attua il diritto potestativo del datore di lavoro di incidere sulla sfera giuridica del dipendente.
L’intervento della contrattazione collettiva, che ha disciplinato organicamente la materia disciplinare ha avuto quale conseguenza immediata l’automatica disapplicazione della preesistente normativa di stampo pubblicistico, ai sensi dell’art. 69, co. 1, d.lgs. n. 165/2001.
La norma cardine in materia di responsabilità disciplinare era, a questo punto, rappresentata dall’art. 55 d.lgs. n. 165/2001, che ha richiamato le due norme fondamentali in materia disciplinare del rapporto di lavoro privato, l’art. 2106 c.c. e l’art. 7 st. lav., ed ha previsto che il profilo centrale dell’istituto (tipologia delle infrazioni e relative sanzioni) sia disciplinato dalla contrattazione collettiva.
La natura negoziale del potere disciplinare della p.a. ha comportato la riconduzione a veri e propri obblighi contrattuali dei tradizionali doveri che prima gravavano sul dipendente pubblico in virtù del suo status di soggezione speciale nei confronti dell’amministrazione, essendo essi finalizzati ad assicurare il corretto adempimento della prestazione lavorativa.
L'affermazione del fondamento negoziale del potere disciplinare della p.a. è stata successivamente posta in crisi dal d.lgs. 27.10.2009, n. 150, che ha ridisegnato il quadro delle fonti regolative del rapporto di lavoro; in particolare, l’art. 67 del citato decreto, in materia di responsabilità disciplinare, ha inteso riassegnare un ruolo centrale alla legge, nell’intento di potenziare il livello di efficienza degli uffici pubblici attraverso il contrasto ai fenomeni di scarsa produttività ed assenteismo.
Al fine di ridurre la discrezionalità delle parti negoziali e della amministrazione, alcune delle disposizioni sono state definite di carattere inderogabile e da inserire “di diritto” nel contratto collettivo, e nel contempo sono state introdotte ex lege alcune tipologie di infrazioni disciplinari finalizzate a reprimere condotte dannose per il buon andamento dell’amministrazione.
A garanzia poi dell’esercizio effettivo del potere disciplinare, il legislatore ha vincolato i dirigenti ad avviare l’azione disciplinare attraverso la previsione di specifiche sanzioni a loro carico in caso di suo mancato esercizio o di decadenza.
L’illustrato intervento normativo, pur caratterizzandosi per una parziale discontinuità rispetto ai precedenti, non ha, però, mutato la natura giuridica del rapporto di lavoro pubblico che è rimasto assoggettato al regime privatistico, a norma dell’art. 2 del d.lgs. n. 165/2001.
La riscrittura dell’art. 55 richiama la perdurante applicabilità al lavoro pubblico dell’art. 2106 c.c. e viene espressamente previsto che il rinvio ai contratti collettivi per la definizione della tipologia di infrazioni e relative sanzioni sia subordinato al rispetto delle disposizioni che il legislatore introduce, le quali vengono qualificate come “norme imperative”, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419, co. 2, c.c.
Pur ribadendosi la permanente vigenza dei principi di proporzionalità e di tipicità delle infrazioni e sanzioni disciplinari, attraverso il richiamo all’art. 2106 c.c., con il quale è confermata la natura privatistica del potere disciplinare ed escluso il ritorno alla supremazia pubblicistica, come comprovato dalla conferma della devoluzione al giudice ordinario delle controversie in materia disciplinare, le nuove disposizioni non richiamano più le garanzie procedimentali previste dall’art. 7 st. lav. e ciò in quanto viene introdotta una compiuta disciplina del procedimento disciplinare, che lo regolamenta in maniera capillare.
Colui che viola le norme di comportamento che individuano i doveri del dipendente pubblico, commette un’infrazione disciplinare ed è soggetto alle relative sanzioni.
I predetti doveri di suddividono tradizionalmente in doveri di ufficio e doveri deontologici. La violazione dei primi è direttamente o indirettamente determinata attraverso l’individuazione del comportamento vietato ovvero del comportamento positivamente richiesto all’impiegato. La violazione dei secondi riguarda, invece, regole comportamentali concernenti l’esercizio delle funzioni svolte dall’impiegato.
Oltre al citato art. 54 Cost., tra le fonti che definivano i doveri dei dipendenti pubblici, vi erano alcune disposizioni del d.P.R. 10.1.1957, n. 3 (artt. 11-17), che imponevano l’obbligo di comportarsi con diligenza, di collaborare con superiori e colleghi, di essere da esempio ad altri dipendenti, di comportarsi in modo da favorire la fiducia e collaborazione con il pubblico, di rispettare l’ordine cronologico, di mantenere la dignità anche fuori servizio, di preservare il segreto d’ufficio ove esistente. Alcune di queste norme, sebbene non siano state espressamente abrogate, hanno perso la loro funzione con l’entrata in vigore dei contratti collettivi successivi alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici.
Norme di comportamento più dettagliate sono state stabilite nel codice di comportamento dei dipendenti delle p.a., previsto nel nostro ordinamento a partire dal decreto del Ministro per la funzione pubblica del 31.3.1994, adottato in attuazione dell’art. 58 bis del d.lgs. n. 29/1993, oggi art. 54 del d.lgs. n. 165/2001 e successivamente sostituito dal codice di comportamento di cui al d.m. 28.11.2000.
All’esito dell’introduzione di tale provvedimento si sono posti due problemi: il primo, concernente la portata giuridica del codice di comportamento ed il secondo, riguardante il coordinamento tra questo ed il codice disciplinare definito dai contratti collettivi.
Con riferimento alla prima questione, la dottrina ha per lo più escluso la natura normativa e quindi immediatamente precettiva delle disposizioni del codice di comportamento adottato unilateralmente con un atto di provenienza governativa, ciò in conformità all’indirizzo di privilegiare la fonte negoziale in materia di individuazione delle condotte sanzionabili (Mainardi, S., Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico – Sub art. 2106, in Comm. c.c. Schlesinger-Busnelli , Milano, 2002, 302).
Riguardo al problema del coordinamento tra i due codici, si era ritenuto che il contratto collettivo costituisse la fonte diretta ed esclusiva del potere disciplinare per cui alle disposizioni del codice di comportamento, ove non trasfuse in precise norme disciplinari, poteva attribuirsi un contenuto meramente etico (Gregoratti, C.- Nunin, R., Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici tra deontologia e esigenze disciplinari, in Carinci, F., - D’Antona, M., diretto da, Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, 2000, 1645).
La recente legislazione anticorruzione ha dedicato particolare attenzione alla materia disciplinare avendo considerato l’esercizio del relativo potere uno strumento per contribuire all’azione di prevenzione e contrasto della corruzione nella p.a.
In particolare, per ciò che concerne le regole di comportamento dei dipendenti pubblici, la l. 6.11.2012, n. 190 ha riscritto l’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001; sulla base di tale novella, il Governo è stato chiamato a definire un nuovo codice di comportamento con la finalità di assicurare la qualità dei servizi, prevenire i fenomeni di corruzione e garantire il rispetto degli obblighi costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo nella cura dell’interesse pubblico.
La prima novità introdotta dal riformulato art. 54 cit. è rappresentata dalla individuazione della “forma” che, nella gerarchia delle fonti, deve avere il codice, dovendo essere emanato con d.P.R., previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, previa intesa in sede di Conferenza unificata; è previsto poi che il codice, non solo venga consegnato al dipendente all’atto dell’assunzione, come già in precedenza stabilito, ma deve essere anche sottoscritto dal dipendente.
La legge indica oltre ai fini, il contenuto minimo del codice, rappresentato dalla individuazione dei doveri di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta che i pubblici dipendenti sono tenuti a rispettare e prevede una sezione specifica relativa ai doveri dei dirigenti, sia come dipendenti sia come soggetti preposti alla vigilanza sul rispetto dei doveri da parte dei sottoposti.
Tale specificazione mira ad enfatizzare il ruolo del dirigente nella materia disciplinare e ciò soprattutto perché fino all’emanazione del d.lgs. n. 150/2009 si tendeva ad escludere la possibilità di responsabilità disciplinare del dirigente; tanto si riteneva sulla base dell’erronea equiparazione della dirigenza pubblica con quella privata, che caratterizzata dal rapporto fiduciario che intercorre con il datore di lavoro, prescinde dalla dimensione disciplinare.
Essendo stata, tuttavia, introdotta in occasione della riforma del 2009 anche una specifica regolamentazione delle infrazioni e sanzioni disciplinari proprie della figura dirigenziale, si è reso necessario provvedere alla distinta individuazione anche dei doveri che caratterizzano il suo particolare status.
L’aspetto più significativo della recente legislazione anticorruzione è, tuttavia, rappresentato dall’avere il legislatore previsto che la violazione del codice di comportamento sia fonte di responsabilità, accertata all’esito di procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni e che le violazioni gravi e ripetute del codice, oltre ad essere rilevanti ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile, ove siano collegate alla violazione di doveri, possano comportare l’irrogazione anche della sanzione del licenziamento disciplinare.
La immediata valenza disciplinare delle prescrizioni contenute nel Codice rappresenta un evidente cambiamento rispetto al contenuto del previgente art. 54 cit., il quale, invece, prevedeva la necessità di un coordinamento fra i principi del codice e le previsioni dei contratti; ora, sebbene la definizione delle infrazioni e delle sanzioni rimanga attribuita alla fonte negoziale, la collocazione logica di ciò è a valle della definizione dei doveri, preesistenti ed indisponibili rispetto alle dinamiche negoziali e la cui individuazione è rimessa a regolamenti e fonti unilaterali.
Il nuovo codice di comportamento è stato emanato con d.P.R. 16.4.2013, n. 62; esso si applica sia al personale statale, sia a quello delle Regioni, degli enti locali e degli enti autonomi; in relazione al personale non contrattualizzato è previsto che le norme contenute nel codice costituiscano principi di comportamento, in quanto compatibili con i rispettivi ordinamenti.
Le disposizioni del codice si estendono anche ai collaboratori ed ai consulenti delle amministrazioni, ai titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione e ai collaboratori di imprese fornitrici di beni o servizi; a tal fine si prevede che negli atti di incarico o nei contratti siano inserite clausole di risoluzione o decadenza per il caso di violazione degli obblighi del codice.
Ciascuna amministrazione è tenuta a definire «con procedura aperta alla partecipazione» e previo parere obbligatorio dell’organismo indipendente di valutazione un proprio codice di comportamento, che integri e specifichi il Codice emanato dal Governo.
Il d.P.R. n. 62/2013, composto da 17 articoli, definisce un nucleo di precetti che regolano i comportamenti del personale pubblico e che costituiscono un contenuto minimo suscettibile di essere ampliato e specificato da parte delle singole amministrazioni in occasione della redazione dei codici di comportamento settoriali.
Tali precetti sono ispirati alle regole del corretto agire amministrativo, quali l’economicità, l’efficacia, l’efficienza, la trasparenza, l’imparzialità e la non discriminazione, il rispetto di standard di qualità e la comunicazione tra amministrazioni.
Come detto prima della “privatizzazione” del pubblico impiego, la regolamentazione della materia disciplinare si rinveniva per lo più negli art. da 78 a 133 del d.P.R. n. 3/1957, nell’ambito dei quali il legislatore più che definire le infrazioni e le conseguenti sanzioni, si era preoccupato di disciplinare minuziosamente gli aspetti procedurali del potere disciplinare.
Allora la normativa in questione era considerata modello generale e comune per tutte le amministrazioni pubbliche sia in quanto richiamata dalle fonti collettive e legali di altri settori del pubblico impiego sia perché tale considerata dal giudice amministrativo in quanto ritenuta espressione di principi generali.
In base al regime delineato dal d.P.R. n. 3/1957, la responsabilità disciplinare sussisteva per tutti quei fatti che la stessa amministrazione riteneva essere stati commessi in violazione dei doveri propri dell’impiegato, sebbene non tipizzati espressamente dalla norma.
Per il vero, le disposizioni del citato d.P.R. configuravano diversi casi di violazione di doveri e commisuravano la sanzione alla maggiore o minore gravità di esse (artt. 78 e seg.), ma le indicazioni normative contenevano formule estremamente generiche per cui l’illecito disciplinare non era oggetto di un accertamento vincolato e la valutazione in concreto della sua esistenza e portata era sempre attribuita al potere discrezionale della stessa.
Le sanzioni tipiche individuate dagli art. 78 e seguenti del d.P.R. n. 3/1957 erano, in ordine di crescente gravità: la censura; la riduzione dello stipendio; la sospensione dalla qualifica e la destituzione, che consisteva nella rimozione dall’impiego.
Quest’ultima veniva inflitta, oltre che per una individuata serie di atti gravi anche in caso di condanna passata in giudicato che comportasse l’interdizione perpetua dai pubblici uffici o l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva o la libertà vigilata e, in tali casi, senza procedimento disciplinare e con provvedimento del Ministro.
La Corte costituzionale con la pronuncia n. 971 del 14.10.1988 aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 85, lett. a), d.P.R. n. 3/1957, nella parte in cui non prevedeva per i reati ivi contemplati, in luogo della destituzione di diritto, l’apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare e per questa ragione, l’art. 9 della l.17.2.1990, n. 19, ha poi disposto l’abrogazione esplicita della destituzione di diritto a seguito di condanna penale.
Il regime sanzionatorio introdotto dalla contrattazione collettiva è più mite rispetto a quello del precedente ordinamento pubblicistico in quanto le parti negoziali si sono conformate alla tipologia ed all’entità delle sanzioni previste dall’art. 7 st. lav.
Il primo comma del citato art. 7 prevede, quale prima regola, la pubblicità del codice disciplinare, dovendo le norme disciplinari essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in un luogo accessibile a tutti; la giurisprudenza (Cass., S.U., 5.2.1988, n. 1208) ha interpretato in maniera rigida tale regola, escludendo la fungibilità di altre forme di comunicazione; ciò in quanto l’intento del legislatore non è stato quello di assicurare un adempimento formale, che giustificasse una forma di presunzione assoluta di conoscenza, bensì quello di disporre l’affissione del regolamento disciplinare in posizione idonea ad essere quotidianamente sotto gli occhi di tutti i lavoratori al fine di consentire una reale e generale conoscenza del suo contenuto.
Tale orientamento è stato recepito anche nel rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici privatizzati ed i contratti collettivi di comparto hanno previsto la pubblicità del codice mediante affissione in ogni posto di lavoro, in luogo accessibile a tutti i dipendenti, precisando che tale forma di pubblicità fosse tassativa e non sostituibile con altre.
Senonché il d.lgs. n. 150/2009 ha previsto che «la pubblicazione sul sito istituzionale dell'amministrazione del codice disciplinare, recante l'indicazione delle predette infrazioni e relative sanzioni, equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all'ingresso della sede di lavoro» (art. 55, co. 1, d.lgs. n. 165/2001). È così superata l’impostazione tassativa e rigida dell’art. 7 st. lav., peraltro, non più richiamato dal nuovo testo dell’art. 55 d.lgs. n. 165/2001.
Il medesimo legislatore ha fatto, invece, salvo il richiamo all’art. 2106 c.c., secondo cui l’inosservanza delle disposizioni contenute nei precedenti articoli 2104 e 2105 c.c. può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione.
Le sanzioni che possono infliggersi al pubblico dipendente “contrattualizzato” sono: il rimprovero, verbale o scritto (censura); la multa fino a quattro ore di retribuzione; la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione fino a dieci giorni; la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da undici giorni fino a sei mesi (sanzione aggiunta dai contratti collettivi di comparto per il quadriennio 2002/2005); il licenziamento, con o senza preavviso.
Nell’ambito di tali sanzioni la giurisprudenza ha elaborato la distinzione tra sanzioni conservative (che non incidono sulla prosecuzione del rapporto contrattuale ma consistono in un manifestazione di biasimo o nella temporanea privazione di diritti patrimoniali o non patrimoniali) cioè il rimprovero verbale, il rimprovero scritto, la multa e la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione e espulsive (che intervengono sulla stessa esistenza del rapporto di lavoro determinandone la risoluzione) ossia il licenziamento con o senza preavviso.
Esaminando le singole tipologie, si rileva che il rimprovero verbale consiste in un provvedimento minimale, adottato secondo la disciplina stabilita dal contratto collettivo (art. 55 bis, co. 1, d.lgs. n. 165/2001); si è posto il problema se esso possa formare oggetto di registrazione scritta per documentarne l’irrogazione senza trasformarsi in rimprovero scritto; l’indirizzo prevalente è nel senso di ammettere che la prassi di trascrizione per iscritto non ne muta l’essenza.
Il rimprovero scritto è adottato dall’Ufficio per i procedimenti disciplinari attraverso le garanzie procedimentali previste dal’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001. Tale sanzione ha un valore per lo più morale e può essere irrogata per tutte le ipotesi per le quali i contratti di comparto prevedono l’applicazione, secondo la gravità del caso, di una sanzione compresa tra il rimprovero verbale e la multa.
La multa per un importo non superiore a quattro ore di retribuzione, la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di dieci giorni, la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da undici giorni sino a sei mesi, sono, invece, sanzioni di carattere patrimoniale che possono essere irrogate dall’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, all’esito del procedimento previsto dal co. 4 dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001.
Il licenziamento, a sua volta, costituisce la sanzione massima, di natura espulsiva, per tutti i comportamenti del lavoratore che non consentono la prosecuzione del rapporto di lavoro. Analogamente alle sopraindicate sanzioni esso è applicato dall’ufficio competente per i procedimenti disciplinari con la procedura prevista dall’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001.
Come è stato correttamente osservato, il licenziamento disciplinare non è una categoria autonoma che si affianca al licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, ma è fattispecie riconducibile a queste categorie riferita alle ipotesi in cui la giusta causa o il giustificato motivo si atteggino ad inadempienza o colpa rilevante sotto il profilo disciplinare (Monda, G.M., Il licenziamento del dipendente pubblico in Amoroso, G.-Di Cerbo, V.-Fiorillo L.-Maresca, A., Diritto del Lavoro, Il lavoro pubblico, Milano, 2011, II ed., 1020 ss).
Nell’ambito della categoria sanzionatoria ora in esame, i codici disciplinari predisposti dalle parti negoziali hanno individuato due tipologie di licenziamento, diverse per gravità e presupposti: il licenziamento con preavviso e quello senza.
Il d.lgs. n. 150/2009, in attuazione dell’art. 7 l. 4.3.2009, n. 15, ha individuato alcune gravi condotte illecite idonee a determinare l’applicazione del licenziamento con o senza preavviso, in particolare con riferimento all’ipotesi di scarso rendimento ovvero di attestazioni di presenza o di presentazione di certificazioni mediche non veritiere.
Alcune di tali disposizioni ripetono il contenuto dei codici disciplinari dei contratti collettivi di comparto, ma la previsione tramite fonte primaria le rende immodificabili a livello contrattuale, in base al disposto di cui all’art. 55, co. 1, d.lgs. n. 165/2001.
Le infrazioni previste dal legislatore cui deve conseguire necessariamente il licenziamento sono elencate nell’art. 55 quater d.lgs. n. 165/2001; alcune di esse costituiscono violazione di vere e proprie norme penali e, in quanto tali, rientrano nel concetto di “giusta causa” di licenziamento a norma dell’art. 2119 c.c. Alla prima di tali ipotesi, costituita dalla falsa attestazione della presenza in servizio (lett. a) è attribuita specifica rilevanza penale dal successivo art. 55 quinquies attraverso l’astratta configurazione di essa quale autonoma figura di reato.
Il d.lgs. n. 150/2009, nel novellare la materia disciplinare, ha introdotto pure alcune sanzioni conservative, collegate a specifiche infrazioni, e, in particolare: la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di quindici giorni per il dipendente o il dirigente appartenente alla stessa amministrazione pubblica dell’incolpato o ad una diversa, che, essendo a conoscenza per ragioni di ufficio o di servizio di informazioni rilevanti per un procedimento disciplinare in corso, rifiuta senza giustificato motivo, la collaborazione richiesta dall’autorità disciplinare procedente ovvero rende dichiarazioni false o reticenti (art. 55 bis, co. 7, d.lgs. n. 165/2001); la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di tre giorni ad un massimo di tre mesi per condanna della p.a. al risarcimento del danno derivante dalla violazione da parte del dipendente degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa (art. 55 sexies, co. 1, d.lgs. n. 165/2001); la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di tre mesi per i dipendenti e dirigenti responsabili del mancato esercizio o della decadenza dell’azione disciplinare, dovuti all’omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, del compimento degli atti del procedimento disciplinare ovvero a valutazioni sull’insussistenza dell’illecito disciplinare irragionevoli o manifestamente infondate (55 sexies, co. 3, d.lgs. n. 165/2001).
Il d.lgs. 20.6.2016, n. 116, emanato in attuazione della delega conferita dalla l. n. 124/2015, ha modificato ancora il menzionato art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001 al fine di contrastare più efficacemente il fenomeno delle false attestazioni in servizio introducendovi altri 5 commi.
In particolare, il co. 1-bis dell’art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001 ha ampliato la portata della fattispecie disciplinare della falsa attestazione della presenza in servizio, di cui al precedente co. 1, lett. a), sanzionando anche coloro che abbiano agevolato, con il proprio comportamento attivo od omissivo, la condotta fraudolenta.
Secondo la nuova disposizione, costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare falsamente il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione circa il rispetto dell’orario di lavoro da parte del dipendente stesso.
Nel co. 3-bis è previsto l’istituto della sospensione cautelare, senza stipendio, del dipendente in caso di falsa attestazione della presenza accertata in flagranza, ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze.
La sospensione è disposta con provvedimento motivato dal responsabile della struttura di appartenenza dell’interessato ovvero, laddove ne venga a conoscenza per primo, dall’ufficio procedimenti disciplinari, in via immediata e comunque entro le quarantotto ore dal momento in cui ne sia venuto a conoscenza.
La violazione del termine non determina in ogni caso la decadenza dall’azione disciplinare o l’inefficacia della sospensione cautelare, ferma restando l’eventuale responsabilità per la ritardata emissione del provvedimento cautelare del soggetto che abbia agito intempestivamente.
Il co. 3-ter dell’art. 55 quater cit. ha provveduto a disciplinare, in relazione alla falsa attestazione della presenza in servizio accertata in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze, un procedimento disciplinare accelerato, destinato a concludersi entro trenta giorni.
Il successivo co. 3-quater ha introdotto l’azione di responsabilità amministrativa per danno all’immagine della p.a. nei confronti del dipendente sottoposto ad azione disciplinare per falsa attestazione della presenza in servizio.
La nuova disposizione prevede che la denuncia al p.m. e la segnalazione alla Corte dei conti debbano avvenire entro quindici giorni dall’avvio del procedimento disciplinare; la Procura della Corte dei conti, qualora ne ricorrano i presupposti, emette invito a dedurre per danno di immagine della p.a. entro tre mesi dalla conclusione del procedimento disciplinare.
L’azione di responsabilità per danno all’immagine deve essere esercitata entro i 120 giorni successivi alla denuncia, senza possibilità di proroga, secondo le modalità ed i termini previsti dalla normativa vigente sul giudizio di responsabilità amministrativa presso la Corte dei conti. L’ammontare del danno risarcibile è rimesso alla valutazione equitativa del giudice contabile, anche in relazione alla rilevanza che il fatto ha avuto sui mezzi d’informazione e, comunque, non può essere inferiore all’ammontare di sei mesi dell’ultimo stipendio in godimento.
Infine, il co. 3-quinquies ha ampliato la responsabilità disciplinare e penale dei dirigenti o, negli enti privi di qualifica dirigenziale, dei responsabili di servizio competenti, essendo stato previsto che le condotte omissive in materia di svolgimento dell’azione disciplinare costituiscano a loro volta illeciti disciplinari punibili con il licenziamento.
Il d.lgs. 25.5.2017, n. 75, emanato in attuazione della stessa legge n. 124 del 2015, ha inciso nuovamente sull’art. 55 quater del d.lgs. n. 165 del 2001 introducendo altre 4 fattispecie di illeciti che conducono al licenziamento disciplinare e delineando un nuovo codice disciplinare per i dipendenti pubblici.
I nuovi casi cui consegue il licenziamento disciplinare sono: le gravi e reiterate violazioni di codice di comportamento (55 quater, co. 1, lett. f-bis); il mancato esercizio o la decadenza dall’azione disciplinare (art. 55 quater co. 1, lett. f-ter); la reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa che abbia determinato l’applicazione in sede disciplinare della sospensione dal servizio per un periodo complessivamente superiore ad un anno nell’arco di un biennio (art. 55 quater, co. 1, lett. f-quater); l’insufficiente rendimento dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza, per il quale il dipendente sia già stato sanzionato, ovvero si tratti di insufficienza già rilevata dalla costante valutazione negativa della performance per ciascun anno dell’ultimo triennio (art. 55 quater, co. 1, lett. f-quinquies).
Le disposizioni di cui ai co. da 3-bis a 3-quinquies, dell’art. 55 quater, del d.lgs. n. 165 cit., concernenti la sospensione cautelare, il procedimento disciplinare accelerato e l’azione di responsabilità per danni d’immagine causati alla P.A., prima riferite ai soli casi di falsa attestazione della presenza in servizio mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, si applicano ora in tutti i casi in cui le condotte punibili con il licenziamento disciplinare siano accertate in flagranza.
Il d.lgs. n. 75/2017 ha modificato anche l’art. 55 quinquies del d.lgs. n. 165/2001, in tema di false attestazioni o certificazioni; al co. 2, ha operato il richiamo al danno all’immagine di cui all’art. 55 quater, co. 3-quater, prevedendo che esso si configuri nei casi in cui il lavoratore dipendente di una p.a. attesti falsamente la propria presenza in servizio, con modi fraudolenti, ovvero giustifichi l’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa.
Al co. 3-bis dell’art. 55 quinquies è previsto che, ferma restando la possibilità che la condotta rientri tra quelle punite con il licenziamento disciplinare ai sensi dell’art. 55 quater, i contratti collettivi nazionali di lavoro individuino le condotte e determinino le corrispondenti sanzioni disciplinari con riferimento alle ipotesi di ripetute e ingiustificate assenze dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale, nonché con riferimento ai casi di ingiustificate assenze collettive in determinati periodi nei quali è necessario assicurare continuità nell’erogazione dei servizi all’utenza.
Saranno i contratti collettivi a dover individuare le condotte disciplinarmente rilevanti e le sanzioni applicabili, in relazione alle reiterate ed ingiustificate assenze dal lavoro caratterizzate da tali particolari contingenze temporali.
Il d.lgs. n. 75/2017 ha apportato anche alcune modifiche all’art. 55 sexies del d.lgs. n. 165/2001, in materia di condotte pregiudizievoli per l’amministrazione; il riformulato co. 1 dell’art. 55 sexies, infatti, rende più esplicita la previgente disciplina prevedendo che il dipendente sia comunque sospeso dal servizio con privazione della retribuzione, per un periodo da tre giorni fino ad un massimo di tre mesi, in ogni caso in cui dalla violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa derivi la condanna della p.a. al risarcimento del danno.
Viene poi inasprita la disciplina di cui al co. 3 del predetto art. 55 sexies, stabilendosi che il mancato esercizio o la decadenza dall’azione disciplinare, dovuti all’omissione o al ritardo senza giustificato motivo degli atti del procedimento disciplinare o a valutazioni sull’insussistenza dell’illecito disciplinare irragionevoli o manifestamente infondate, comporti per i soggetti responsabili (anche non dirigenti), la sospensione dal sevizio fino ad un massimo di tre mesi, salva la maggiore sanzione del licenziamento nel caso in cui questa sia prevista.
Il licenziamento è stabilito nel caso di cui all’art. 55 quater, co. 1, lett. f-ter, del d.lgs. n. 165/2001 (cioè commissione dolosa, o gravemente colposa, dell'infrazione di cui all'art. 55 sexies, co. 3) e nel caso di cui al co. 3-quinquies dello stesso art. 55 quater (relativo alla ipotesi in cui i dirigenti o i responsabili non attivino il procedimento disciplinare o la sospensione cautelare nei casi di accertamento in flagranza della falsa attestazione della presenza in servizio).
La recidiva consiste nella reiterazione dei comportamenti sanzionabili; essa è indice della persistente volontà del dipendente di disattendere le norme disciplinari per cui è considerata criterio di aggravamento della sanzione.
Il d.P.R. n. 3/1957, all’art. 86, prevedeva che l’impiegato il quale, dopo essere stato punito per una infrazione, incorreva in una nuova violazione disciplinare della stessa specie (cd. recidiva specifica), poteva essere assoggettato ad una sanzione più grave di quella prevista per l’infrazione commessa; al successivo art. 87 era disciplinato l’istituto della riabilitazione, che poteva rendere nulli gli effetti della sanzione inflitta al dipendente, trascorsi due anni dall’atto con il quale essa era stata irrogata ed a condizione che l’impiegato avesse riportato in quel biennio la qualifica di ottimo.
I contratti collettivi di comparto stipulati alla stregua dell’art. 55 del d.lgs. n. 165/2001 hanno previsto per la determinazione del tipo e della entità della sanzione la valutazione del comportamento complessivo tenuto dal dipendente, con particolare riguardo ai precedenti disciplinari, nel biennio.
Le disposizioni contrattuali non fanno alcun riferimento alla tipologia delle precedenti infrazioni per cui ai fini della individuazione della sanzione può rilevare anche la recidiva generica.
È, tuttavia, previsto che al lavoratore il quale nel biennio di riferimento sia stato sanzionato per mancanze della stessa natura, debba (e non solamente possa) essere irrogata, a seconda della gravità del caso e delle circostanze, una sanzione di maggiore entità.
La giurisprudenza ha dato risposta positiva al problema se sia necessario contestare preventivamente la recidiva, a pena di nullità della sanzione (Cass., sez. lav., 25.1.2018, n. 1909; Cass., 20.3.2014, n. 7282; Cass., sez. lav., 25.11.2010, n. 23924).
I contratti collettivi hanno altresì disposto che non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione; tale formulazione elimina ogni rilevanza soggettiva dell’avvenuto ravvedimento del dipendente.
Fonti normative
Artt. 54, 97, 98 Cost.; artt. 1339, 1419, 2106, 2119 c.c.; artt. 11-17, artt. 78-133, d.P.R. 10.1.1957, n. 3; art. 7, l. 20.5.1970, n.300, art. 22, l. 29.3.1983, n. 93; l. 17.2.1990, n. 19; art. 2, co. 1, l. 23.10.1992, n. 421; d.lgs. 3.2.1993, n. 29; d.lgs. 23.12.1993, n. 546; d.lgs. 31.3.1998, n. 80; d.lgs. 30.3.2001, n. 165; l. 4.3.2009, n. 15; d.lgs. 27.10.2009, n. 150; l. 6.11.2012, n. 190; d.P.R. 16.4.2013, n. 62; l. 7.8.2015, n. 124; d.lgs. 20.6.2016, n. 116; d.lgs. 25.5.2017, n. 75.
Bibliografia essenziale
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