Saper condurre le acque
Domenico Guglielmini e l’imitazione della natura
Il 18 luglio 1693 i matematici Giovanni Magrini per Ferrara e Domenico Guglielmini (1655-1710) per Bologna dibatterono un quesito, relativo alla linea cadente del cavo manufatto in cui inalveare il fiume Reno, posto dai cardinali Ferdinando d’Adda e Francesco Barberini a conclusione della visita d’acque nelle due province che era stata loro affidata da papa Innocenzo XII. Mentre Magrini pensava che, per una corrente «torbida» quale quella del Reno, non ci fosse alcuna regola sulla «quantità della pendenza precisamente necessaria», Guglielmini riteneva che si dovesse seguire «lo stesso metodo che osserva la natura in formare, o stabilire il fondo a’ fiumi». Si doveva anzitutto osservare che
gli alvei de’ fiumi hanno una certa pendenza la quale tanto è loro propria, che perdendola immediatamente la racquistano colla deposizione della materia arenosa e limosa nel fondo, ed acquistandosene o dandosegliene di vantaggio, ben presto lasciano il superfluo coll’escavazione del fondo nelle parti superiori (D. Guglielmini, Scritture sopra vari progetti fatti per la diversione del Reno, IV, Della linea del Po Grande, in Raccolta d’autori italiani che trattano del moto dell’acque, 2° vol., 1822, p. 131).
Si doveva inoltre considerare che «tal pendenza non è la stessa in tutti i fiumi, ma [è] più grande in quelli che hanno meno acqua e minore in quelli che ne hanno più» (p. 131). Per determinare la ‘pendenza naturale’ da assegnare al cavo manufatto in cui inalveare il Reno bastava dunque misurare la caduta del fiume in un tratto immediatamente a monte dell’imboccatura del nuovo alveo oppure la caduta di un fiume di portata equivalente che scorre in prossimità, quale il Panaro.
Il metodo venne ancor meglio precisato in una lunga scrittura, definita magistrale da Eustachio Manfredi, in cui Guglielmini affrontò tutti gli aspetti dell’inalveazione del Reno nel Po grande. I ferraresi avevano sostenuto che la cadente dell’alveo artificiale si sarebbe elevata «sopra il piano delle campagne». La cosa «non sussiste», replicò Guglielmini:
Delineata che sia la linea cadente nella forma insegnata, e praticata tutto il dì da’ migliori architetti d’acque, cioè regolata nel nostro caso quattro piedi almeno sotto il pelo basso del Po, e prolungata all’insù con la proporzionata acclività indicata dal genio dello stesso fiume, che dalle livellazioni ultimamente fatte dallo sbocco della Samoggia fino a Mirabello, apparisce essere oncie 13 per miglio di Bologna, poco dissimile dalla caduta di Panaro […]. Ora se tal metodo si praticherà in delineare la cadente della nuova inalveazione di Reno al Po Grande per qualunque linea si voglia delle proposte, si vedrà evidentemente che il fondo di essa in nessuna parte camminerà elevato sopra il piano delle campagne ma considerabilmente profondato non meno di Panaro medesimo (Scritture […] per la diversione del Reno, III, Della linea del Po Grande, in Raccolta d’autori, cit., pp. 116-17).
La scienza di Guglielmini faceva tesoro delle esperienze dei «migliori architetti d’acque», si proponeva di favorire un’arte capace di adeguarsi al «genio dello stesso fiume». Si contrapponeva, invece, a quei progetti e a quelle proposte che non assecondavano le inclinazioni della natura (Maffioli 2010, pp. 271-79).
L’idea che l’arte, per essere efficace, deve imitare la natura era parte dell’educazione ricevuta da Guglielmini che, nel 1678, si era addottorato in medicina. Ma era anche convinzione comune tra i matematici, i periti agrimensori e gli architetti che, a Bologna, dovevano confrontarsi con la questione del Reno. Mentre a Ferrara si elevavano argini e si intendevano deviare verso Levante le acque del Reno e degli scoli delle campagne bolognesi, a Bologna si voleva che queste acque seguissero il loro corso naturale lungo la linea di massima pendenza, diretta verso Settentrione.
A partire dal 1686, anno in cui Guglielmini fu eletto sopraintendente alle acque del territorio bolognese, la questione di quale sbocco dare alle acque del Reno – che vagavano nelle valli e inondavano sistematicamente parte considerevole del contado tra Bologna e Ferrara – costituì la sua principale preoccupazione. Tanto che nel 1693, durante la visita dei cardinali d’Adda e Barberini, egli divenne l’esponente di spicco della delegazione bolognese.
Benché il progetto di inalveare il Reno nel Po grande non venisse mai realizzato, l’idea che l’arte fosse in grado di perfezionare la natura solo se riusciva a imitarla aveva salde radici nella pratica ingegneristica. Un esempio significativo è dato nel Della natura de’ fiumi, l’opera che coronò le ricerche di idraulica fluviale di Guglielmini, e precisamente nel capitolo 12 che tratta dei canali e delle regole «da osservarsi» per derivarli dai fiumi.
La costruzione dell’imboccatura di un canale equivaleva, secondo Guglielmini, a dare origine a un nuovo ramo del fiume. Di conseguenza, «per intendere la natura de’ canali regolati [cioè dotati di porte o saracinesche che regolano l’introduzione dell’acqua], è d’uopo di ben intendere, prima, quella de’ rami de’ fiumi». Per la «perpetua conservazione de’ rami, ne’ quali si divide il tronco primario di un fiume», è in linea di principio necessario che ci sia «un esatto equilibrio» di «tutte le circostanze che ponno, o accrescere o conservare, o ritardare le velocità dell’acqua che scorre per essi». Anche nel caso «di un continuo sconcerto del sopraccennato equilibrio» è tuttavia possibile che il ramo del fiume si conservi. Per mantenere all’incirca la stessa distribuzione dell’acqua tra il tronco principale e il ramo è infatti sufficiente che «la prevalenza delle condizioni si permuti a favore, hora dell’accrescimento hora del decrescimento del ramo medesimo» (D. Guglielmini, Della natura de’ fiumi, 1697, pp. 295-96).
Per discutere i canali artificiali Guglielmini scelse l’esempio di una struttura d’origine medievale che convogliava (e che convoglia tuttora) parte dell’acqua del Reno entro le mura di Bologna per poi dare origine, uscendo dalla città, al canale Naviglio o Navile. Un tipico problema dei rami dei fiumi sono le variazioni, nel tronco principale, del filo della corrente. Per derivare un canale da un fiume ‘incassato’, come nel caso della derivazione del canale di Reno alla chiusa di Casalecchio, è dunque necessario non solo elevare il pelo dell’acqua sbarrando il fiume, ma anche indirizzare la corrente verso l’incile del canale. Si può ottenere quest’ultimo risultato anzitutto tenendo la soglia dell’incile più bassa «del piano della chiusa, almeno quanto richiede il corpo d’acqua che si vuole nel canale». Si deve inoltre avere l’avvertenza di non fare la «sommità, o soglia superiore [della chiusa] a livello, ma più bassa verso la bocca del canale che ha da ricevere l’acqua» (D. Guglielmini, Della natura de’ fiumi, cit., pp. 301-302). Per evitare che l’incile e il primo tratto del canale si interrino si possono infine prevedere delle porte laterali, o paraporti, che permettono di scaricare nel fiume, a valle della chiusa, l’acqua del canale.
La [grande] velocità che acquista l’acqua nel cadere dalla soglia del paraporto, la quale ordinariamente ha caduta poco minore di quella della chiusa, è quella che in tal caso scava in poco tempo il fondo del canale; e se il paraporto non sia troppo lontano, espurga la soglia dell’incile quando sopra di essa si siano fatte delle deposizioni; e molte volte prolunga le escavazioni all’insù dentro l’alveo del fiume superiore alla chiusa, formandosi dentro di questo un canale, che nelle piene indirizza il filone verso l’incile (D. Guglielmini, Della natura de’ fiumi, cit., p. 302).
Nel tratto iniziale del canale di Reno, invece di far ricorso all’escavazione manuale, si imitano dunque con l’artificio dei paraporti i fiumi in piena che – grazie alla forza della corrente – erodono naturalmente i depositi accumulatisi negli alvei.
L’analogia tra i rami dei fiumi e i canali regolati è tipica della visione meccanicistica e organicistica di Guglielmini, che considerava i fiumi e gli stessi canali alla stregua di esseri viventi. Ma è indubbio che il medico e matematico bolognese si fosse parimenti fondato su una sapienza tecnica centenaria che, imitando ed emulando le forze dei fiumi e della natura, era arrivata a produrre un gioiello quale la chiusa di Casalecchio.
Francesco di Giorgio e Leonardo
Quale fosse l’origine dei fiumi era un tema filosofico, dibattuto sin dall’antichità, che fece capolino nei primi trattati rinascimentali d’architettura e ingegneria. Un esempio significativo è dato dall’artista-ingegnere senese Francesco di Giorgio di Martino, meglio noto come Francesco di Giorgio (1439-1501) che, in un trattato manoscritto composto attorno al 1480, citò un’opinione alquanto curiosa. Nelle montagne esistono cavità dove «aria entrar non può». Poiché come «dice el filossafo non datur vacuo» l’acqua viene attratta in dette cavità e, fuoruscendo, dà origine ai fiumi. Grazie all’horror vacui si crea cioè un flusso continuo, lungo le vene nel corpo della Terra e gli alvei dei fiumi, come nel caso dei bambini che succhiano il latte materno (Francesco di Giorgio Martini, Il codice Ashburnham 361 della Biblioteca Medicea Laurenziana, a cura di P.C. Marani, 1979, p. 78 [f. 38v]).
Il legame con il tema della conduzione delle acque è messo in evidenza poco dopo, nel foglio 40v. Con un sifone, che attrae l’acqua verso l’alto in conformità alla massima filosofica «non datu[r] vacuo», sarebbe infatti possibile condurre dell’acqua al di là della cima di un monte, a condizione che «da la banda dove tirar la vuoi esso canale alquanto più largo e llongo che quello che piglia l’acqua sia».
Francesco di Giorgio non accennò a un possibile limite di altezza. Il braccio del sifone, posto al di là del monte in cui l’acqua dovrebbe essere condotta, deve essere più lungo e di ampiezza maggiore del braccio al di qua del monte, in cui c’è la presa dell’acqua. Affinché la macchina funzioni è inoltre necessario che il tubo venga preventivamente riempito d’acqua. Questo modello teorico era stato elaborato nell’antichità e faceva riferimento a due distinte nozioni: a) la prevalenza del peso dell’acqua contenuta nel braccio più lungo e di ampiezza maggiore sarebbe, come in una bilancia a due bracci, la causa del moto; b) il flusso si mantiene solo se c’è la continuità dell’acqua nel sifone, continuità che a sua volta si realizza perché la natura non ammette l’esistenza di spazi vuoti. Ma Erone d’Alessandria (I sec. d.C.) aveva contestato la correttezza della parte a) del modello (Spiritalium liber, 1575, cap. I, De inflexo siphone, pp. 10r-11v), il che indirettamente mostra come l’autore senese non conoscesse lo scritto eroniano. Francesco di Giorgio citò invece Filone di Bisanzio (3° sec. a.C.), nella cui trattazione del sifone ricurvo non c’è tuttavia alcuna chiara enunciazione del modello teorico sopraccennato, anche se Filone aveva richiamato la necessità che nel «canale ritorto» non s’intrometta dell’aria a spezzare la continuità del flusso e aveva fatto cenno alla maggiore lunghezza del braccio del sifone da cui l’acqua effluisce (Filone di Bisanzio, Pneumatica, ed. F.D. Prager, 1974, capp. 6 e 9, pp. 119 e 121).
Leonardo da Vinci (1452-1519) studiò attentamente l’opera di Francesco di Giorgio, come fanno fede le note da lui apposte ai margini di alcuni fogli del sopracitato codice della Biblioteca Laurenziana. E non mancò di considerare l’ipotesi, ma per rifiutarla com’è attestato da una nota redatta nel 1510-11 o poco dopo, che l’acqua delle sorgenti montane dei fiumi possa esservi stata condotta grazie a una sorta di attrazione, «come si fa per la canna detta cicognola [cioè mediante un sifone ricurvo]» (Leonardo da Vinci, I manoscritti dell’Institut de France: il manoscritto G, trascrizione di A. Marinoni, 1989, f. 70r).
In alcuni studi del primo periodo milanese, Leonardo considerò tuttavia l’idea di condurre artificialmente l’acqua sulla cima di un monte. Nel Codice Atlantico, in un disegno del foglio 301r (redatto attorno al 1487-90), sul fianco di un monte si intravede un sifone ricurvo, le cui parti sono contrassegnate dalle lettere a (l’apice del sifone, posto sulla cima del monte), c (la bocca del sifone che pesca nel tratto superiore di un fiume cdb che gira attorno alla base del monte), b (la bocca del sifone che si getta nel tratto inferiore del fiume). A fianco del disegno c’è una nota esplicativa («Ogni grosso fiume si conducerà in su l’altissime montagne per la ragion de la cicognola») che continua sotto il disegno con le seguenti parole:
Se ’l fiume cdb manderà un ramo nel punto a e ricaderà nel punto b, sarà tanto maggiore peso la linia ab che la linia ac, che se ne potrà rubare tanta [acqua nell’apice del sifone] che servirà al condurre delle navi in sulle montagne (Leonardo da Vinci, Il Codice Atlantico della Biblioteca Ambrosiana di Milano, trascrizione di A. Marinoni, 1973-1980, f. 301r).
In quegli anni Leonardo non solo pensava che il sifone funzionasse per la prevalenza del peso dell’acqua nel braccio più lungo – nel disegno i due bracci appaiono di uguale ampiezza ed ab è nettamente più lungo di ac – ma ipotizzò dunque che fosse possibile derivare parte del flusso nell’apice del sifone per alimentare un canale navigabile. Nel disegno leonardiano si vede in effetti un canale a zig-zag, munito di chiuse e solcato da imbarcazioni, che dal fiume sottostante arriva alla cima del monte.
Qui Leonardo sembrerebbe dar ragione al ritratto che ne diede Giorgio Vasari, che lo dipinse non solo nelle vesti del geniale artista, ma anche come una sorta di visionario matematico:
Mostrò la natura nelle azzioni di Lionardo tanto ingegno, che ne’ suo’ ragionamenti faceva con ragioni naturali tacere i dotti. Fu pronto et arguto, e con una perfetta arte di persuasione mostrava le difficultà del suo ingegno, che nelle cose de’ numeri faceva muovere i monti, tirava i pesi, e fra le altre parole mostrava volere alzare il tempio di San Giovanni di Fiorenza e sottomettervi le scalèe senza ruinarlo, e con sì forti ragioni lo persuadeva che pareva possibile, quantunque ciascuno, poi che e’ si era partito, conoscesse per se medesimo la impossibilità di cotanta impresa (Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri: nell’edizione per i tipi di L. Torrentino, Firenze 1550, a cura di L. Bellosi, A. Rossi, 1997, p. 546 [passo poi modificato nell’edizione 1568]).
Il passo vasariano coglie un aspetto significativo dell’attività e del pensiero leonardiani: il continuo ghiribizzare intorno alle cose della natura e dell’arte, la continua ricerca di nuove soluzioni in campo sia artistico sia ingegneristico. Ma non rende affatto la feconda tensione tra arti e matematiche che caratterizzò la sua opera.
Leonardo non era un sognatore con la testa fra le nuvole che «nelle cose de’ numeri faceva muovere i monti», come se lo figurava Vasari. Era invece un investigatore che cercava di penetrare nelle strutture profonde del reale, per descrivere e utilizzare le forze della natura e per saggiarne potenzialità e limiti. L’idea di costruire canali che permettessero alle imbarcazioni di attraversare dei monti non era, per es., così peregrina come appare a prima vista e venne ripresa più volte tra il Cinquecento e il Seicento.
Nel 1571 Cosimo I de’ Medici aveva in animo di confidare a un matematico di valore quale Egnazio Danti la messa a punto di un progetto per attraversare gli Appennini con un canale, in modo da collegare il Tirreno con l’Adriatico. Nella seconda metà del Seicento venne poi realizzata l’impresa apparentemente impossibile del Canal du Midi, da tempo vagheggiata per collegare il Mediterraneo all’Atlantico. Grazie a numerose chiuse disposte lungo il canale, le imbarcazioni in partenza dal Mediterraneo risalgono sino a un’altitudine di 190 m s.l.m. per poi ridiscendere sino a Tolosa (130 m s.l.m.).
La stessa evoluzione del pensiero leonardiano mostra, d’altro canto, come egli fosse non solo un sognatore, ma anche un matematico che prendeva consapevolezza dei limiti della natura e dell’arte. Tipico, in questo senso, fu il suo atteggiamento nei confronti del moto perpetuo. Per un periodo non breve, Leonardo aveva considerato la realizzazione di un congegno capace di mantenersi continuamente in moto come un’ipotesi praticabile (La mente di Leonardo, 2006, p. 250). Ma in un testo che risale a fine Quattrocento, prese atto dell’impossibilità del moto perpetuo:
Io ho trovato infra l’altre superchie e inpossibile credulità degli omini la cierca del moto continuo, la quale per alcuno è decta rota perpetua. Questa ha ttenuto moltissimi seculi, co’ llunga cierca e spe[ri]mentatione e grande spesa, ocupati quasi tutte quelli omini che ssi dilettano di machinamenti d’acqua e di guerre e altri sottili ingiegni. E ssenpre nel fine intervenne a lloro come alli archimisti, che per una picola parte si perdea il tutto (Leonardo da Vinci, I codici di Madrid, a cura di L. Reti, 1° vol., 1974, f. 0r).
Le traduzioni dell’opera di Vitruvio e i primi trattati d’acque
Il primo tentativo conosciuto di offrire una versione volgare del De architectura si deve a Francesco di Giorgio. Inizialmente il tecnico senese considerò l’opera di Vitruvio come un vero e proprio trattato operativo e si limitò a tradurne una serie di passi che vennero poi utilizzati nella redazione del cosiddetto Trattato I (di cui il sopracitato codice Ashburnham 361 costituisce uno dei due testimoni). L’intervento divenne però progressivamente più attento al testo vitruviano, «trasformandosi in una traduzione integrale, sebbene con modalità diversificate a seconda dei libri vitruviani affrontati» (Francesco di Giorgio Martini, La traduzione del “De architectura” di Vitruvio, a cura di M. Biffi, 2002, pp. L-LII e CV).
Il De architectura era di difficile interpretazione anche perché le copie manoscritte conosciute, così come le edizioni a stampa quattrocentesche, erano prive di illustrazioni. L’esegeta s’imbatteva in ulteriori problemi, sia di tipo lessicale sia dovuti alla sparizione degli antichi edifici, come ebbe a sottolineare Francesco di Giorgio nel preambolo del cosiddetto Trattato II:
Peroché li autori che in questa arte massima di architettura hanno scritto, da una parte hanno lassato le opere incomplete […]. Dall’altra hanno usato vocabuli che per le cagioni ante ditte sono totalmente ignoti; et appresso di questo hanno addotti esempi di molti edifici li quali al presente già molti anni sono stati in ruina. Onde me è stato necessario per molte circonstanzie e per considerare le opere delli antichi Romani e Greci optimi scultori et architettori, con-
cordando el significato col segno, retrovare quasi come di novo la forza del parlare di più antichi scrittori, massimamente di Vetruvio […]. E questa mia fatiga tanto meno grave parea, massime avendo io concordato li ditti soi [di Vitruvio] con quelle poche di reliquie delli antiqui edifici e sculture che per Italia sono rimaste, delle quali io stimo aver visto e considerato la maggiore parte (Trattati di architettura ingegneria e arte militare, a cura di C. Maltese, 1967, pp. 295-96).
Altri problemi erano dovuti ai codici manoscritti, corrotti e lacunosi. Per restituire e tradurre il testo vitruviano erano dunque necessarie competenze sia filologiche sia tecniche. Nel passo appena citato è in effetti messa in evidenza una competenza intermedia, legata alla riscoperta umanistica delle vestigia greche e romane e alla misurazione delle parti degli antichi edifici. Oltre che a Francesco di Giorgio e a Leon Battista Alberti, il pensiero va subito a Giovanni Giocondo da Verona (1434 ca.-1515) e a Raffaello Sanzio da Urbino. Giocondo pubblicò nel 1511 a Venezia la prima edizione del De architectura corredata di illustrazioni, con lo scopo dichiarato sin dal frontespizio di presentare un testo comprensibile. In quegli stessi anni Raffaello commissionò al filologo Marco Fabio Calvo una traduzione in volgare dell’opera di Vitruvio, che venne portata a termine attorno al 1514.
Per i tecnici l’opera di Vitruvio non aveva solo, e neppure prevalentemente, un valore antiquario. La studiavano anche e soprattutto per trarne degli insegnamenti concreti sull’architettura e sull’ingegneria della Roma e della Grecia antiche. Un esempio è dato dal libro VIII del De architectura dedicato al tema della scoperta e della conduzione delle acque. In esso Vitruvio aveva descritto alcuni strumenti per livellare le acque che non mancarono di suscitare l’interesse dei tecnici rinascimentali. Uno di essi è il chorobates, in cui c’è un duplice controllo del livello: mediante fili a piombo e osservando come si dispone la superficie dell’acqua in un canaletto. Sia nell’edizione latina di Giocondo sia in quella italiana di Cesare Cesariano (1475-1543), un pittore e architetto milanese a cui si deve la prima versione volgare a stampa e il primo ampio commento del De architectura (1521), la descrizione dello strumento è accompagnata dal disegno. Le due illustrazioni sono però alquanto diverse fra loro. Benché Giocondo fosse l’inventore di uno strumento di livellazione da lui chiamato jocunda, il suo disegno del corobate è anzitutto funzionale alla comprensione del testo vitruviano. Il disegno di Cesariano, di qualità nettamente superiore, è viceversa denso di dettagli costruttivi (non citati da Vitruvio) e sembra illustrare uno strumento ancora utilizzato o quantomeno una ricostruzione a scopo operativo dello strumento vitruviano.
L’immagine dell’architetto che ci viene consegnata dal De architectura è sia quella del teorico degli ordini architettonici e del costruttore di edifici pubblici e privati sia quella del tecnico polivalente capace di costruire e far funzionare ‘macchine’ di ogni tipo (da guerra e di cantiere, per azionare mulini ed elevare e condurre le acque), così come di inventare e usare i più diversi strumenti matematici. Ma l’architetto vitruviano doveva anche possedere una visione d’assieme, essere in grado di porre in relazione le parti con il tutto (sia le parti dell’edificio sia quelle della città) ed essere dotato di conoscenze mediche e di filosofia naturale che gli permettessero di determinare il sito più adatto di ogni costruzione.
La formazione enciclopedica dell’architetto vitruviano fu particolarmente apprezzata in età rinascimentale e gli aspetti intellettuali della professione architettonica divennero un motivo ricorrente di molti trattati tecnici. La rivalutazione di Vitruvio si dovette, in altre parole, sia alla riscoperta della classicità in campo tecnico e ingegneristico sia alla tendenza dei professionisti più colti e preparati a distinguersi dagli indotti e dagli illetterati (Maffioli 2013, pp. 201-203). Un esempio è dato da Cesariano che, nel commento a Vitruvio, suggerì che i tirocinanti fossero esaminati sulla base della «Vitruviana institutione» (Di Lucio Vitruvio Pollione de architectura libri dece, 1521, pp. 2v-3r).
La materia delle acque trovò spazio, oltre che nei commenti all’opera di Vitruvio, nei trattati quattro-cinquecenteschi di architettura e di agricoltura e nei libri di macchine, per poi dar vita a dei veri e propri testi specialistici. Il tema della conduzione e della distribuzione delle acque è argomento del libro X del De re aedificatoria di Alberti, redatto a metà Quattrocento e pubblicato a Firenze nel 1485, ed è discusso in un testo, che è nel contempo un trattato sull’innovazione tecnica in agricoltura e un libro di macchine, quale i Tre discorsi sopra il modo d’alzar acque da’ luoghi bassi (1567) di Giuseppe Ceredi (cfr. Maffioli 2010, pp. 125-30). Ma è anche discusso nel De rerum varietate di Girolamo Cardano (1501-1576) che, oltre a citare il trattato albertiano e il De aquaeductibus urbis Romae di Frontino (1° sec. d.C.), tenne nel dovuto conto la pratica della distribuzione delle acque nei navigli milanesi.
Dei primi testi specialistici si ricorda un trattato manoscritto sui fiumi e la conduzione delle acque, sulle operazioni di livellazione e le bonifiche, redatto tra fine Cinquecento e inizi Seicento da Giovan Battista Aleotti (1546-1636), un architetto che fu al servizio di Alfonso II d’Este, del comune di Ferrara e del governo pontificio; così come il primo trattato a stampa di idraulica fluviale, la Architettura d’acque di Giovan Battista Barattieri (1601-1677), pubblicato a Piacenza nel 1656 (il secondo volume venne pubblicato nel 1663).
L’attributo specialistici non significa che siamo in presenza di trattazioni sistematiche della materia, ma di opere almeno in parte concepite per l’educazione dei professionisti delle acque. Il codice aleottiano ambiva a essere una summa dell’idraulica rinascimentale del delta del Po, ma il suo principale interesse è dato dalle notizie di prima mano fornite dall’autore. Anche per il libro di Barattieri, benché il tema sia meglio delineato e la trattazione più ordinata, valgono considerazioni in parte analoghe. Il centro dell’opera non riguarda tanto le acque delle terre basse, come nel caso di Aleotti, ma la regolazione dei fiumi (1° vol.) e la misura delle acque correnti e le irrigazioni (2° vol.), in accordo con l’esperienza maturata dall’autore, che nel frontespizio si presenta come un «ingegnero, collegiato di Lodi, & approvato dalla Regia Ducal Camera di Milano».
Aleotti intendeva pubblicare la Hidrologia overo ragionamento della scienza et arte dell’acque a uso della professione, per «dilatar un’arte, della quale per ancora (ch’io mi sappia) non se ne trova scritto nissun trattato particolare» (Della scienza et dell’arte del ben regolare le acque, a cura di M. Rossi, 2000, p. 198 [c. 7r]). L’ispirazione veniva comunque da Vitruvio:
Ma perché quest’arte [delle acque] è subalterata dall’architettura civile, deve ella perciò esser particolarmente sottoposta a i precetti di Vitruvio; onde conviene che chiunque vorrà di questa far professione, habbia imparato qualche parte della theorica et della prattica di essa (Della scienza et dell’arte del ben regolare le acque, cit., p. 198 [c. 7v]).
Anche Barattieri si muoveva sulla stessa falsariga: era un seguace di Vitruvio, ma rivendicava l’originalità e l’importanza della sua scelta. Nell’avvertimento ai lettori è non a caso sottolineato che
il parlar d’acque sia una materia stravagante, come m’è testimonio la scarsezza de gli autori che ne parlano, e quei pochi tanto brevemente, che apena mostrano di essa la superficie. Il nostro poco, unito a ciò che n’hanno altri scritto, potrà forsi servire di tanto fondamento a questa scienza, che in avenire si potranno meglio radrizzare le operationi, e massime quelle che per altro si vedono guidate dal caso a precipitarsi nel roverscio (G.B. Barattieri, Architettura d’acque, 1° vol., 1656, p.n.n.).
Nel passo citato viene dunque detto a chiare lettere che scopo dei trattati d’acque dovrebbe essere quello di guidare la pratica ingegneristica, in modo da non lasciarla in balia del «caso» e da evitare errori di progettazione, di esecuzione e di gestione amministrativa. Un tema, quello degli errori e della maniera di evitarli, che percorre tutta la letteratura tecnica e che nelle prossime pagine si affaccerà più volte.
La misura delle acque e i navigli milanesi
Diverse edizioni di Vitruvio, pubblicate tra il Quattrocento e il Cinquecento, sono accompagnate dalla stampa del trattato sugli acquedotti della città di Roma di Sesto Giulio Frontino, che fu nominato curator aquarum dall’imperatore Nerva. Nel corso del suo mandato l’autore si era imbattuto in un curioso fenomeno: l’acqua che alimentava le fonti degli acquedotti (Appia, Anio vetus, Marcia, Tepula, Iulia, Virgo, Alsietina, Claudia, Anio novus) pareva essere di quantità minore dell’acqua distribuita ed erogata; la prima era infatti 12.755 quinarie, la seconda 14.018 quinarie! Non capacitandosi, Frontino misurò le acque all’origine degli acquedotti («capita ductuum») e trovò un risultato ben diverso da quello dato nei registri (i commentarii). Dalle nuove misure risultava infatti che la quantità d’acqua alle fonti superava di circa 10.000 quinarie la quantità d’acqua in erogazione data nei commentarii. Frontino attribuì queste discrepanze agli errori commessi in precedenza dai misuratori, non all’aleatorietà del metodo di misurazione. La grande differenza tra la quantità d’acqua alle fonti e quella che appariva in erogazione era anche dovuta, secondo Frontino, alle frodi perpetrate dai custodi degli acquedotti e dagli utenti, che derivavano illegalmente parte dell’acqua (Sextus Iulius Frontinus, De aquaeductibus urbis Romae, a cura di G. Poleni, 1722, §§ 64 e 74-75, pp. 112-14 e 141-44).
I testi di Frontino vennero discussi da Benedetto Castelli (1577 ca.-1643) nella prima appendice del trattato Della misura dell’acque correnti, in cui il matematico galileiano aveva sostenuto come la semplice misurazione delle sezioni trasversali dei corpi d’acqua non fornisse una stima corretta delle quantità d’acqua effluite. Secondo Castelli era più che probabile che Frontino avesse ragione riguardo all’esistenza di frodi, «perché purtroppo è vero che il Publico quasi sempre è ingannato». Il metodo di misurazione di Frontino, che non teneva conto della velocità dell’acqua nei luoghi in cui se ne misuravano le dimensioni trasversali, era però errato e non poteva fornire una stima affidabile della portata degli acquedotti (Della misura dell’acque correnti, 1628, pp. 28-29).
Una problematica in parte simile la si ritrova nei navigli e nei canali d’irrigazione milanesi e lombardi, costruiti tra il 12° e il 15° sec. (i più noti sono il Naviglio grande, che deriva l’acqua del Ticino e collega Milano al Lago Maggiore; il Naviglio della Martesana, tra l’Adda e Milano; la Muzza, che incanala l’acqua dell’Adda a beneficio delle campagne del lodigiano). Anche nella Milano del Quattrocento e Cinquecento, come nella Roma imperiale di Frontino, si avevano consistenti e sistematici furti d’acque. In alcune minute di lettere del 1508 Leonardo lamentava, per es., che, a causa della magra del canale dovuta ai furti d’acque, non gli era permesso di estrarre dal Naviglio grande le 12 once d’acqua donategli da Luigi XII (Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, cit., ff. 219v, 254r, 644r. 872r e 1037v).
Come nel caso della quinaria, anche a Milano l’unità di misura della quantità d’acqua erogata (l’oncia d’acqua) era semplicemente definita mediante le dimensioni dell’apertura. Ma mentre nell’antica Roma si faceva riferimento ai fori circolari di tubi di bronzo di data capacità o modulo (tra cui le ‘fistole quinarie’ di Frontino), i bocchelli nelle sponde dei navigli erano intagliati in blocchi di pietra ed erano di forma rettangolare. Il metodo di distribuzione escogitato mostra come gli ingegneri milanesi fossero non solo consapevoli che la velocità modifica la quantità d’acqua erogata dalle bocche, ma che cercassero di standardizzarle in modo da rendere all’incirca uguali le velocità d’efflusso. Secondo gli Ordines confecti anno 1503 – una copia, sottoscritta da sei ingegneri milanesi, è stata identificata tra le carte dell’ingegnere Martino dell’Acqua ed è a essa che si fa qui riferimento –, i bocchelli, tutti della stessa altezza, dovevano avere larghezze proporzionali alle rispettive concessioni. Dovevano inoltre essere posti a una certa distanza dal fondo del canale, in modo da non ostacolare la navigazione. Anche la distanza verticale tra i bocchelli e la superficie dell’acqua che scorreva nel canale, distanza che gli ingegneri milanesi chiamavano battente dell’acqua, andava regolata e uniformata in tutte le bocche (Ordines pro extrahendis aquis e navigiis et fossis Mediolani confecti anno 1503, in Milano, Archivio storico civico, cod. E2; cfr. F. Repishti, “Martinus de Laqua ingeniarius et arc[hitectus] subscripsi”. Due codici milanesi del Cinquecento sull’ars mensoria, «Quaderni dell’Ateneo di scienze, lettere e arti di Bergamo», 1999, p. 22).
Quella del battente non era una novità assoluta. Erone aveva, per es., descritto un sifone galleggiante in cui, mantenendo costante la distanza verticale tra la superficie dell’acqua nel vaso in cui pescava il sifone e il foro di efflusso, la velocità e la portata erano costanti (Spiritalium liber, cit., cap. III, De fluxu semper aequali per siphonem inflexum, p. 13r-v). Ma questa dei navigli milanesi era forse una delle prime esperienze su grande scala dove si cercava di regolare la velocità di erogazione, applicando la nozione di battente a una situazione complessa di distribuzione delle acque.
Il problema non era in ogni caso di semplice soluzione, e non solo a causa della renitenza degli utenti (in genere grandi proprietari terrieri, fossero essi famiglie patrizie o enti religiosi) a collaborare con l’autorità a cui era demandato il governo delle acque. Come si sarebbe in effetti potuto avere lo stesso battente su ogni bocchello e in ogni periodo dell’anno, data la grande variabilità del livello del pelo libero dei canali? Nella prima età spagnola, sotto l’impulso di Filippo II e del magistrato delle entrate straordinarie, il problema venne però almeno parzialmente risolto grazie alla distinzione tra battente vivo e battente morto operata dall’ingegnere Giacomo Soldati (1540 ca.-1600).
Secondo il modello del 1503, l’acqua che effluiva dai bocchelli rettangolari veniva incanalata tramite un canale o «tromba» in muratura, di cui si prescrivevano la lunghezza e la pendenza. Le larghezze della tromba e dello stramazzo rettangolare che immetteva l’acqua nella vera e propria roggia dipendevano dalla larghezza del bocchello, ma per il resto erano anch’esse regolate. Nel nuovo tipo di bocca d’irrigazione proposto da Soldati, che tra il 1572 e il 1573 venne introdotto nel Naviglio grande, tra l’orificio di presa in muratura praticato nella sponda del naviglio e il bocchello in pietra era interposto un serbatoio o castello, in cui il livello dell’acqua era mantenuto fisso alzando o abbassando una saracinesca che regolava l’apertura dell’orificio di presa. Con questa operazione, anche se variava il battente vivo sull’orificio esterno lungo la sponda del canale, il battente morto sopra il bocchello interno restava sempre della misura stabilita dal magistrato (Arte e scienza delle acque nel Rinascimento, 2003, pp. 116-25).
Il fervore in campo tecnico e amministrativo sulla regolazione dei navigli non mancò di interessare un innovatore quale Cardano, che cercò di dare una veste matematica e filosofica alla materia. Cardano non trattò il battente delle bocche, ma i due elementi (oltre al tempo d’erogazione) che determinavano la quantità d’acqua erogata dai bocchelli rettangolari: l’ampiezza dell’apertura e l’impeto dell’acqua (De rerum varietate, 1557, lib. I, cap. 6, p. 34). Il tema delle cause della velocità delle correnti dei fiumi, discusso nello stesso capitolo del De rerum varietate, non mancò d’altro canto di trovar spazio nel trattato di Barattieri. Assistiamo così a una feconda circolazione di idee tra ingegneri architetti e matematici filosofi: dotti come Cardano (e, come vedremo, Castelli) si appropriano di nozioni tecniche e in parte le sistematizzano e le trasformano; le nuove teorie di Cardano (e di Castelli) vengono a loro volta utilizzate da tecnici quali Barattieri nella trattatistica rivolta ai futuri professionisti delle acque.
Benedetto Castelli e i periti ferraresi e bolognesi
La controversia tra Ferrara e Bologna sulle acque del fiume Reno costituì, per oltre tre secoli, un grande campo di sperimentazione tecnica e scientifica, un laboratorio in cui arte e natura si intrecciavano e si condizionavano vicendevolmente. I tecnici e i matematici si contrapponevano tra loro a seconda delle rispettive appartenenze, ma discutevano anche di aspetti in genere sottaciuti. Si è, per es., visto come il dibattito sul Reno di due matematici di fine Seicento, Macrini e Guglielmini, riguardasse anche concezioni alquanto diverse della tecnica e del modo di rapportarsi alla natura da parte dell’uomo; qui si discuterà invece delle relazioni tra Castelli e i periti ferraresi e bolognesi, così come della sperimentazione sul campo che venne realizzata nel corso della visita d’acque di monsignor Ottavio Corsini.
Castelli aveva l’incarico di assistere Corsini e di sopraintendere al lavoro dei periti e degli altri tecnici coinvolti. La visita iniziò l’8 gennaio 1625 e si concluse il 10 aprile dello stesso anno. Il lavoro sul campo consistette nella livellazione e nel tracciamento delle diverse linee che erano state proposte per divertire il Reno; nell’ispezione di fiumi, condotti di scolo e valli paludose; nella simulazione delle condizioni reali dei grandi fiumi effettuando esperimenti con corsi d’acqua di portata più ridotta; nella discussione dei pro e dei contro di ogni progetto.
I ferraresi temevano che il Reno, se fosse stato immesso nel Po grande come chiedevano i bolognesi, avrebbe inondato le loro campagne e volevano che si mettessero in sicurezza tutti gli argini dei fiumi (rialzandoli e rafforzandoli, con costi di fatto insostenibili). Il 2 aprile 1625 ci fu, a questo proposito, un confronto tra i periti di parte. Il perito ferrarese riteneva che, lungo la prima delle linee esaminata da monsignor Corsini, il Reno avrebbe dovuto avere degli argini di altezza superiore a quelli del Po grande; si sarebbero inoltre dovuti rialzare e rinforzare gli argini del Po grande sino al mare. Il perito bolognese replicò dicendo che l’altezza degli argini del nuovo alveo del Reno poteva essere più contenuta e che non sarebbe stato necessario rialzare quelli degli altri fiumi. Sottolineò inoltre, seguendo benché solo in parte l’insegnamento di Castelli, che del corpo del Reno non si poteva dare
certa misura, poscia che l’acqua in un fiume è più, e meno secondo la maggior, o minor sua velocità, e quest’acqua del Reno messa nel Po grande non accresce né alza punto il pelo d’esso Po, ma sì bene vi accresce maggiore velocità (Archivio di Stato di Bologna, Assunteria di confini e acque, Scritture relative a visite e congressi d’acque, I, 2, Verbale della visita Corsini, c. 274v).
Questo tipo di contrapposizioni venne ricordato da Castelli, senza citare nomi e appartenenze, in due appendici del Della misura dell’acque correnti. Nella terza appendice egli criticò l’errore commesso da
tutti quei Periti [ferraresi e non], i quali per impedire che non si divertisse il Reno di Bologna nel Po dalle Valli dove di presente corre, giudic[a]rono che essendo il Reno nelle sue massime escrescenze 2000 piedi [quadri] in circa, ed essendo il Po largo 1000 piedi in circa, […] che mettendosi il Reno in Po haverebbe alzata l’acqua del Po due piedi, dal quale alzamento concludevano poi disordini essorbitantissimi, overo di straordinarie inondazioni, overo di spese immense ed intolerabili a popoli in rialzare gli Argini del Po e del Reno, e con simili debolezze si perturbano vanamente bene spesso le menti delli interessati (Della misura dell’acque correnti, cit., p. 30).
Nella successiva quarta appendice la critica venne invece rivolta contro l’idea espressa dal perito bolognese:
Non meno ancora si sono ingannati quelli Ingegneri e Periti che hanno affermato che mettendosi il Reno in Po non farebbe alzamento nessuno di acqua in Po. Perché la verità è che mettendosi il Reno in Po farebbe sempre alzamento, ma alle volte maggiore, alle volte minore, secondo, che ritrovarà con maggiore, o con minore corrente il Po (Della misura dell’acque correnti, cit., pp. 30-31).
È probabile che il 2 aprile 1625 Castelli non intervenisse nella discussione tra i due periti. Già allora riteneva, comunque, che l’ingresso di un torrente facesse sempre innalzare l’acqua del fiume, ma non necessariamente in misura direttamente proporzionale alla sezione del torrente e inversamente proporzionale alla larghezza del fiume, come viceversa pensava il perito ferrarese. L’esperimento eseguito il giorno successivo gliene fornì parziale conferma: Corsini fece prima chiudere e poi aprire la chiavica di Burana, un canale che si gettava nel Panaro. Se fosse stata vera la tesi del perito ferrarese si sarebbero dovute osservare importanti variazioni nel livello del fiume; se invece fosse stata vera la tesi del perito bolognese non si sarebbe dovuta osservare alcuna variazione. Durante l’esperimento si osservarono delle variazioni di livello, ma alquanto contenute. «Dal che si giudica – scrisse poi Corsini nella sua relazione – dover succedere il medesimo al Po del Reno [se quest’ultimo fosse introdotto nel Po], havendo senz’altro maggior proportione Burana al Panaro che Reno al Po» (cit. in Maffioli 2010, pp. 243-45).
Le osservazioni critiche di Castelli sulla validità delle stime dei periti erano certamente corrette ma, in mancanza di misure affidabili delle velocità dei due fiumi, avevano solo valore metodologico. Secondo la quarta proposizione delle Demostrazioni geometriche, che costituiscono la seconda parte del Della misura dell’acque correnti, il valore atteso h2 dell’innalzamento del Po è il prodotto di due rapporti. Il primo, A1:L2 (dove A1 è l’area della sezione del Reno e L2 la larghezza del Po, entrambe misurate nel punto di confluenza), non è altro che l’innalzamento del Po secondo il metodo tradizionale, utilizzato dal perito ferrarese. Il secondo, V1:V2, è il rapporto tra le velocità delle acque del Reno prima e dopo la confluenza nel Po. Il valore atteso dell’innalzamento del Po secondo la proposizione 4 di Castelli è dunque h2=(A1:L2)×(V1:V2). Questo valore è minore di quello ottenuto con il metodo tradizionale solo se V1<V2, cioè soltanto se le acque del Reno aumentano di velocità una volta entrate nel Po. Il rigetto da parte di Castelli del valore di h2 calcolato dai tecnici ferraresi non può, in altre parole, essere giustificato con ragionamenti puramente matematici.
Per trovare una giustificazione di tipo fisico Castelli poteva solo basarsi su quella stessa tradizione tecnica che stava criticando. Una nozione basilare della pratica ingegneristica è che i fiumi in piena sono più veloci. Nel suo libro Castelli sostenne che questa osservazione può applicarsi, pur se con qualche limitazione, al caso di un torrente che entra in un fiume:
E perché di mano in mano che il fiume se ritrova più e più pieno viene ancora per ordinario a essere constituito in maggiore e maggiore velocità, di qui è che le medesime piene del torrente che entra nel fiume fanno minori e minori altezze quanto il fiume si ritrova più e più pieno (Della misura dell’acque correnti, cit., corollario 2, p. 8).
Era l’esperienza ingegneristica che consentiva a Castelli di essere ragionevolmente sicuro della correttezza della sua critica. Il ragionamento sottostante era infatti che, una volta nel Po, le acque del Reno avrebbero aumentato di velocità a causa della maggiore profondità del corpo d’acqua (e, di conseguenza, h2 avrebbe dovuto essere minore dei due piedi indicati nella terza appendice, valore che era stato semplicemente ottenuto dividendo l’area di 2000 piedi quadri della sezione del Reno nelle sue massime piene per la larghezza di 1000 piedi del Po).
Il caso della laguna di Venezia
Mentre nel laboratorio del Reno i problemi di idraulica territoriale venivano prevalentemente trattati da magistrature cittadine e da uffici che interagivano scarsamente se non erano del tutto contrapposti, a Venezia la gestione tecnica e amministrativa delle acque lagunari era affidata a una magistratura unitaria quale quella dei Savi alle acque.
Giovanni Poleni (1683-1761), nell’opera De motu aquae mixto (1717), prima di descrivere i danni provocati dagli uomini alla laguna, sottolineò non a caso l’azione meritoria di quei patrizi a cui era stata affidata la cura del magistrato alle acque e di quegli esperti, i periti d’acque ma non solo, che con le loro osservazioni e invenzioni e con i loro scritti avevano contribuito all’avanzamento della conoscenza della natura e dei moti delle acque (De motu aquae mixto, cit., §§ 148-49, p. 78).
La serie Antichi scrittori d’idraulica veneta, edita a partire dal 1919 dall’Ufficio idrografico del Magistrato alle acque, include in effetti opere di autori come Marco Corner (o Cornaro, 1412-1465) e Cristoforo Sabbadino (1487 ca.-1560), di condizioni sociali e culturali alquanto diverse. Il primo, di famiglia patrizia dedita alla mercatura, occupò importanti cariche pubbliche, tra cui quella di Savio alle acque (1457), e divenne uno dei massimi esperti d’idraulica lagunare del Quattrocento. Il secondo proveniva invece da una famiglia di periti d’acque, o quantomeno lo era stato il padre Paolo, e nel 1542 fu a sua volta nominato proto dell’ufficio delle acque. Entrambi scrissero di acque lagunari per contrastare le erronee decisioni prese e per trovare un adeguato rimedio al problema principe della conservazione della laguna. Ed entrambi lo individuarono nell’esclusione dei fiumi, da essi ritenuti responsabili del progressivo interrimento della laguna, un programma che venne effettivamente realizzato anche se non mancarono, nel corso di questa titanica e plurisecolare impresa, ripensamenti e cambiamenti di rotta.
Attorno al 1460 Corner individuò i termini essenziali del problema: le correnti dei fiumi una volta in laguna perdono ogni forza, anche a causa del movimento contrario delle acque salse durante l’alta marea e le maree sopracomuni, e vi depositano le materie terrose che trasportano. Nel corso del riflusso solo parte dei sedimenti dei fiumi è convogliata in mare, con conseguenti interrimenti e perdite d’ampiezza e di profondità del bacino lagunare (M. Cornaro, Scritture sulla laguna, a cura di G. Pavanello, 1919, pp. 116-17). A sua volta Sabbadino, in un discorso che risale al 1543-44, descrisse il male che affliggeva la laguna con le seguenti parole:
essendo la laguna fata piciola, non riceve quella quantità di acqua salsa, che ricever solea, e, quando l’acqua dicresce, presto la si vuota: e de qui nasce che li canali, li rij, le velme e li porti si atterrano ochij vedendo. Et a questo modo se ritrovano le mura [le acque dello specchio lagunare] de la città di Venetia a nostri giorni (C. Sabbadino, Discorsi sopra la laguna, parte prima, a cura di R. Cessi, 1930, p. 23).
Sabbadino pensava che parte del danno fosse attribuibile a quegli ingegneri forestieri a cui era stata affidata la direzione delle opere per la salvaguardia della laguna, tecnici di certo competenti nei loro campi, ma poco o nulla esperti nella «professione delle acque marine» (p. 33).
La competenza architettonica e matematica di forestieri come il veronese Giocondo, che abbiamo incontrato in veste di curatore di una famosa edizione di Vitruvio, si rivelò comunque molto utile mentre si cercava di deviare il fiume Brenta verso il confine meridionale della laguna, ma solo sul piano critico e metodologico, considerato che le sue proposte sulla Brenta nova furono allora (1506) disattese (per un quadro sintetico delle vicende della diversione del Brenta tra 1488 e 1896, si veda la nota di Giuseppe Pavanello, in M. Cornaro, Scritture sulla laguna, cit., pp. 147-48).
I rilievi critici di Giocondo riguardavano anzitutto la pendenza dei diversi tratti del progettato canale: sulla base delle sue livellazioni l’architetto veronese mise in dubbio che ci fosse una caduta sufficiente. L’ingegnere incaricato dell’opera, il bergamasco Alessio Aleardi, protestò vivamente sostenendo (come riportato da Giocondo) «che li miei livelli sono falsi». Giocondo chiese allora un confronto fondato su relazioni scritte:
Avvisando V[ostr]a S[erenit]à che questo me pare molto forte e novo in questa inclita Città, né assueto a me de vedere de cose importante appresso li altri Signori, che d’una tanta facenda, quanta è questa Brenta, questo Eccell.mo Dominio se reposi sulle
spalle de’ Ingegneri senza expresse ed autentiche scritture loro di tutte le opinioni loro, over ragione delle cose che propongono over suggeriscono […] et per venire al groppo di questa faccenda: in primis perché Alexio ha ditto nanti questo Eccell.mo Dominio che li miei livelli sono falsi […] supplico V[ostr]a S[erenit]à che l’ faza deponer in scritto li suoi livelli et ragione de’ quelli, e ch’el scriva cum che ragione et argomento tene, che la Brenta nova recessibile durabile et perpetua et che tra S. Bruson et Conche non avendo sborador non la [s]ia contumace et apta a rompere nel tempo delle brentane o verso il Piovado o verso Venezia (Le quattro scritture di Fra Giocondo sulla diversione del Brenta, in R. Brenzoni, Fra Giovanni Giocondo veronese, 1960, pp. 141-42).
Tra i problemi posti sul tappeto da Giocondo e da Sabbadino c’era, come si è visto, quello della preparazione dei tecnici. Mentre però per il secondo la pratica delle acque lagunari costituiva l’aspetto centrale, per il primo la competenza tecnica consisteva anche nell’esecuzione di precise misurazioni con strumenti matematici, quali la livella, e nella capacità di tradurre per iscritto e in modo circostanziato le proprie idee e i propri progetti.
La tensione tra empirici e teorici percorre l’intera storia delle professioni, ma nel caso specifico, data l’assenza di adeguate conoscenze scientifiche nel campo delle acque correnti, si trattava di una tensione ancora largamente interna alla professione ingegneristica e architettonica. Il divario fu in parte colmato nel Seicento, grazie soprattutto a Castelli e a Guglielmini. Nel primo Settecento venne poi introdotta da Poleni la teoria matematica del moto misto dell’acqua, che tra l’altro cercava di tener conto della complessità dei moti delle acque lagunari.
La teoria poleniana si basava su una serie di importanti esperimenti e forniva qualche precisa indicazione sui moti di marea attraverso la bocca di un porto della laguna e, più in generale, sull’efflusso che gli specialisti d’idraulica oggi chiamano a stramazzo rigurgitato (A. Ghetti, Poleni idraulico teorico, in Giovanni Poleni nel bicentenario della morte, 1963, pp. 20-26). Secondo Poleni sino ad allora ci si era limitati a studiare con qualche precisione il moto semplice o moto libero di caduta. Quando invece l’acqua in caduta incontra una massa d’acqua stagnante e la mette in movimento, il moto complessivo è chiamato misto da Poleni perché riguarda sia l’acqua viva (in caduta) sia l’acqua morta, ora non più stagnante (G. Poleni, De motu aquae mixto, cit., §§ 2, 4, 6 e 10, pp. 2-3). Esperimenti vennero effettuati per stabilire i parametri dei moti semplice e misto, quest’ultimo in funzione delle altezze di acqua viva e morta. Poleni misurò anche le escursioni di marea nella bocca di un porto e, grazie all’utilizzazione del calcolo differenziale, propose una formulazione analitica della portata del flusso di marea attraverso una bocca lagunare (Maffioli 1994, pp. 352-70).
La sperimentazione in campo idraulico sino a Francesco Domenico Michelotti
Nella prima età moderna gran parte della sperimentazione idraulica non era costituita da esperimenti di laboratorio – come quelli descritti da Poleni nel De motu aquae mixto che, sebbene eseguiti all’aria aperta, richiedevano un’apparato sperimentale ad hoc (tre serbatoi disposti a cascata, con l’ultimo parzialmente immerso in una fossa d’acqua stagnante) –, ma da esperimenti sul campo promossi per iniziativa di un ufficio o di una magistratura cittadina o statale. Questo secondo genere di sperimentazione, che serviva a dirimere questioni spesso di grande rilevanza, aveva comunque dei tratti in comune con la sperimentazione scientifica. Veniva effettuata in presenza di autorevoli testimoni; le misurazioni potevano essere replicate e controllate; era seguita da un relazione scritta se non da un vero e proprio verbale. La relativa documentazione (a volte corredata da un significativo supporto cartografico) era conservata negli archivi dell’ufficio o da persone di fiducia ed era consultabile dai tecnici preposti, che potevano estrarne copia. Si venne così formando una tradizione tecnica di tipo nuovo non più basata solo sul rapporto maestro-allievo e sull’apprendimento orale.
La sperimentazione sul campo mancava in ogni caso, per sua stessa natura, di sistematicità e di continuità e, a volte, non costituiva neppure una base sufficiente per orientarsi nelle situazioni di ‘crisi’. Le magistrature tecniche e le autorità di governo iniziarono così ad avvalersi delle competenze dei matematici (che erano insegnanti delle scienze matematiche o cultori della materia, ma anche cartografi, inventori di strumenti matematici o altro ancora). Il passo successivo, l’istituzionalizzazione della collaborazione tra matematici delle università e uffici delle acque e la nomina di matematici di vaglia a dirigere detti uffici, pur seguendo una comune tendenza non avvenne ovunque con le stesse modalità. Anche grazie al movimento galileiano, nella Firenze di metà Seicento Vincenzo Viviani divenne ingegnere della Magistratura della parte guelfa e poi idrometra e primo matematico del granduca, tanto da soprintendere per oltre quarant’anni a tutta la politica idraulica del Granducato di Toscana. A Bologna l’astronomo Gian Domenico Cassini fu impiegato quale matematico della città e divenne, soprattutto grazie alla sua attività in campo idraulico, il lettore meglio retribuito dello Studio cittadino. Si è già detto della nomina di Guglielmini a sopraintendente alle acque (carica che venne successivamente ricoperta dai matematici Eustachio e Gabriello Manfredi), ma non si è ancora fatto cenno alla cattedra di matematica idrometrica dello Studio di Bologna, la prima cattedra d’idraulica in una università europea, istituita nel 1694 per Guglielmini.
Se volgiamo lo sguardo alla Repubblica di Venezia, e in particolare allo Studio di Padova, troviamo, prima di Poleni, l’astronomo e matematico Geminiano Montanari e lo stesso Guglielmini (che nel 1698 aveva accettato la cattedra di matematica che gli era stata offerta dai Riformatori dello Studio) a collaborare con i Savi ed esecutori alle acque (e, nel caso di Montanari, anche con i Provveditori all’Adige). Di Poleni si deve poi almeno menzionare il lavoro di consulenza svolto tra il 1716 e il 1719 su un diversivo dell’Adige, che costituì una fonte d’ispirazione del suo trattato De castellis per quae derivantur fluviorum aquae (1718), e le oltre duecento scritture d’acque (stese, da solo o con altri, tra il 1716 e il 1760) che vennero trovate tra le sue carte (Maffioli 1994, pp. 345-48). Andrebbe infine ricordato che anche a Venezia, come nel caso di Viviani in Toscana, nel 1720 venne nominato un pubblico matematico (Bernardino Zendrini) incaricato della sopraintendenza alle acque di Venezia e della Terraferma.
Gli esperimenti di laboratorio descritti nel De motu aquae mixto e nel De castellis non erano stati istituiti da Poleni per dovere di ufficio. Lo stesso vale per gli esperimenti di efflusso (da un foro in un recipiente) descritti nella prima parte dell’Aquarum fluentium mensura (1690) di Guglielmini. Questo tipo di sperimentazione era ancora largamente di natura privata, anche se favorì la carriera universitaria di entrambi gli studiosi. Nel corso del Settecento la sperimentazione scientifica iniziò comunque ad assumere forma pubblica grazie alla fondazione di centri quali l’Istituto delle scienze di Bologna (inaugurato nel 1714) e il Teatro di filosofia sperimentale dello Studio di Padova (realizzato da Poleni nel 1740), in cui tuttavia si facevano prevalentemente esperimenti didattici non specificamente rivolti all’idraulica. La materia delle acque correnti costituiva, d’altro canto, un modello di scienza rivolta all’utile e al bene comune e non mancò di essere promossa da governi e da sovrani illuminati, che fornirono i mezzi per condurre la sperimentazione idraulica di laboratorio su una scala sino ad allora inusitata.
L’esempio più significativo è il laboratorio di idraulica della Parella, fatto costruire tra il 1763 e il 1765 da Carlo Emanuele III di Savoia in un podere nelle vicinanze di Torino. L’ideatore del laboratorio, Francesco Domenico Michelotti (1710-1787), che dal 1754 ricopriva la cattedra di matematica nell’università, voleva ridurre le molte «oscurità» in cui la scienza delle acque correnti «trovasi avvolta» affiancando una legge delle resistenze di natura sperimentale ai due principi di moto in condotti aperti enunciati da Castelli (nel caso di moto permanente, l’area della sezione di un fiume è inversamente proporzionale alla velocità dell’acqua che l’attraversa) e da Guglielmini (una sezione di un fiume o di un canale inclinato può riguardarsi come un’apertura in un serbatoio, il cui battente è uguale alla caduta della corrente). Il nuovo laboratorio costituiva per Michelotti un presupposto indispensabile per realizzare l’ambizioso progetto. Già «Newton, Daniello Bernulli ed il Marchese Poleni» avevano infatti scoperto qualcosa sulla legge delle resistenze, ma senza poterla sviluppare «né conoscerne l’estensione, appunto perché fare non poterono che poche sperienze, e queste assai in picciolo, quantunque con somma accuratezza» (F.D. Michelotti, Sperimenti idraulici, 1767, prefazione e pp. 170-71).
Il sito delle esperienze era un’area di forma trapezoidale, di circa 2650 m2, delimitata da tre canaletti che conducevano e scaricavano l’acqua e dal canale dei mulini della città. All’interno di quest’area, non pianeggiante, ma declive verso il canale dei mulini, era stata costruita una torre quadrata cava (di circa 10 m di altezza) che veniva riempita d’acqua (e che dunque fungeva da serbatoio o castello d’acque) mediante un altro canaletto. L’acqua veniva lasciata fuoriuscire da una delle tre aperture poste sulla facciata della torre verso il canale dei mulini e precipitava in una vasca (la «vasca superiore») costruita al piede della torre. Da qui l’acqua poteva raggiungere la «vasca inferiore» scorrendo in uno dei quattro canaletti in muratura che congiungevano le due vasche (tutti di un piede di larghezza e di circa 4,5 m di caduta, ma di diversa lunghezza; in tre dei quattro canaletti c’erano anche diverse svolte ad angolo retto).
Il sito divenne presto un centro d’attrazione tanto da essere visitato da «ogni sorta di persone, chi tratto dal genio, chi dalla curiosità, e chi dal divertimento» (F.D. Michelotti, Sperimenti idraulici, cit., prefazione). Per comprendere le intenzioni dell’autore e lo spirito di collaborazione che animava l’impresa si deve poi ricordare che, nel descrivere i manufatti e gli esperimenti, Michelotti non usò la misura locale, ma quella «del piede e della tesa di Parigi, come la più nota a’ geometri d’Europa» (p. 3) e che non presentò gli esperimenti della Parella come un prodotto individuale, ma come uno sforzo collettivo (citò non a caso i nomi di quattro architetti piemontesi, a cui si doveva parte significativa del lavoro sperimentale e dei calcoli).
Un metodo per ottenere qualche indicazione quantitativa sulla legge delle resistenze era quello di determinare la massima contrazione della vena effluente. Un altro metodo consisteva nel confrontare la velocità teorica della corrente in una sezione di un canaletto con la velocità effettiva in detta sezione. Per determinare quest’ultima si misurava la portata tramite il tempo necessario a riempire un dato volume (della vasca superiore); poi, senza modificare il flusso dell’acqua che dalla torre precipitava nella vasca superiore, si sollevava la portina del canaletto e si lasciava scorrere l’acqua verso la vasca inferiore. Una volta raggiunta la stazionarietà della corrente, si misurava l’area della sezione presa in considerazione. La velocità effettiva cercata (data dal rapporto tra la portata e l’area della sezione) veniva infine confrontata con la velocità teorica (che si otteneva dal calcolo). In un esperimento relativo a una sezione nell’ultimo tratto (orizzontale) del quarto canaletto (lungo circa 82 m e dotato di sei svolte), a fronte di una velocità teorica di 29 piedi al secondo, la velocità effettiva era poco meno di 2 piedi al secondo. La velocità «perduta», circa 27 piedi al secondo, per Michelotti era «effetto delle resistenze del fondo, delle sponde, e delle svolte insieme» (Sperimenti idraulici, cit., pp. 129-30). Anche se questi metodi sperimentali fornivano solo indicazioni di larga massima per la determinazione della legge delle resistenze, permettevano comunque di confutare errori e teorie erronee (come quella di Léopold Genneté, che aveva avuto una certa eco in Italia) e di proporre un modello di standardizzazione e di precisione operativa che costituì un importante riferimento per gli studiosi d’idraulica.
Arte e natura
In questo saggio si è fatto cenno ad alcune tra le maggiori realizzazioni della tecnica idraulica tra basso medioevo e tardo Rinascimento: la chiusa di Casalecchio e il canale di Reno di Bologna, i navigli e i canali d’irrigazione del Milanese, l’esclusione dei fiumi dalla laguna di Venezia (a cui si deve aggiungere il taglio di porto Viro del 1599-1604 che dette una nuova foce al Po, allontanando le sue acque dalla laguna). Ma sono rimasti in ombra gli interventi di microidraulica poderale, che tra il 15° e il 18° sec. contribuirono in modo determinante alle trasformazioni agricole, e le lotte secolari contro le paludi e le inondazioni dei fiumi. Interventi e lotte che, nella valle del Po ma non solo, costituirono il fondamento di una cultura idraulica diffusa a cui almeno in parte si dovette lo sviluppo di apparati tecnico-amministrativi e della stessa scienza idraulica (Cazzola 1987, pp. 38-53).
Il contributo della sapienza tecnica alla trasformazione dei saperi matematici fu accompagnato da un cambiamento epocale del modo di porsi dell’arte nei confronti della natura. Per indagare le potenzialità dell’arte si dovevano infatti scoprire i limiti e le leggi della natura, l’arte non poteva procedere separatamente dalla scienza. Ed è altamente significativo che furono a volte gli insuccessi dell’arte a indicare la via del rinnovamento. Con i sifoni non si potevano condurre le acque al di là delle montagne, come sembravano credere Francesco di Giorgio e (almeno per un certo tempo) Leonardo, e altri prima e dopo di loro. Ma fu quasi certamente grazie alla sperimentazione sul campo, fatta per capire come mai non fosse possibile condurre con un sifone dell’acqua al di là di un’altura di una ventina di metri di altezza, se nel 1638 Galileo Galilei riuscì a proporre un valore sostanzialmente corretto dell’altezza limite, e cioè la misura di quella che è oggi nota come pressione atmosferica (Maffioli 2010, pp. 175-82 e 334-36).
Nell’antichità classica non erano mancate le concezioni che appaiavano l’arte ingegneristica con lo studio della natura. La meccanica però, secondo la concezione che finì per imporsi nell’Occidente latino, andava contro o oltre natura. La rivoluzione galileiana modificò radicalmente questa tesi: non esiste alcuna distinzione ontologica e di principio tra i due ambiti, tra la meccanica (lo studio dei moti violenti) e la fisica (lo studio dei moti naturali). O, come ebbe a esprimersi Sagredo intorno alla possibilità di creare il vuoto, «l’opinion mia è che nissuna cosa sia contro a natura salvo che l’impossibile, il quale poi non è mai» (G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, 1638, p. 13). Anche all’interno della cultura idraulica è dato trovare la concezione che l’arte sia una sorta di intervento chirurgico fatto sul ‘corpo’ della natura e la concezione opposta, in cui l’arte utilizza le forze della natura affinché contribuiscano a restituire ‘salute’ al fiume, alla laguna o al territorio. Concezioni che erano espressione di pratiche diverse, antiche quanto la storia dell’umanità. Ma che non furono giudicate equivalenti da Galilei e da altri promotori della rivoluzione scientifica, i quali si schierarono per un ritorno della tecnica alla natura, seguendo in questo le idee vitruviane di tanti artisti-ingegneri rinascimentali.
Opere
L.B. Alberti, De re aedificatoria, Florentiae 1485.
Marcus Pollio Vitruvius, M. Vitruvius per Iocundum solito castigatior factus cum figuris et tabula ut iam legi et intelligi possit, Venezia 1511.
Marcus Pollio Vitruvius, De Architectura libri dece traducti de latino in vulgare affigurati commentati & con mirabile ordine insigniti [da parte di C. Cesariano], Como 1521.
G. Cardano, De rerum varietate libri XVII, Basileae 1557.
Heronis Alexandrini Spiritalium liber. A Federico Commandino urbinate ex graeco nuper in latinum conversus, Urbini 1575.
B. Castelli, Della misura dell’acque correnti, Roma 1628.
G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla mecanica & i movimenti locali, Leida 1638.
G.B. Barattieri, Architettura d’acque, 2 voll., Piacenza 1656-1663.
B. Castelli, Della misura dell’acque correnti. In questa terza edizione accresciuta del secondo libro, e di molte curiose scritture non più stampate, Bologna 1660.
D. Guglielmini, Aquarum fluentium mensura nova methodo inquisita, 2 voll., Bononiae 1690-1691.
D. Guglielmini, Della natura de’ fiumi, Trattato fisico-matematico, Bologna 1697.
G. Poleni, De motu aquae mixto libri duo. Quibus multa nova pertinentia ad aestuaria, ad portus, atque ad flumina continentur, Patavii 1717.
G. Poleni, De castellis per quae derivantur fluviorum aquae habentibus latera convergentia liber. Quo etiam continentur nova experimenta ad aquas fluentes et ad percussionis vires pertinentia, Patavii 1718.
Sextus Iulius Frontinus, De aquaeductibus urbis Romae commentarius, a cura di G. Poleni, Patavii 1722.
F.D. Michelotti, Sperimenti idraulici principalmente diretti a confermare la teorica e facilitare la pratica del misurare le acque correnti, 2 voll., Torino 1767-1771.
D. Guglielmini, Scritture sopra vari progetti fatti per la diversione del Reno, ordinate da E. Manfredi, in Raccolta d’autori italiani che trattano del moto dell’acque, 2° vol., Bologna 1822, pp. 103-269.
M. Cornaro, Scritture sulla laguna 1412-1464, a cura di G. Pavanello, Venezia 1919.
C. Sabbadino, Discorsi sopra la laguna, a cura di R. Cessi, Venezia 1930.
Francesco di Giorgio Martini, Trattati di architettura ingegneria e arte militare, a cura di C. Maltese, 2 voll., Milano 1967.
Leonardo da Vinci, Il Codice Atlantico della Biblioteca Ambrosiana di Milano, sotto gli auspici della Commissione nazionale Vinciana, trascrizione diplomatica e critica di A. Marinoni, 24 voll., Firenze 1973-1980.
Filone di Bisanzio, Pneumatica. The first treatise on experimental physics, ed. F.D. Prager, Wiesbaden 1974.
Leonardo da Vinci, I codici di Madrid, a cura di L. Reti, 5 voll., Firenze 1974.
Francesco di Giorgio Martini, Il codice Ashburnham 361 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, a cura di P.C. Marani, 2 voll., Firenze 1979.
Leonardo da Vinci, I manoscritti dell’Institut de France, ed. facs. sotto gli auspici della Commissione nazionale Vinciana e dell’Institut de France, trascrizione diplomatica e critica di A. Marinoni, 12 voll., Firenze 1986-1990.
G.B. Aleotti, Della scienza et dell’arte del ben regolare le acque, a cura di M. Rossi, Modena 2000.
Francesco di Giorgio Martini, La traduzione del “De architectura” di Vitruvio dal ms. II.I.141 della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, a cura di M. Biffi, Pisa 2002.
Bibliografia
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Prima di Leonardo. Cultura delle macchine a Siena nel Rinascimento, a cura di P. Galluzzi, Milano 1991.
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Giambattista Aleotti e gli ingegneri del Rinascimento, a cura di A. Fiocca, Firenze 1998.
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La mente di Leonardo. Nel laboratorio del Genio Universale, a cura di P. Galluzzi, Firenze 2006.
C.S. Maffioli, La via delle acque (1500-1700). Appropriazione delle arti e trasformazione delle matematiche, Firenze 2010.
C.S. Maffioli, A fruitful exchange/conflict: engineers and mathematicians in early modern Italy, «Annals of science», 2013, 2, pp. 197-228.