Sapere
La disciplina che si è occupata della natura della conoscenza in generale è stata tradizionalmente la filosofia. Le principali problematiche che essa tratta riguardano il rapporto tra conoscenza e credenza (o ideologia), la validità e l'attendibilità dei nostri enunciati sulla realtà esterna, i presupposti necessari alla produzione di conoscenze, la funzione del linguaggio, ecc. L'idea che la genesi, la struttura e i contenuti del pensiero umano siano condizionati da fattori sociali, economici e politici, invece, è stata sempre considerata con sospetto, se non apertamente rifiutata, dai filosofi, i quali tutt'al più hanno ammesso che fattori extrateoretici possano influenzare la genesi delle idee, non certo però la struttura né la validità del pensiero. Un elemento che ha accomunato correnti filosofiche peraltro assai diverse tra loro è stata la preoccupazione di collocare la conoscenza e il sapere su basi solide e incontestate, addirittura al di là della sfera dell'esperienza storica e sociale, onde evitare i pericoli del relativismo e dello scetticismo insiti nel tentativo di ricollegare le categorie del pensiero e le forme cognitive alla realtà sociale.
Solo negli anni venti, con la nascita della cosiddetta Wissensoziologie, l'analisi delle connessioni tra le categorie del pensiero, le forme della conoscenza e le strutture sociali acquista una sua autonomia diventando un campo di studio specifico. Un importante precursore dell'approccio sociologico alle tematiche relative al sapere e alla conoscenza può essere considerato Karl Marx, con la sua critica dell'ideologia che riconduce il sistema di idee, conoscenze, giudizi e valori (la 'sovrastruttura') di una società ai processi socioeconomici. L'impostazione marxiana continuerà a rivestire un'importanza centrale nella sociologia della conoscenza, e ha ispirato alcune analisi esemplari dei problemi della produzione culturale, ad esempio quelle condotte da György Lukács.
Un'altra figura essenziale per la definizione delle tematiche tipiche della sociologia della conoscenza è Émile Durkheim. In particolare ne Le forme elementari della vita religiosa (1912) e nel saggio Su alcune forme primitive di classificazione (1901-1902), scritto in collaborazione con Marcel Mauss, egli affermò che le categorie fondamentali della nostra percezione e del nostro modo di ordinare l'esperienza (spazio, tempo, causalità, direzione, ecc.) derivano dalla struttura sociale, almeno nelle comunità più semplici. Durkheim, Mauss e Lévy-Bruhl analizzarono le forme di classificazione logica delle società 'primitive' arrivando alla conclusione che le categorie cognitive fondamentali non solo sono trasmesse dalla società, ma sono a tutti gli effetti creazioni sociali. Gli assunti di fondo delle teorie durkheimiane sono stati oggetto di aspre critiche, ma l'idea che i sistemi di classificazione del mondo esterno siano un riflesso dei sistemi di classificazione dei rapporti sociali continua a costituire il presupposto di fondo di molte analisi sociologiche.
Quella che diverrà nota come Wissensoziologie - ossia la sociologia della conoscenza come campo di studi specifico, che si propone di analizzare le condizioni sociali o esistenziali del pensiero e della conoscenza - nacque in Germania negli anni venti, e può essere considerata l'espressione intellettuale di un'epoca di crisi, di un clima culturale improntato a una 'coscienza tragica'. La nozione simmeliana di 'tragedia della cultura', ma anche la visione pessimistica di Max Weber, secondo il quale l'inarrestabile processo di razionalizzazione porta al disincantamento del mondo e a nuove forme di schiavitù, possono essere considerate espressioni sintomatiche di un momento di crisi in cui filosofi, storici, ma soprattutto sociologi si confrontano con i problemi posti dal relativismo e dallo scetticismo filosofico, e in generale da una sfiducia generalizzata nei confronti del Geist.
Il concetto di Wissensoziologie venne introdotto all'inizio degli anni venti da Max Scheler, il quale ne diede una prima, sistematica trattazione in Versuche zu einer Soziologie des Wissens (1925). Scheler ampliò la nozione marxiana di sovrastruttura identificando diversi 'fattori reali' (Realfaktoren) che a suo avviso hanno condizionato il pensiero nei vari periodi storici e nei vari sistemi sociali e culturali. Questi 'fattori reali' sono stati considerati da molti critici come forze istintuali istituzionalizzate, e come una interpretazione astorica del concetto marxiano di sovrastruttura. L'insistenza di Scheler sull'esistenza di un sistema di valori e di idee assoluti e atemporali, ossia di una sfera di essenze eterne completamente avulse dalla realtà storica e sociale, limita la validità della sua nozione di 'fattori reali' per la spiegazione del mutamento sociale e culturale.
Il contributo più significativo di Scheler nell'ambito della Wissensoziologie è rappresentato forse dalla sua tipologia delle forme di conoscenza. Egli distingue tre tipi di sapere: il 'sapere liberatorio' (Erlösungswissen), che conduce alla salvezza e corrisponde alla conoscenza teologica; il 'sapere culturale' (Bildungswissen), o conoscenza di pure essenze; il 'sapere di dominio' (Herrschaftswissen), in grado di apportare modifiche all'ambiente, soprattutto naturale, e che corrisponde alla conoscenza tecnica e scientifica. Molti dei tentativi di classificazione delle forme di conoscenza compiuti successivamente risentono chiaramente dell'influenza di Scheler, ancorché il debito nei suoi confronti sia raramente riconosciuto o esplicitamente ammesso. Un esempio è costituito dalla nota distinzione operata da Jürgen Habermas (v., 1965) tra i tipi di interessi costitutivi delle varie sfere del sapere (interessi tecnici, ermeneutici ed emancipatori).
Il tentativo più sistematico e ambizioso di fondare un'analisi sociologica del pensiero e della conoscenza fu compiuto, sempre in area tedesca, da Karl Mannheim. Al pari di Scheler, egli estese il concetto marxiano di sovrastruttura affermando che fattori biologici, elementi psicologici e fenomeni spirituali potrebbero prendere il posto dei rapporti economici primari nella struttura. Tuttavia - in sintonia con l'epistemologia all'epoca dominante - egli riteneva che il sapere tecnico e scientifico non potesse essere oggetto di un'analisi sociologica. Gli studi di Mannheim sulle condizioni sociali associate a diverse forme di conoscenza sono tuttora considerati esempi insuperati del tipo di analisi proprio della sociologia della conoscenza. Oltre che in Ideologia e utopia (1929) Mannheim affronta anche in altri lavori l'analisi della competizione come forma culturale, del pensiero conservatore, del problema generazionale e dell'ambizione economica.
Mannheim era convinto che la Wissensoziologie, ossia l'analisi condotta in una prospettiva sociologica delle condizioni in cui nascono i diversi sistemi di idee, le filosofie politiche, le ideologie e i vari prodotti culturali, fosse destinata ad assumere un ruolo di primo piano nella vita politica e intellettuale, soprattutto in un'epoca di crisi, di disgregazione e di conflitto. L'idea che la sociologia della conoscenza abbia un'importanza centrale in ogni strategia mirata a riconciliare ragione e politica costituisce una sorta di filo conduttore rintracciabile in tutti i contributi di Mannheim. A suo avviso, tale approccio può esercitare un'importante influenza sugli intellettuali, richiamandoli alla loro vocazione alla sintesi e consentendo loro di osservare con distacco e neutralità le parti in conflitto nella società. Tuttavia per quanto concerne i modi specifici in cui la sociologia della conoscenza può influenzare la politica, le idee di Mannheim subirono delle fluttuazioni e delle modifiche. Si possono individuare tre posizioni fondamentali al riguardo. In primo luogo, la sociologia della conoscenza viene vista da Mannheim come un metodo pedagogico ma anche politico per affrontare le forze che agiscono nella sfera politica e per agire su di esse.
In secondo luogo, egli attribuisce alla Wissensoziologie il ruolo di uno strumento di illuminazione, collegato al duplice processo di razionalizzazione e di individualizzazione identificato da Max Weber; in questo senso essa sarebbe affine alla psicanalisi, in quanto mira a liberare gli individui dalla soggezione a forze occulte di cui non hanno il controllo, mettendoli in condizione di attuare scelte razionali e responsabili.
Infine, nell'opera di Mannheim emerge una concezione della sociologia della conoscenza come arma contro i miti dominanti e come metodo per eliminare dalla scienza sociale pregiudizi e condizionamenti, consentendole di affrontare con la necessaria oggettività i problemi politici fondamentali e di guidare l'azione politica.In anni recenti l'analisi della vita quotidiana e del sapere scientifico e tecnologico, temi entrambi trascurati dalla sociologia della conoscenza classica, si è imposta all'attenzione in questo campo di studi. Ad esempio La realtà come costruzione sociale di Peter Berger e Thomas Luckmann (1966), che si colloca nella tradizione della fenomenologia di Alfred Schutz e dell'antropologia filosofica di Arnold Gehlen, segna un netto distacco rispetto all'interesse dominante per le problematiche epistemologiche e metodologiche che aveva caratterizzato la Wissensoziologie tradizionale. Ogni fenomeno culturale e intellettuale della società viene ora accettato come legittimo oggetto d'indagine sociologica. Prendendo spunto dai recenti sviluppi nella storia della scienza, la sociologia della conoscenza contemporanea si è orientata verso le analisi empiriche della costruzione sociale dei fatti scientifici, spesso attraverso studi etnografici del mondo di vita dei laboratori. L'attenzione per la 'manifattura' della conoscenza scientifica ha portato a una rivalutazione degli assunti tradizionali in merito alla razionalità peculiare della conoscenza scientifica. Visti nella prospettiva del 'programma forte' della sociologia della conoscenza, il sapere scientifico e il sapere comune diventano di fatto per certi aspetti estremamente simili.
Quasi tutti gli autori che hanno individuato nel sapere il nuovo asse portante della società contemporanea (in particolare Daniel Bell e Radovan Richta) non si soffermano se non marginalmente sulle valenze sociali del sapere, in particolare del sapere scientifico. Le nuove caratteristiche che questo assume nell'epoca contemporanea e le sue conseguenze sociali sono date per presupposte: il sapere è trattato essenzialmente come una 'scatola nera'.I teorici della società postindustriale si limitano a mettere in evidenza come il ritmo del mutamento sociale abbia subito un'accelerazione senza precedenti, e come alla rapidità del mutamento faccia riscontro una straordinaria estensione delle conoscenze oggettive a nostra disposizione (v. Bell, 1973, pp. 168174; v. Price, 1961 e 1963; v. Bon e Burnier, 1966; v. Tondl, 1968). Tuttavia, in osservanza del modello epistemologico dominante, non viene offerta alcuna spiegazione sociologica delle condizioni che rendono possibile la rapida crescita del sapere scientifico, né vengono esplorate le ragioni della crescente domanda di sapere scientifico in varie istituzioni sociali, in particolare nel sistema economico.
Per affrontare queste problematiche si rende necessario sviluppare una teoria sociologica di ciò che viene definito 'conoscenza', 'sapere' o 'cultura', partendo da alcune precisazioni concettuali. 'Conoscere' significa entrare in relazione con cose e fatti, ma anche con regole, leggi e programmi. Una qualche forma di partecipazione dunque è costitutiva del processo cognitivo: conoscere oggetti, fatti, regole e programmi significa in qualche modo 'appropriarsene', e tale appropriazione intellettuale può essere resa indipendente o oggettiva. Ciò significa che la rappresentazione simbolica dei contenuti del sapere elimina la necessità di entrare in contatto diretto con le cose stesse. In altre parole, è possibile acquisire conoscenze dai libri (v. Collins, 1993). L'importanza sociale del linguaggio, della scrittura, della stampa, della memorizzazione dei dati, ecc., risiede nella loro capacità di rappresentare il sapere in forma simbolica, o di rendere possibili conoscenze oggettivate. Di conseguenza, la maggior parte di ciò che oggi definiamo sapere o cultura non è conoscenza diretta di fatti, regole e cose, ma si dà sotto forma di conoscenze oggettivate. Queste possono essere definite come lo stock altamente differenziato delle appropriazioni intellettuali della natura e della società, il quale costituisce a sua volta la risorsa culturale di una società. Conoscere significa allora, grosso modo, partecipare alle risorse culturali della società. Tuttavia tale partecipazione avviene in modo stratificato: le opportunità di vita, lo stile di vita e l'influenza sociale dei singoli individui dipendono dal loro accesso allo stock di sapere a disposizione.
Il sapere, definito in termini di conoscenze, idee e informazioni - per usare deliberatamente categorie assai ampie e ambivalenti -, costituisce un'entità del tutto peculiare, caratterizzata da proprietà che la differenziano da altri tipi di beni o di risorse. Il sapere può essere oggetto di scambio, ma pur diventando proprietà di altri non cessa di restare in possesso di chi lo produce; il sapere non è un gioco a somma zero; il sapere è un bene pubblico; una volta rivelato, non perde il suo potere. Mentre da tempo si è pervenuti alla convinzione che la 'creazione' di sapere sia gravida di incertezze, solo di recente si è cominciato a porre in discussione l'idea che la sua applicazione sia priva di rischi e che la sua acquisizione riduca l'incertezza. Se è del tutto legittimo e in certo senso indispensabile parlare di limiti alla crescita in molte sfere della vita e per vari tipi di risorse, ciò non sembra valere per la conoscenza. Non esistono praticamente limiti alla crescita del sapere.
Una tesi analoga venne formulata nel primo dopoguerra da Georg Simmel, il quale peraltro considerava questa capacità di crescita virtualmente illimitata del sapere (prodotti culturali) come una grave minaccia intellettuale sia per l'individuo che per la società. È questa ciò che Simmel definisce la 'tragedia della cultura', ossia il fatto che l'estensione crescente delle oggettivazioni culturali superi la capacità del singolo di appropriarsene e di interiorizzarle, realizzando una reintegrazione tra soggetto e oggetto. I prodotti umani assumono una vita propria e del tutto autonoma, imponendosi al soggetto e condizionandolo. I prodotti culturali oggettivati, osserva Simmel, possono essere moltiplicati all'infinito: ai libri si possono aggiungere altri libri, alle opere d'arte altre opere d'arte, alle invenzioni nuove invenzioni, ecc. La forma dell'oggettivazione come tale possiede una capacità di realizzazione illimitata. Ciò determina, secondo Simmel, una profonda e sempre più ampia discrepanza tra il volume dei prodotti culturali e la capacità dell'individuo di appropriarsene conferendo loro significato (v. Simmel, 1918).
Il sapere viene spesso considerato un bene collettivo per eccellenza; ad esempio, l'ethos della scienza esige la sua accessibilità universale, almeno in via di principio (v. Merton, 1942). Ma si può affermare che lo 'stesso' sapere è accessibile a tutti? Il sapere scientifico, una volta trasformato in tecnologia, è ancora soggetto alle stesse convenzioni normative? Secondo alcuni economisti, ad esempio, la tecnologia deve essere considerata un 'bene capitale privato', a differenza del sapere scientifico così come viene concepito all'interno della comunità scientifica. Nel caso della tecnologia i rendimenti economici che ne derivano possono essere oggetto d'appropriazione privata da parte dei suoi produttori (v. Dasgupta, 1987, p. 10).
Come osserva Georg Simmel l'intelletto (ovvero la conoscenza) al pari del denaro ha un rapporto piuttosto stretto con l'individualità e con il principio dell'individualismo: "Innanzitutto perché l'essenza dei suoi contenuti è che essi siano in generale comunicabili e che, presupponendo la loro correttezza, ogni spirito sufficientemente preparato debba essere in grado di convincersene - cosa per la quale sul piano della volontà e del sentimento non vi è alcuna analogia [...]. A ciò si aggiunge che i contenuti dell'intelligenza, prescindendo da complicazioni del tutto casuali, non conoscono la gelosa esclusività che i contenuti pratici della vita così spesso possiedono" (v. Simmel, 1900; tr. it., p. 618). La disponibilità apparentemente illimitata dei contenuti dell'intelligenza, che non influisce sul loro significato, li rende refrattari in modo del tutto peculiare all'appropriazione privata.Le moderne tecnologie della comunicazione facilitano e allargano l'accesso al sapere, sebbene molti ritengano probabile che si assisterà a un processo di concentrazione piuttosto che di diffusione del possesso di tale risorsa (cfr. a questo proposito le tesi di Harold Innis - v., 1951 - e di Marshall McLuhan). Nonostante sembri logico aspettarsi che la crescente importanza sociale del sapere sia destinata ad annullare l'esclusività del suo possesso, vediamo che si verifica esattamente l'opposto, e ciò ripropone il problema dei rapporti tra potere e sapere.
In questa discussione proporremo una definizione del sapere e della conoscenza in termini di capacità d'azione. Intesa in questo senso, la conoscenza costituisce un fenomeno universale, o una costante antropologica. Spesso peraltro la discussione sul ruolo della conoscenza nell'azione sociale non va oltre questa osservazione piuttosto elementare. Senza addentrarci in analisi terminologiche troppo puntuali, possiamo prendere come esempio il concetto di 'consapevolezza' (knowledgeability) degli agenti umani proposto da Giddens (v., 1984, pp. 21-22). Tale concetto denota primariamente e principalmente la consapevolezza pratica, e quindi caratterizza la conoscenza come una componente tacita e 'ordinaria', pressoché universale, dell'azione sociale. Come tale, la conoscenza è una condizione di possibilità dell'azione sociale. Giddens, dunque, non prende in considerazione i problemi connessi all'espansione del sapere, al processo di stratificazione cui può essere soggetto, al ruolo delle professioni specializzate, al rapporto tra conoscenza e potere, o al ruolo del sapere scientifico nell'espansione economica. Egli intende avanzare, sebbene ovviamente in modo non esclusivo, un argomento ontologico. Tuttavia il sapere, definito semplicemente in termini di condizione dell'azione sociale, difficilmente si presta a un'analisi sociologica. Perché questa sia possibile, occorre considerare il sapere come un fenomeno stratificato nell'azione sociale, focalizzando l'attenzione non già sulla sua universalità e reciprocità, bensì sulla sua assenza, sia pure solo temporanea, sulla sua distribuzione ineguale e sull'accesso differenziato a esso.
La definizione del sapere in termini di capacità di azione mette in evidenza il fatto che le conoscenze possono restare inutilizzate, o possono essere utilizzate per scopi irrazionali, e lascia quindi spazio per una teoria 'dialettica' dell'applicazione del sapere. L'idea, sostenuta ad esempio da C.P. Snow, che la conoscenza sia sempre spinta verso i propri limiti, ossia che venga realizzata e applicata quasi senza considerazione per le sue conseguenze (v. Sibley, 1973), ricorre piuttosto di frequente, soprattutto con riguardo allo sviluppo tecnologico. Tuttavia postulare una realizzazione pressoché automatica della scienza e della tecnologia significa trascurare il ruolo del contesto della loro applicazione. La definizione del sapere come capacità di azione mette l'accento sul fatto che la realizzazione materiale e l'applicazione del sapere dipendono dal, o sono inserite nel, contesto di specifiche condizioni sociali e intellettuali.
Una determinata conoscenza non possiede un 'valore' fisso e costante tale da consentire agli attori di tradurla in pratica o di impiegarla per scopi identici e ottenendo risultati molto simili. Nella misura in cui la realizzazione del sapere dipende dalla sua elaborazione attiva (v. lo studio di Lazega, 1992, sull'elaborazione dell'informazione nei gruppi di lavoro) nel contesto di specifiche condizioni sociali, diventa evidente un primo legame tra sapere e potere sociale, dato che il controllo delle condizioni in questione presuppone il possesso di potere sociale. Quanto più si tratta di un progetto su vasta scala, tanto più cresce il bisogno di disporre di potere sociale al fine di assicurarsi il controllo sulle condizioni necessarie alla sua realizzazione (v. Radder, 1986).
È importante osservare che il sapere, in quanto elemento delle relazioni di potere, non genera solo effetti negativi di coercizione, distorsione e repressione, come sembrano implicare invece molte concezioni tradizionali del potere, ma ha anche effetti positivi di emancipazione proprio in quanto dota il soggetto della capacità di agire. L'uso di un concetto di potere più differenziato, che tenga conto delle sue caratteristiche positive e negative, diventa tanto più importante quanto più aumentano il carattere amorfo del potere e la malleabilità delle strutture e delle condizioni sociali per la realizzazione del sapere. Questo è sotto molti riguardi una forma di potere, inteso in senso positivo come capacità di azione.
Ovviamente il sapere scientifico e quello tecnologico costituiscono esempi di 'capacità d'azione' nel senso sopra definito, e forse addirittura un tipo di capacità d'azione del tutto speciale nelle società moderne. Ciò peraltro non significa che la conoscenza scientifica debba essere considerata una risorsa incontestabile, non soggetta a interpretazione e riproducibile a volontà. L'importanza particolare che riveste il sapere scientifico-tecnologico nella società moderna deriva non tanto dal suo carattere incontrovertibile (ovvero oggettivo), quanto piuttosto dal fatto che esso costituisce, più di qualsiasi altra forma di sapere nel mondo moderno, una capacità incrementale di azione sociale; esso, inoltre, può essere oggetto di 'appropriazione privata', seppure temporaneamente. L'importanza strategica del sapere incrementale come forza immediatamente produttiva nell'ambito economico può nello specifico influenzare il modo in cui vengono organizzate la produzione e la distribuzione dei servizi, nonché il tipo di beni e servizi prodotti. È quindi sostanzialmente condivisibile l'analisi di Dosi (v., 1984, pp. 88-89), il quale, nel campo dell'innovazione industriale, individua nel sapere tecnologico e nell'appropriazione privata dei benefici economici derivanti dalle attività innovative le due condizioni fondamentali dell'innovazione nelle economie di mercato. L'innovazione nelle imprese private è strettamente legata alla loro capacità di appropriarsi temporaneamente degli incrementi addizionali di sapere e quindi dei benefici economici che derivano dal loro controllo.Il sapere non è una risorsa deperibile. In via di principio, il consumatore o l'acquirente può servirsi reiteratamente di una determinata conoscenza a costi decrescenti o nulli. Di conseguenza, ciò che conta dal punto di vista dell'acquisizione di vantaggi in formazioni sociali che operano principalmente in base alla logica del mutamento economico (crescita) e della trasformazione sociale è l'accesso a incrementi marginali di sapere e il controllo esercitato su di essi, e non già lo stock di conoscenze disponibile in generale. La scienza e la tecnologia incrementano lo stock esistente di conoscenze e quindi la capacità degli attori sia individuali che collettivi di influire sulle circostanze del loro agire. Sotto questo profilo, ossia in quanto è in grado di generare nuove capacità di azione ed è legittimata a farlo, la scienza non ha praticamente rivali nella società moderna. Nondimeno, il sapere inteso come capacità di azione non può essere ridotto alla conoscenza scientifica. Tale conclusione deriva dal teorema per cui il sapere è una sorta di costante antropologica, ma deriva anche dal fatto stesso di concepirlo in termini di capacità di azione, perché, come sottolinea Lyotard (v., 1979), il sapere diventa in questo caso "una competenza che va al di là della semplice determinazione e applicazione della verità, estendendosi alla determinazione e all'applicazione di criteri di efficienza (qualificazione tecnica), di giustizia e/o di felicità (sapere etico), di bellezza di un suono o di un colore (sensibilità visiva o uditiva), ecc.".
Esistono altre risorse che si traducono in capacità di azione e sono fonti di potere nella società in ragione della loro scarsità rispetto alla potenziale domanda. John K. Galbraith (v., 1967, p. 67) osserva, ad esempio, che il potere va "al fattore che è più difficile da ottenere o da rimpiazzare [...] a quello che ha la maggiore inelasticità di offerta marginale". Tuttavia il sapere in quanto tale non è una risorsa scarsa. A essere una risorsa scarsa o difficile da ottenere non è l'accesso a una qualsivoglia conoscenza (eventualmente anche nel senso di conoscenza casuale), bensì a una conoscenza incrementale: dunque non semplicemente l'accesso a un'unità addizionale o 'marginale' di sapere, bensì a una conoscenza specifica. Quanto più rapidamente il patrimonio di conoscenze invecchia o diventa obsoleto, tanto maggiore diventa l'influenza potenziale di coloro che producono e aumentano lo stock di conoscenze e, quindi, di coloro che trasmettono tali incrementi di sapere. Inoltre, una volta immessa sul mercato, una determinata conoscenza entra in possesso di altri, ma resta nello stesso tempo proprietà di chi la produce e può essere ancora una volta rimessa in circolo.Tutto ciò indica che il trasferimento del sapere non include necessariamente il trasferimento della capacità cognitiva di generare tale sapere - ad esempio l'apparato teorico o il sistema tecnologico che lo producono e in base ai quali viene calibrato e convalidato. Di conseguenza le capacità cognitive di questo tipo sono risorse scarse. Ma si rendono necessarie anche altre capacità, poiché il sapere deve essere costantemente reso accessibile, interpretato e collegato ai singoli contesti locali. È questo il compito degli esperti e dei consulenti, che fungono da mediatori tra la complessa distribuzione di un sapere in costante trasformazione e quanti mirano ad acquisire conoscenze traducibili in capacità di azione, perché le idee viaggiano come 'bagagli' al seguito delle persone, mentre le capacità sono incarnate nelle persone (v. Collins, 1982). Una catena di interpretazioni deve poter arrivare a un termine per poter acquistare rilevanza pratica e tradursi efficacemente in capacità di azione. Questa funzione di porre un termine alla riflessione ai fini dell'azione nella società moderna è demandata in larga misura agli esperti.
Ciò che più di ogni altra cosa distingue la società contemporanea da quelle che l'hanno preceduta è il fatto di essere in larga misura autoprodotta, ossia di essere una società in cui la natura secondaria supera di gran lunga la natura primaria. Gli interventi della natura sono in misura crescente il risultato di precedenti interventi umani sulla natura. L'equilibrio tra natura e società (v. Stehr, 1978), o tra fatti al di fuori del controllo umano e fatti soggetti a tale controllo, si è spostato decisamente in favore di questi ultimi. Nella misura in cui la maggiore capacità di azione sociale è un aspetto costitutivo della società contemporanea, va respinta l'idea che essa abbia essenzialmente un carattere 'tecnocratico' - che si tratti cioè di una società che assiste quasi impotente alla trasformazione dei mezzi tecnici in fini sociali -, idea sostenuta ad esempio da Helmut Schelsky (v., 1961) e da molti altri sociologi sia di destra che di sinistra (v. Marcuse, 1964; v. Freyer, 1960; v. Krämer, 1982).
La società contemporanea ha sviluppato in misura crescente capacità che sono socialmente costruite e che le consentono di operare su se stessa. L'orizzonte dell'azione umana e dell'azione sociale potenziale si espande costantemente. Tuttavia questo fenomeno riguarda innanzitutto e principalmente il livello intermedio dell'azione sociale - il livello dei piccoli gruppi, dei movimenti sociali, delle associazioni di dimensioni ridotte, ecc. -, ma non necessariamente il cosiddetto livello istituzionale - gli organi dello Stato, il sistema politico, l'economia, il sistema educativo o lo stesso Stato-nazione. L'estensione delle capacità di azione sociale inoltre non è equamente distribuita né coinvolge sempre necessariamente tutti i singoli attori. Il principio della stratificazione resta dunque operante; molti gruppi e individui continuano a incontrare significative limitazioni nella portata della loro azione sociale, sotto forma di minori opportunità di accesso al sapere.
La scienza e la tecnologia hanno aumentato le possibilità della società di agire su se stessa, sulle proprie istituzioni e sul suo rapporto con l'ambiente naturale. Ma la capacità della società di adattarsi rapidamente ai cambiamenti e alle sfide, anche quelli inaspettati, e di ampliare la sua sfera d'azione non deriva soltanto da una maggiore conoscenza dei processi sociali. L'utilità pratica della scienza non deriva solo e principalmente dal fatto che conosciamo meglio i processi naturali. Il sapere scientifico diventa utile solo in contesti tecnici, ossia in contesti in cui la natura è stata già resa materialmente disponibile. Ma la 'vernice' della cultura materiale socialmente costruita è, in un senso importante, piuttosto sottile: una tecnologia avanzata e un sistema economico complesso richiedono infatti un livello altamente sofisticato di controllo di qualità e ambienti sociali relativamente stabili (v. Ravetz, 1987). In senso analogo, l'utilità delle nostre conoscenze relative alla società dipende da una previa razionalizzazione dei contesti sociali. I contesti sociali, le capacità di azione di individui e gruppi sono trasformati in misura crescente dall'applicazione del sapere scientifico. L'accresciuta capacità della società di agire su se stessa non si limita a una trasformazione dei mezzi sociali di produzione, ma investe anche i rapporti di produzione. La capacità di autotrasformazione acquisita dalla società in virtù del sapere scientifico e tecnologico accresce il carattere contingente delle relazioni sociali, politiche ed economiche, e comporta non solo emancipazione, ma anche nuove forme di dipendenza. Contrariamente, dunque, alla rappresentazione romantica che ha dominato nel corso della storia, scienza e tecnologia non sono soltanto forze positive, ma sono anche forze socialmente coercitive.
Si può concludere, allora, che "tutte le aspettative di un futuro privo di conflitto e senza lotta sono destinate a restare deluse" (v. Richta e altri, 1969, p. 257), a meno che, ovviamente, la società non impieghi la propria capacità di agire su se stessa per impedire quei cambiamenti che sfociano in conflitti sociali e politici. Si tratta peraltro di una prospettiva estremamente irrealistica.
L'accresciuta capacità della società di agire su se stessa è in larga parte la conseguenza dello sviluppo del sapere scientifico inteso nel senso più ampio. I destini delle società moderne sono inestricabilmente connessi alla scienza e alla tecnologia. Come osservano Radovan Richta e altri (v., 1969, p. 213), la scienza nella società avanzata non opera semplicemente "come un fattore nella produzione materiale e come strumento per la soddisfazione di bisogni"; la scienza è anche una forza produttiva suscettibile di creare nuovi bisogni, nuovi conflitti e nuove prospettive.
Nell'epoca moderna, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, la scienza e la tecnologia sono diventate uno dei principali settori di investimento per il capitale sia pubblico che privato; scienziati e ingegneri rappresentano una quota sempre più cospicua della forza lavoro nella società moderna. Causa e nello stesso tempo effetto della crescente importanza della scienza e della tecnologia è l'espansione dell'istruzione superiore. Le istituzioni che producono, distribuiscono o riproducono il sapere scientifico hanno ora dimensioni comparabili a quelle del complesso industriale. Nessun ambito della vita sociale, inoltre, è destinato a restare immune dall'impatto della scienza, anche se ciò non significa che nelle società avanzate il sapere scientifico e tecnologico soppianterà completamente le forme di conoscenza e le visioni del mondo 'tradizionali', come pronosticavano molti autori dell'Ottocento e dei primi del Novecento (v. Stehr, 1991).
La scienza può essere considerata l'unica istituzione della società moderna che nel corso del suo sviluppo ha acquistato sempre nuove funzioni senza peraltro perdere, devolvendole ad altri settori della società, quelle che assolveva in passato. L'istituzione della scienza, in altre parole, sembra immune dalle spinte incessanti verso la differenziazione e la specializzazione.Nello sviluppo del sapere scientifico si possono individuare tre fasi o momenti. In una prima fase, e sino alla fine del XVIII secolo, la comunità scientifica aveva principalmente la funzione di 'illuminare', ossia di produrre significati, di formare una coscienza sociale e di criticare le visioni del mondo esistenti. Nella seconda fase, con l'affermarsi della società industriale, la scienza diventa una forza produttiva. Nell'epoca contemporanea, infine, essa acquista progressivamente il carattere di una forza immediatamente produttiva o, per così dire, 'performativa'.
Non è facile ovviamente proporre nuove definizioni per ciascuna di queste categorie di sapere prodotte dalla comunità scientifica. I seguenti concetti possono costituire comunque una prima approssimazione: 1) il sapere come produzione di senso (Deutungswissen); il sapere prodotto dalla maggior parte delle scienze sociali e delle discipline umanistiche ha quale funzione sociale primaria quella di influenzare la coscienza (sociale) dei membri della società; 2) il sapere come forza produttiva (Produktivwissen); la maggior parte delle scienze naturali classiche generano un sapere 'produttivo', in quanto si traduce in forme di appropriazione diretta dei fenomeni naturali; 3) il sapere come azione (Handlungswissen); la forma più recente di sapere, in quanto forza immediatamente produttiva, può essere considerata un sapere attivo in quanto costituisce già una forma diretta di azione sociale. Tale sapere si configura come capacità diretta di azione, e ciò include la capacità di creare ulteriore (nuovo) sapere. Dacché la scienza, a partire dal XIX secolo, è diventata una forza immediatamente produttiva, ha cessato di appartenere esclusivamente alla sovrastruttura per diventare parte integrante della base materiale della società. La scienza nel passato non era sufficientemente matura per essere applicata ai problemi della produzione, mentre l'appropriazione materiale della natura non era abbastanza sviluppata da consentire una realizzazione di risultati scientifici in dimensioni rilevanti per la produzione. In sintesi, il cambiamento avvenuto nell'appropriazione materiale e cognitiva della natura nel corso del XIX secolo ha trasformato la scienza in una forza produttiva e ha contribuito all'avvento della società industriale.
Più precisamente, l'appropriazione materiale della natura con l'ausilio della scienza significa che la natura nella sua totalità viene progressivamente trasformata in un prodotto dell'uomo attraverso la sovraimposizione di una nuova struttura, ossia di una struttura sociale. Tale struttura è essenzialmente sapere oggettivato, ossia un'esplicazione e una realizzazione di quelle che sappiamo essere le leggi dei processi naturali estese attraverso la tecnologia. La natura ormai è esperita quasi esclusivamente come prodotto umano o nel contesto di prodotti umani. Tuttavia, affermare che la natura viene progressivamente trasformata in un prodotto umano attraverso la sovraimposizione di una struttura sociale non significa, ovviamente, affermare che la natura o i fatti naturali siano scomparsi totalmente. Al contrario, e paradossalmente, proprio per la crescente distanza dell'uomo dalla natura quest'ultima potrebbe riaffermare se stessa in modo catastrofico.
Poiché l'appropriazione della natura è guidata dalla scienza, il sapere scientifico occupa una posizione preminente nella società. In quanto sapere produttivo esso diventa il tipo dominante di sapere.
Nel nostro secolo la scienza diventa una forza 'immediatamente' produttiva in quanto ora, a differenza di quanto accadeva nell'Ottocento, essa assume un ruolo di rilievo nella produzione senza essere mediata dal lavoro fisico. Si apre così la prospettiva di un'abolizione del lavoro manuale (in particolare del lavoro di fabbrica) e di una oggettivazione del lavoro umano non più nella produzione, ma nella preparazione e nell'organizzazione della produzione. Il lavoro nel senso tradizionale del termine è destinato a diventare una sorta di categoria residuale, mentre le occupazioni basate sul sapere acquisteranno un'importanza predominante; gran parte del sapere prodotto e impiegato nella produzione non è più 'incarnato' nelle macchine. Tutto ciò ha delle conseguenze di portata incalcolabile, che investono i modelli di diffusione della tecnologia, le decisioni relative alla localizzazione della produzione, le interrelazioni tra strutture organizzative e forza lavoro, i modelli di conflitto e di cooperazione.La scienza come forza immediatamente produttiva fornisce dati e teorie, o meglio dati e programmi, che diventano componenti o addirittura elementi costitutivi di una società come quella contemporanea in cui la produzione di sapere è produzione sociale immediata. Una parte considerevole delle attività lavorative nelle società avanzate si svolge già al metalivello - è produzione di secondo livello. In larga misura la produzione non è più metabolismo con la natura, ossia appropriazione materiale come accadeva nella società industriale. Nella società postindustriale la produzione, o almeno parte di essa, presuppone che la natura sia stata già appropriata materialmente, e consiste nell'organizzare tale natura appropriata in base a determinati programmi. Le 'leggi' che governano l'appropriazione della natura che ha già subito il processo di appropriazione materiale, ovvero la produzione secondaria, non sono le leggi di natura bensì le regole dei costrutti sociali. Come osserva Jean-Jacques Salomon (v., 1973, p. 50) "la scienza non è più applicata, nel senso di Comte, all'organizzazione della produzione, ma la società stessa è organizzata con l'obiettivo di una produzione scientifica". Nascono così nuove discipline, come la ricerca operativa, la cibernetica, la teoria della decisione, la teoria della scelta razionale, ecc. La produzione di dati e sistemi è immediatamente produttiva perché tende a riprodurre la struttura cognitiva della società; la produzione di sapere è di conseguenza produzione sociale. La riproduzione della società significa, in misura crescente, la riproduzione della natura appropriata e dell'autoappropriazione della società. In conseguenza di questi sviluppi il sapere scientifico inteso come forza direttamente produttiva diventa una risorsa sociale che svolge una funzione analoga a quella del lavoro nel processo produttivo. Ma a differenza di quanto accadeva per il lavoro sotto il capitalismo, il sapere è un fattore il cui contributo al processo produttivo non può essere ridotto attraverso la sostituzione di capitale; nel migliore dei casi, il sapere può essere sostituito da altro sapere. Nonostante la meccanizzazione del lavoro intellettuale, rimane un nucleo irriducibile di 'sapere personale', che può essere convertito in capitale 'intellettuale' o 'culturale' e valutato come tale.
Secondo alcuni autori, il sapere nelle società moderne diventa la base per la formazione delle classi in generale, e in particolare di una nuova classe di 'produttori e distributori di conoscenza' (knowledge class). Peter Berger (v., 1987, p. 66), ad esempio, ha sostenuto che in seno al ceto medio, accanto alla componente tradizionale formata dagli addetti alla produzione e alla distribuzione di beni e servizi materiali, si va affermando un nuovo gruppo "che si occupa della produzione e della distribuzione di sapere simbolico". Questo nuovo strato sociale individuato da Berger presenta molte affinità con la "classe di distributori e mediatori di significati e di fini" descritta da Helmut Schelsky (v., 1975, p. 14). Data la comunanza di interessi materiali e politici e il possesso di una coscienza collettiva questo gruppo sociale ha, secondo Berger, tutte le caratteristiche di una 'classe', nel senso ampio in cui egli interpreta il concetto di classe. Secondo la sua analisi, che riguarda sostanzialmente l'esperienza statunitense, si tratta di un gruppo sociale schierato su posizioni politiche di sinistra e favorevole all'estensione del Welfare State - che risulta essere il datore di lavoro della maggior parte dei membri di questa nuova classe.
A nostro avviso alla tesi di Berger si possono muovere fondamentalmente due obiezioni. Da un lato, gli individui che si occupano della produzione e della distribuzione del sapere non sono affatto confinati nel cosiddetto 'ceto medio', ma costituiscono un gruppo per così dire 'trasversale' della società. Dall'altro, è piuttosto improbabile che questo strato sociale sviluppi una 'coscienza di classe' o la possieda sia pure allo stato embrionale. Come osservava Schelsky, il gruppo dei produttori e dei distributori di sapere ha tutto l'interesse a occultare il proprio dominio. Si tratta di un gruppo sociale che detiene tendenzialmente il controllo del sistema educativo, dei media e del settore delle pubbliche relazioni - in breve, di tutte quelle sfere della società moderna che hanno a che fare in qualche modo con la formazione della coscienza pubblica e dell'identità collettiva - e di conseguenza può ingannare agevolmente i cittadini sul proprio reale potere e sui suoi interessi. Una delle strategie più efficaci impiegate in questo processo di occultamento e di mistificazione consiste proprio nel perpetuare il mito della persistenza del vecchio conflitto di classe tra proletariato e capitalisti.Il sapere inteso come risorsa per l'azione ha un ruolo sempre più importante nel determinare la natura e la struttura dell'ineguaglianza nella società moderna, ma questo non è certo un fenomeno nuovo. Al contrario, il complesso di capacità e di competenze culturali di vario genere che formano il sapere ha sempre avuto un ruolo di primo piano nel determinare certi aspetti dell'ineguaglianza e la sua valutazione nella società.
Diventa quindi importante chiedersi non solo in che modo la crescente importanza del sapere nella società moderna influenzi le strutture dell'ineguaglianza sociale, ma anche perché esso abbia il 'potere' di minare o addirittura di annullare quello che per secoli ha rappresentato, e continua a rappresentare per molti, il solido fondamento dell'ineguaglianza sociale, e se ciò porterà alla formazione di una nuova classe sociale.Le teorie sull'ineguaglianza sociale restano per la maggior parte incentrate sul processo produttivo, sulla sua organizzazione e sui suoi effetti. Esse inoltre continuano a presentare gli agenti sociali come esseri del tutto rigidi che subiscono passivamente le strutture di ineguaglianza altrettanto rigide e inflessibili in cui si trovano inseriti. Strettamente legata a questa visione è l'idea che la classe permanga quale formazione sociale rilevante nella società moderna.
Finché i sistemi di ineguaglianza vengono intesi come non flessibili e in larga misura a un'unica dimensione, i livelli di stratificazione non possono che risultare elevati e gli effetti delle ineguaglianze materiali duraturi. Il discorso sull'ineguaglianza riguarderà la coercizione, ossia le limitazioni, la vulnerabilità e l'importanza di individui e gruppi a fronte del potere esercitato dalla classe dominante. Ma l'emergere di nuove realtà richiede un nuovo linguaggio, che metta invece l'accento sul carattere attivo, sulla flessibilità, sulla malleabilità, sull'eterogeneità, ecc. delle strutture sociali, e sulla capacità di individui e gruppi di servirsi di tali strutture e di trasformarle, una volta che la vulnerabilità generalizzata alle forze creatrici di ineguaglianza sia stata ridotta in misura significativa. Il sapere agisce come un fascio di capacità sociali più ampiamente accessibili, il cui impatto sulle strutture sociali dell'ineguaglianza accresce le opportunità degli attori di cambiarle. In questa prospettiva le classi come istituzioni rigide cui gli attori sono legati quasi fatalmente perdono ogni rilevanza sociale (v. Stehr, 1978).
Sembra quasi ovvio che in una società in cui il sapere è diventato la forza produttiva dominante le conoscenze, o almeno determinati tipi di conoscenze, si trasformino in merce e siano considerate come proprietà. Naturalmente il sapere ha sempre avuto il suo prezzo e non è mai stato disponibile in quantità illimitata; il sapere, in altre parole, al pari di altri beni costituisce una risorsa scarsa, e al fine di utilizzarlo è necessario in qualche modo comprarlo. Più complesso appare peraltro il problema di determinare il valore di tale risorsa. Il valore di determinate conoscenze, ad esempio, non dipende solo dall'utilità che esse possono rivestire per un individuo o un'impresa, ma dipende altresì e in misura determinante dal fatto che anche altri soggetti (ad esempio le imprese concorrenti) siano o meno in grado di utilizzarle e di sfruttarle a proprio vantaggio. Nella teoria economica il sapere, definito in termini di informazione, tende a essere trattato in modo riduzionistico, ossia come una categoria economica convenzionale cui si possono applicare proficuamente e senza restrizioni concetti ortodossi quali quello di utilità, di costi fissi e variabili, ecc. Il sapere tende dunque a essere considerato come un 'prodotto' il cui valore, al pari di quello di qualsiasi altra merce, è definibile in termini di utilità (valore d'uso); il discorso si fa peraltro assai più incerto quando si tratta di definire il valore atteso del sapere.
Nel tentativo di definire un metodo per determinare il valore dell'informazione intesa come bene economico, ad esempio, Bates (v., 1988, p. 80) ha sostenuto che esiste uno squilibrio intrinseco tra i costi fissi e i costi variabili nella produzione (e riproduzione) di tale bene. Nella produzione di informazione i costi fissi sarebbero assai superiori a quelli variabili (i costi associati alla riproduzione dell'informazione), in quanto l'informazione è riproducibile all'infinito e consuma tutte le altre risorse. Questa analisi, ovviamente, è accettabile solo se si assume che la riproduzione dell''informazione' non comporti alcun problema (ossia trascenda le condizioni iniziali della produzione, inclusi i costi a essa associati), poiché la produzione è definitiva e non richiede l'intervento di intermediari o successive interpretazioni.
Il settore dei servizi nella società moderna si basa in larga misura sulla vendita di conoscenze. Nel sistema educativo sono impiegati milioni di individui che hanno il compito di diffondere il sapere socialmente necessario. La libera circolazione del sapere può essere ostacolata non solo limitando l'accesso alle precondizioni per la sua acquisizione, ma anche, per via legale, con l'assegnazione di diritti di proprietà - basti pensare ai brevetti e alle norme sui diritti d'autore. In molti paesi, brevetti e norme sui diritti d'autore non sono più limitati agli artefatti e ai processi tecnici, ma includono anche la proprietà intellettuale delle invenzioni artistiche, musicali, letterarie e, in misura crescente, scientifiche.
L'equiparazione del sapere a merce oggetto di compravendita non è un fenomeno nuovo. Secondo alcuni, tuttavia, a seguito delle trasformazioni tecnologiche, in particolar modo con lo sviluppo dell'informatica, si assisterebbe oggi a una radicale 'esteriorizzazione' delle conoscenze nei confronti del soggetto conoscente. Il rapporto tra "produttori e utenti del sapere da un lato e il sapere che essi producono e utilizzano dall'altro [...] tenderà in misura crescente ad assumere la stessa forma assunta dal rapporto tra produttori e consumatori di merci da un lato e le merci che producono e consumano dall'altro, ossia la forma di valore. Le conoscenze sono e verranno prodotte al fine di essere vendute, e sono e saranno consumate al fine di essere valorizzate in una nuova produzione: in entrambi i casi lo scopo è lo scambio" (v. Lyotard, 1979). Ciò che conta, secondo Lyotard, è il valore di scambio più che il valore d'uso del sapere.
Non esiste ancora, peraltro, una teoria economica del sapere quale fattore di produzione come la terra, il capitale e il lavoro. Senza dubbio elaborare una teoria di questo genere presenta notevoli difficoltà; in primo luogo, il sapere è essenzialmente un bene o una proprietà di tipo collettivo e non privato, ed è inestricabilmente legato alle relazioni sociali. "Il sapere nelle sue varie forme, per quanto sia distribuito in modo ineguale e costituisca una risorsa scarsa, diversamente da molti altri beni non diminuisce, non perde valore né si consuma nel processo di scambio" (v. Holzner e Marx, 1979, p. 239; v. Simmel, 1900). Il fatto che non esistano metodi per dividere (in teoria e in pratica) il sapere in 'unità' ha forse impedito agli economisti di trattarlo come una merce come tutte le altre (v. Boulding, 1966).
In genere, il possesso reale e la definizione giuridica della proprietà è improntata all'esclusività: "Una cosa sulla quale esercito il diritto di proprietà è una cosa di cui ho l'uso esclusivo" (v. Durkheim, 1898-1900). La proprietà giuridica esclusiva e il possesso personale del sapere, o una sorta di isolamento delle conoscenze equiparate a oggetti è assai più difficile da realizzare, se non del tutto impossibile. Tuttavia, il sistema giuridico contempla delle norme in questo senso e potrebbe evolversi in futuro conferendo a determinate forme di sapere uno status apparentemente esclusivo. Cosa ancora più importante, la (meta)capacità di generare nuovi incrementi di sapere - che sono in grado di apportare relativi vantaggi - non è una proprietà collettiva. In altre parole, se da un lato il sapere non è a rigore comparabile con la proprietà, dall'altro non è privo di caratteristiche che sotto certe condizioni lo rendono simile alla proprietà e alle merci.
Se si considera il sapere come una merce, sorge il problema di individuare le ragioni del costante aumento sia dell'offerta che della domanda di tale bene nella società contemporanea. Secondo alcuni, la spiegazione del primo fenomeno andrebbe ricercata nella logica intrinseca del progresso scientifico e tecnologico, secondo altri sarebbero i bisogni e le esigenze socioeconomiche e sociopolitiche a determinare la crescente offerta di sapere. Per quanto concerne invece l'incremento della domanda, una delle spiegazioni più diffuse è quella secondo cui esso sarebbe semplicemente il riflesso di un cambiamento, ovvero di una crescita del rendimento economico della ricerca scientifica - sebbene i vantaggi economici derivati dalla scienza sul piano pratico possano manifestarsi in modo estremamente indiretto. Senza dubbio questa argomentazione utilitaristica, per quanto banale, costituisce la spiegazione più convincente del crescente investimento sia pubblico che privato nella ricerca scientifica.
Mentre l'origine e le cause della rivoluzione industriale sono state e sono tuttora oggetto di indagini approfondite, resta ancora assai poco sviluppata l'analisi dei processi o dei fattori responsabili della dinamica della produzione di sapere. Secondo Daniel Bell (v., 1973, p. 26), "una società moderna al fine di evitare la stagnazione o la 'maturità' [...] deve aprire nuove frontiere tecnologiche per assicurare la produttività e standard di vita più elevati". La crescita economica, a suo avviso, è strettamente legata alle nuove tecnologie. Una tesi alquanto simile è formulata da Radovan Richta (v., 1977, p. 48), il quale peraltro circoscrive il discorso alla società socialista e postula una sorta di armonia prestabilita tra conoscenza scientifica e sviluppo sociale 'necessario'. Nelle società socialiste, secondo Richta, vi sarebbe un crescente bisogno di espansione e di accelerazione costante del progresso tecnologico (v. Richta e altri, 1969, pp. 75-81). Resta da spiegare perché, mentre un tempo l'industria e la tecnologia avevano un ruolo trainante nei confronti della scienza, oggi si assiste a una inversione di tale rapporto, per cui è la scienza a controllare l'industria e a guidare la tecnologia (ibid., p. 216). Né Bell né Richta peraltro ritengono che esistano fattori specifici della società postindustriale i quali agiscano da stimolo allo sviluppo della scienza. L'espansione del sapere scientifico e tecnologico resterebbe legata alle stesse motivazioni e agli stessi bisogni, in particolare di ordine economico (materiale), già presenti nella società industriale. In questo senso, la società postindustriale non sarebbe che un'estensione di quella industriale.
Altrettanto insoddisfacenti risultano le analisi offerte dalla teoria economica. Gli economisti considerano come investimenti solo le spese in beni tangibili - e dunque esclusivamente l'acquisto di macchine e attrezzature. Le conoscenze in questa prospettiva non possono costituire un investimento a meno che non si presentino sotto forma di capitale tangibile. Negli schemi convenzionali di contabilità nazionale, le spese per la ricerca e lo sviluppo, per l'istruzione e per la formazione professionale, nonché per l'acquisto di certi tipi di servizi non vengono registrate tra gli investimenti. Di conseguenza, l'acquisto di un personal computer o dell'hardware viene considerato un investimento di capitale per l'impresa, laddove l'acquisto del software necessario - ad esempio di un programma elaborato ad hoc per le esigenze specifiche dell'azienda, e che spesso risulta essere assai più costoso della macchina - viene classificato come costo di esercizio e non come investimento. Si tratta di una distinzione alquanto ingiustificata, poiché "com'è noto, il software è destinato ad avere un ruolo di crescente importanza nell'industria informatica, mentre i costi dell'hardware sono in costante declino" (v. Block, 1987, pp. 156-157). Non solo cresce in modo esponenziale il numero di programmatori, ma si espande a ritmo vertiginoso anche il volume d'affari delle imprese che producono e vendono software. Lo stesso vale per le spese per i servizi di consulenza e di expertise, che tuttavia non vengono trattati come investimenti.
Poiché nella teoria economica il sapere - definito in termini di informazione - viene considerato in genere come una variabile esterna, e poiché dal canto loro gli storici della scienza raramente si sono chiesti in che misura il progresso scientifico sia guidato o dipenda da forze economiche, resta ancora tutta da sviluppare un'analisi del possibile impatto dei processi economici sull'offerta di sapere scientifico. Ciononostante, si possono individuare due posizioni distinte in merito alla questione. Secondo la prima, il progresso scientifico avverrebbe in una sorta di splendido isolamento rispetto alla domanda e agli interessi economici. L'impiego della scienza per scopi produttivi sarebbe determinato dall'offerta di conoscenza disponibile in un dato momento. In base alla seconda interpretazione, invece, sarebbe la domanda a determinare l'offerta: più precisamente, a dare impulso allo sviluppo scientifico sarebbero i bisogni umani, e in particolare i bisogni economici.
Nel suo studio sui rapporti tra diffusione delle invenzioni e crescita economica Jacob Schmookler (v., 1966, p. 184) ha sostenuto, ad esempio, che la domanda economica "induce le invenzioni in grado di soddisfarla". L'offerta di invenzioni appare in questa prospettiva del tutto elastica e indipendente dal tempo e dallo spazio. Ogni bisogno genererebbe quasi simultaneamente l'invenzione atta a soddisfarlo.Una delle principali obiezioni che si possono muovere a questa tesi, naturalmente, è che essa non è in grado di spiegare il persistere di tutta una serie di bisogni sia individuali che collettivi: perché è stato impossibile soddisfare tali bisogni con appropriate scoperte scientifiche? Schmookler focalizza l'attenzione esclusivamente sulle invenzioni effettivamente realizzate (in concreto, sui brevetti rilasciati), e di conseguenza, come osserva Rosenberg (v., 1974, p. 97), non è in grado di identificare e di definire il ruolo delle forze della domanda "indipendentemente dall'evidenza che tale domanda è stata soddisfatta". Per spiegare i bisogni che possono aver dato luogo a determinate scoperte, secondo Rosenberg, occorre invece spostare l'attenzione sul lato dell'offerta, esaminando il corpus di conoscenze scientifiche disponibile a un dato momento storico, che è strutturato in un determinato modo e non è uniformemente distribuito in relazione ai differenti bisogni ed esigenze esterni.
Respingendo l'idea che il progresso scientifico segua una propria logica interna e che non possa essere influenzato dagli interessi economici, Rosenberg afferma che le motivazioni e i processi economici "hanno svolto inevitabilmente un ruolo fondamentale nel determinare la direzione del progresso scientifico [...] sia pure entro i limiti e i condizionamenti posti di volta in volta da un corpus di sapere scientifico che si sviluppa con ritmo ineguale tra le sue sottocomponenti e sottodiscipline" (v. Rosenberg, 1974, p. 100). La conclusione di Rosenberg mette in luce quanto sia importante basare l'analisi su una reale comprensione della natura e delle funzioni del sapere.Secondo l'ipotesi avanzata da Peter Drucker (v., 1969), l'avvento della società postindustriale sarebbe da mettere in relazione non tanto con l'aumento della domanda di una maggiore specializzazione professionale, quanto piuttosto con l'offerta di una forza lavoro maggiormente qualificata. Secondo Drucker l'espansione dell'istruzione avrebbe cambiato la natura del lavoro, creando una forza lavoro in possesso di una professionalità più elevata: l'aumento dell'offerta di una forza lavoro altamente qualificata avrebbe determinato la creazione di nuove occupazioni che richiedono competenze specializzate.
Un'ipotesi più tradizionale ma forse più realistica è quella avanzata da Jean-Jacques Salomon (v., 1973), secondo il quale l'avvento della società postindustriale è il risultato di una convergenza, o più precisamente di una simbiosi tra la scienza da un lato e il potere pubblico e l'economia dall'altro. Il potere viene alimentato dal sapere, che diventa così uno dei suoi obiettivi primari. Questa convergenza di interessi tra il potere politico e la scienza - cui ha contribuito non da ultimo la natura stessa della moderna ricerca scientifica, che comporta costi piuttosto elevati e non ha ritorni economici immediati - ha dato impulso a una massiccia produzione di nuove conoscenze e nuove tecnologie. Salomon (v., 1973, p. 67) conclude che "la promozione della scienza è funzionale agli scopi del potere, per quanto estranei possano essere alla scienza scopi extrascientifici, e per quanto essa possa avere scopi molto lontani da quelli dello Stato". Egli si riferisce sia alla ricerca militare che alla ricerca per scopi civili, sebbene affermi che la promozione della scienza è sempre stata figlia della guerra e non della pace. La promozione della scienza finalizzata agli interessi e al prestigio della nazione, attuata sui fronti spesso interdipendenti del sistema militare e del sistema economico, appare in misura crescente un buon investimento agli occhi dello Stato. Salomon conclude che l'economia "non sarebbe influenzata dall'innovazione tecnologica nella misura in cui lo è attualmente se non vi fosse la spinta dei programmi militari" (p. 57), sebbene riconosca che in futuro la ricerca militare e quella spaziale potrebbero avere un ruolo meno decisivo nella promozione e nello sviluppo della ricerca scientifica.
Resta infine da affrontare il problema del rapporto tra conoscenza e informazione. La prima questione che si pone a questo riguardo concerne la legittimità stessa di operare una distinzione tra i due concetti, che spesso vengono usati come sinonimi. Proprio questa intercambiabilità nell'uso linguistico dominante porta a chiedersi se non sia del tutto futile ogni tentativo di istituire una netta distinzione tra i significati e i referenti dei due termini.
Un'ulteriore, grossa difficoltà che incontra il tentativo di separare sul piano sociologico conoscenza e informazione è rappresentata dalla quantità pressoché sterminata di definizioni rivali proposte per le due categorie, che deriva a sua volta da una pluralità di prospettive ontologiche ed epistemologiche.Tra la pletora di definizioni divergenti, vale forse la pena di soffermarsi brevemente su quella fornita da Daniel Bell. Per 'informazione', scrive Bell, si deve intendere "l'elaborazione dei dati nel senso più ampio; la memorizzazione, il recupero e l'elaborazione dei dati [nella società postindustriale] diventa la risorsa essenziale per tutti gli scambi economici e sociali" (v. Bell, 1979, p. 168). Il concetto di informazione diventa qui pressoché indistinguibile dal concetto tecnico di comunicazione in cui il significato, lo scambio e il trasferimento di un'informazione sono indipendenti sia dal mittente che dal destinatario dell'informazione stessa.La conoscenza, per contro, viene definita da Bell come "un insieme organizzato di enunciati fattuali o di idee, che presentano un giudizio argomentato o un risultato sperimentale, trasmesso ad altri in una qualche forma sistematica attraverso un dato mezzo di comunicazione". Sembrerebbe che la conoscenza così definita finisca per essere anch'essa riconducibile al concetto tecnico di comunicazione, sebbene Bell assuma implicitamente un diverso status epistemologico (o valore) di conoscenza e informazione che si traduce in un ordinamento gerarchico e in una asimmetria tra i due ambiti. Il principale difetto della teoria di Bell è il suo carattere fortemente astratto; è assente, in altri termini, qualsiasi riferimento alla natura contingente di conoscenza e informazione, nonché al bisogno di renderle interattivamente intellegibili e di accordarsi sul loro valore e sulla loro utilità. Bell parte dal presupposto che il processo di comunicazione delle conoscenze e delle informazioni si svolga virtualmente senza ostacoli. Infine, non viene chiarito quali legami, se esistono, vi siano tra conoscenza e informazione. Al più, sembrerebbe che Bell attribuisca all'informazione un ruolo ancillare rispetto alla conoscenza. Inoltre, egli sembra dare per scontati l'autorità (incontestata?), la veridicità e il potere di informazione e conoscenza. Si può concludere, quindi, che l'interpretazione di Bell solleva più problemi di quanti ne risolva.
Ad ogni modo, una discussione sulle interrelazioni tra conoscenza e informazione ci offre l'opportunità di riassumere alcune delle osservazioni sin qui svolte sul ruolo della conoscenza nella sfera sociale. Il sapere, così come l'abbiamo definito, costituisce una capacità di azione, in quanto consente al soggetto, posto che questi sia in grado di controllare le circostanze contingenti dell'azione, di realizzare un risultato o di avviare un processo. Tuttavia il sapere è una condizione necessaria ma non sufficiente per l'azione. Perché l'azione possa realizzarsi concretamente il soggetto deve controllare le circostanze in cui essa ha luogo. Per fare un esempio, sapere come si sposta un oggetto pesante da un posto a un altro non è sufficiente per compiere il movimento in questione. Per realizzare lo spostamento è necessario, diciamo, il controllo di un qualche mezzo adatto al trasporto di oggetti pesanti. La conoscenza, in conclusione, richiede l'ausilio di determinate capacità interpretative e il controllo delle circostanze situazionali.
La funzione dell'informazione è più ristretta e nello stesso tempo più generale. Più generale perché l'informazione non è una risorsa scarsa come la conoscenza. Inoltre, l'accesso all'informazione e i vantaggi che ne derivano non sono limitati, o non lo sono in modo così diretto, all'attore o agli attori che ne sono in possesso. L'utilizzo della conoscenza è più ristretto e il suo valore d'uso è più limitato in quanto essa, da sola, non è sufficiente alla realizzazione dell'azione, sebbene l'informazione possa costituire un passo verso l'acquisizione della conoscenza. Un buon esempio di informazione è la pubblicità dei prezzi, o altre informazioni di mercato come la disponibilità di un prodotto. Queste informazioni possono essere senz'altro utili; nell'economia moderna esse sono facilmente e ampiamente accessibili, ma il loro possesso in quanto tale ha delle conseguenze trascurabili. Dal punto di vista del consumatore l'informazione sui prezzi associata alla conoscenza del funzionamento del mercato può tradursi nella capacità di realizzare un certo risparmio. L'informazione ha delle caratteristiche tali da renderla un bene pubblico, sicuramente in misura assai maggiore di quanto non accada per la conoscenza. L'informazione è autosufficiente. A differenza della conoscenza, essa non costituisce una capacità di agire, nel senso di consentire al soggetto di produrre qualcosa, ma riflette semplicemente i prodotti da cui viene ricavata. (V. anche Ideologia; Scienza e società).
Bates, B., Information as an economic good: sources of individual and social value, in The political economy of information (a cura di V. Mosco e J. Wasko), Madison, Wis., 1988, pp. 76-94.
Bell, D., The coming of post-industrial society: a venture in social forecasting, New York 1973.
Bell, D., The social science since the second world war, New Brunswick, N.J., 1979.
Bell, D., Liberalism in the postindustrial society (1979), in The winding passage: sociological essays and journeys, New Brunswick, N.J., 1991, pp. 228-244.
Berger, P., The capitalist revolution: fifty propositions about prosperity, equality, and liberty, New York 1987.
Block, F., Revising State theory: essays in politics and the contradictions of contemporary capitalism, Philadelphia, Pa., 1987.
Bon, F., Burnier, M., Les nouveaux intellectuels, Paris 1966.
Boulding, K., The economics of knowledge and the knowledge of economics, in "American economic review", 1966, LVI, pp. 1-13.
Collins, H.M., The replication of experiments in physics, in Science in context: readings in the sociology of science (a cura di B. Barnes e D. Edge), Cambridge, Mass., 1982, pp. 94-116.
Collins, H.M., The structures of knowledge, in "Social research", 1993, LX, pp. 95-116.
Dasgupta, P., The economic theory of technology policy, in Economic policy and technological performance (a cura di P. Dasgupta e P. Stoneman), Cambridge 1987, pp. 7-23.
Dosi, G., Technical change and industrial transformation: the theory and an application to the semiconductor industry, London 1984.
Drucker, P.F., The age of discontinuity. Guidelines to our changing society, New York 1969.
Durkheim, É., Leçons de sociologie: physique des moeurs et du droit (1898-1900), Paris 1950 (tr. it.: Lezioni di sociologia: fisica dei costumi e del diritto, Milano 1973).
Freyer, H., Über das Dominantwerden technischer Kategorien in der Lebenswelt der industriellen Gesellschaft, Mainz 1960.
Galbraith, J.K., The new industrial State, Boston 1967 (tr. it.: Il nuovo Stato industriale, Torino 1958).
Giddens, A., The constitution of society: outline of the theory of structuration, Berkeley, Cal., 1984 (tr. it.: La costituzione della società, Milano 1990).
Habermas, J., Erkenntnis und Interesse (1965), in Technik und Wissenschaft als 'Ideologie', Frankfurt a.M. 1968, pp. 146-167 (tr. it.: Conoscenza e interesse, in Teoria e prassi nella società tecnologica, Roma 1978, pp. 5-19).
Holzner, B., Marx, J.H., Knowledge application: the knowledge system in society, Boston 1979.
Innis, H.A., The bias of communication, Toronto 1951.
Krämer, S., Technik, Gesellschaft und Natur: Versuch über ihren Zusammenhang, Frankfurt a.M. 1982.
Lazega, E., Micropolitics of knowledge: communication and indirect control in workgroups, New York 1992.
Lyotard, J.F., The postmodern condition: a report on knowledge (1979), St. Paul, Minn., 1984.
Marcuse, H., One-dimensional man. Studies in the ideology of advanced industrial society, Boston 1964 (tr. it.: L'uomo a una dimensione, Torino 1967).
Marx, K., Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857-1858), Berlin 1953 (tr. it.: Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, 2 voll., Firenze 1968-1970).
Merton, R.K., The normative structure of science, in The sociology of science. Theoretical and empirical investigations (1942), Chicago 1973, pp. 267-278 (tr. it. in: La sociologia della scienza. Indagini teoriche ed empiriche, Milano 1981).
Price, D.J., Science since Babylon, New Haven, Conn., 1961.
Price, D.J., Little science, big science, New York 1963.
Radder, H., Experiment, technology and the intrinsic connection between knowledge and power, in "Social studies of science", 1986, XVI, pp. 663-683.
Ravetz, J.R., Usable knowledge, usable ignorance, in "Knowledge", 1987, IX, pp. 87-116.
Richta, R., The scientific and technological revolution and the prospects of social development, in Scientific-technological revolution: social aspects (a cura di R. Dahrendorf e altri), London 1977, pp. 25-72.
Richta, R. e altri, Civilization at the crossroads: social and human implications of the scientific and technological revolution, White Plains, N.Y., 1969.
Rosenberg, N., Science, invention and economic growth, in "The economic journal", 1974, LXXXIV, pp. 90-108.
Salomon, J.-J., Science and politics, Cambridge 1973.
Scheler, M., Versuche zu einer Soziologie des Wissens (1925), Bern-München 1960.
Schelsky, H., Der Mensch in der wissenschaftlichen Zivilisation (1961), in Auf der Suche nach der Wirklichkeit, Düsseldorf 1965, pp. 439-480.
Schelsky, H., Die Arbeit tun die anderen. Klassenkampf und Priesterherrschaft der Intellektuellen, Opladen 1975.
Schmookler, J., Invention and economic growth, Cambridge 1966.
Sibley, M.Q., Utopian thought and technology, in "American journal of political science", 1973, XVII, pp. 255-281.
Simmel, G., Philosophie des Geldes, Leipzig 1900 (tr. it.: Filosofia del denaro, Torino 1984).
Simmel, G., Der Konflikt der modernen Kultur, München-Leipzig 1918 (tr. it.: Il conflitto della cultura moderna e altri saggi, a cura di C. Mongardini, Roma 1976).
Stehr, N., Man and the environment: a general perspective, in "Archives for philosophy of law and social philosophy", 1978, LXXIV, pp. 1-17.
Stehr, N., The power of scientific knowledge - and its limits, in "Canadian review of sociology and anthropology", 1991, XXIX, pp. 460-482.
Stehr, N., Practical knowledge, London 1992.
Stehr, N., Knowledge societies, London 1994.
Stehr, N., Social inequality and knowledge, in Normative social action. Cross-national and historical approaches (a cura di D. Sciulli), Greenwich, Conn., 1997.
Stehr, N., Meja, V., The development of the sociology of knowledge, in Society and knowledge: contemporary perspectives on the sociology of knowledge (a cura di N. Stehr e V. Meja), New Brunswick, N.J., 1984, pp. 1-18.
Tondl, L., Stellung und Aufgabe der wissenschaftlich-technischen Revolution (1968), in Technischer Fortschritt und die industrielle Gesellschaft (a cura di R. Richta e altri), Frankfurt a.M. 1972, pp. 120-145.