Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’atteggiamento satirico che pervade la cultura settecentesca si esplica spesso attraverso la ripresa o la creazione di generi letterari non codificati dalla retorica classica: articoli di giornale, dialoghi, pamphlets, poemetti. Il tono che caratterizza questa produzione è quello colloquiale e ammiccante che tende al coinvolgimento del lettore, secondo un principio di dialogo e di discussione delle idee proprio del secolo.
Nelle Conversazioni sulla pluralità dei mondi, che chiudono quasi il secolo XVII, Fontenelle spiega a una perplessa marchesa le leggi dell’astronomia di Cartesio, puntualmente smentite l’anno successivo (1687) dall’attrazione universale di Newton.
Ma a rendere famosa l’opera non è certo il suo valore scientifico; circondata dalle mollezze di un clima rococò, la marchesa apprende stupita che l’universo funziona come un orologio e che sono da deridere coloro che ammirano la natura perché la credono una specie di magia. Se sulla Luna esistono degli abitanti che, specularmente a noi, adorano la Terra, la pluralità dei mondi abitati non spaventa il filosofo pedagogo, che si sente a suo agio davanti all’infinito, e anzi considera maggiore il turbamento provato di fronte a due begli occhi o a una bella bocca. Amante del paradosso e dell’irrisione di stampo libertino, Fontenelle anche con i Nuovi dialoghi dei morti utilizza filosoficamente la tecnica del rovesciamento tra il mondo dei morti e il nostro; come nei dialoghi del suo predecessore Luciano di Samosata, i morti diventano analisti implacabili delle abitudini umane, demistificatori abilissimi del luogo comune. A rimetterci è proprio la ragione, o quella che gli uomini chiamano con presunzione “Storia”, uno spettacolo ben noioso per chi guarda le vicende terrestri da una prospettiva appena più elevata, dove si annullano le differenze tra uomini ed epoche.
Il gioco salottiero ed erudito di Fontenelle non sembra aver nulla in comune con l’intreccio di “moralità” e “spirito” che si augura Joseph Addison fin dalle prime pagine del famoso “Spectator”, se non forse nel richiamo programmatico alla figura di Socrate, vera presenza topica in tutta la prosa satirica del secolo. E così, come Socrate “portò la filosofia giù dal cielo a dimorare tra gli uomini”, i nuovi esploratori del mondo moderno portano la filosofia “fuori dagli studi e dalle biblioteche, dalle scuole e dai collegi, ad abitare nei circoli e nei ritrovi, presso le tavole da tè e nei caffè”. Tra il 1711 e il 1712, Addison e Steele propongono un modello moderno di liberalità creando la figura dell’immaginario Mister Spectator che, attraverso una serie di discussioni con i membri del proprio club, dibatte gli argomenti dell’attualità, ricorrendo spesso alle armi di una bonaria ironia.
Di fronte alla figura urbana di Mister Spectator si erge il riso mordace di Martinus Scriblerus, lo pseudonimo adottato dai sei fondatori dello Scriblerus Club: Jonathan Swift, Alexander Pope, John Arbuthnot, John Gay, Thomas Parnell e Robert Harley.
Anche se l’idea di un club “classicista” con intenti satirici risale probabilmente a Swift, il gruppo di intellettuali tories comincia a riunirsi sul finire del 1713, e il nome che essi si danno allude al bersaglio prescelto, lo scribbler, immagine del letterato pedante e ottuso. In questa figura i membri del club identificano le tracce di una tradizione letteraria che va dal romance al romanzo borghese, il cattivo gusto di un linguaggio epico che si accompagna a tematiche del quotidiano. Già Samuel Butler, nel poema eroicomico Hudibras, aveva preso di mira, attraverso la figura dell’astrologo Sidrophel, le presunzioni scientifiche della Royal Society, molti anni prima che Swift descrivesse la Grande Accademia di Lagado. Ora, vicini allo spirito aspro della grafica di Hogarth – non per niente autore di alcune illustrazioni per Hudibras – gli Scribblerans elaborano un piano di lavoro collettivo contro la cultura del tempo. Sono tutti coinvolti dalla vita di corte: il dottor Arbuthnot, medico di corte, fisico e matematico, scrive alcune satire sul mondo politico divenute poi famose col titolo La storia di John Bull; John Gay è l’autore di Trivia, o l’arte di camminare per le strade di Londra (1716), una specie di guida eroicomica attraverso le vie della città, e della più famosa L’opera del mendicante (1728), dove la storia di un bandito e delle sue amanti viene messa in rapporto col mondo dell’alta società; Thomas Parnell, irlandese, collabora con Pope alla traduzione di Omero. La frequentazione tra i sei dura poco e il club si scioglie dopo pochi mesi, anche a causa dei mutamenti politici che seguono la morte della regina Anna; ne derivano comunque tre operette fondamentali per la storia del genere satirico. Le Memorie di Martinus Scriblerus sono la biografia romanzata di un personaggio bizzarro che discende da Don Chisciotte e darà origine al più famoso Tristram Shandy, incarnando i falsi miti della cultura moderna condivisa con il padre Cornelio, schiavo delle manie deformanti della ragione. In Le origini delle scienze Martinus dimostra paradossalmente che il linguaggio delle arti e delle scoperte scientifiche deriva dai Pigmei. Il trattato Peri Bathous o l’arte di affondare nella poesia, prescrive le norme della poesia moderna con la convinzione che, mentre “un’agevole e dritta via corre liscia” al sublime degli antichi, “non è stato tracciato nemmeno col gesso sentiero alcuno per arrivare al nostro bathos o profondo”. Gli Scribblerans sono invece convinti, in polemica con la tradizione longiniana, che “il gusto del bathos è inculcato dalla natura stessa nell’animo dell’uomo finché questi, ammaestrato dalle usanze e dagli esempi, viene sviato o, per dir meglio, costretto ad assaporare il sublime”. Longino (Pseudo Longhino, autore cui si attribuisce il trattato Del sublime) è diventato dunque contemporaneamente oggetto di parodia e strumento di satira. I livelli di infimo e sublime rappresentano i poli di un movimento possibile per la mente umana, anche se la posizione desiderata deve rimanere quella di un’oraziana mediocritas.
Capitolo I
Del Profondo
È da tempo (miei cari concittadini) argomento di interesse e sorpresa per me il constatare che, mentre poeti, critici e oratori innumerevoli si sono dati la briga di compilare e compendiare l’arte dell’antica poesia, non è sorta fra noi una sola persona sì da pubblico bene animata, da compiere il consimile per quella moderna, quantunque sia universalmente risaputo, che i nostri in ogni campo industriosi moderni, vuoi per il peso degli scritti loro, vuoi nella celerità dei loro giudizi, eccellono infinitamente sugli antichi sopraddetti.
Nondimeno, è anche vero che, mentre un’agevole e dritta via corre liscia al loro hypsos, o sublime, non è stato tracciato nemmeno col gesso sentiero alcuno per arrivare al nostro bathos o profondo. I Latini, che si son frapposti fra i Greci e noi, fanno uso della parola altitudo, la quale implica nella stessa misura e altezza e profondità. Per la qual cosa, considerando con non piccola ambascia quanti promettenti ingegni di quest’epoca vagano (per così dire) nel buio, senza la minima guida, mi sono accollato questo arduo ma necessario compito di condurli per mano, passo passo, nel dolce pendio fino al bathos, al fondo, al fine, al punto centrale, al non plus ultra della vera poesia moderna!
Quando considero (miei cari concittadini) l’estensione la fertilità e la popolosità delle nostre terre basse del Parnaso, e con esse il florido stato dei nostri commerci e l’abbondanza della nostra produzione, due riflessioni offrono grande occasione di sorpresa: l’una, per cui tutta la dignità e tutti gli onori debbano esser concessi agli sparuti e macilenti abitanti della cima della montagna; l’altra, per cui il nostro stesso paese sarebbe arrivato al sommo della grandezza che all’oggi possiede, senza un regolare sistema di leggi. Per quanto concerne la prima, è con grande piacere che ho nei tempi recenti osservato la graduale decadenza d’ogni senso di delicatezza e raffinatezza fra gli uomini, i quali si sono fatti essi stessi troppo ragionevoli, per pretendere che si debba stentare con pena infinita per elevarsi al gusto di quei montanari, quand’essi, senza sforzo veruno, possono al nostro condiscendere. Ma dal momento che abbiamo ora dalla nostra parte una maggioranza incontestabile, non dubito che saremo capaci in breve tempo di livellare gli abitanti delle Terre Alte e procurarci un ulteriore sbocco per i nostri prodotti, i quali sono di già tanto apprezzati, incoraggiati, remunerati dalla nobiltà e dalla classe gentilizia di Gran Bretagna.
Per cui, al fine di colmare la precedente lacuna, mi propongo di raccogliere le sparse regole dell’arte nostra in regolari istituti secondo l’esempio e la pratica dei profondi ingegni della nostra terra; in ciò imitando i miei predecessori, il maestro di Alessandro e il segretario della rinomata Zenobia; un’impresa alla quale son tanto più stimolato dalla legittima attesa di un successo, maggiore di quello conseguito persino da quei grandi critici, le cui leggi (per quanto buone potessero essere) sono sempre state messe in opera con rilassatezza e i cui precetti (per quanto rigorosi) osservati a singhiozzo e da un numero esiguo.
Allo stesso tempo è mia intenzione far giustizia dei nostri vicini, gli abitanti del Parnaso Superiore, i quali, col vantaggio della posizione più alta, ci scaraventano addosso pietre, immondizie e rifiuti senza mai lasciarci vivere in pace. Costoro, mentre si gustano il cristallino ruscello d’Elicona, ci invidiano la nostra volgare acqua la quale (grazie alle nostre stelle), quantunque sia piuttosto fangosa, sgorga in tanta maggior copia.
D’altra parte non è questa l’ingiustizia più grande della quale ci dobbiamo lamentare, poiché, sebbene sia lampante che da parte nostra non c’è mai stato tentativo d’incursione nelle loro terre, vivendocene noi soddisfatti nelle nostre native paludi, spesso essi hanno non solo commesso dei furterelli ai nostri confini, ma hanno razziato il paese, portandosi via intere carrettate dei nostri prodotti; così che l’intento di questo trattato consiste in parte nel reclamare la proprietà di cotesti beni involati.
Vedremo dunque nel corso del presente lavoro che i nostri più grandi avversari sono talora discesi verso di noi e sarebbero potuti di tanto in tanto arrivare allo stesso bathos, se non fosse stato per quella erronea opinione, sostenuta da tutti loro, che le regole degli antichi sarebbero del pari necessarie ai moderni, del quale errore non può esserci uno più penoso, come sarà ampiamente provato nel discorso che segue.
E certamente, quando alcuni di costoro sono andati così lontano da tentare nuovi modelli alla luce del loro ingegno, è meraviglioso osservare di quale stretta misura si sono a noi avvicinati in quei frammenti particolari, sebbene tutto il resto delle loro opere differisca toto coelo dalle nostre.
Capitolo II
Il bathos, o profondo, è il gusto naturale dell’uomo
e in particolare dell’epoca presente
Il gusto del bathos è inculcato dalla natura stessa nell’animo dell’uomo finché questi, ammaestrato dalle usanze e dagli esempi, viene sviato o, per dir meglio, costretto ad assaporare il sublime. Vediamo, di conseguenza, le menti dei bambini, scevre da pregiudizi, prendere diletto solo in prodotti e immagini consimili a quelle che i nostri veri scrittori moderni porgono loro davanti. Ho osservato con quale celerità il gusto generale ritornerà a questa innocenza germinale e a questa semplicità; e se il fine della poesia è divertire e istruire, non c’è dubbio che si deve preferire quel genere che diverte e istruisce più gente possibile. Guardiamoci attorno fra gli ammiratori della poesia e vedremo quanto scarsi siano coloro che hanno il gusto del sublime, mentre dal profondo non c’è chi rimanga colpito, essendo adatto ad ogni capacità. È d’altronde impresa vana scrivere per uomini dal gusto svenevole e schizzinoso ai quali, dopo tutto, è quasi impossibile piacere; ed è ancora più chimerico scrivere per i posteri, del cui gusto è impossibile farsi un’opinione e del cui applauso non ci sarà mai dato di godere. Dobbiamo ammettere che i nostri più saggi autori hanno il presente scopo:
Et prodesse volunt, et delectare poetae.
Loro vero fine è il profitto o il guadagno, per l’acquisizione del quale è necessario procurarsi applausi somministrando al lettore il piacere; dalla qual cosa consegue inconfutabilmente che i loro prodotti hanno da confarsi al gusto corrente; e non posso che rallegrarmi con la nostra epoca per questa particolare prosperità per cui, sebbene abbiamo fatto senz’altro grandi progressi in tutti gli altri settori del lusso, non ci siamo ancora infrolliti con alcun gusto elevato in poesia, essendo in quest’unico gusto meno sottili dei nostri antenati. Se l’arte si stima dal successo che ottiene, faccio appello all’esperienza e mi chiedo se non ci sono stati, proporzionalmente al loro numero, tanti buoni poeti affamati, quanti sono stati quelli cattivi.
Nondimeno, riponendo nel guadagno il fine precipuo dall’arte nostra, sarà lontano da me il pensiero di volere escludere da sollazzi consimili un qualche grande ingegno di rango o di fortuna. Dovrebbero costoro essere lodati non meno di quei principi che passano le loro ore di ozio con qualche meccanismo ingegnoso o con qualche arte manuale: sarebbe da ingrati non riconoscere quanto spesso sia stata infinitamente debitrice la nostra arte nei loro confronti.
Capitolo III
La necessità del bathos viene considerata dal punto di vista fisico
Per di più sarebbe ingiusto e indicibilmente crudele se, dal momento che consimili autori non riescono a scrivere nell’altro modo, fosse loro proibito di scrivere affatto. Contro la quale idea oppongo un argomento di quella che mi sembra un’indiscussa massima medica, secondo la quale la poesia è una secrezione del cervello, naturale oppure patologica. Così come non fermerei di colpo un raffreddore in testa, né prosciugherei gli emuntori del mio vicino, tanto meno vorrei fargli rattenere i bisogni dello scrivere. Si può affermare come grande verità che non c’è alcuna creatura umana la quale, passata la fanciullezza, non abbia avuto, prima o poi, la necessità di qualche evacuazione poetica, senza dubbio con gran conforto alla salute; tanto vero è il detto nascimur poetae: per cui il desiderio di scrivere è propriamente definito pruritus, la titillazione della facoltà generatrice del cervello; e si dice che la persona concepisce e, se concepisce, deve pur partorire. Ho conosciuto un uomo pensieroso, malinconico, in preda al delirio per diversi giorni che è diventato all’istante amabile, allegra e faceta persona grazie allo scarico dell’umore morboso in versi di straordinaria purulenza. Non posso nemmeno mettere in discussione che l’abbondanza degli immaturi decessi sia dovuta alla mancanza di tale laudabile sfogo, così forse come accade ai poveri meschinelli a causa della mancanza (il che è oltre ogni dire pietoso) di penna, carta e inchiostro! Dal che consegue che la soppressione della pessima poesia produce dannose conseguenze allo Stato; l’esperienza dimostra che questi stessi umori che d’estate evaporano in sonetti e ballate, col gelido inverno condensano in libelli e concioni pro e contro il ministero; anzi, non so, ma un brano di poesia può essere spesso la più innocente opera di uno stesso ministro.
È dunque evidente che si dovrebbe permettere, vorrei dire anzi, indulgere alla mediocrità per i buoni sudditi d’Inghilterra. Né posso concepire come il mondo abbia potuto credere il contrario per una massima sull’unica autorità di quell’Orazio. Perché l’aurea mediocrità, la quintessenza d’ogni virtù, dovrebbe essere giudicata così offensiva solo in questa arte? O perché la freddezza e la mediocrità sarebbero tanto amabili qualità in un uomo e tanto detestabili in un poeta?
Comunque, lontano da me il volere paragonare questi scrittori a quei grandi spiriti, nati con una vivacité de pesanteur o (come un autore inglese la chiama) alacrità d’affondamento, gli unici ad eccellere per forza di natura. Ciò che intendo dimostrare, è che le regole sono necessarie a questi geni minori, per quanto sono utili ai maggiori.
Retorica della satira, a cura di A. Brilli, Bologna, Il Mulino, 1973
Tutto l’apparato della retorica sublime, apparato che poi ingombrerà le teorizzazioni della seconda metà del secolo, viene ora esibito nella sua falsità di meccanismo che non solo occulta il vero, ma spinge addirittura la mente a imboccare la strada della follia o del sogno fallace. In questo il Peri bathous sembra rivolgersi al vecchio Fontenelle o alle Riflessioni critiche su Longino di Boileau.
Alla fine del Settecento Matteo Borsa, un erudito mantovano allievo di Bettinelli, cita i satirici inglesi, da Swift a Pope, e propone le armi della parodia come rimedio contro la confusione dei generi che caratterizza il “filosofismo enciclopedico” del secolo.
Ma proprio da un rovesciamento parodico del genere epico nasce l’esperienza letteraria più originale della nostra letteratura, Il giorno di Giuseppe Parini, dove convivono, cercando una difficile armonia, il decoro oraziano, le teorie sensistiche, il sublime e la tecnica eroicomica che guarda al Pope del Ricciolo rapito. Dopo l’esordio in clima arcadico e il contatto con le idee più avanzate del milieu illuministico lombardo, Parini passa attraverso gli entusiasmi e le delusioni della Rivoluzione, fino al formarsi del gusto neoclassico. Egli trasfonde nel lavoro senza fine che accompagna le quattro parti del poemetto l’intero evolversi di idee della seconda metà del secolo. Nel 1763 la pubblicazione del Mattino, prima parte di un presunto trittico, consolida la fama del poeta che due anni dopo riesce a concludere e dare alle stampe il Mezzogiorno. La conclusiva Sera invece non viene pubblicata e, al termine di un lavoro trentennale, restano solo il progetto e gli abbozzi di un’opera che nel frattempo si è sdoppiata nel Vespro e nella Notte. Ciò che rende unitario un materiale di per sé non giunto alla coerenza finale è la struttura narrativa che segue le occupazioni di un giovane aristocratico lungo l’articolarsi di una giornata esemplare. A questo schema si sovrappone la voce narrativa del poeta precettore, impegnato in una lunga lezione di tono elevato che rivela fin dall’inizio il doppiofondo dell’ironia.
Attraverso la tecnica dell’ingrandimento (di particolari quotidiani) e del rimpicciolimento (di elementi storico-mitologici) il Parini propone una sua versione del meccanismo eroicomico. Così il risveglio del “giovin signore” si trasfigura in un rito elegante, osservato al rallentatore in una serie di quadri che culminano nel ricordo delle stragi dei conquistadores, finalizzate al reperimento del caffè bevuto dai nobili europei. E come nella toilette di Belinda, la protagonista del Ricciolo rapito, ogni spezia e profumo riassume un aspetto dell’Oriente favoloso, anche la mensa mattutina del “lombardo Sardanapalo” viene onorata dalla “nettarea bavanda” per cui fu sparso “umano sangue” e per cui Pizzarro e Cortés “tonando/ e fulminando alfin spietatamente/ Balzaron giù da i grandi aviti troni/ Re Messicani e generosi Incassi”. Attraverso la sua pedagogia rovesciata, Parini conduce una polemica che a ben vedere non si rivolge contro una classe sociale in quanto tale, ma contro la perdita di valori che quella classe ormai non riesce più a rappresentare. Il suo riformismo è senza dubbio velato e cauto, ma la stessa dissoluzione dell’intreccio in una serie di immagini perfette che sembrano preparare l’avvento del neoclassicismo, in opposizione al rocaille francese, sono spie di una sensibilità analitica eccezionale e di uno spirito tanto acuto da destare l’ammirazione di Leopardi e di Manzoni, oltre che del più recente Carlo Emilio Gadda. Chi invece non approva del tutto l’opera del Parini è proprio il contemporaneo e vicino Pietro Verri, portavoce del “Caffè”.
Rispetto al gruppo dei riformatori intransigenti, la posizione di Parini è certamente più tradizionalista, soprattutto nei confronti dei progetti sociali incarnati dal commercio e dall’industria, verso i quali il poeta prova un’avversione giustificata anche dalle sue origini contadine e quindi da una difesa del vecchio mondo agricolo. Il giudizio di Pietro Verri, uscito il 20 ottobre 1765, si appiglia a un problema morale ma anche sociale. “Il talento di rendere un oggetto ridicolo è propriamente l’arte d’interessare quella porzione di malignità che sta riposta quasi sempre in qualche angolo del cuore degli uomini contro l’oggetto che cerchiamo di far cadere in discredito”. Date queste premesse, per il giovane accademico “dei Pugni” la descrizione di un giovane “nobile, ricco, voluttuoso, e spensierato” non può essere efficace in quanto non sviluppa nel lettore un senso di superiorità e invita invece all’emulazione. Con l’occhio sempre rivolto a un “utile sentimento”, cioè a una dimensione sociale, Verri non condivide la satira del più anziano amico e cerca di ricondurre l’eversività del riso dentro i limiti di un beneficio pubblico. Il riso diventa, nel breve intervento, addirittura una “convulsione privativa”, il “ragrinzamento d’alcuni muscoli del volto”, una passione smodata capace di rovesciarsi nel suo contrario, la tristezza. Così, al suo posto, Verri preferisce il piacere moderato di un “sincero sorriso”. La stessa paura, del resto, manifesta il fittizio Martino Scriblero, spaventato dal riso come dalla follia: “Quando gli veniva portato dinanzi uno di questa risibile specie ed egli doveva constatare l’enorme quantità di muscoli che queste canaglie ridenti mettevano contemporaneamente in movimento spasmodico […], quando egli considerava contemporaneamente tutto questo, usava gridare casus plane deplorabilis e abbandonava gli infelici al loro destino”.
Il talento di rendere un oggetto ridicolo è propriamente l’arte d’interessare quella porzione di malignità che sta riposta quasi sempre in qualche angolo del cuore degli uomini contro l’oggetto che cerchiamo di far cadere in discredito. V’è già chi ha fatto vedere che il riso non viene mai sul labbro dell’uomo se non quando ci fa qualche confronto di se stesso con un altro con proprio vantaggio: e che il riso è il segnale del trionfo dell’amor proprio paragonato. Questa proposizione deve sembrare un paradosso a chiunque la legga per la prima volta, e tale sembrò a me pure: ma chi è capace di contenzione e di seguir le traccie de’ movimenti anche dilicati della propria sensibilità vedrà a grado verificarsi questa teoria eziandio ne’ casi ne’ quali sembra il riso la più innocente e disinteressata sensazione di ogni altra. Crescerà il paradosso al bel principio se si rifletta come gli uomini i più umani e benefici sieno per lo più coloro i quali più sovvente e di cuore, come sogliam dire, si lasciano movere al riso; e per lo contrario assai più incalliti e occulti e capaci di cabale e raggiri sieno coloro sulla fronte de’ quali o di raro o non mai compare la giocondità e il riso. Ciò avviene cred’io perché l’uomo non è malvaggio giammai gratuitamente, e tanto minore invito ha per esserlo quanto meno è infelice; e come gli uomini quanto a più alta e indipendente autorità sono innalzati tanto più generosi sono e buoni, non restando ad essi più altro a bramare che la lode e l’amore de’ loro simili, così quegli ai quali è stato dato un felice temperamento e che ne’ continui confronti che fanno di se stessi cogli altri sono beneficati dalla natura a segno di poter sempre decidere favorevolmente per loro stessi, altro più non desiderano che d’ottenere anco l’amore di quelli su i quali ottengono tante vittorie. Moltissima delicatezza d’ingegno e vivacità d’imaginazione richiedesi in chiunque ricerchi di ben maneggiare la sferza del ridicolo; poiché si tratta di solleticar destramente l’amor proprio degli uomini e risvegliare senza ch’essi pur se ne avveggano le più care e inseparabili loro passioni a combattere con noi. Fra cento che aspirano all’onore di ben riuscirvi, forse due o tre vi riescono, e la maggior parte degenera o in basse e plebee contumelie ovvero in ricercate e fantastiche allusioni che risvegliano tutt’al più uno imprestato sorriso di convenzione dagli astanti, non mai un sorriso che parta dalla vera compiacenza del cuore. Taluno vuol porre in ridicolo un giovane nobile, ricco, voluttuoso e spensierato; e per ciò fare me lo descrive superbamente vestito e circondato nella persona di tutta la più squisita eleganza che sappia inventare sulle rive della Senna l’ultimo raffinamento del lusso: l’aria ch’ei fende è imbalsamata da’ profumi deliziosi che spirano dal suo corpo che non sembra mortale; ei discende le scale dopo aver ricevuto i servigi e gli omaggi d’una schiera di salariati adulatori; si gitta entro un dorato cocchio mollemente, e preceduto da riccamente gallonati lacchè rapidamente percorre le strade della città che lo dividono dalla sua bella, dove riceve l’accoglienza la più distinta. Dico che colui che per questa strada prende a maneggiare il ridicolo manca di giudizio per ben maneggiarlo, poiché nessuno, facendo il confronto di se medesimo colla pittura di quel Ganimede, potrà mai sinceramente sentire la superiorità propria sopra di esso né ridere di cuore per conseguenza. Il solo sentimento che da pitture sì ben espresse può nascere è il desiderio di poter fare altrettanto. Io a quel tale direi: volete voi porre in ridicolo quello sventato dissipatore de’ suoi beni? Dipingetelo in un dialogo col mercante creditore; dipingetelo occupato di mille bassissimi intrighi e cabale in secreto per raccogliere con che sostenere il fasto apparente; dipingetelo in conversazione con un uomo di spirito che rileva e sferza le sciocchezze che escono dalla bocca di uno stordito e non si arrestano nella gola quand’anche avesse un brillante ogni dito, cento libbre di ricamo sull’abito e dieci staffieri nell’anticamera: questa è la strada per cui potrete farne una pittura tale che i circostanti, confrontandola a se stessi, la trovino posponibile e ne ridano e si compiacciano con voi del trionfo che avete dato al loro amor proprio, atterrando un oggetto che con dispiacere vedevano più alto alzarsi del loro livello. Oltre questa malignità ne nascerà anche un utile sentimento, per cui si modererà in altri la voglia d’imitare quel brillante e vuoto originale; e conoscendo che il fasto e la profusione non fanno mai nascere negli uomini quei sentimenti di stima che producono la virtù e l’ingegno, e conoscendo a quai duri passi conducano la spensieratezza e la trascuranza d’una nobile economia, si volgeranno a cercare altrove migliori oggetti d’invidia e cercheranno di formarsi buoni, virtuosi e illuminati cittadini. Questa è la strada che convien battere, direi a quel tale. Dunque la prima massima per ben usare del ridicolo si è quella di non cercare mai di spargerlo se non su gli oggetti che gli uomini possano trovare posponibili nel nascosto confronto che fanno con essi loro; altrimenti la malignità umana, che non perde mai l’occasione di fare tutt’i confronti consolanti che può, renderà ridicolo l’inesperto maneggiatore del ridicolo istesso. Un’altra osservazione pure è necessario di fare prima di gettare il ridicolo sopra un oggetto, ed è ch’ei non sia per se medesimo presentato in guisa di eccitare in noi qualche forte emozione. Alcuni inesperti, per voglia d’avere il nome assai pericoloso di motteggiatori, disumanamente frizzano i loro sali contro un miserabile che viene frustato per mano del carnefice per la città. Ciò vuol dire propriamente sovvertire i principî della morale umana e pretendere che taccia nel cuore degli uomini il benefico sentimento di compassione verso un infelice esposto al pubblico vilipendio, sentimento che ogni cuore non indurito e non forastiero alla virtù deve provare. Così dicasi di chi cerca di porre in ridicolo la prepotenza, la venalità dei giudici, il tradimento e simili piaghe della società, le quali, anzi che dar luogo a quel leggero vantaggio che il confronto di noi con essi fa nascere allorché sorridano, eccitano in vece l’abominazione e lo sdegno d’ogni cuore non corrotto. Conviene dunque che l’oggetto che si sceglie per rendere ridicolo sia soltanto capace di eccitare in noi quella emozione che chiamasi invidia, e che destramente ei ci venga rappresentato per modo che conosciamo d’avere indebitamente provato noi per l’addietro il penoso sentimento dell’invidia, che anzi sentiamo noi stessi a lui preferibili; il che non si ottiene sì tosto che l’oggetto per se medesimo ecciti in noi le forti emozioni di compassione o di ribrezzo o simili. Conviene di più che il ridicolo cada sopra oggetti che, come dissi, abbiano offeso il nostro amor proprio in qualche guisa: perciò non riuscirà mai a far ridere davvero i suoi lettori colui che pone loro davanti gli occhi costumi da essi mal conosciuti ovvero ad essi affatto indifferenti. Un errore di calcolo de’ più grossolani fatto da un algebrista non farà mai ridere gli uomini di mondo ed un nastro anche giallo posto su un abito nero non farà mai ridere un’accademia di scienze. Il vezzo poi del ridicolo, scelto che s’abbia bene il soggetto, si è quello di dipingerlo verisimilmente ed in caricatura, ma con una tranquillità d’animo e con una pace sì calma che non trapelli nel motteggiatore verun fiele che a ciò fare lo spinga. Il ridicolo vuole della malignità bensì, ma di quella che viene per così dire a fior d’acqua, non già di quella viziosa e nera che resta nel fango e di cui sono composte le anime atrabiliari e perverse. Ogni onesta persona si sdegna tosto che il ridicolo diventa maldicenza assoluta, ovvero discende in bassezze e scurrilità. Nulla più piace alle genti non affatto grossolane quanto una sorta di decenza e di nobile eleganza in tutto; queste se non sono virtù sono almeno qualità che le accompagnano caramente. Il talento di ben maneggiare il ridicolo è una qualità che, se non fa amare un uomo, è però cagione che per timore si finga d’amarlo. Gli uomini sono in una sorte di contraddizione ne’ loro sentimenti verso gl’illustri motteggiatori: sentono la gratitudine verso di essi per tutte le vittorie che il loro amor proprio ha ottenute per mezzo loro, ma nel tempo stesso, temendo di non restarne altresì la vittima ed essendo il timore una disaggradevole sensazione, come ognuno sa, odiano chi in essi la produce. Io però non sono ancora ben persuaso per rispondere a chi mi chiedesse se il talento del motteggio sia utile o no alla società. Conosco che il flagello del ridicolo è una delle più possenti correzioni che si diano per i difetti degli uomini, ma vedo altresì che il medesimo flagello può essere il più crudele supplicio per atterrire l’uomo di genio e costringerlo a restare uomo volgare. Nelle società dove gli uomini siano molto inclinati dalla educazione a slanciare ed a temere il ridicolo io osservo che molto raffinamento v’è negl’ingegni, ma questa universale coltura non va accompagnata dalla produzione di quegl’ingegni feroci e sublimi che osano carpire le grandi verità ed avventarsi alla folta nebbia entro cui stanno riposte; io non vedo in esse quei felici ardimenti che si slanciano al disopra del livello della mediocrità. Parmi che il ridicolo stuzzichi gli uomini inferiori alla mediocrità a giugnervi e prema sul capo ai vigorosi acciocché non l’oltrepassino. In fatti la ragione e la sperienza ci provano egualmente che l’uomo allora soltanto è capace di ergersi a qualche grande oggetto qualora ei abbia di esso la mente e l’anima ripiena e siane come assorbito interamente, cosicché poca o nessuna attenzion ei faccia a tutta la innumerevole folla degli uffici e delle cure che occupano periodicamente il maggior numero. Ora, un tal uomo deve per una indispensabile incompatibilità presentare il fianco disarmato al ridicolo: che se da’ primi anni sia già piegato a temerlo, forz’è ch’ei contrapponga questo timore a quel felice entusiasmo che lo porterebbe al grande, e la forza di esso o si estingua o per lo meno si elida, cosicché si pieghi alla condizione degli uomini volgari. Non v’è cosa più facile che il gettare il ridicolo sulle azioni d’un grand’uomo, se a lui si avventi prima che la pubblica estimazione lo abbia cinto di quella sacra nebbia in cui Venere ascose il Troiano per guidarlo sicuro in Cartagine. L’uomo capace di grandi cose forz’è che degli oggetti che gli agitano la mente ne parli con una energia proporzionata al sentimento che ne ha grandissimo, ed ogni idea un po’ gigantesca, per poco che tu la spinga, facilmente la trasporti entro ai confini del ridicolo. Io osservo le nazioni d’Europa le quali lampeggiano sopra le altre per la gloria degl’ingegni e delle armi sono forse quelle nelle quali il ridicolo ha minor porzione nella vita civile. Osservo pure che dovunque la celia, il motteggio ossia il ridicolo sono in onore singolarmente, ivi il cuore e i dolci sentimenti d’una reciproca fidanza non possono aver luogo in contro alcuno, e con ciò vien posto un argine insuperabile alle più dolci e virtuose corrispondenze sociali. Convien distinguer bene due cose separatissime, e sono la gioia ed il ridicolo: una nazione che balli, canti, beva e passi il suo tempo festosamente non è perciò una nazione di motteggiatori. Anzi dirò che ogni società in cui si faccia studio di spargere il ridicolo deve per necessità essere fredda, circospetta e triste, né mai può gustare la gioia vera e sincera, la quale esigge la libertà del cuore e la sicurezza d’ognuno. Nella Camera de’ Comuni di Londra un cittadino animato della felicità e della gloria della patria arringava per una deliberazione che stavasi per prendere; nel maggior fervore della sua eloquenza avvenne che gli cadde la parrucca a terra; ognuno sa quanto sia numerosa la Camera de’ Comuni d’Inghilterra: neppure un sorriso svegliò quest’effetto della gravità; il cittadino riprese la parrucca, se la ripose e proseguì il discorso senza che alcuno abbia fatto nemmeno cenno d’accorgersi d’un accidente sì naturale e sì frivolo. Io credo che un filosofo viaggiatore avrebbe da questo solo fatto potuto calcolare qual sia la forza politica dell’Inghilterra. Il riso è una convulsione privativa dell’uomo e che, per quanto sappiamo, la natura non ha concessa a verun altro animale, giacché non basta il ragrinzamento d’alcuni muscoli del volto, per cui sollevisi il labbro superiore e mostrinsi i denti, perché dicasi uno ridere. I viaggiatori ci dipingono i popoli dell’Asia come nazioni presso le quali è sconosciuto il ridere, almeno quel ridere sonoro e smascellato che praticasi da noi; sensazione ch’io non so bene se debbasi anzi riporre fra le piacevoli ovvero fralle dolorose, massimamente per la lassitudine che lascia dopo di sé. Io so che l’uomo, dopo un riso che sia alquanto durato, trovasi tristo ed abbattuto potentemente. So pure che il sublime del diletto che provasi nella società è quello che si manifesta con un sincero sorriso e che, accrescendosi questo movimento al di là, degenera e lascia vuoto il cuore. Troppo mi dilungherei se m’abbandonassi a queste idee; servirann’elleno per un altro foglio; per ora concludo così. I vantaggi che porta alla società il talento di spargere il ridicolo si restringono a correggere non i vizi degli uomini, ma bensì i loro difetti; e questi difetti per la maggior parte sono talmente inseparabili dalle buone qualità essenziali che togliendoli bene spesso si corre pericolo di togliere insieme quelle. I mali che l’uso del ridicolo fa, impedendo i progressi dei talenti e della generosa virtù, sono massimi a parer mio. Per ciò asserisco che questa sorta di spirito è opposta alla pubblica felicità.
P. Verri, Il Caffé, a cura di G. Francioni e S. Romagnoli, Torino, Boringhieri, 1993