Ray, Satyajit
Regista cinematografico bengalese, nato a Calcutta il 2 maggio 1921 e morto ivi il 23 aprile 1992. Figura tra le più autorevoli della cinematografia mondiale, è il nome internazionalmente più noto di quella realtà assai composita, per ragioni culturali, linguistiche e storico-politiche, che è il cinema del subcontinente indiano. Erede di una grande tradizione intellettuale, egli fu di fatto l'ultimo gigante del cosiddetto rinascimento bengalese, un movimento che ha profondamente cambiato la storia dell'India moderna attraverso l'incontro e la fusione del pensiero occidentale con quello orientale.
La sua lunga carriera (che conta 29 lungometraggi e numerosi documentari) va inquadrata nell'ambito dell'importante corrente cinematografica bengalese, connotata da forti motivazioni sociali e politiche, che in R. trovò la sua massima espressione e che, a partire dai primi anni Cinquanta, ebbe altri importanti punti di riferimento in registi originari del Bengala Orientale (od. Bangla Desh) quali Ritwik Ghatak, Bimal Roy, e, qualche anno dopo, Mrinal Sen. R. tuttavia, più di altri, ha lasciato il segno di una complessa cifra autoriale, curando, oltre alla produzione e alla sceneggiatura, anche le musiche dei suoi film, dei quali, dal 1964, fu anche operatore alla macchina. Con il primo film, Pather panchali (1955; Il lamento sul sentiero), vinse un premio della giuria a Cannes nel 1956; mentre con Aparajito (1956; L'invitto) ottenne il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia del 1957; fu inoltre premiato a Berlino nel 1964 e nel 1965 con l'Orso d'argento per la regia, rispettivamente per Mahanagar (1963, La grande città) e Charulata (1964, Una donna sola). Infine nel 1992, pochi giorni prima della sua morte, fu insignito di un Oscar alla carriera.Cresciuto in una famiglia borghese e intellettuale (il padre Sukumar era poeta, scrittore e disegnatore), R. fu uomo dalle mille passioni e artista poliedrico: disegnatore, illustratore grafico, critico cinematografico, sceneggiatore, musicista, editore di una rivista per ragazzi. L'interesse per il cinema e le arti visive, nutrito sin dall'adolescenza, si accrebbe durante gli anni di studio presso l'Università di Shantiniketan (fondata dal grande poeta bengalese R. Tagore, amico del padre di R.), dove studiò pittura, e successivamente nel periodo in cui lavorò come grafico presso l'agenzia pubblicitaria D.J. Keymer; tale attività lo pose a contatto con la letteratura bengalese, di cui illustrò diverse opere. Pur essendo di fatto un autodidatta in campo cinematografico, la sua formazione culturale gli permise una precoce consapevolezza della complessità del linguaggio filmico e della sua affinità, in particolare, con la pittura e la musica, argomento cui avrebbe dedicato negli anni a venire numerosi saggi critici.
Nel 1947, con un gruppo di amici, fondò la Calcutta Film Society e iniziò a scrivere articoli di cinema per giornali e riviste. Ma l'incontro decisivo fu senza dubbio quello, nel 1949, con il regista francese Jean Renoir, giunto a Calcutta per i sopralluoghi del suo film The river (1951; Il fiume), di cui R. fu assistente sul set, ricevendone un incoraggiamento a intraprendere la carriera cinematografica. L'anno seguente R., che aveva una buona conoscenza del cinema classico hollywoodiano, ebbe occasione di assistere a Londra a una proiezione di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, da cui rimase affascinato, maturando un interesse per un cinema realistico, da realizzare con attori non professionisti. Nel 1950 ricevette da una casa editrice l'incarico di illustrare il romanzo Pather panchali di B. Bannerjee. Ebbe allora inizio la lunga e tormentata vicenda produttiva del film omonimo, che segnò il suo esordio cinematografico e resta tuttora la sua opera più celebre. Pur avendo riempito con disegni e dialoghi ‒ realizzando lo storyboard del film ‒ i suoi red notebooks (taccuini di appunti dalla copertina rossa, divenuti poi leggendari) e avendo iniziato già nel 1952 a girare alcune scene, per lungo tempo la ricerca di un produttore non ebbe esito. Nel frattempo R. scopriva altre opere del Neorealismo italiano, le opere dell'avanguardia sovietica, Rashōmon (1950; Rashomon) di Kurosawa Akira, come pure alcuni film di ambientazione rurale e impostazione realistica di B. Roy, come Do bigha zameen (1953, Due ettari di terra). Un finanziamento del governo del Bengala Occidentale e il sostegno di Monroe Wheeler, direttore del MOMA (Museum of Modern Art) di New York, consentirono a R., alla fine del 1954, di completare l'opera, impreziosita dalle musiche di Ravi Shankar, ma realizzata comunque con un budget modesto. Proiettato in India nell'agosto del 1955, Pather panchali fu subito un successo di botteghino e, grazie alla partecipazione al Festival di Cannes, conquistò pubblico e critica internazionali. Il film rappresenta il primo episodio di una grande saga familiare, la cosiddetta 'trilogia di Apu', dal nome del protagonista che il regista segue dall'infanzia all'età adulta, presentando al contempo una lucida e impietosa denuncia delle condizioni sociali dell'India contadina durante il dominio britannico. Ambientato tra il 1910 e il 1920 in un piccolo villaggio bengalese, il film narra le drammatiche vicende di una famiglia poverissima in cui il padre è costretto a emigrare in cerca di lavoro; il tragico susseguirsi degli eventi ‒ il monsone che distrugge il villaggio e causa la morte della sorella Durga, il triste ritorno del capofamiglia, la scelta di lasciare il villaggio alla volta di Benares, il difficile inserimento nella città ‒ sono filtrati dallo sguardo del piccolo Apu, in un miscuglio di curiosità, dolore, avventura, e, soprattutto, nostalgia per il mondo perduto dell'infanzia. R. si appropria delle forme narrative occidentali, ma recupera la cifra epica e mitologica della sua cultura nella descrizione del paesaggio e della relazione tra gli uomini e la natura, da cui emana un senso di radiosa bellezza (esaltata dal bellissimo bianco e nero del direttore della fotografia Subrata Mitra) che contrasta, insieme alla chiassosa vitalità dei bambini che affollano il film, con l'incombere della miseria e della morte, in una perenne lotta tra creazione e distruzione. A completamento della trilogia, sarebbero poi usciti Aparajito e Apur sansar (1959; Il mondo di Apu); il capitolo centrale della saga vede il giovane eroe intraprendere un percorso di autonomia personale, confrontandosi però con la morte prima del padre e poi della madre, che era tornata a lavorare nei campi per mantenere il figlio agli studi. Il terzo film, Apur sansar, segue nella Calcutta degli anni Trenta la difficile maturità di Apu (Soumitra Chatterjee, uno degli attori feticcio del cinema di R.) e la sua storia d'amore con la bella Aparna, che poi sposerà; ma la donna morirà partorendo il loro bambino, che Apu rifiuterà di conoscere, lasciandolo ai nonni. Solo dopo aver rinunciato al suo sogno di studiare e scrivere un romanzo e dopo aver conosciuto la disperazione, Apu, operaio in fabbrica, si metterà in cerca del figlio. Prima di concludere la trilogia di Apu, R. aveva diretto due lungometraggi, tra cui il bellissimo Jalsaghar (1958; La sala di musica): ambientato agli inizi del secolo, è l'elegante messa in scena di un mondo in decadenza, quello di uno zamīndār (feudatario) che, dopo aver dilapidato in fastosi concerti il patrimonio di famiglia e aver perso in un incidente la moglie e il figlio, apre per l'ultima volta il salone della sua casa in spregio al nuovo vicino, un esponente della nuova classe di capitalisti e speculatori, per un ultimo e raffinato concerto che lo condurrà alla definitiva rovina economica.I conflitti di casta, lo scontro sociale, la corruzione politica ed economica, il peso del fanatismo religioso sono i temi centrali del cinema di R., come anche la condizione della donna in India e, in particolare, il contrasto tra regole della tradizione e ideali di emancipazione. È il caso di opere come Devi (1960; La dea), ambientato nel 1860, dove una giovane donna viene condotta alla pazzia dal suocero che, avendo in sogno riconosciuto in lei la reincarnazione della dea Kali, si aspetta un miracolo; Mahanagar e Charulata, tratto da un racconto di Tagore, nel quale una donna sposata instaura una relazione con uno scrittore, cugino del marito che quest'ultimo aveva accolto nella loro casa per coltivare e accrescere la predisposizione alla scrittura della moglie. Molto legato a Tagore, nel 1961, nel centenario della nascita, il regista dedicò al grande poeta e scrittore un intenso ritratto (il documentario Rabindranath Tagore). Successivamente sarebbe tornato al tema dell'adulterio e dell'ipocrisia sociale in Ghare baire (1984; La casa e il mondo), ambientato nel 1905 e nuovamente ispirato a un romanzo di Tagore. Lo scontro tra classi e la transizione da un'epoca all'altra sono al centro di numerose opere degli anni Settanta, che recuperano l'ambientazione contemporanea e appaiono influenzate dai mutamenti del clima politico del Paese: è il caso di Seemabaddha (1971, Società per azioni) e, soprattutto, del durissimo atto di accusa contro la corruzione politica di Jana aranya (1975, L'intermediario), il film più disperato del regista, dove il giovane Somnath abbandona gli studi per una spregiudicata carriera come mediatore d'affari, gettando nello sconforto la sua nobile famiglia. Risale invece alla vigilia del dominio inglese la vicenda, a tratti surreale e resa con soluzioni cromaticamente affascinanti (è il primo film di R. interamente girato a colori), di Shatranj ke khiladi (1977, I giocatori di scacchi), storia di uno zamīndār e della sua corte che si lasciano travolgere dagli eventi storici senza opporre resistenza.
Negli anni Ottanta, anche a causa di problemi di salute, R. si dedicò prevalentemente alla realizzazione di alcuni documentari, come il commosso omaggio alla figura paterna Sukumar Ray (1987). Ma tra il 1989 e il 1991 trovò le energie per realizzare in sequenza ben tre film: Ganashatru (1989, Un nemico del popolo), libera trasposizione nella ben diversa realtà bengalese del dramma di H. Ibsen e nuova, amara denuncia dei guasti nell'amministrazione pubblica; Shakha proshakha (1990, Rami di un albero), impietosa analisi dell'ipocrisia familiare; e, soprattutto, Agantuk (1991, Lo straniero) che, narrando la vicenda di un vecchio zio dato per morto il cui improvviso ritorno viene accolto con sospetto e disprezzo dalla famiglia, si pone come una parabola sul pregiudizio e sulle frontiere, in primo luogo mentali, tra gli uomini. Questi ultimi film rappresentano il testamento morale e politico di un autore la cui eredità è stata ripresa per certi versi dal regista bengalese Gautam Ghose, in quale alla figura e all'opera di R. ha dedicato tra l'altro, un intenso ritratto documentario dal titolo Ray, (1998).
G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi, Storia del cinema, 3° vol., t. 2, Milano 1988, pp. 376-79.
Ch. Tesson, Satyajit Ray, Paris 1992.
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D. Cooper, The cinema of Satyajit Ray: between tradition and modernity, Cambridge-New York 2000.