MERCADANTE, Saverio ( Giuseppe Saverio Raffaele). –
Non si conoscono con esattezza luogo e data di nascita del M., figlio illegittimo del nobile Giuseppe Orazio Mercadante e di Rosa Bia.
Un Giuseppe Saverio Raffaele venne infatti battezzato il 17 sett. 1795, nel duomo di Altamura, «sub conditione […] figlio di genitori incogniti» (Palermo, 1985, p. 11). In un altro atto di battesimo, redatto nel 1808 nella parrocchia di S. Maria in Cosmedin a Napoli si legge invece che «il 26 del mese di giugno 1797» venne battezzato «Francesco Saverio Giacinto, figlio di D. Giuseppe Mercadante e D. Rosa Bia» (Solimene, p. 68). La presenza di questo documento, redatto nello stesso anno in cui il padre lo aveva riconosciuto ufficialmente al fine di agevolarne la domanda di ammissione al conservatorio partenopeo di S. Sebastiano, ha indotto a sostenere che il M. fosse nato a Napoli nel 1797; così scrive F. Florimo, compagno di studi al conservatorio partenopeo, che fornisce anche le poche notizie circa l’infanzia e la formazione del Mercadante.
Avvicinatosi alla musica grazie al fratellastro Giacinto, figlio di primo letto del padre e dilettante di chitarra e clarinetto, il M. dimostrò una spiccata attitudine allo studio e, per interessamento dell’arcidiacono Luca de Samuele Cagnazzi, venne ammesso al conservatorio napoletano. Qui ebbe modo di esperire diversi strumenti (violoncello, fagotto, flauto) e studiò violino con ottimi risultati, fino a rivestire il ruolo di primo violino e direttore dell’orchestra, come era prassi nel corso del XIX secolo. Seguì poi le lezioni di «Partimenti e contropunti» con G. Furno e G. Tritto prima di passare, nel 1813, alla classe di composizione di A. Zingarelli, campione del conservatorismo della scuola napoletana e da quello stesso anno incaricato della direzione del conservatorio.
Diversi lavori testimoniano l’apprendistato e i primi successi compositivi del M., segnatamente nella musica strumentale: marce, piccoli brani per banda, pezzi cameristici d’insieme che eseguiva con i suoi compagni di studio. Nel 1817 gli fu affidata la direzione dell’orchestra, per la quale scrisse i cosiddetti «concertoni» (sinfonie concertanti) e vari concerti solistici, in particolare per flauto traverso (il n. 2 op. 57, scritto nel 1814, ha avuto una fortuna straordinaria ed è ancora oggi in repertorio). Gran parte di queste composizioni, create ed eseguite nell’ambito del conservatorio, rimane manoscritta; il M. conquistò tuttavia l’attenzione della stampa musicale partenopea: l’editore Girard, nel marzo del 1818, aprì il proprio catalogo con un’arietta cameristica del M., Se di lei t’accendi, e poco dopo stampò il Gran concerto a 2 clarinetti, flauto e corno da caccia obligati, con dedica dell’«alunno del R. Collegio di musica all’Augusta Maestà di Ferdinando [primo] Re del Regno del due Sicilie».
Le composizioni strumentali per ensemble d’archi, strettamente legate allo studio del violino in conservatorio, seguono soprattutto i modelli compositivi di G. Paisiello. I concerti per flauto, per esempio il n. 2 in mi minore, dimostrano la conoscenza dei modelli francesi, che certamente circolavano nell’ambiente partenopeo. Le prime sinfonie sfruttano una scrittura contrappuntistica che rinvia a modelli «da chiesa»; inoltre, frequentando la classe di composizione di Zingarelli, il M. conobbe le partiture di F.J. Haydn e W.A. Mozart, nonché i modelli dei concerti romantici, la cui influenza si riscontra nei lavori seguenti.
Nel corso del 1817, nelle pagine del Giornale del Regno delle Due Sicilie, uscirono recensioni entusiaste sul M.; nello stesso anno egli scrisse musica per tre balli e nel 1819-20 ottenne a Napoli le prime scritture operistiche al teatro S. Carlo (L’apoteosi d’Ercole e Anacreonte in Samo) e al teatro del Fondo (con il dramma semiserio Violenza e costanza).
Gli esordi operistici del M. si collocano all’interno di un’estetica neoclassica propiziata dalla restaurazione borbonica. Il seguente titolo teatrale, Maria Stuarda, dimostra l’attenzione del M. anche per soggetti di gusto «moderno» (il libretto è tratto dal dramma di Fr. Schiller): progettata per Palermo e poi cancellata, l’opera andò in scena al teatro Comunale di Bologna, nel maggio del 1821.
Lasciato nel 1820 il Regno delle Due Sicilie, il M. si spostò sulla piazza teatrale romana, dove, anche grazie alle frequentazioni aristocratiche del salotto di Paolina Bonaparte Borghese (come ricorda il compositore catanese G. Pacini), presentò al teatro Valle Il geloso ravveduto e al teatro Argentina l’opera seria Scipione in Cartago, su libretto di I. Ferretti. Il 30 ottobre dello stesso anno, con Elisa e Claudio, melodramma semiserio su libretto di L. Romanelli, il M. debuttava al teatro alla Scala di Milano.
Il M. distilla i modelli formali della scuola napoletana e di tradizione larmoyante – metabolizzati attraverso l’insegnamento di Zingarelli e fondati sostanzialmente sulla superiorità della melodia rispetto all’elaborazione contrappuntistica e l’articolazione armonica – e vi aggiunge un tocco nuovo, che fu avvertito dal pubblico e dalla critica (ebbe l’elogio incondizionato di G. Carpani e di P. Lichtenthal). All’interno del panorama produttivo del melodramma italiano nel corso dell’Ottocento il lungo percorso compositivo del M. è emblematico quanto alle diverse declinazioni del repertorio, al convivere di tendenze neoclassiche accanto ad aperture alle nuove tendenze romantiche e, non da ultimo, segnato dalle ricadute imposte da importanti cambiamenti nella sfera della vocalità. L’ampia varietà di soggetti messi in musica dal M. si combina a sua volta con differenti soluzioni drammatiche, strutture morfologiche e scritture vocali; all’interno del complesso sistema operistico italiano esse sono il risultato delle intenzionalità estetiche del compositore, ma riflettono in parte anche situazioni contingenti (avvenimenti politici) e produttive (cast dei cantanti), nonché sensibilità culturali tangibilmente diverse tra piazza e piazza.
Nell’Andronico, che aprì la stagione di carnevale al teatro La Fenice di Venezia (26 dic. 1822), e in Alfonso ed Elisa, che andò in scena a Mantova l’anno seguente, il M. costruì il ruolo del protagonista sulle potenzialità di Gian Battista Velluti, uno degli ultimi castrati a essere impegnati sulla scena. Nel gennaio del 1823 il M. presentò al teatro Regio di Torino Didone abbandonata, ennesima messa in musica del celeberrimo libretto settecentesco di P. Metastasio. Ai versi del poeta cesareo ricorse ancora nel 1827, sempre per Torino, con Ezio e l’anno successivo, a Lisbona, con Adriano in Siria.
I lavori su testi metastasiani si collocano in un arco di anni che coincide con l’acuirsi della Restaurazione e si conclude con i moti del 1831. Il successo ottenuto a Milano permise al M. di riconquistare nel 1823 la piazza napoletana e l’impresario D. Barbaia gli offrì il posto di compositore stabile del teatro S. Carlo, lasciato libero da G. Rossini. L’anno seguente Barbaia, in perdita economica per l’abolizione del gioco d’azzardo, rinunciò all’appalto e propose al M. di scrivere per il Kärntnertortheater a Vienna; ma due dei tre lavori presentati non incontrarono il gusto del pubblico viennese. Per le seguenti stagioni napoletane Barbaia pertanto si affidò a Pacini e il M. si ritrovò a peregrinare tra i diversi centri produttivi europei. Nel 1826, dopo lo straordinario successo al teatro La Fenice con Donna Caritea regina di Spagna (il cui coro Chi per la patria muor divenne icona risorgimentale e fu scelto come inno nei moti del ’31 a Bologna e ancora intonato nel ’44 dai fratelli Bandiera davanti al plotone d’esecuzione), il M. accettò un contratto in qualità di direttore della musica dell’opera italiana a Madrid, della durata di sette anni e con un compenso di 200 colonnati annui. Il M. assorbì le inflessioni del folklore musicale iberico che trovano traccia in diverse composizioni strumentali; in teatro presentò I due Figaro e il rifacimento de Il posto abbandonato.
Un breve viaggio lo portò a inizio del 1827 a Milano, poi, già in primavera, era di nuovo a Madrid e da qui, in autunno, passò a Lisbona, dove scrisse La testa di bronzo, un lavoro su di un libretto (già musicato) di F. Romani e destinato al teatro privato del conte Farrobo. L’anno seguente divenne direttore del teatro S. Carlos e qui presentò Gabriella di Vergy, soggetto già musicato, oltre dieci anni prima, da M.E. Carafa. Nell’ottobre dello stesso anno il teatro dovette chiudere sotto la pressione dei disordini civili; il M. si spostò con un gruppo di cantanti a Cadice, dove compose l’opera buffa La rappresaglia alla quale fece seguito, per la stagione successiva, ancora un lavoro buffo, Don Chisciotte alle nozze di Gamaccio.
Nell’estate del 1830 fece ritorno a Milano per cercare una compagnia di cantanti disponibili per Madrid, al fine di riorganizzare la vita musicale della città, dopo il matrimonio tra Ferdinando VII e la nipote Maria Cristina di Borbone Napoli. In questa occasione il M. incontrò il soprano partenopeo Adelaide Tosi, con la quale, di ritorno a Madrid, intrecciò una relazione amorosa che divenne eccessivamente invadente per il compositore: «le attrattive di madamigella sono infinite […] ma sono più adatte a’ nobili che a’ maestri di musica», confidava all’amico Florimo (Palermo, 1985, p. 89).
Un anno più tardi il M. abbandonò la piazza iberica per Napoli, dove nell’agosto scrisse con successo il melodramma tragico Zaira, riprendendo un libretto di Romani, intonato due anni prima per Parma da V. Bellini; poi si spostò a Torino e qui, dopo essersi garantito un contratto con l’impresario G. Crivelli pari a 1550 svanziche per la composizione di un’opera nuova per la Scala di Milano, seguì la messa in scena con grande successo de La testa di bronzo, già realizzata per Madrid. Nel febbraio 1832 presentò al teatro Regio di Torino I Normanni a Parigi. L’impresario Barbaia cercò di ingaggiare nuovamente il M. per la piazza napoletana; egli accettò, invece, un contratto con il teatro di Genova, che lo impegnava a rimettere in scena Gabriella di Vergy, per un compenso pari a 2000 franchi.
L’8 luglio dello stesso anno il M. sposò Sofia Gambaro, una giovanissima vedova genovese; si ritrovò così a dover far fronte alle necessità della nuova famiglia (compresi i tre figli del primo matrimonio di Sofia) e concorse per il posto di maestro di cappella, resosi disponibile a Novara, nel novembre 1833, dopo la morte di P. Generali. Anche G. Donizetti e P. Coccia erano interessati all’incarico, ma il capitolo della cattedrale, dopo solo sei settimane, fece firmare il contratto al Mercadante. Dal matrimonio con la Gambaro il M. ebbe tre figli: Serafina, Osvino e Saverio.
Prestò servizio nell’importante chiesa novarese per sei anni, durante i quali scrisse musica liturgica (messe, salmi vespertini e mottetti per solisti, coro e orchestra in occasione delle feste solenni e per coro e accompagnamento organistico per le altre occasioni) e devozionale (tra cui Le ultime sette parole di Cristo in Croce, su testo italiano, che ebbero una certa fortuna: G. Puccini le elogiò e J. Joyce ne fa menzione in Ulysses).
Questo incarico non impedì tuttavia al M. di mantenere i contatti con le principali piazze teatrali dell’Italia settentrionale e di continuare a scrivere nuovi lavori (tra gli altri, nel 1834, per La Fenice scrisse Emma d’Antiochia, su versi di Romani) o seguire la ripresa di composizioni precedenti. A metà degli anni Trenta il successo internazionale di un compositore dipendeva dall’opportunità di scrivere per il Théâtre-Italien di Parigi, alla cui direzione sedeva Rossini. Nell’autunno del 1835, a causa dell’epidemia di colera, il M. lasciò anticipatamente Napoli e passò a Parigi, dove, dopo aver atteso invano un libretto da Romani, ripiegò sull’inesperto I. Crescini e andò in scena con I briganti (soggetto tratto da Schiller). Non fu un successo per il M.; ma il soggiorno parigino lo mise in contatto con nuove esperienze letterarie ed estetiche (V. Hugo, in primis), con differenti modelli morfologici d’opera teatrale e in particolare il grand opéra di G. Meyerbeer.
A Parigi il M. diede alla stampe Les soirées italiennes, una raccolta di liriche vocali da camera (su modello della nota silloge rossiniana Les soirées musicales), destinate a interpreti di rango, che si esibivano nei salotti della capitale. Anche durante il breve soggiorno a Vienna il M. aveva dato alle stampe delle composizioni da camera (era un modo per farsi conoscere) e, come per la maggior parte dei compositori della sua generazione, contava un nutrito catalogo, in parte funzionale all’apprendimento del canto (il M. lasciò anche materiale didattico, in particolare vocalizzi, solfeggi ed esercizi preparatori al «canto drammatico»), in parte destinato a cantanti professionisti, in parte pensato come autografo-souvenir per impreziosire gli album da collezione.
Grazie all’esperienza parigina, di ritorno sulla scena operistica italiana il M. cambiò significativamente il suo impianto compositivo (in una celebre lettera a Florimo parla di «rivoluzione»; cit. in Palermo, 1985, p. 179), cercando di sagomare in maniera più varia i numeri musicali che costituiscono l’ossatura del melodramma ottocentesco, impiegando maggior ricchezza nella tavolozza orchestrale, introducendo cori monumentali, che permettevano di mettere in evidenza, per contrasto, la sfaccettatura dei pezzi solistici, per i quali cercava una maggior varietà di scrittura vocale: tutto al fine di ottenere una maggior pregnanza alla situazione drammatica.
Con questa intenzione presentò, nel 1837, alla Scala di Milano, Il giuramento, su libretto di G. Rossi (non a caso attinto dal dramma di Hugo Angelo, tyran de Padoue); sulla scia del successo ottenuto il M. continuò in questa direzione con Elena di Feltre (che inaugura la collaborazione con S. Cammarano, librettista raffinato e direttore di scena del S. Carlo di Napoli, il quale firmò quattro anni più tardi anche i versi della tragedia lirica La vestale), con Le due illustri rivali (Venezia, La Fenice, 1838, che raccolse gli elogi di F. Liszt) e Il bravo (Milano, La Scala, 1839), entrambi ancora su libretto di G. Rossi.
La partitura del Bravo è il punto culminante della personale «rivoluzione» operata dal M. (dramma moderno, impasti orchestrali elaborati, ardita conduzione armonica, canto drammatico); durante i seguenti anni napoletani il catalogo teatrale del M. rivela un sostanziale ritorno all’eredità «dell’opera seria napoletana arricchita delle esperienze neogluckiane degli anni Dieci» (Della Seta, p. 181).
Nel 1838 il M. cominciò ad accusare problemi alla vista che lo condussero negli ultimi anni di vita alla cecità; risulta poi evidente, seguendo l’epistolario, la difficoltà per il compositore di adempiere all’impiego di Novara e insieme seguire la messa a punto delle sue produzioni teatrali (per Elena di Feltre si dovette affidare a Florimo). Nel 1839, divenuto socio onorario dell’Accademia di S. Cecilia di Roma, il M. guardò con interesse al doppio posto di insegnante di composizione e direttore che gli venne offerto dal Liceo musicale di Bologna: «acconcia posizione per affari teatrali ed allievi, musiche di chiesa e cet; prescindendo dal vivere a buonissimi prezzi» (Palermo, 1985, p. 212). Ancor più fu attratto dalla prospettiva di tornare a Napoli, preso dal «desiderio di morire dov’ero nato, di essere utile al mio paese, di passare la vita vicino a quelli amici del cuore della prima età» (ibid., p. 197: lettera che ha peraltro contribuito ad avvalorare l’ipotesi della nascita napoletana). Disattendendo il perentorio invito di Rossini che lo avrebbe voluto a Bologna, il M., dopo aver proposto sulle scene veneziane i cinque atti de La solitaria delle Asturie ed essersi congedato da Novara componendo una messa solenne per la festività della Vergine Assunta (15 ag. 1840), in ottobre arrivò a Napoli, per assumere l’incarico della direzione del Reale Collegio di musica (preferito, anche stavolta, al concorrente Donizetti). Il ritmo di produzione teatrale rallentò (anche a causa dell’incipiente cecità e degli impegni didattici): dopo il risicato successo per Il proscritto (Napoli, S. Carlo, 1842), l’anno seguente lavorò in stretta collaborazione con Cammarano per Il reggente (Torino, Regio; soggetto derivato dal Gustave III di E. Scribe, poi posto in musica da G. Verdi nel Ballo in maschera), cui fece seguito con buon esito Leonora (Napoli, teatro Nuovo, 1844) versi di M. D’Arienzo, derivati dalla ballata di G.A. Bürger.
Meno di una decina sono i titoli degli anni seguenti e quasi tutti destinati alla piazza partenopea: la scelta dei soggetti rivela la ripresa di un gusto decisamente neoclassico, oramai attardato (sono questi gli anni clou del Risorgimento italiano e dell’annesso trionfo del gusto romantico), come per la tragedia lirica Orazi e Curiazi (Napoli, S. Carlo, 1846), Virginia (tratta da V. Alfieri, scritta nel 1849, ma bloccata dalla censura napoletana), Medea (Ibid., 1851) e Statira (Ibid., 1853, attinta da Voltaire).
Nell’estate del 1844, prima della Leonora, il M. si recò ad Altamura e per l’occasione scrisse alcune composizioni sacre. Altri lavori vennero destinati alle accademie musicali che si tenevano nel Regio Collegio di musica (nel 1846 la stampa partenopea elogiò la Sinfonia caratteristica napoletana del M., inserita in un programma di musiche di C.M von Weber, Meyerbeer, Bellini). Nello stesso anno la Reale Accademia di belle arti di Francia lo nominò socio corrispondente, al posto del defunto G. Mayr. Nel corso degli anni Quaranta il M. continuò a mantenere i contatti con le altre piazze teatrali: rifiutò una commissione parigina, ma seguì le riprese di Orazi e Curiazi, tra Venezia, Trieste e Milano; qui firmò il contratto per La schiava saracena, su libretto di F.M. Piave, che andò in scena il 26 dic. 1848 alla Scala, riaperta dopo la parentesi insurrezionale. Rese omaggio alla memoria di Donizetti (scomparso l’8 apr. 1848) con una Sinfonia a grande orchestra (così aveva fatto anche nel settembre 1835 per Bellini) e nello stesso anno venne insignito di varie onorificenze. La produzione teatrale si concluse nel 1857 al S. Carlo di Napoli, con la tragedia lirica Pelagio; negli anni seguenti, leggendo l’epistolario e le cronache dei periodici partenopei, si profilò per il M. un’attività dedita soprattutto alla direzione del Regio Collegio (organizzazione di accademie musicali) e alla frequentazione dei salotti (per le cui soirées continuò a scrivere liriche vocali). Nel 1859 scrisse un’ultima cantata filoborbonica; negli anni seguenti, segnati dall’unificazione della penisola, compose in onore dei nuovi protagonisti (Inno per Vittorio Emanuele, Sinfonia Garibaldi) e venne designato direttore della musica nei teatri di Napoli. Nel 1862 il M. perse definitivamente la vista ma continuò a scrivere, dettando la composizione ai suoi allievi, primo tra tutti il giovane collezionista milanese G.A. Noseda, intenzionato anche a comprare il ricco archivio musicale del maestro (Moreni, pp. 162 s.).
All’interno della produzione italiana di metà Ottocento, e segnatamente napoletana, il M. contribuì a portare a maturazione il genere della sinfonia ciclica (Rostagno, p. 105): particolare successo ottenne nel 1862 la sinfonia autobiografica Il lamento del bardo. Nel 1864 scrisse l’Inno a Rossini per l’inaugurazione del monumento al compositore a Pesaro, che conferì al M. la cittadinanza onoraria. Nel corso della sua vita il M. vide spegnersi tutti i grandi protagonisti della vita operistica del primo Ottocento; da ultimi, nel 1868, Pacini e Rossini: a entrambi destinò una sinfonia a grande orchestra.
Il M. morì a Napoli il 17 dic. 1870. L’atto di morte non risolve le incertezze sulla data di nascita: «è morto il sig. […] Mercadante di Napoli, di anni 74 […] figlio dei furono Giuseppe proprietario e Rosa Bia» (Palermo, 1985, p. 69).
Il catalogo del M. comprende 60 titoli operistici e alcuni balletti; musica sacra: oltre 30 messe e sezioni staccate; 23 cicli di composizioni per i vespri; altre antifone e salmi vespertini; composizioni devozionali su testo latino e su testo italiano; musica strumentale: 20 concerti per solisti e orchestra; circa 60 sinfonie e fantasie; divertimenti, marce, capricci, ecc.; 17 quartetti; variazioni, 9 trii, 35 composizioni per due strumenti (tra cui sonate e divertimenti); altri pezzi per strumento solo, in particolare variazioni su temi operistici; musica vocale cameristica: circa 40 ariette, 26 terzetti, arie e romanze su temi operistici, ecc., e inoltre inni, cantate e lavori didattici.
Secondo le consuetudini del sistema produttivo italiano del XIX secolo tale produzione risulta disseminata in fonti autografe, copie manoscritte e a stampa. Descrizione, datazione e collocazione delle fonti manoscritte sono dettagliate in Die Musik in Geschichte und Gegenwart, coll. 5-11, e per le edizioni a stampa moderne col. 15.
Delle lettere inedite del M., 26 sono conservate a Forlì, Biblioteca comunale C. Piancastelli, Autografi Piancastelli, faldone 126; 3 sono a Catania, Museo civico belliniano, Fondo Perucchini (senza collocazione); 5 sono a Roma, Biblioteca dell’Accademia di S. Cecilia, Mss., A 629-633; inoltre 19 lettere del M. a F. Romani (1834-47) sono segnalate in <http://www.artfact.com> (marzo 2009).
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C. Steffan
Giuseppe Saverio Raffaele
). –