SCAMBI INTERNAZIONALI
(App. III, II, p. 677; v. anche commercio, X, p. 947; App. I, p. 451; II, I, p. 655; III, I, p. 411)
Negli ultimi anni si sono avuti, nella teoria pura del commercio internazionale, numerosi sviluppi sia sul piano dell'analisi statica che su quello dell'analisi dinamica. Questi sviluppi sono sufficientemente importanti e omogenei da rendere legittima l'ipotesi che oggi esista una ''nuova teoria del commercio internazionale''.
Fino agli anni Settanta, il punto di vista teorico dominante sul ruolo del commercio internazionale era di natura essenzialmente statica e poteva essere ben riassunto dai principali risultati del modello di Heckscher-Ohlin (Gandolfo 1986). Nella versione più diffusa di questo modello, due paesi trovano il principale incentivo a commerciare nella possibilità di sfruttare, con reciproci guadagni, la loro diversità economica, dovuta a dotazioni relative esogenamente ineguali dei fattori di produzione. I due paesi così differenziati agiscono in un contesto di equilibrio generale neoclassico, in cui si producono due beni con tecnologie caratterizzate da intensità fattoriali diverse che non s'invertono al variare dei prezzi relativi dei fattori di produzione; inoltre, sia la tecnologia (a rendimenti di scala costanti) che le preferenze (omotetiche) dei consumatori sono identiche per assunzione nei due paesi. In tale contesto, quell'unica differenza esogena è sufficiente a determinare il vantaggio comparato e a indicare la direzione della specializzazione per ognuno dei paesi; quest'ultima a sua volta consente di ottenere, attraverso lo s.i., i mutui guadagni statici descritti nel famoso esempio del cap. 7 dei Principi di D. Ricardo. Questa rappresentazione delle cause e delle conseguenze degli s.i. ha due noti e importanti corollari, già presenti nell'opera di Ricardo (in cui però la diversità esogena riguardava le conoscenze tecnologiche nazionali). La distribuzione dei guadagni non è necessariamente uniforme: date le tecnologie, le preferenze dei consumatori e le dimensioni relative dei due paesi, gran parte dei guadagni dal commercio può essere associata all'uno o all'altro dei due beni. Tuttavia, il paese che si trovasse a esportare il bene a cui è associata la parte minore di tali guadagni non avrebbe alcuna possibilità di adottare una ''politica strategica'' (Krugman 1986), cioè una politica economica finalizzata a invertire la struttura della specializzazione, perché quest'ultima è rigidamente ancorata a caratteristiche immutabili dell'economia. Un terzo corollario, non presente in Ricardo, riguarda il pareggiamento delle rimunerazioni assolute dei fattori produttivi (un risultato che è descritto nel ''secondo teorema'' del modello di Heckscher-Ohlin): il libero commercio appiana le differenze iniziali nei livelli retributivi e nelle tecniche utilizzate dai due paesi e dunque conduce, pur in assenza di mobilità internazionale dei fattori produttivi, a un'allocazione ottimale di questi ultimi. Nel linguaggio moderno, il libero scambio riproduce attraverso questo processo l'''economia integrata'', nel senso che fa emergere le soluzioni che verrebbero adottate in equilibrio generale da un'economia definita come la semplice somma dei paesi che partecipano al commercio (Dixit e Norman 1980).
Quest'interpretazione del ruolo economico degli s.i. ha incontrato difficoltà via via crescenti nella spiegazione di alcune regolarità empiriche (''fatti stilizzati'') osservabili attraverso lo studio dei flussi commerciali tra economie reali. Tra esse, è utile citare: a) la prevalenza di flussi commerciali tra paesi simili, piuttosto che tra paesi diversi; b) l'importanza crescente degli scambi intra-industriali, piuttosto che di quelli inter-settoriali; c) la persistente presenza di molteplici forme di politiche protezioniste, talvolta finalizzate ad acquisire competitività internazionale in settori ''strategici''; d) la scarsa evidenza, nei dati internazionali oggi disponibili, di un processo generale di convergenza dei livelli di crescita del reddito pro capite tra paesi aperti all'interscambio commerciale.
Questa complessa sfida proveniente dagli studi empirici ha stimolato lo sviluppo di numerose linee di ricerca, alcune esterne e altre interne all'approccio cosiddetto neoclassico. Le prime hanno sottolineato l'importanza delle asimmetrie tecnologiche e istituzionali nazionali nella spiegazione degli s.i. (Dosi e Soete 1988), e hanno anticipato alcuni risultati oggi ampiamente condivisi, che infatti riemergono nella moderna analisi degli effetti del commercio internazionale sulla crescita economica, di cui ci occuperemo tra poco. Le seconde, benché apparentemente eterogenee dal punto di vista formale, hanno tuttavia un importante elemento comune. Tutti i principali nuovi modelli d'ispirazione neoclassica abbandonano infatti l'ipotesi tradizionale di tecnologie a rendimenti di scala costanti, a favore dell'ipotesi che esistano importanti forme di rendimenti crescenti nella produzione di almeno alcuni dei beni commerciabili. Questa modifica nella caratterizzazione della tecnologia risulta cruciale perché permette d'individuare un'ulteriore importante fonte di guadagni associati agli s.i., del tutto indipendente dal grado di diversità economica dei paesi che commerciano tra loro (e dunque compatibile con il fatto stilizzato a).
Si considerino, per es., due paesi identici nelle loro caratteristiche economiche, incluse le dotazioni fattoriali e le tecnologie di produzione. Nell'approccio tradizionale, in questo caso non esiste alcun vantaggio comparato e dunque alcun incentivo a commerciare. Assumiamo ora che uno dei due beni, il bene A, venga prodotto con una tecnologia a rendimenti crescenti, nella forma di economie esterne marshalliane, e che il secondo bene, B, venga prodotto con tecnologia tradizionale a rendimenti di scala costanti. In questo caso, la dispersione della produzione tra i due paesi rappresenta un'allocazione inefficiente delle risorse disponibili. Gli s.i. consentono di concentrare la produzione mondiale del bene A in un unico paese, e dunque di sfruttare in modo ottimale le economie di scala associate alla tecnologia, con conseguenze positive per l'economia mondiale che, in presenza di alcune condizioni facilmente precisabili (Helpman e Krugman 1985), possono estendersi anche ai consumatori residenti nel paese che ha rinunciato alla propria produzione del bene A. Naturalmente, l'importante ruolo che i rendimenti crescenti possono svolgere nella teoria degli s.i. era noto da tempo, almeno a grandi linee (Ohlin 1933). Tuttavia, solo recentemente l'analisi economica ha messo a punto gli strumenti adatti a descrivere il funzionamento di sistemi economici con economie di scala e mercati imperfetti in un contesto di equilibrio generale.
Gli approfondimenti teorici su quest'ulteriore fonte di guadagni dagli s.i. hanno prodotto altri importanti risultati, oltre a quello appena citato. Si consideri il fatto stilizzato b), che descrive la crescente importanza degli scambi intra-industriali. Un breve esempio chiarirà perché i rendimenti crescenti sono alla base di questo tipo di commercio, che avviene soprattutto fra paesi simili (Markusen e Melvin 1988); subito dopo richiameremo una plausibile spiegazione della crescente importanza relativa degli scambi intra-industriali rispetto agli scambi inter-settoriali. Si consideri il mercato delle automobili in un paese in cui esistono due tipi di consumatori. Il primo gruppo di consumatori ha una preferenza relativa per automobili di grandi dimensioni, mentre il secondo gruppo ha una preferenza relativa per una seconda caratteristica, il risparmio di carburante. In quest'economia è possibile produrre automobili di tipo A, grandi ma con alti consumi di carburante, di tipo B, piccole con bassi consumi, e di tipo AB, con dimensioni e prestazioni intermedie. I tre modelli sono prodotti con tecnologie identiche (stessi costi medi per uguali volumi di produzione), caratterizzate da rendimenti crescenti di scala. Se questo paese producesse sia il modello A che il modello B, il costo medio di produzione delle automobili sarebbe significativamente più alto di quello che si otterrebbe nel caso in cui venisse prodotto un solo modello. È dunque plausibile che quest'economia massimizzi il proprio benessere in un equilibrio autarchico caratterizzato dalla produzione di un modello unico, e che quest'ultimo sia il modello intermedio AB. Quest'equilibrio è facilmente confrontabile con un equilibrio alternativo ottenuto attraverso l'apertura degli s.i. tra il paese finora descritto e un secondo paese identico. In questo nuovo equilibrio è possibile che solo uno dei due paesi produca il modello A, che ne consumi la metà della produzione e ne esporti il resto, e che l'altro paese produca il modello B, con identiche proporzioni di consumo interno ed esportazioni. In quest'equilibrio di libero scambio, i volumi (e dunque i costi medi) di produzione dei due modelli sono identici a quelli autarchici del modello AB, ma i due gruppi di consumatori sono ora in grado di acquistare il bene che preferiscono, con un chiaro guadagno di benessere per tutti i partecipanti al commercio. Così, in presenza di rendimenti crescenti nella produzione di beni differenziati, due paesi identici hanno un incentivo a scambiarsi (e a specializzarsi in) versioni diverse di un bene prodotto dallo stesso tipo di settore industriale.
La linea di ricerca basata sui rendimenti crescenti spiega dunque in modo soddisfacente l'esistenza del commercio intra-industriale e, secondo alcuni, affianca con successo l'analisi tradizionale rappresentata dal modello di Heckscher-Ohlin, a cui spetta il ruolo appunto complementare di definire la causa del commercio inter-settoriale (Helpman e Krugman 1985). Per quanto riguarda il grande peso relativo che il commercio intra-industriale tra paesi simili assume nel mondo reale (si vedano i fatti stilizzati a) e b)), un'interessante spiegazione è stata formulata sulla base di un contributo di S.B. Linder (1960). In questa spiegazione, la non-omoteticità della funzione di utilità, identica tra i paesi, rende la composizione della domanda in ogni paese funzione del livello di reddito pro capite; i rendimenti crescenti, a loro volta, fanno sì che ogni paese acquisisca vantaggi competitivi nei beni per i quali esiste una domanda interna relativamente grande. Così, i paesi ricchi sono soprattutto interessati a consumare (e a scambiare internazionalmente) beni ''di lusso'' (i beni cioè la cui elasticità al reddito è maggiore di 1), mentre i paesi meno ricchi sono soprattutto interessati a consumare (e a scambiare) beni ''necessari''. Il commercio inter-settoriale, cioè lo scambio tra paesi tra loro diversi in termini di reddito pro capite, acquista in questo contesto un ruolo secondario rispetto a quello intra-industriale, tra paesi simili.
Anche rispetto all'evidente persistenza e all'apparente popolarità, nelle economie reali, di numerose forme di politiche commerciali che violano i principi del libero scambio (il fatto stilizzato c)), la nuova teoria degli s.i. fornisce alcune spiegazioni che arricchiscono significativamente la nostra comprensione della razionalità economica alla base del fenomeno. Il punto essenziale può essere riassunto nel modo seguente: i rendimenti crescenti come causa di s.i. permettono che ogni paese possa, almeno in linea di principio, specializzarsi in uno qualunque dei beni esistenti (come infatti è implicito nei due esempi sopra citati). Siccome il commercio può nascere indipendentemente dall'esistenza di differenze nazionali permanenti, i singoli paesi non sono inevitabilmente associati a un'unica possibilità di specializzazione definita da quelle differenze, come invece avveniva nei modelli tradizionali. Dunque, nel caso in cui i maggiori guadagni provengano dalle esportazioni di un bene A piuttosto che di un bene B, ogni paese è non solo incentivato ad adottare politiche economiche (industriali o commerciali) mirate a ottenere la specializzazione nel bene A, ma è anche in grado di attuarle. Quest'indeterminatezza della struttura del commercio, in cui la storia, il caso o l'intervento consapevole degli stati possono svolgere un ruolo cruciale, apre un capitolo teorico interamente nuovo, dedicato all'analisi delle strategie che i singoli paesi possono adottare per massimizzare i guadagni che derivano dagli s. internazionali. J. Brander e B. Spencer (1985) forniscono uno dei primi rigorosi esempi di come si possa descrivere il comportamento strategico di due paesi interessati a sviluppare un settore ad alti profitti in cui c'è spazio per un unico produttore mondiale, a causa della presenza di forti economie di scala.
In questa nuova rappresentazione dei guadagni statici associati agli s.i. s'intuisce dunque, assai meglio che nell'approccio tradizionale, la principale ragione economica dei continui ostacoli che le organizzazioni internazionali incontrano nel cammino verso un accordo generale per la libera circolazione delle merci nell'economia mondiale. Questo e altri risultati dell'analisi statica sono ulteriormente confermati e precisati da alcuni recenti modelli sulle conseguenze dinamiche degli s.i. in presenza di rendimenti crescenti. Anche l'analisi delle influenze reciproche tra s.i. e crescita economica è stata infatti sottoposta, specie nell'ultimo decennio, a importanti revisioni. Nella teoria tradizionale, la crescita pro capite ha luogo solo come transizione verso uno stato stazionario, o come conseguenza dell'esistenza di progresso tecnologico esogeno, sicché paesi simili dovrebbero convergere verso un comune livello di reddito (Barro e Sala-i-Martin 1992). In tale contesto, il ruolo del commercio internazionale può essere riassunto dai due punti seguenti: in primo luogo, gli s.i. non hanno alcuna influenza sui saggi di crescita di lungo periodo, essendo questi ultimi, come si è appena notato, del tutto indipendenti da fenomeni economici tra cui, appunto, il regime commerciale adottato dai singoli paesi. In secondo luogo, il libero scambio rinforza la tendenza alla convergenza dei livelli di reddito perché conduce paesi diversi verso un equilibrio caratterizzato da retribuzioni uniformi, come mostra il citato secondo teorema del modello di Heckscher-Ohlin.
Anche in questo caso, la revisione teorica è stata stimolata dall'osservazione di alcune regolarità empiriche emerse dall'analisi dei dati internazionali. In particolare, la recente pubblicazione dei dati sulla crescita economica avvenuta durante gli ultimi quattro decenni in 138 paesi, sia sviluppati che in via di sviluppo (Summer e Heston 1991), ha dimostrato l'assenza di quel processo di convergenza economica previsto dalla teoria tradizionale (si veda il fatto stilizzato d)). Gli attuali sviluppi teorici partono dalla constatazione che anche l'analisi tradizionale della relazione tra commercio e crescita è basata sull'assunzione che le tecnologie siano caratterizzate da rendimenti marginali decrescenti nei fattori di produzione accumulabili (Murat e Pigliaru 1990). La teoria della crescita endogena (Romer 1986, Lucas 1988, Grossman e Helpman 1991) ha recentemente modificato questa caratteristica della tecnologia ipotizzando l'esistenza di rendimenti costanti in tali fattori (tra i quali viene collocata, in posizione preminente, la conoscenza tecnologica) ed eliminando, per questa via, la tendenza del sistema economico a esaurire nel lungo periodo gli incentivi alla crescita. Lo sviluppo di questa linea di ricerca, in cui il progresso tecnologico endogeno svolge un ruolo essenziale, ha determinato rapidi e profondi mutamenti nella percezione analitica delle possibili interrelazioni tra s.i. e crescita economica.
In estrema sintesi, questa letteratura individua due principali modi in cui gli s.i. possono influenzare il tasso di crescita di lungo periodo (Rivera-Batiz e Romer 1991b). Il primo, denominato ''effetto di scala'', descrive i modi in cui l'integrazione economica permette a ogni paese di trarre vantaggi sia statici che dinamici dal semplice fatto che le imprese possono operare in un mercato più grande di quello interno. Quest'effetto è concettualmente separabile da quello riallocativo, che è invece associato al processo di specializzazione che normalmente accompagna l'apertura al commercio e che, come vedremo tra poco, può contribuire a spiegare l'assenza di convergenza osservata nei dati internazionali. Un esempio di come l'integrazione può determinare effetti di scala è stato proposto in Rivera-Batiz e Romer (1991a), in cui la conoscenza tecnologica è definita come un bene ''non rivale'' (il cui uso da parte di un individuo non ne impedisce l'uso da parte di altri) e solo parzialmente appropriabile. A causa dell'integrazione economica, il settore Ricerca e sviluppo di ogni paese può attingere all'intero stock di conoscenza tecnologica accumulata a livello internazionale. La principale conseguenza è che in ogni paese aumenta nella stessa misura la produttività dei fattori allocati nel settore innovativo, e con essa aumentano uniformemente anche i saggi d'innovazione e di crescita nazionali, data l'assunzione di linearità nella relazione tra i flussi e lo stock della conoscenza tecnologica. L'effetto di scala è particolarmente utile per descrivere le conseguenze derivanti dall'integrazione economica tra paesi che siano insieme simili e sviluppati, in cui cioè la composizione settoriale abbia raggiunto una fase sufficientemente matura da rimanere costante anche in presenza di forti incrementi dei flussi commerciali. R. Baldwin (1989), per es., fornisce una stima dell'aumento del saggio di crescita di lungo periodo delle nazioni che formano la Comunità europea attribuibile all'approfondimento del processo d'integrazione economica e politica attualmente in atto.
Il secondo modo in cui gli s.i. possono influenzare il saggio di crescita delle economie partecipanti è l'''effetto allocativo'', che riguarda soprattutto le economie in cui siano ancora possibili profonde trasformazioni strutturali. Questo secondo effetto descrive i modi in cui l'apertura al commercio può creare forti disparità nella distribuzione nazionale dei guadagni dinamici che da essa derivano. In altre parole, descrive un importante meccanismo attraverso il quale gli s.i. possono rappresentare una causa importante di crescita ineguale, e dunque contribuire alla spiegazione del fatto stilizzato d). Si consideri un'economia in cui sia possibile produrre due beni, uno dei quali è caratterizzato da un maggior potenziale di progresso tecnologico. S'ipotizzi inoltre che la capacità innovativa del sistema cresca in funzione della dimensione relativa del settore che produce il primo bene. In autarchia, economie di questo tipo tra loro simili crescono alla stessa velocità perché hanno un'uguale composizione settoriale corrispondente allo steady-state. Di conseguenza, gli effetti dell'apertura al commercio sul tasso di crescita di queste economie sono tanto più positivi quanto più profonda è la specializzazione nel bene ad alta tecnologia, e tanto più negativi nel caso contrario. La disparità nella distribuzione dei guadagni può arrivare fino al caso limite in cui i paesi specializzati nei beni a bassa tecnologia subiscono perdite di benessere rispetto a ciò che avrebbero ottenuto in autarchia (Lucas 1988): possibilità, quest'ultima, spesso trascurata ma non del tutto ignorata nella letteratura teorica precedente (Graham 1923).
Di fronte a questi complessi esiti degli s.i., riemerge con forza la possibilità che le singole economie nazionali trovino necessario intervenire attivamente per ottenere la specializzazione produttiva desiderata, quella cioè a cui sono associati i maggiori guadagni dinamici dal commercio. In linea generale, queste politiche sono rese ancora più plausibili dalla presenza, in questi modelli, di rendimenti crescenti dinamici in ambito nazionale, così che il vantaggio comparato è determinato endogenamente sulla base di semplici condizioni iniziali, eventi storici o, appunto, politiche economiche temporanee (Krugman 1987). Al contrario dell'effetto di scala, l'effetto allocativo è dunque risultato utile per interpretare la razionalità economica delle politiche commerciali adottate da alcuni paesi per approfondire la propria specializzazione in settori capaci di aumentare il saggio di crescita dell'intera economia. I ''miracoli economici'' dei paesi asiatici di nuova industrializzazione hanno come caratteristica comune il successo delle politiche nazionali mirate a rendere competitivi i propri settori manifatturieri nei mercati internazionali (Lucas 1993).
In sintesi, gli importanti sviluppi teorici fin qui richiamati mostrano con chiarezza che la teoria tradizionale degli s.i. ha notevolmente sottovalutato sia la dimensione dei guadagni che da essi derivano, sia le opportunità che le singole nazioni hanno di adottare ''politiche strategiche'' per massimizzare la propria parte di quei guadagni a spese delle altre economie. Questa visione, insieme più articolata e più realistica delle cause e degli effetti degli s.i., rende ancora più centrale il ruolo degli accordi internazionali sulla libera circolazione delle merci. Solo questi ultimi possono garantire un grado di equità nella distribuzione dei guadagni sufficiente a limitare l'adozione di politiche commerciali spesso mirate a massimizzare il benessere nazionale a spese di quello globale.
Bibl.: F.D. Graham, Some aspects of protection further considered, in Quarterly Journal of Economics, 38 (1923); B. Ohlin, Interregional and international trade, Cambridge (Mass.) 1933; S.B. Linder, An essay on trade and transformation, Stoccolma 1960; A.K. Dixit, V. Norman, Theory of international trade, Cambridge 1980; J. Brander, B. Spencer, Export subsidies and international market share rivalry, in Journal of International Economics, 18 (1985); E. Helpman, P.R. Krugman, Market structure and foreign trade, Cambridge (Mass.) 1985; G. Gandolfo, Economia internazionale, i, Torino 1986; P.R. Krugman, Strategic policy and the new international economics, Cambridge (Mass.) 1986; P.M. Romer, Increasing returns and long-run growth, in Journal of Political Economy, 94 (1986); P.R. Krugman, The narrow moving band, the Dutch desease and the competitive consequences of Mrs. Thatcher, in Journal of Development Economics, 27 (1987); G. Dosi, L. Soete, Technical change and international trade, in Technical change and economic theory, a cura di G. Dosi e L. Soete, Londra 1988; R.E. Lucas, On the mechanics of economic development, in Journal of Monetary Economics, 22 (1988); J.R. Markusen, J.R. Melvin, The theory of international trade, New York 1988; R. Baldwin, The economic effects of 1992, in Economic Policy, 9 (1989); M. Murat, F. Pigliaru, Commercio internazionale, in G. Lunghini, Dizionario di economia politica, 16, Torino 1990; G.M. Grossman, E. Helpman, Innovation and growth in the global economy, Cambridge (Mass.) 1991; L.A. Rivera-Batiz, P.M. Romer, Economic integration and endogenous growth, in Quarterly Journal of Economics, 106 (1991a); Id., International trade with endogenous technological change, in European Economic Review, 35 (1991b); R. Summers, A. Heston, The Penn world table (mark 5): an expanded set of international comparison, 1950-1988, in Quarterly Journal of Economics, 106 (1991); R.J. Barro, X. Sala-i-Martin, Convergence, in Journal of Political Economy, 101 (1992); R.E. Lucas, Making a miracle, in Econometrica, 61 (1993).
Commercio internazionale. - L'internazionalizzazione dei sistemi economici è tra le caratteristiche dominanti della nostra epoca. Dopo la seconda guerra mondiale il commercio tra nazioni si è intensificato e la sua incidenza sulla produzione mondiale è cresciuta moltissimo. Negli anni Novanta il commercio internazionale risulta 13 volte più grande rispetto al 1950, mentre nello stesso periodo la produzione mondiale è cresciuta 6 volte. Ma lo scambio di beni tra nazioni non può essere ridotto ai soli aspetti economici. Il commercio tra regioni e civiltà diverse ha sempre costituito un fattore potente di diffusione e integrazione territoriale delle culture, un modo d'istituire legami, e sovente ha favorito profondi cambiamenti sociali.
Nell'epoca moderna, tuttavia, alla diffusione degli s.i. non ha fatto seguito uno sviluppo economico e sociale uniforme. Al contrario, le differenze tra regioni sviluppate e in via di sviluppo si sono approfondite e alla fine degli anni Ottanta il commercio mondiale è risultato ancora più concentrato rispetto a 15 anni prima: 20 paesi detengono l'80% delle esportazioni mondiali e il 78% delle importazioni, con incrementi rispettivamente di 6 e di 3 punti percentuali. Riguardo alle merci, i tassi di crescita delle esportazioni di manufatti sono stati più alti di quelli dei beni agricoli e delle materie prime: queste ultime nel periodo 1973-85 hanno presentato persino valori negativi dei tassi di sviluppo. In quest'ambito un fatto nuovo è costituito dal ruolo crescente dei servizi negli s.i., che nella seconda metà degli anni Ottanta hanno raggiunto 1/3 degli scambi totali. Questa tendenza è stata favorita inizialmente dalla grande crescita dei redditi nei paesi industrializzati, poi dalle innovazioni dei prodotti e delle tecnologie, che hanno caratterizzato, pur se in forme diverse, il dopoguerra e, infine, negli anni Settanta e Ottanta, dalle politiche di risparmio dell'energia e delle materie prime. L'esplosione degli s.i. è stata uno dei fattori di cui più hanno beneficiato le economie dei paesi sviluppati, mentre solo un piccolo nucleo di paesi (Taiwan, Corea del Sud, Hong Kong, Singapore) è uscito decisamente dal sottosviluppo raggiungendo posizioni di primo piano nel commercio mondiale. La forte crescita in valore assoluto dell'interscambio mondiale non ha impedito che a partire dal 1975 il suo tasso di crescita subisse un ridimensionamento. Ciò è stato determinato dalla riduzione dello sviluppo economico nelle economie industrializzate prodotta dal processo inflazionistico degli anni Settanta e dalle crisi petrolifere.
Le crisi degli anni Settanta e la rivoluzione indotta dallo sviluppo della microelettronica, della robotica e delle telecomunicazioni hanno prodotto una ''globalizzazione'' dei mercati e avviato una nuova organizzazione della produzione che stanno in parte rimodellando la composizione del commercio mondiale. In seguito a ciò i paesi sviluppati non sono più i soli esportatori di manufatti, ma alcuni paesi di nuova industrializzazione sono riusciti a emergere. Allo stesso tempo, la tendenza dei paesi esportatori a specializzarsi in produzioni per le quali avevano una dotazione favorevole di fattori produttivi si è molto ridotta. Attualmente la specializzazione interessa categorie di merci molto particolareggiate, in genere le parti componenti dei manufatti. Basti considerare il fatto che negli anni Ottanta la produzione di un'auto Ford montata nel Regno Unito utilizzava parti prodotte in 15 paesi diversi. Un'altra conseguenza di rilievo prodotta dagli sconvolgimenti degli anni Settanta si è manifestata nella tendenza allo scambio di merci similari o merceologicamente omogenee tra i paesi industrializzati. Si tratta del cosiddetto scambio ''intra-industriale'', determinato, tra l'altro, dalla crescita del reddito e dalla conseguente maggiore complessità delle preferenze dei consumatori per cui, per es., la Germania esporta Volkswagen in Italia, mentre la Fiat esporta auto in Germania.
Nel contesto delineato le grandi società multinazionali (v. multinazionali, in questa Appendice), fenomeno già esistente dalla fine del 1800, sono diventate nel corso degli anni Settanta le protagoniste del commercio mondiale e dei movimenti di capitali. Il numero di compagnie transnazionali nei 14 paesi più ricchi è triplicato dalla fine degli anni Sessanta a oggi, con un ammontare di vendite che è pari al prodotto lordo degli Stati Uniti nel 1992. L'obiettivo di queste imprese è di produrre a costi bassi nei paesi meno sviluppati e di vendere i loro prodotti nei paesi di origine e negli altri mercati. I progressi tecnici nelle comunicazioni hanno consentito un perfezionamento estremo di questa strategia e la nascita di un'impresa ''globale''. Si stima che alla fine degli anni Ottanta il 30% degli investimenti esteri sia effettuato nei paesi in via di sviluppo e in prevalenza nel settore industriale.
Gli anni Settanta e Ottanta hanno dunque visto grossi cambiamenti ma anche l'insorgere di nuovi problemi. Il nuovo quadro in cui si svolgono gli scambi è caratterizzato dalla crescente integrazione dei diversi aspetti del sistema economico: lo scambio di beni appare fortemente connesso con gli investimenti, i meccanismi finanziari e le politiche macroeconomiche e aziendali. In quest'ambito assumono un considerevole rilievo gli squilibri delle bilance commerciali e l'indebitamento verso l'estero di molti paesi. Infine, malgrado il diffondersi di organismi internazionali volti a favorire il libero scambio, è sempre più estesa una tendenza protezionistica e alla creazione di aree speciali di scambio. Il rilievo dell'integrazione tra aspetti diversi dell'economia è emerso drammaticamente con le crisi petrolifere del 1973 e 1981. La forte crescita dei prezzi del petrolio e la conseguente inflazione hanno prodotto una grave caduta del tasso di crescita dell'economia e del commercio mondiale. Si trattò delle prime consistenti e durevoli riduzioni degli s.i. dopo oltre 20 anni di tassi positivi. Solo nel 1985 gli s.i. sono tornati al livello del 1980.
Il disordine economico degli anni Settanta ha interessato principalmente le economie dei paesi industrializzati, così che, nella generale crescita degli scambi, si è determinata una rilevante ridislocazione della composizione del commercio mondiale di prodotti manifatturieri. La crisi che ha investito i paesi industrializzati in seguito allo shock petrolifero e al rinnovamento tecnologico non ha colpito allo stesso modo i paesi in via di sviluppo: nella seconda metà degli anni Settanta queste ultime economie hanno ottenuto un tasso di crescita circa due volte più alto di quello dei paesi industrializzati. Ciò ha favorito la crescita della quota nelle esportazioni detenuta dai paesi in via di sviluppo sulle esportazioni totali. Ma in breve tempo ha prodotto anche la formazione di un grosso debito esterno e di gravi squilibri interni, quali inflazione, deficit pubblico, sopravvalutazione delle monete. Negli anni Ottanta questi effetti si sono manifestati lasciando quei paesi più deboli rispetto agli anni Sessanta e soggetti al peso di un grave debito estero. Nei 13 paesi più indebitati il debito estero è cresciuto da 150 a 350 miliardi di dollari tra il 1979 e il 1988.
Tra i paesi industrializzati l'evento più rilevante va individuato nella perdita della supremazia degli USA. Nel 1973 questo stato era il maggior esportatore con una quota sul totale mondiale del 12,5%; nel 1987 è la Repubblica Federale di Germania, con il 12% delle esportazioni totali, che occupa la prima posizione, mentre gli USA sono scesi al secondo posto con il 10,3%, insidiati da presso dal Giappone che ha raggiunto il 9,3%, con una crescita del 45% rispetto alla quota che deteneva nel 1973. Tra gli altri principali paesi, molti sono rimasti più o meno nella stessa posizione, con le rilevanti eccezioni positive dell'Italia, che ha raggiunto il 4,7% ed è passata dalla nona alla sesta posizione, dell'URSS, che con il 4,4% è passata alla settima posizione dalla decima, e quelle negative del Canada e dell'Olanda, che hanno perso entrambe due posizioni nella graduatoria mondiale. Allo stesso tempo, gli USA sono restati i primi importatori incrementando la loro quota nelle importazioni mondiali del 34%, mentre la Repubblica Federale di Germania e il Giappone riuscivano a ridurle. Si è così creato il caso del grave squilibrio della bilancia commerciale degli USA rispetto al Giappone, all'Europa e ad alcuni paesi di nuova industrializzazione. L'ultimo attivo della bilancia commerciale degli USA risale al 1975 e dal 1981 si è in presenza di un deficit rilevante, ma soprattutto il deficit è esploso tra il 1981 e il 1988, quando è passato da 28 a oltre 130 miliardi di dollari. Dal 1985 gli USA sono anche il principale paese debitore. Il deficit degli USA è rilevante perché si tratta del paese la cui moneta è il referente per la maggior parte degli s.i., ed è quindi quota importante delle riserve valutarie di molti paesi. Il debito estero, legato alla crescita del deficit delle partite correnti, è arrivato a 400 miliardi di dollari alla fine del 1987 ed è cresciuto ancora negli anni Novanta fino a raggiungere nel 1992 il 5,5% del prodotto lordo. In queste condizioni l'economia mondiale si trova in uno stato di grave instabilità. Per sanare questa situazione è necessaria, tra l'altro, una riduzione del disavanzo commerciale. Ciò ha evidenti e negative implicazioni sul commercio mondiale: indirettamente, attraverso meccanismi di natura finanziaria; direttamente, perché gli USA, avendo perso in competitività, sono indotti a favorire politiche protezionistiche e di contenimento della domanda che ridurranno l'interscambio mondiale. L'apprezzamento del dollaro, che ha raggiunto un massimo storico tra il 1984 e il 1985, è stato una delle cause della situazione illustrata e ha favorito il ricorso alle politiche monetarie per contrastare il deficit degli USA; si è così creato un legame sempre più forte tra politiche monetarie e commercio internazionale. Tra le cause del disavanzo degli USA vanno ricordati altri importanti fattori: la crescita differenziale della domanda interna statunitense rispetto a Europa e Giappone; il crollo delle capacità d'importazione dei paesi del Sudamerica, costretti dal FMI, per ottenere nuovi prestiti, a ridurre la loro domanda per contenere l'esplosione del loro debito esterno; il diffondersi di politiche deflazionistiche e protezionistiche per far fronte, specie in Europa, ai guasti provocati dalle crisi petrolifere; il trasferimento all'estero di molte lavorazioni, favorito dalla politica delle multinazionali e, soprattutto, la perdita di competitività dell'industria statunitense a fronte della dinamicità del Giappone e della Germania che avevano perseguito per molti anni importanti politiche di sostegno degli investimenti e della ricerca. Il caso USA è un esempio evidente del rilievo che hanno i vari aspetti e momenti dell'attività economica nel determinare il quadro in cui si svolge il commercio mondiale.
Si è fatto riferimento al rilievo dell'evoluzione del tasso di cambio del dollaro, ma durante gli anni Settanta il sistema monetario mondiale è stato attraversato da un più generale cambiamento che interagisce in modo rilevante con lo sviluppo del commercio mondiale: si tratta del passaggio dal regime di tassi di cambio fissi a quello di tassi variabili avvenuto all'inizio del 1973. Alla fine degli anni Sessanta, l'eccezionale fase di sviluppo dell'economia mondiale si andò esaurendo, l'inflazione e le politiche restrittive fecero la loro apparizione. L'inflazione si manifestò in modo diseguale nei vari paesi e in pochi anni le differenze crebbero considerevolmente. Ciò produsse una distorsione della competizione internazionale in quanto, a fronte della lievitazione differenziale dei prezzi interni, le parità monetarie rimanevano inalterate favorendo così i paesi con un'inflazione più alta che potevano mantenere stabile il cambio, mentre il potere d'acquisto interno della moneta si svalutava. Nel 1971 gli USA abbandonarono il legame tra dollaro e oro e introdussero una sopratassa sulle importazioni. Il riallineamento dei tassi di cambio delle principali monete che seguì non fu sufficiente per impedire l'abbandono dei cambi fissi. Il regime di cambi fissi doveva impedire che un paese traesse vantaggi nel commercio deprezzando la propria moneta. L'inflazione differenziata aveva vanificato questo scopo e prodotto movimenti speculativi. Con il regime di cambi flessibili la determinazione delle parità venne a dipendere dai movimenti di capitale più che dalle transazioni di beni e servizi. A causa di ciò le parità delle monete hanno rappresentato sempre meno il grado di competitività reale dei paesi, risultando sempre più influenzate dai movimenti speculativi e dalle politiche nazionali. Il commercio mondiale ne ha sofferto poiché l'incertezza dei cambi ha ridotto gli investimenti produttivi e favorito lo spostamento dei capitali verso attività finanziarie.
Il problema del debito estero accumulato dai paesi in via di sviluppo costituisce una seria minaccia allo sviluppo degli scambi. Si è stimato che in questi paesi il rapporto tra debito e prodotto interno sia arrivato nel 1987 mediamente al 38%, quasi due volte e mezzo quello del 1975, ma nei paesi a reddito più basso questo rapporto supera il 75%. La principale e più immediata conseguenza sul commercio è stata il dimezzamento della quota che questi paesi detenevano nelle importazioni mondiali; inoltre si è manifestata una riduzione degli investimenti volta a ridurre la domanda interna e indotta dalle difficoltà a reperire capitali. In conseguenza la loro competitività e capacità di esportazione ha subito una grave contrazione che è stata aggravata dalla riduzione dei prezzi delle materie prime e della domanda mondiale di queste merci. Nel 1986 i prezzi sono scesi al loro minimo storico negli ultimi trent'anni. Si è così creata una grave instabilità dei rapporti internazionali che si è tradotta in una riduzione degli scambi e nel rafforzamento di tendenze protezionistiche.
Il protezionismo appare dunque una caratteristica ben radicata e motivata del commercio mondiale. In sintesi, si possono indicare quattro cause di questo fenomeno: a) protezione delle imprese nascenti, in particolare delle industrie ad alta tecnologia e di quelle strategiche; b) tentativo di ridurre gli effetti dei processi di deindustrializzazione dovuti all'accentuazione della competitività di alcuni paesi; c) difesa dall'instabilità dei tassi di cambio determinata dalla speculazione finanziaria e dalle politiche commerciali aggressive dei concorrenti; d) riduzione dell'indebitamento verso l'estero. Il modo in cui si manifesta il protezionismo è radicalmente mutato a partire dagli anni Settanta. Infatti, sotto l'egida del GATT, dal dopoguerra si è assistito a un continuo ridimensionamento delle tradizionali forme di protezione: restrizioni delle importazioni basate su tariffe e contingentamenti, e sostegno delle esportazioni. Dopo il Tokyo Round la media ponderata delle tariffe nominali applicate dai paesi industrializzati sulle importazioni da altri paesi membri del GATT è scesa sotto il 6%, mentre nel 1962 superava il 12%. A fronte di questa diminuzione sono stati sviluppati nuovi strumenti ugualmente efficaci: le cosiddette barriere non tariffarie. Si tratta di una vasta gamma di strumenti che riguarda tutte le modalità d'intervento dello stato nell'economia (sussidi diretti, parafiscalizzazioni di oneri, contributi e privilegi) e l'uso discriminatorio delle tariffe. Il GATT ha potuto individuare ben 800 barriere di questo tipo. Si deve così parlare di un nuovo protezionismo che rende l'idea del libero scambio forse più illusoria che in passato (v. anche liberismo e protezionismo, in questa Appendice). Il crollo dei paesi socialisti ha favorito la conclusione dell'Uruguay Round nel 1994, che ha portato a un ampliamento consistente del libero scambio e ha rilanciato la competizione internazionale.
Al protezionismo si contrappongono alcuni accordi multilaterali tra paesi e processi d'integrazione economica e federativa tra stati (GATT, OCSE, ecc.). I processi d'integrazione economica vanno visti poi nell'ambito di una tendenza alla formazione di assi privilegiati nelle relazioni tra stati. Questi accordi, che pur favoriscono lo sviluppo del commercio internazionale, producono una regionalizzazione eccessiva degli scambi e una discontinuità nelle relazioni internazionali che rischia di creare aree di interessi privilegiati egemonizzate da alcuni stati. Tra i più importanti processi d'integrazione ricordiamo: la Comunità Economica Europea, fondata nel 1957; il Mercado Común Centramericano (1960); il CARICOM (Caribbean Community and Common Market, 1973); la ALADI (Asociación Latinoamericana De Integración, 1980; già Asociación Latinoamericana de Libre Comercio, 1960); la NAFTA (North American Free Trade Agreement, 1994).
Bibl.: GATT, International Trade, 1952 e ss.; Banca Mondiale, World development report, New York 1978 e ss., in particolare 1987; OCSE, Economic outlook, Parigi, anni vari; FMI, World Economic Outlook, Washington DC, anni vari; Id., International Financial Statistics, ivi, anni vari; ONU, World Economic Survey, New York 1987. Cfr. inoltre: G. Basevi, A. Soci, La bilancia dei pagamenti italiana, Bologna 1978; A.K. Dixit, V. Norman, Theory of international trade, Cambridge 1980; Handbook of international economics, a cura di R.W. Jones e P.B. Kenen, Amsterdam 1984; Monopolistic competition and international trade, a cura di H. Kierzkowski, Oxford 1984; GATT, Trade policy for a better future, Ginevra 1985; G. Gandolfo, Economia internazionale, Torino 1986; World debt crisis: international lending on trial, a cura di M.P. Claudon, Cambridge (Mass.) 1986; OECD, International trade and the consumer, Parigi 1986; M. Effer, Europe in the world economy, ivi 1986; Structural change, economic interdependence and world development, a cura di V.L. Urquidi, Londra 1987; Il dollaro e l'economia italiana, a cura di A. Graziani, Bologna 1987; J. Bhagwati, Protectionism, Cambridge (Mass.) 1988; P. Guerrieri, P.C. Padoan, Libero scambio, protezionismo e libera concorrenza, Bologna 1988; Id., L'economia politica dell'integrazione europea, ivi 1988; Trade flows and trade policy after '1992', a cura di A.L. Winters, Cambridge 1992; Trade and growth: new dilemmas in trade policy, a cura di M.R. Agosin e D. Tussie, Londra 1993; Regional integration and the global trading system, a cura di K. Anderson e R. Blackhurst, New York 1993.