Il feudalesimo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il termine “feudalesimo”, da un punto di vista storico-giuridico, designa un insieme di istituzioni che ha origine nell’alto Medioevo, quando si sviluppa, a partire dal vassallaggio franco, una forma di “servizio” che assume presto caratteri di tipo militare e che coniuga tradizioni giuridiche e militari romane, germaniche e celtiche. Il feudalesimo assume una forma compiuta quando il servizio vassallatico è rafforzato dalla concessione di un bene temporaneo (beneficio/feudo). Ciò avviene in età carolingia, quando il vassallaggio viene usato come forma di raccordo tra potenti, determinando a seconda dei casi coesione o frammentazione dei poteri.
L’accomandazione in epoca merovingia
Formulae Turonenses
Chi si accomanda alla potestà altrui.
Al tal signore magnifico io, il tale. Poiché si sa benissimo da parte di tutti che io non ho di che nutrirmi o vestirmi, io ho chiesto alla pietà vostra, e la vostra benevolenza me lo ha concesso, di potermi affidare e accomodare al vostro mundio; e così ho fatto; cioè che tu debba aiutarmi e sostenermi, tanto per il vitto quanto per il vestiario, secondo quanto io potrò servire e bene meritare; e, finché io vivrò, ti dovrò prestare il servizio ed ossequio dovuti da un uomo libero e non potrò sottrarmi per tutta la vita alla vostra potestà o mundio, ma dovrò rimanere finché vivrò nella vostra potestà e protezione. Conseguentemente si conviene che se uno fra noi avrà voluto sottrarsi a questa convenzione paghi tanti soldi di composizione al suo contraente e che la stessa convenzione continui ad aver valore; conseguentemente si conviene che a questo riguardo debbano essere redatte due lettere del medesimo tenore, confermate dalle due parti: ciò che fecero.
in R. Boutruche, Signoria e feudalesimo, Bologna, Il Mulino, 1974
Il termine feudalesimo, sconosciuto nel Medioevo, si diffonde solo nel XVII e XVIII secolo per indicare i diritti signorili relativi al feudo, parola di origine medievale che in età moderna designa una proprietà con particolari forme di giurisdizione e rendite economiche, per lo più assai gravose per i contadini. È contro questi “diritti feudali” che si volgono i rivoluzionari francesi quando nel 1789 emanano un decreto che abolisce il “regime feudale”, espressione ben presto estesa all’intero sistema sociale di Antico Regime. Il termine feudalesimo esce in tal modo dal lessico storico-giuridico per entrare in quello politico e nel discorso pubblico, dove in modo sempre più generico diviene sinonimo di ogni iniquità. “Non averne alcuna idea precisa ma inveire contro” è la sua celebre definizione proposta da Gustave Flaubert nel Dizionario dei luoghi comuni (1980).
Anche nei suoi significati più generici, nei pamphlet o nelle analisi storico-politiche dell’Ottocento e del primo Novecento il termine feudalesimo concettualmente rimanda sempre al Medioevo, di cui sarebbe stato la forma di potere più significativa. Ma fu veramente così? E cosa fu in realtà il feudalesimo medievale?
Tra coloro che nella prima metà del secolo scorso hanno cercato di rispondere a questa domanda si sono affermati due modelli interpretativi, resi celebri da MarcBloch e François-Louis Ganshof rispettivamente ne La società feudale (1939-40) e in Che cos’è il feudalesimo? (1944).
Per Bloch il feudalesimo è anzitutto un “tipo di società”, basato su un ampio sviluppo dei legami di dipendenza personale, sul frazionamento del potere pubblico e sulla supremazia di una classe di guerrieri. Per Ganshof, invece, esso deve essere inteso in modo più specifico come “un insieme di istituzioni che creano e reggono obblighi di obbedienza e di servizio, soprattutto militare, da parte di un uomo libero chiamato vassallo verso un altro uomo libero chiamato signore e obblighi di protezione e di mantenimento da parte del signore verso il vassallo” (Che cos’è il feudalesimo?, 1944). Si tratta di accezioni in ambedue i casi legittime, anche se Bloch stesso era consapevole che definire la società medievale come feudale significava pagare un tributo a una tradizione storiografica che poteva dare adito a fraintendimenti. Per questo oggi a molti appare preferibile l’approccio tecnico, “ganshofiano”, al feudalesimo, sia pur arricchito da nuovi strumenti interpretativi. Esso ha il vantaggio di eliminare molte ambiguità, a partire dal rischio di definire feudale una società nella quale i legami feudali sono sì importanti, ma spesso meno di altre forme del potere. Si pensi, in particolare, alla signoria territoriale, una forma di dominio su terre e persone particolarmente diffusa dal tardo IX secolo, quando i grandi proprietari fondiari iniziano a esercitare illegittimamente un potere di controllo e comando sui contadini liberi.
Secondo Ganshof il feudalesimo medievale è l’esito di un’evoluzione storica che muove i primi passi nel regno franco del VI secolo, vive una tappa decisiva in età carolingia e giunge a pieno compimento solo tra il X e il XIII secolo. Pur partendo da un diverso approccio, anche per Bloch è necessario distinguere tra due età feudali, l’una precedente, l’altra successiva al 1050 circa. Con sfumature e accenti diversi, oggi la maggior parte degli storici segue questa bipartizione e vede nei decenni attorno al Mille la fase cruciale per l’affermazione di un feudalesimo compiuto, frutto dell’incontro di due “istituzioni” inizialmente distinte, il vassallaggio e il feudo.
Le fonti iniziano a nominare i vassalli all’inizio del secolo VI. Il termine vassus / vassallus (dal celtico gwas, “servitore, ragazzo”) è attestato per la prima volta nella Lex Salica , la legge dei Franchi emanata attorno al 510 da re Clodoveo, in una norma dedicata agli omicidi dei servi.
A partire da questo dato, a lungo si è ritenuto che i primi vassalli fossero dei “servi domestici”, uomini di fiducia del loro signore, e che solo in un secondo tempo avessero assunto anche funzioni di tipo militare, vietate ai servi sia dalla tradizione giuridica romana, sia da quella germanica. Recentemente questo quadro è stato messo in discussione a partire da un’attenta analisi del lessico della Lex Salica, che ha permesso di ipotizzare uno stretto rapporto tra i vassi d’inizio VI secolo e gli ambacti, guerrieri “semiliberi” di tradizione celtica, la cui tradizione si sarebbe rigenerata quando, verso la metà del V secolo, le autorità romane decisero di rinforzare le loro armate nella Gallia settentrionale con l’ausilio di guerrieri imprigionati nell’odierno Galles. Sarebbe stato tramite costoro che l’impiego di guerrieri “non-liberi”, in condizione di dipendenza, si sarebbe diffuso anche tra i Franchi. Se si accetta tale ricostruzione, si può ipotizzare che già all’inizio del VI secolo i vassi fossero dei guerrieri, sia pure in condizione di “dipendenza”. Dall’inizio, dunque, essi avrebbero avuto una vocazione militare che li avrebbe differenziati sia dai “clienti” romani, che tramite l’accomandazione (commendatio) entravano nel patrocinio di un uomo più potente, sia dai guerrieri che costituivano il seguito (comitatus, Gefolgschaft) dei re o dei condottieri germanici.
Le fonti poco o nulla ci dicono dei vassalli della prima età merovingia. Sappiamo solo che a partire dall’VIII secolo i vassi iniziano a comparire sempre più numerosi nelle fonti franche (o di ambiti territoriali vicini ai Franchi).
Benché le interpretazioni a tal proposito non siano unanimi, è assai probabile che un ruolo fondamentale in tale processo sia stato giocato dai Carolingi, i quali dopo aver reso dinastica la carica di maggiordomo – il funzionario che sovrintendeva ai beni demaniali regi e alla guardia regia – conquistarono nel 751 con Pipino III detto il Breve la guida del regno franco a danno dei Merovingi. Nella loro ascesa fu fondamentale la presenza di vassalli, che proprio in questa fase storica iniziano ad assumere una fisionomia sociale e giuridica più articolata, comprendendo sia guerrieri di basso livello, sia uomini di media e alta condizione sociale. Il processo di estensione del vassallaggio ai ceti eminenti trova un’importante conferma negli Annales regni Francorum, un’opera storiografica composta tra la fine dell’VIII e i primi decenni del IX secolo in ambienti vicini alla corte carolingia. A proposito di un’assemblea generale dei grandi del regno convocata a Compiègne da Pipino III nel 757, si narra un episodio che ha come protagonista il duca di Baviera Tassilone III il quale, giunto all’assemblea con i grandi del suo popolo, “secondo l’uso franco si commendò in vassallaggio con le sue mani nelle mani del re e promise fedeltà sia a re Pipino, sia ai suoi figli Carlo e Carlomanno giurando sul corpo di san Dionigi [...]” (Annales regni Francorum inde ab a. 741 usque ad a. 829, qui dicuntur Annales Laurissenses maiores et Einhardi, a cura di F. Kurze, 1895, rist. 1950).
Molti storici oggi mettono in dubbio che Tassilone III abbia prestato questo giuramento vassallatico nel 757, anticipato forse dall’anonimo autore degliAnnales regni Francorum per dipingere la sua condotta successiva come una sequela di tradimenti.
In ogni caso siamo certi che all’epoca degli Annales regni Francorum il rito d’ingresso nel vassallaggio (almeno dei personaggi di ceto eminente) è ormai consolidato. Esso prevede un giuramento pubblico, nel quale il gesto dell’immissione delle mani nelle mani, derivato dalla tradizione della commendatio romana, è rafforzato da un giuramento di fedeltà dal valore sacrale, prestato sui Testi Sacri e le reliquie. Nel giuramento vassallatico franco, dunque, confluiscono in un rito dal forte valore simbolico forme diverse di fedeltà personale, testimonianza dell’incontro tra tradizioni giuridiche, sociali e militari romane, celtiche e germaniche. Si tratta di un giuramento che crea degli obblighi reciproci tra i contraenti – protezione da parte del signore (senior), obbligo di aiuto (espresso successivamente nella formula auxilium et consilium) da parte del vassallo – che non coinvolge altre persone al di fuori dei contraenti, non implica ulteriori gerarchie in senso verticale e può essere rotto solo in caso di morte o di tradimento.
Il caso di Tassilone III testimonia un innalzamento sociale dei vassalli generalizzato nell’età di Carlo Magno quando i “grandi” del regno, laici ed ecclesiastici (conti, duchi, marchesi, vescovi, abati), sono quasi sempre anche vassalli regi (vassi dominici). Tale innalzamento va di pari passo con la diffusione dell’uso delle fedeltà vassallatiche, che nei territori di nuova conquista franca spesso si innestano su preesistenti forme di fedeltà armate. Il vassallaggio, di conseguenza, appare in età carolingia soprattutto come una forma di raccordo tra potenti, anche se prepara il terreno al rafforzamento dei poteri locali attraverso eserciti privati di vassalli, ammessi dalla legislazione franca se non volti contro i poteri pubblici.
A partire dalla seconda metà del secolo VIII appare sempre più necessario assicurare ai vassalli una “contropartita” che non può più essere limitata alla sola protezione del signore. Si diffonde, quindi, l’uso di assegnare loro un bene temporaneo, per lo più una proprietà fondiaria che avrebbe dovuto essere restituita alla morte del vassallo e che nelle fonti è definita genericamente come beneficium, un termine che solo alla fine del IX secolo inizia a essere sostituito da un “neologismo” più specifico, destinato a grande fortuna, feudum (dal francone fehu-ôd, “proprietà piena”). L’assegnazione di un “beneficio” al vassallo diviene una prassi già nell’età di Carlo Magno, tanto che per molti studiosi è proprio da questo momento che possiamo parlare di feudalesimo, inteso come convergere dell’istituzione del vassallaggio (elemento personale) con quella del feudo/beneficio (elemento reale).
Con l’indebolimento dei poteri regi determinato dai contrasti sorti all’interno della famiglia carolingia nell’età di Ludovico il Pio e nei decenni successivi, il carattere vitalizio dei “feudi”, in particolare di quelli concessi a personaggi eminenti, gradualmente inizia a non essere rispettato.
Questo processo va di pari passo col tentativo di rendere dinastiche le cariche pubbliche (honores). Ciò è testimoniato dal famoso capitolare di Quierzy (877), emanato dall’imperatore Carlo il Calvo prima di una spedizione contro i Saraceni, interpretato spesso a torto come prima sanzione dell’ereditarietà dei feudi, mentre in realtà prevede l’ereditarietà delle cariche pubbliche per gli eredi dei “funzionari” morti durante la spedizione.
Nella seconda metà del IX secolo i rapporti vassallatico-beneficiari si diffondono ulteriormente. Utilizzati dai sovrani carolingi per rafforzare l’alleanza con i ceti eminenti, si rivelano spesso uno strumento contraddittorio, che molti grandi del regno volgono a proprio vantaggio. La fine dell’Impero carolingio (887) e l’avvio di nuove conflittualità nei regni “eredi” dell’impero dà un ulteriore impulso a questa situazione. Impossibilitati a controllare il territorio del regno con un apparato amministrativo, i re del X secolo cercano di rafforzare le relazioni personali, concedendo beni o cariche in cambio del giuramento di fedeltà vassallatica. Si apre così una nuova fase nell’organizzazione dei poteri.