La vita quotidiana
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’alimentazione degli uomini dell’alto Medioevo è qualitativamente povera, ma non quantitativamente scarsa (tranne che nei periodi di carestia). L’abbigliamento tipico del contadino consiste in tre pezzi principali: tunica, grembiule e mantello. Le donne indossano tuniche che arrivano alle caviglie. La malattia simbolo del Medioevo resta la lebbra. La Chiesa non si interessa ancora alle cerimonie pagane per i morti e vi è una persistenza di arredi funerari fino al VII-VIII secolo.La vita quotidiana come problema storiografico
La storia della vita quotidiana, come fenomeno di divulgazione storica, comincia a diffondersi negli anni Quaranta del secolo scorso e diviene un comodo modo per raggruppare e descrivere fatti non facilmente ascrivibili a categorie meglio definite quali soprattutto quella politica e quella economia. Si tratta spesso di una descrizione della realtà che ha certo il suo fascino, piena di notizie erudite e curiose, ma che si presenta, nel suo complesso, come una narrazione senza domande.
Con la nuova linea storiografica portata avanti dalla rivista “Annales”, gli storici si impegnano a cogliere il peso reale del quotidiano e a fornire una storia a ciò che sembrava non averne: vita materiale e comportamenti biologici, storia del consumo, di alimenti e vestiti, storia del clima e delle malattie. Si è passati dunque da una descrizione della vita quotidiana a una ricerca della cultura materiale e del come e perché popolazioni in dati contesti portino avanti degli stili di vita precisi.
Prima di qualunque studio della vita quotidiana nell’alto Medioevo bisogna stabilire le condizioni generali e materiali in cui questa vita si svolge e i limiti che da essa vengono imposti; limiti innanzitutto ambientali. Quali mezzi gli uomini hanno per difendersene o per dominarli? Vivono in sparute aggregazioni ai limiti delle foreste, pressati dalle carestie, dalle malattie, dal clima, con pochi attrezzi, in case povere e con abiti non certo sempre adatti a sfidare le intemperie. Le loro preoccupazioni principali sono più difensive che aggressive, volte soprattutto a proteggere, alimentare e coprire il corpo. Cominciamo proprio dall’analisi di queste tre componenti: habitat, cibo e vesti.
Grazie alle moderne tecniche, la fotografia aerea può oggi rilevare differenziazioni della morfologia dei suoli che sfuggono a uno sguardo orizzontale e documentare lo stato della precedente vegetazione. Si possono così conoscere non solo la vastità delle superfici a bosco, ma dall’analisi dei pollini anche quali tipi di alberi fossero presenti nelle varie zone. Si sono così potute studiare le variazioni di composizione del manto vegetale in Occidente.
Queste variazioni spontanee o leggermente determinate dalla presenza dell’uomo (faggi, carpini e abeti che insidiano e si sostituiscono ai noccioli) producono importanti variazioni nella composizione dell’humus che condiziona i diversi sottoboschi. La foresta viene, seppur con pochi mezzi, continuamente attaccata o utilizzata: è da lì che il contadino si procura la legna per costruire e per ardere, i funghi, le castagne, le nocciole e tutti gli altri frutti. È da lì che si procura il miele e la cacciagione.
La lotta quotidiana contro l’ostilità dell’ambiente mette continuamente in discussione i successi riportati. Le piene dei fiumi, su terreni mal drenati, significano inondazioni con conseguente distruzione dei raccolti e morte del bestiame. In parole povere si riaffaccia periodicamente lo spettro della carestia. Sterminata la cacciagione da pelo e da piume, si passa a cibarsi di carogne o peggio. Le cronache coeve riportano persino notizie di cannibalismo; forse a quest’epoca risalgono le favole di orchi che popolano i fitti boschi.
L’occupazione del suolo da parte degli uomini è veramente esigua e tra gruppi di popolazioni si estendono immensi boschi che spesso fungono da frontiera.
Con la grande crisi del IV secolo, coloro che ancora vivono sparsi nelle campagne abbandonano i luoghi tradizionali per raccogliersi in forme di vita comunitarie riunendo abitazioni, con piccoli appezzamenti di terra coltivata, attorno a una chiesa e ad un cimitero. Una massa di contadini-pastori, per motivi di convenienza, decide, dunque, di vivere in villaggi.
In Italia a partire dall’VIII secolo si va consolidando questa nuova trama abitativa delle campagne, sulla quale si innesterà, più tardi, la rete dei castelli. La lotta contro il freddo, il vento, la pioggia, la neve e gli animali porta a costruire case e a progettare forme di riscaldamento o di ventilazione a seconda delle stagioni.
Considerando il facile approvvigionamento, il legno costituisce il materiale da costruzione più diffuso, ma vi sono anche altri materiali costruttivi deperibili: la terra (messa al sole o cotta per ottenere tegole e mattoni) la paglia, le incannicciature ecc. La pietra viva e tagliata ad hoc viene utilizzata soprattutto nelle grandi fabbriche di chiese e conventi. Ricomparirà nella costruzione delle abitazioni verso il XI secolo.
Se l’iconografia è abbondante per i secoli successivi, per questo primo periodo aiutano molto i risultati dell’archeologia medievale. L’abitudine delle costruzioni a capanna trova profonde ragioni non solo nel diffondersi del modello germanico celtico dell’idea di famiglia, collegata al concetto di stirpe e costituita da grossi raggruppamenti non legati da comuni ascendenti, ma anche nel recupero di tradizioni costruttive rurali che permettono di edificare autonomamente la propria abitazione, con la casa rurale a “grande sala” costituita da un lungo rettangolo che può ospitare una cinquantina di uomini e le bestie. Il fuoco è fuori, in luogo separato, per il timore di incendi e anche per metterlo a disposizione di più famiglie. Il tipo di insediamento urbano è parzialmente diverso: la tendenza è verso piccole case singole con il focolare. Poco si può dire sugli arredi quasi tutti in legno, cuoio o tessuti e per questo perlopiù scomparsi.
Contribuisce alla lotta contro il freddo e il caldo anche un altro fattore: il cibo. Lo studio dell’alimentazione medievale ha fatto di recente molti passi avanti e ci ha portati a una conclusione non immaginata: contrariamente a quanto si può pensare, e tranne in tempi di carestia, nell’Occidente medievale si mangia a sufficienza dal punto di vista quantitativo, non così da quello qualitativo. La base alimentare è costituita, infatti essenzialmente, da ciò che si può confezionare con cereali e farine diversi.
La carne è piuttosto rara, bollita a pezzetti nelle minestre o arrostita. Anche il pesce scarseggia, sebbene lo si trovi fresco, essiccato o conservato sotto sale. Piatto forte è la minestra in cui si mette di tutto, dalle erbe raccolte nei campi ai cavoli, carote, cipolle. Vi sono poi i legumi secchi, le nocciole, le castagne, i funghi e soprattutto le uova, molto usate tranne che in quaresima, e i latticini.
Poca la frutta coltivata, a parte le mele, ma compaiono sulle tavole pere, cotogne e pesche, in compagnia dei frutti di bosco selvatici.
La bevanda principale è l’acqua, ma anche le bevande alcoliche come il sidro e la birra sono diffuse. Si beve ovviamente pure il vino, anche se è di difficile conservazione. Dovunque il clima lo permette sono comunque coltivate le vigne.
Le vesti hanno il compito di ricoprire il corpo e di difenderlo dal freddo. L’abito da lavoro è in sostanza quello in uso tutti i giorni, semplice e funzionale ai movimenti che si devono compiere. Il grembiule è il capo che caratterizza i lavoratori di entrambi i sessi e costituisce il segno distintivo del lavoro manuale, sia in campagna che, poi, nelle città.
Per tutto il periodo medievale l’abbigliamento tipico del contadino consiste in tre pezzi principali: tunica, grembiule e mantello. La tunica a maniche larghe può essere di lana o di lino, il mantello di pelliccia, di cuoio, o di panno pesante, foderato o meno. A questo proposito non bisogna credere che le pellicce fossero appannaggio esclusivo delle classi agiate perché una pelliccia di agnellino o pecora può essere anche più economica di un pesante tessuto. C’è pure il mantellino corto, con o senza cappuccio, che copre solo il busto. Esistono i calzoni, trattenuti in vita da un cordellino, ma il loro uso è raro. Ai piedi si portano calzature in cuoio fissate sopra la caviglia o stivali che coprono il polpaccio. Le donne indossano tuniche che arrivano alle caviglie, trattenute in vita da una cintura. Difficilmente uomini o donne al lavoro nei campi sono a capo scoperto.
Gli abiti sono generalmente grigi o comunque scuri, mantenendo in genere il colore naturale della lana. Abiti colorati richiedono maggiori spese. Altra caratteristica degli abiti medioevali è che non esistono fogge specifiche per le diverse stagioni per cui in inverno si sovrappongono capi di vestiario molteplici. Le fonti iconografiche che rappresentano abiti si riferiscono a persone altolocate, se non addirittura al seguito di sovrani. Verso il X secolo sono attestati tessuti lussuosi con pietre e ricami per gli abiti religiosi.
La malattia simbolo del Medioevo, come di tutta l’Antichità, resta la lebbra con le sue macchie dermiche, i bubboni, la distruzione delle mani e delle cartilagini del naso e la paralisi progressiva. Gli infermi vengono rinchiusi in lazzaretti lontani dai luoghi abitati e si dà fuoco alle loro case e cose.
Intorno all’anno Mille infuria in Francia e in Germania una strana epidemia denominata “mal degli ardenti”. Si tratta, con qualche probabilità, di quella che oggi viene chiamata ergotismo, una forma di intossicazione dovuta soprattutto all’uso di farine di segale cornuta contaminate da un fungo invisibile a occhio nudo. Diffondendosi per interi campi tutti gli abitanti ne risultano colpiti, per cui la malattia assume un aspetto epidemico. L’infermo accusa vertigini, stato confusionale, delirio, bruciori e febbre. Anche l’ingestione di cibi avariati o infettati da insetti e topi è causa di malattie. La mancanza di varietà nell’alimentazione genera poi forti scompensi, con carenza di vitamine.
La chirurgia è quasi sempre mortale. La medicina galenica dà qualche risultato con l’utilizzazione di piante officinali unite a spezie. Un buon numero di guarigioni viene, però, attribuito all’intercessione dei santi, quando non a rituali tratti da forme di superstizione dovuti a sopravvivenze dell’antico paganesimo.
Quanto alla cura dei defunti, la Chiesa, concentrata principalmente sull’abolizione dei riti pagani, non si interessa subito alle cerimonie per i morti, eccetto che nel caso dei santi e delle loro reliquie. Per evitare commistioni superstiziose un canone del concilio di Nantes del 658 vieta al clero di partecipare alle commemorazioni dei morti celebrate, in genere, nel settimo e nel trentesimo giorno dopo il decesso, come pure in occasione dell’anniversario. L’archeologia rivela comunque la persistenza e la diffusione di arredi funerari fino al VII-VIII secolo.