scetticismo
La dottrina delle diverse scuole scettiche greche ed ellenistiche la cui tradizione fu iniziata da Pirrone di Elide (➔). Come organica tradizione speculativa, in riferimento alla verità considerata filosoficamente nel suo complesso, lo s. appartiene propriamente al mondo antico, poiché nell’età medievale e moderna appare rappresentato soltanto da manifestazioni sporadiche. Al pensiero antico è infatti sostanzialmente comune il presupposto che la conoscenza sia vera solo in quanto è oggettiva, cioè solo in quanto riproduce esattamente la realtà della cosa: il fatto che essa si presenti anche come soggettiva, cioè come manifestazione e funzione di una soggettività conoscente, deve quindi condurre la riflessione gnoseologica a disperare più o meno radicalmente del suo valore oggettivo. Il pensiero moderno, che riconoscendo l’impossibilità di eliminare il momento soggettivo del conoscere non lo considera più come soltanto negativo e anzi trasferisce in esso, in maggiore o minor misura, il contenuto concreto del sapere, è invece scettico soltanto nei momenti e nei limiti in cui la soggettività continua ad avere per esso l’antico valore di negatività nei confronti dell’oggettivo. Se in tal senso lo s. classico è, nei riguardi del vero, il prodotto della sua oggettività di diritto con la sua soggettività di fatto, è evidente che la sua genesi è strettamente legata a quella del soggettivismo stesso: e così scettico è già, in certa misura, Democrito, che, distinguendo nel percepito il soggettivo dall’oggettivo, è condotto infine a dubitare del rigore oggettivo di questa stessa distinzione. Scettico non può considerarsi, invece, il suo grande contemporaneo Protagora, che pure è il massimo (e anzi l’unico, anche se praticamente il suo atteggiamento viene mantenuto da tutta l’antica sofistica) soggettivista greco: ma gli argomenti che inducono Protagora, non preoccupato dell’oggettività del sapere, ma del suo valore pratico per l’uomo, a valutare il sentito soltanto dal punto di vista del senziente, sono poi essenzialmente gli stessi che determinano la genesi della vera e propria tradizione scettica. Precedente storico dello s. antico può sotto certi aspetti essere considerata la scuola socratica di Megara (➔ megarica, scuola) che nella forma delle antinomie tentò di enunciare gli argomenti insolubili che rappresentano i casi emblematici dell’impossibilità di decidere circa la verità e la falsità di una tesi.
Gli scettici (σκεπτικοί) sono, per gli antichi, coloro che esercitano il «controllo critico» (σκέψις) degli oggetti del sapere, senza venire a una conclusione certa. Sono chiamati anche «zetetici» (ζητητικοί «indagatori») e «aporetici» (ἀπορητικοί), in quanto non superano lo stadio dell’aporia, o «efettici» (ἐφεκτικοί, da ἐπέχειν «sospendere, rimanere in sospeso», da cui ἐποχή «sospensione» sott. «dell’assenso a una data tesi»), in quanto si rifiutano di aderire all’una o all’altra delle opinioni in contrasto; o, infine, «pirroniani» (πυρρώνειοι, πυρρωνικοί), dal nome di Pirrone di Elide (➔), iniziatore della loro tradizione. Nell’antichità classica la tradizione dello s. si divide in tre periodi. Il primo è quello rappresentato, tra il 4° e il 3° sec. a.C., da Pirrone e dai suoi allievi, Filone di Atene, Nausifane di Teo, Timone di Fliunte. Il secondo è quello in cui, tra il 3° e il 2° sec. a.C., la tradizione scettica conquista l’Accademia platonica, con Arcesilao di Pitane, iniziatore della cosiddetta seconda Accademia, e con Carneade di Cirene, iniziatore della terza. È l’età a cui risale la designazione degli «scettici» come «accademici», e in cui di fatto, soprattutto per opera del grande Carneade, lo s. riceve la sua formulazione più rigorosa, nonostante che all’assoluta negatività delle sue conseguenze pratiche venga opposto, come rimedio, il probabilismo. Lo s. non si risolve infatti, in questo periodo, in una semplice dimostrazione della relatività soggettiva di ogni conoscenza e dell’impossibilità di fissarne con certezza ogni contenuto oggettivo, ma si specifica in una serie di critiche alle particolari dottrine logiche, metafisiche, teologiche, etiche dei «dogmatici» (cioè di tutti i pensatori non scettici, e, in primo luogo, degli stoici), venendo così ad accumulare un complesso di motivi di capitale importanza per la successiva evoluzione del pensiero. Il terzo e ultimo periodo, che si estende dal 1° sec. a.C. fino al 2° d.C. ed è principalmente rappresentato da Enesidemo, Agrippa e Sesto Empirico, si configura invece piuttosto come un ritorno al primo s. di stampo pirroniano. Enesidemo scrive otto libri di Πυρρωνείοι λόγοι («Discorsi pirroniani»), enunciando dieci modi per giungere alla sospensione del giudizio, cui Agrippa ne aggiunge altri cinque (➔ tropo); Favorino compone una raccolta di Πυρρωνείοι τρόποι («Argomenti pirroniani») e Sesto Empirico compendia le dottrine scettiche in quelle Πυρρωνείαi ὑποτυπώσεις (Schizzi pirroniani), le quali, superstiti, rappresentano la prima base della conoscenza che, nel Rinascimento, il pensiero moderno acquista della filosofia scettica e il documento massimo per la conoscenza dello s. antico e della sua interpretazione della precedente storia del pensiero.
Nel Medioevo lo s., almeno come specifica concezione filosofica, è pressoché inesistente: troppo forte è la fiducia dogmatica che viene al pensiero sia dalla tradizione teologica sia dall’influsso platonico e aristotelico. S’intende quindi come le correnti scettiche vengano in luce solo quando tale tradizione dogmatica entra in crisi: come accade, per es., nell’occamista Nicola di Autrecourt (➔). Con la crisi della cultura medioevale torna a presentarsi, nella cultura rinascimentale, una tematica scettica: la si può ritrovare in ambienti e con esiti assai diversi. La critica scettica della scienza e della conoscenza umana può essere utilizzata per invitare alla rinuncia alla ricerca razionale e per esaltare la fede; ma d’altra parte la stessa critica scettica può essere utilizzata quale strumento polemico contro la ragione dogmatica (soprattutto contro l’aristotelismo) e divenire quindi premessa di una nuova teoria della ragione. La prima posizione è presente soprattutto in ambienti teologici (frutto della crisi dell’aristotelismo scolastico) nel Cinque e Seicento: ne è tipico rappresentante Gianfrancesco Pico della Mirandola (con la polemica contro la «vanità» della ragione per esaltare il primato della fede) che è il primo a utilizzare l’opera di Sesto Empirico conosciuta nell’originale greco (la traduzione latina delle Ipotiposi o Schizzi pirroniani si avrà nel 1562; dell’Adversus mathematicos nel 1569); ma va notato che quando ha esiti fideistici, lo s. può assumere significati e riflessi più complessi e del tutto estranei alla problematica teologica e apologetica: come, per es., in Montaigne, i cui Saggi (1580), e soprattutto l’Apologia di Raymond Sebond, se svolgono un’assidua critica alle pretese della ragione (con accentuato fideismo in materia religiosa), rendono assai più largamente incisiva la critica scettica sottoponendo a essa tutte le tradizionali scale di valori etici e religiosi, sfociando in un forte relativismo, così da dare una caratteristica misura della crisi aperta nella coscienza europea. L’argomentare scettico si era in realtà arricchito con l’esperienza della diversità di culture (favorita dalla scoperta del Nuovo Mondo) e attraverso il progressivo disfacimento così della cultura come della civiltà cristiana medievale. Sulla linea di Montaigne si pone lo s. di Charron (che riprende, spesso letteralmente, i Saggi, ma con maggiore stringatezza e schematicità), che diviene critica acuta di ogni dogmatismo e fanatismo filosofico e religioso e difesa dell’autonomia dell’esprit fort nella sua interiore libertà, contro il «costume» che i più (gli esprits faibles) passivamente seguono. Per più aspetti la posizione scettica di Charron, a volte più ancora di quella di Montaigne, avrà larga influenza nella cultura del Seicento, e in partic. negli ambienti libertini, in cui sempre assai marcato è l’atteggiamento scettico (la critica scettica è vivace arma polemica contro il dogmatismo e soprattutto serve a negare l’universalità dei «valori» morali e religiosi e quindi il carattere universale della natura umana, ecc.). Ma al di là di generiche e pur significative riprese di atteggiamenti scettici, una diretta lettura di Sesto Empirico poteva portare a una più precisa assunzione della critica scettica nella polemica antimetafisica: così, per es., Gassendi fa largo spazio a tale critica nella sua polemica antiaristotelica e anticartesiana, assumendo lo s. come momento fondamentale di una battaglia contro l’ormai superata cultura scolastica e premessa per una nuova teoria della ragione: la critica cioè del conoscere sensibile e del conoscere metafisico non sbocca nella rinuncia alla scienza, ma nella rinuncia a un sapere che ritenga di cogliere le essenze e porsi come totale e definitivo; rinuncia quindi a un uso metafisico della ragione che si riconosce invece valida per costruire un sapere empirico, descrittivo, storico, sempre provvisorio: la critica scettica diviene così premessa di un uso empirico della ragione. In termini più generali, nella cultura del Seicento il momento scettico può essere preso a rappresentare il momento critico di rifiuto della filosofia e della cultura tradizionale e premessa quindi alla costruzione di nuove prospettive filosofiche, anche metafisiche. Così in Descartes il dubbio rappresenta la sospensione del giudizio e il rifiuto di tutto il sapere tradizionale, viene poi superato dal cogito e dall’affermazione della veracità divina. Ma su questa via ci si viene allontanando dalla ripresa della tematica dello s. antico, le cui suggestioni continuarono tuttavia a influire positivamente all’interno dell’analisi critica degli strumenti conoscitivi, come, per es., nell’empirismo inglese. In tempi più recenti posizioni scettiche sono emerse in polemica contro varie sistemazioni filosofiche onnicomprensive: ma ormai i riferimenti allo s. antico divengono assai tenui e lo s. si pone piuttosto come impegno critico e antisistematico.