SCHELETRO (dal gr. σκελετόν "corpo disseccato", mummia; fr. squelette; sp. esqueleto; ted. Skeleti, Gerüst, Gerippe; ingl. skeleton)
Il nome fu dato dapprima alle ossa (e legamenti, cartilagini, ecc.) umane e dei Vertebrati, e fu esteso poi a ogni formazione rigida, che abbia funzione di sostegno e di protezione per i tessuti molli, sia nei Protozoi sia nei Metazoi.
Inteso in questo senso largo, il termine non può essere riferito a un sistema che presenti carattere di omogeneità nella serie animale: vedremo che le formazioni scheletriche hanno origine, forma, composizione chimica molto varie nei diversi gruppi. In linea generale si possono distinguere esoscheletri, o scheletri esterni, secreti dalle cellule dell'epidermide (come nei granchi o negl'insetti) e endoscheletri, o scheletri interni, formati da cellule di origine mesodermica o endodermica, com'è, ad es., quello dei Vertebrati. Lo scheletro può essere poi costituito da un vero e proprio tessuto, come le ossa, ricco per lo più di sostanza intercellulare, impregnata di sali minerali, che gli conferiscono la necessaria durezza; oppure esser secreto da cellule che rimangono esterne ad esso, talché esso non può dirsi un tessuto vivo, benché prodotto dall'attività vitale di cellule o di tessuti particolari. Tali sono, ad es., le spicole silicee o calcaree delle Spugne, lo scheletro chitinoso degli Artropodi e quello calcareo degli Echinodermi.
La funzione dello scheletro è innanzi tutto di offrire sostegno ai tessuti molli, e la necessità ne è tanto maggiore, quanto maggiore è la mole corporea. Esso ha anche una funzione di protezione, e ciò vale soprattutto per gli scheletri esterni, siano essi esoscheletri, come quelli degli Artropodi (granchi, ad es.) o dermascheletri, cioè scheletri mesodermici, ma cutanei, come quello del riccio di mare (Echinodermi). Infine lo scheletro diviene spesso un importantissimo sussidiario degli organi di movimento: esso è formato in tali casi da pezzi articolati, sui quali s'inseriscono muscoli, che li fanno muovere. I più perfetti tipi di scheletri articolati si trovano negli Artropodi e nei Vertebrati. Inoltre lo scheletro può adempiere ad altre funzioni, che, rispetto a quelle ora elencate, si possono dire secondarie, ma che sono talvolta essenziali per la vita dell'organismo: così lo scheletro chitinoso degli Artropodi, che viene periodicamente rigettato e ricostituito (v. muta) funziona da emuntorio, caricandosi dei prodotti di rifiuto dell'attività cellulare, che vengono così espulsi; nello scheletro dei Vertebrati il midollo delle ossa lunghe ha una funzione ematopoietica importantissima, ecc.
Passeremo in rassegna brevemente i tipi principali di scheletro che si trovano nei varî gruppi del regno animale, rimandando, per maggiori particolari, alle singole voci.
Nei Protozoi esistono scheletri esterni, sotto forma di pellicole o cuticole più o meno spesse, o di gusci secreti dall'animale, nei quali spesso si trovano conglobate particelle estranee (gusci agglutinati). Vi sono gusci calcarei, silicei, di cellulosa, di sostanze forse simili alla chitina, ecc. (v. dinoflagellati; foraminiferi). Scheletri interni, che formano talvolta armature o gabbie elegantissime, si trovano soprattutto negli Eliozoi (v.) e nei Radiolarî (v.). Sono formati per lo più da aghi o spicole di carbonato di calcio o di stronzio, o silicee, disposte generalmente con perfetta simmetria in una infinita varietà di forme.
Le Spugne hanno anche scheletri talvolta assai complicati ed eleganti, costituiti anch'essi da spicole, calcaree (Calcispongie) o silicee (Silicospongie), secrete da particolari cellule, e disposte a formare mirabili strutture. La simmetria e la forma delle spicole costituiscono importanti caratteri tassinomici. Alcune spugne hanno inoltre uno scheletro corneo (Ceratospongie) secreto anch'esso da speciali cellule (spongioblasti), il quale forma come un fitto reticolo di minutissime fibre. Talvolta, come le spugne da bagno, posseggono soltanto questo scheletro di spongina, molto sviluppato, mentre quello minerale è rudimentale.
Fra i Celenterati si osservano condizioni varie, dalla presenza di una esile lamella di sostegno (Idra) alla ricca mesoglea delle meduse (v. acalefe), agl'imponenti scheletri calcarei o di una sostanza organica di consistenza cornea, o misti, dei Coralli (v. corallo), delle Madrepore (v.) e di altri Antozoi (v.).
Gli animali riuniti nell'antico gruppo dei Vermi (Platelminti, Anellidi, Nematelminti e gruppi minori) in genere sono quasi sprovvisti di scheletro, hanno per lo più consistenza molliccia, e le parti dure (setole, uncini, mandibole) sono di natura chitinosa. Un sottile strato di chitina ne riveste talvolta l'epidermide, e, in alcune specie, esistono pure spicole calcaree, specialmente in relazione agli organi della copulazione. Alcuni vermi (Anellidi) costruiscono tubi calcarei o d'altre sostanze, secreti dalle ghiandole cutanee.
Massimo sviluppo raggiunge lo scheletro cutaneo negli Artropodi. È costituito da chitina, più o meno riccamente impregnata di sali calcarei, la quale è secreta dalle cellule dell'ipoderma. Alcuni di questi animali (Crostacei, Coleotteri) sono rivestiti da una vera durissima corazza, simile alle armature dei guerrieri medievali. Proprio come queste, le corazze degli Artropodi sono tubulari (e si vede bene osservando gli arti di un gambero o di un'aragosta) e costituite da pezzi articolati, nell'interno dei quali s'inseriscono, su speciali ispessimenti (apodemi), i muscoli. La presenza di così duro rivestimento rende necessarie mute periodiche, che consentono l'accrescimento.
Negli Echinodermi v'è un dermascheletro, secreto dalle cellule del derma che ha forma e consistenza molto variabili. Negli Echinoidi (ricci di mare) è costituito da placche calcaree non articolate, che formano una rigida corazza. Negli Asteroidi (stelle) e nei Crinoidi (gigli di mare), le piastre calcaree, invece, consentono movimenti più o meno ampî. Negli Oloturoidi, infine, le placche sono rappresentate da spicole di varia forma, libere nei tessuti molli.
Anche nei Molluschi si trovano varî tipi di scheletro, dai gusci (conchiglie) ricchi di carbonato di calcio, bivalvi o univalvi dei Lamellibranchi, dei Gasteropodi e Scafopodi, al guscio articolato dei Chitoni, alle conchiglie ialine e cartilaginee dei molluschi pelagici, alle formazioni chitinose che costituiscono la radula e altre parti dell'apparato boccale di molte specie. L'opercolo di cui molti Gasteropodi sono provvisti può essere di natura chitinosa o calcarea. Nei Cefalopodi, poi, oltre alla conchiglia (osso di seppia) che ha qui una struttura tutta particolare, alle mascelle di consistenza cornea e ad anelli chitinosi che vi possono essere intorno alle ventose delle braccia, si trova, specialmente nella regione cefalica, intorno al cervello, un vero e proprio scheletro cartilagineo, di struttura istologica non molto dissimile da quella della cartilagine dei Vertebrati.
Nei Brachiopodi si trovano pure gusci analoghi a quelli dei Molluschi.
Nei Tunicati, oltre alla corda dorsale, che in alcuni gruppi è transitoria, in altri permanente, v'è un rivestimento o mantello molliccio, di una sostanza (tunicina) che presenta qualche affinità chimica con la cellulosa.
Nei Vertebrati, infine, lo scheletro è costituito da cartilagine e da osso, quest'ultimo esclusivo di questo sottotipo. Si distingue uno scheletro cutaneo, che si forma fino dall'inizio di tessuto osseo, e uno scheletro interno, che può formarsi subito di tessuto osseo, o preformarsi cartilagineo e ossificarsi in seguito (v. connettivo tessuto; vertebrati).
Per lo scheletro umano, v. anche osseo, sistema.
Antropologia.
La trattazione dello scheletro dal punto di vista antropologico non può essere, al giorno d'oggi, che una trattazione con metodo comparativo, che tenga in considerazione, cioè, tutti i Primati, oltre che le razze umane. Il materiale di fatti di cui si dispone nella letteratura sul soggetto è ineguale ed eterogeneo. Trattazioni di tutto lo scheletro dei Primati e per l'intiero gruppo non si possiedono, salvo quella del Mivart, ormai invecchiata. Le trattazioni particolari ai diversi generi, anch'esse poco numerose, sono assai diseguali, ma condotte per lo più con metodo descrittivo e con poche misure. I dati sullo scheletro delle razze umane, anch'essi poco abbondanti, hanno invece per lo più un aspetto metrico, con scarsa descrizione e poca o nulla considerazione delle superficie articolari. Abbiamo anche qui perciò integrato talvolta i dati con materiale di nostra osservazione.
Occorre innanzi tutto affermare che se il metodo metrico ha dato mediocri risultati in craniologia, esso ne ha dato ancora minori per il restante delle ossa dello scheletro, e in realtà pochi ne può dare, per la stessa natura delle cose. La metodica metrica è applicabile agli Uomini e agli Antropomorfi; ma più ci si allontana da questi, più la sua applicabilità diviene problematica e approssimativa. Una trattazione moderna della dottrina dello scheletro ha fornito solo una parte del suo compito, allorquando ha stabilito descrittivamente le conformazioni diverse. Essendo la funzione dello scheletro statica e meccanica, avendo esso cioè lo scopo di fornire l'appoggio alle parti molli nella stazione e nella locomozione, è necessario che una tale dottrina ponga in luce come certe strutture siano conformi a certi scopi. Su questo soggetto già siamo in grado di stabilire delle sicure associazioni fra conformazioni ossee e dati etologici, giacché l'osservazione empirica dei modi diversi di stazione e di locomozione permette di stabilire dei tipi di questi modi fondamentalmente distinti l'uno dall'altro. È questo anzi un punto di partenza molto utile a prendere per un'esposizione che voglia essere sintetica ed esplicativa, senza abbandonare il terreno dei fatti. La morfogenesi delle strutture ossee, se pure è lo scopo finale della dottrina dello scheletro, non può fornire sinora molta materia ad affermazioni positive.
I modi di stazione e deambulazione nei gruppi dei Primati. - Un osservatore attento e sperimentato dei modi di stare e di muoversi degli animali può stabilire come ogni genere dei Primati abbia qualche sua propria caratteristica. Ciò non pertanto, è anche necessario convenire che più generi hanno modi simili fra loro e che possono essere riuniti in gruppi o tipi. Di questi però ve ne sono molti nell'ordine dei Primati e non è possibile passarli qui tutti in rivista. Occorre limitarci ai gruppi più importanti, sia per il numero dei generi che contengono, sia per le loro speciali caratteristiche.
Naturalmente non possono essere qui menzionate alcune forme singolari, talvolta singolarissime, soprattutto fossili, che hanno grande importanza filogenetica, ma la cui esposizione porterebbe troppo lontano e richiederebbe assai spazio.
In una prima sezione, in cui possiamo mettere i Lemuridae, gli Hapalidae, alcuni dei Cebidae più bassi, Chrysothrix, Cebus e alcuni generi delle Catarrine come Cercopithecus, Semnopithecus, Colobus e Cercocebus, si ha una forte disposizione al salto. Nelle specie più piccole del gruppo, come le Hapliodae, si può dire anzi che non esista una vera andatura di passo, ma che il movimento consista in una serie di piccoli salti; in questi animali si ha una condizione di cose assai simile a quella dei piccoli Mammiferi dei più diversi ordini, ed infatti sembra che la disposizione al salto sia una disposizione generale delle forme mammali più piccole, essendo un mezzo di difesa comune ad esse.
Un sottotipo di questa sezione è rappresentato dalle forme che saltano prevalentemente in altezza e la cui locomozione è caratterizzata dal fatto che slancio e caduta avvengono, assai spesso, per l'arto posteriore (Tarsius, Galago). Nel tipo locomotorio più generale, a cui questo sottotipo appartiene, lo slancio è prodotto dall'arto posteriore, la caduta avviene sull'anteriore. Esaminando uno di questi animali nell'atto di arrampicarsi sopra un palo o un tronco verticale, si può constatare bene che il movimento è ritmico, a scatti o impulsi distanziati, in corrispondenza agl'impulsi dell'arto posteriore, che è quello veramente attivo. L'arto anteriore è gracile. Lo sviluppo dell'arto posteriore è sensibilmente più notevole, specie nella lunghezza e per la grossezza dei segmenti prossimali (coscia). Le forme generali in questo tipo sono svelte. Torace e addome sono piccoli. Raramente in questo tipo sono raggiunte dimensioni notevoli. Le più grosse dimensioni appartengono a Semnopithecus. Le specie relative hanno sempre coda lunga e sono arboree, ma si muovono sul terreno benissimo. L'arrampicamento di queste forme non è essenzialmente diverso dalla locomozione sul terreno piano. È degno di rilievo l'arrampicamento di Hapale, la più tipica forma di questa sezione. Allorquando questa piccola scimmia si arrampica sopra un tronco grosso, conficca le unghie nella corteccia dell'albero. La mano è posta abitualmente in una direzione diagonale alla direzione dell'albero; il piede, invece, sui grossi tronchi, è disposto nella direzione stessa della verticale. Sui tronchi piccoli, mani e piedi sono disposti obliquamente. La mano però tende in tal caso ad abbracciare la convessità del tronco. Non è però una presa a tenaglia che si esercita da parte della mano, con una buona opposizione del pollice, ma solo un appoggio contro una caduta all'indietro dell'animale. Ciò è tanto vero che in certe specie di questa sezione il pollice è scomparso (Colobus) o fortemente ridotto. Chiaramente l'abituale dimora sugli alberi è più un'abitudine di vita e una difesa biologica che una necessità dipendente da specializzazioni morfologiche. In questo primo tipo non è esclusa la capacità di atteggiamento eretto. È facile vedere dei Cercopitechi assumere un atteggiamento veramente eretto e tenerlo per parecchi minuti. Esso è preso allorquando l'animale ha entrambe le mani occupate da un oggetto grosso, e anche solo rotondeggiante, come ad es. una mela, che tema che gli sfugga. L'animale in tale evenienza assume l'atteggiamento eretto e si allontana in tale posizione, compiendo piccoli salti sui due piedi contemporaneamente. È degno di nota che in tale posizione la coscia è discretamente estesa sul tronco, per un angolo di oltre 135°. Tutto sommato l'atteggiamento eretto sembra assunto facilmente e con poca spesa muscolare in questo tipo, essendo forse ciò dovuto al piccolo peso del tronco, dell'arto anteriore e del capo, che non ha mai forti specializzazioni bestiali, come cominciamo a riscontrare nella sezione successiva.
Nella seconda sezione dei Primati troviamo una disposizione e una capacità al salto assai minore. Chiunque abbia visto in una stessa gabbia un Macacus anche non grande, e un Cercopithecus, persino delle specie più grosse, avrà constatato che il paragone è tutto a favore del secondo. Esaminando l'arrampicamento di un Macacus sopra un palo posto verticalmente, si può constatare come il movimento sia più regolare, ma più lento e uniforme, e come l'arto anteriore vi prenda parte sensibile, traendo il corpo verso l'alto, con una buona flessione dell'avambraccio sul braccio: ciò che non succede nelle forme della prima sezione. Tuttavia l'arto posteriore è bene sviluppato ancora, ed è molto lungi dalla riduzione relativa di almeno uno degli Antropomorfi, l'Orango. Il torace e l'addome sono più voluminosi, più spesso e massiccio è anche l'arto anteriore, specie nell'avambraccio. Il movimento sul terreno è buono ed è di tipo quadrupede. Tuttavia in queste forme troviamo frequentemente una certa facilità ad assumere l'atteggiamento eretto, sia nella stazione, sia nella locomozione, ed è appunto fra queste forme che gli ammaestratori di scimmie trovano gl'individui più adatti. Appartengono a questa sezione a carattere misto Papio maimon, Macacus, Inuus, Vetulus, Cynomolgus.
In una terza sezione abbiamo un tipo di stazione e locomozione singolarissimo, un unicum in tutta la classe dei Mammiferi. Questo tipo è rappresentato nel suo modo più accentuato dal Gibbone delle piccole specie. L'animale è sospeso abitualmente, anche nella stazione, ai rami degli alberi, per mezzo delle sue braccia lunghissime. I movimenti vengono compiuti con uno slancio, il cui meccanismo è essenzialmente pendolare e quindi esclude una forte partecipazione dei muscoli intrinseci del braccio, il quale, flettendosi, accorcerebbe la lunghezza del pendolo, diminuendo così la forza viva acquisita. L'arto posteriore deve esso pure partecipare all'acquisto di detta forza viva, ma allorquando l'animale è in aria, viene tenuto flesso sotto il tronco, e pronto ad afferrare. La mano si attacca ai rami in posizione di pronazione. Come l'arto anteriore è adibito alla speciale locomozione arborea, il posteriore è adatto alla stazione e locomozione terrestre, le quali hanno luogo in una posizione che si può dire praticamente eretta, dato che, anche quando l'animale si appoggia all'arto anteriore, per la enorme lunghezza di questo, egli deve necessariamente assumere un atteggiamento eretto. L'animale procede valendosi degli arti anteriori come di grucce, ma è capace bene di procedere anche senza questo aiuto, e non soltanto a piccoli salti a piedi pari, ma anche a passi alterni. Per giudizio unanime di tutti gli osservatori, il Gibbone delle piccole specie è il Primate che meglio è capace di tener l'atteggiamento eretto. I tre Antropomorfi, Orango, Scimpanzé, Gorilla presentano ciascuno modalità proprie. Il Gorilla frequenta le parti inferiori dei grossi alberi, lo Scimpanzé le zone medie, l'Orango le zone più elevate. Così mentre l'Orango si arrampica per trazione verso l'alto, mediante la flessione, sia dell'arto anteriore, sia di quello posteriore, usando però talvolta la spinta per estensione di quest'ultimo, nello Scimpanzé l'arrampicamento si può dire quasi del tipo Macacus, ed infine nel Gorilla l'arto anteriore, malgrado il suo enorme sviluppo, agisce come traente verso l'alto, in mediocre misura, a ragione di una flessione incompleta, mentre la spinta è data soprattutto dall'arto posteriore, che agisce in estensione, in guisa che le spalle vengono gettate all'indietro. Riguardo alla loro capacità di movimenti sul terreno, l'Orango è praticamente inetto e l'apparenza di una deambulazione eretta è deteminata dalla lunghezza delle braccia, lo Scimpanzé è quadrupede ed il Gorilla assume la deambulazione eretta solo in certe circostanze e per piccole durate (per maggiori particolari, v. antropomorfi, App., pag. 29). Si deve infine distinguere un ultimo tipo: la stazione e deambulazione eretta degli Uomini.
La caratteristica di questo modo è l'allineamento di entrambi i segmenti dell'arto posteriore col tronco nella stazione, cosa che non si verifica mai nella cosiddetta stazione eretta degli altri tipi.
Colonna vertebrale e sacro. - Le misure che si prendono sulle vertebre si riferiscono principalmente al corpo di esse. Si prendono più facilmente sulle vertebre toraciche e lombari, che del resto appartengono ai tratti più importanti antropologicamente. Il corpo vertebrale, per la sua forma, concede 9 misure e cioè tre per ogni dimensione; giacché ogni dimensione può essere presa in tre diverse profondità: ad esempio l'altezza o meglio diametro cefalico-caudale può essere presa sull'aspetto ventrale del corpo o sulla superficie che guarda il canale neurale o sull'asse cefalico-caudale del corpo stesso. Ma di queste nove lunghezze solo quattro hanno più largo uso. Esse sono: 1. Diametro cefalico-caudale ventrale (altezza anteriore nell'uomo): distanza rettilinea della superficie cefalica (superiore) dalla caudale (inferiore) nel piano mediano sagittale e sulla superficie ventrale (si prende col compasso scorrevole; v. antropologia: Gli strumenti antropologici). 2. Diametro cefalico-caudale dorsale (altezza posteriore): distanza rettilinea della superficie cefalica (superiore) dalla caudale (inferiore) nel piano sagittale mediano e sulla superficie dorsale (compasso scorrevole o ricurvo). 3. Diametro sagittale cefalico (superiore): distanza rettilinea di quei due punti del contorno della superficie cefalica (superiore) del corpo che sono tagliati dal piano sagittale mediano (compasso scorrevole). 4. Diametro trasversale cefalico (superiore): distanza rettilinea fra i due punti siti più all'esterno, da un lato e dall'altro, del contorno della superficie cefalica (superiore) (compasso scorrevole).
Sul sacro si prendono molte misure, di cui ricordiamo soltanto: 1. Lunghezza d'arco ventrale: distanza presa sulla superficie ventrale (anteriore nell'uomo) dal punto di mezzo del promontorio al punto di mezzo del margine caudale (inferiore) del sacro (si prende col nastro metrico). 2. Lunghezza diretta ventrale: distanza diretta fra i due punti di cui sopra (compasso scorrevole). 3. Larghezza cefalica diretta (nell'uomo larghezza massima del sacro). È la larghezza massima trasversale fra le espansioni corrispondenti alle superficie, dette auricolari, di articolazione col bacino (compasso scorrevole). Il rapporto di questa terza misura alla precedente dà l'indice sacrale, con le seguenti categorie: dolicoierici (sacri stretti e lunghi) x−99,9; mesoierici 100 −105,9; platiierici (sacri larghi e corti) 106 −x.
Il numero delle vertebre presacrali è nei Primati abbastanza variabile. Nella regione lombare si hanno da 4 (Orango) sino a 9 elementi (Indris, e Lorisinae). La regione toracica presenta per lo più 12-13 elementi, ma ancora nelle Lorisinae possono arrivare a 17. Il sacro ha per lo più tre elementi. Il numero degli elementi della coda è il più variabile, andando da 3 sino a 33 (Semnopithecus e Ateles), tuttavia senza rapporto con lo sviluppo o riduzione di essa.
La "forma naturale" della colonna vertebrale è la forma che essa ha nel vivente, nella stazione abituale. Molte teorie sono state proposte per spiegare la costruzione della colonna (Meyer, Zschokke, Arx, Strasser, Sera). La forma generalizzata della colonna dei Mammiferi e dei Primati è quella di una curva a concavità ventrale più o meno forte. Il Cunningham dimostrò però che la colonna nella regione lombare assai sovente presenta una capacità di formazione di lordosi (convessità rivolta ventralmente). Sembra che tale capacità sia assai più notevole nei generi del secondo gruppo locomotorio, come pure nello Scimpanzé e nel Gibbone. Anche l'angolo sacro-vertebrale, cioè l'angolo che la linea ventrale dei corpi fa con la linea ventrale del sacro, nel profilo laterale, è piuttosto forte nel secondo gruppo locomotorio, raggiungendo il suo massimo nel Mandrillo, ma è sensibile anche nelle grosse specie di Semnopithecus; è buono anche negli Antropomorfi. A riguardo dei caratteri delle vertebre cervicali, è degno di ricordo il fatto che nel primo tipo locomotorio si hanno le più piccole lunghezze dei processi spinosi, lunghezze medie si hanno nel secondo tipo e massime negli Antropomorfi, per i quali sono uno dei caratteri più salienti della loro organizzazione. Le superficie articolari delle zigapofisi (apofisi che servono alle articolazioni intervertebrali e di cui si distingue un paio di cefaliche ed un paio di caudali per ogni vertebra, prezigapofisi e postzigapofisi) della regione toracica sono disposte obliquamente in genere in tutti i tipi a differenza dell'Uomo. Il Gibbone però si approssima all'Uomo più che gli Antropomorfi. Ciò indica nei Primati una capacità forte di torsione assiale della colonna nel tratto toracico. La direzione delle spine della regione lombare è una caratteristica assai importante. Essa è schiettamente cefalica nelle forme saltatorie del primo tipo, ove, essendo le spine della regione toracica rivolte caudalmente, cioè in senso inverso a quello delle lombari, ne sorge la disposizione detta "anticlinia", che è quasi di sicuro una disposizione di arresto contro l'estensione eccessiva della colonna, essendo l'estensione rapida e violenta una necessità nella corsa e nel salto. Quadrangolari e rivolti dorsalmente sono i processi spinosi delle lombari nel secondo tipo locomotorio nel Gibbone. Al contrario sono rivolti caudalmente negli Antropomorfi (e al massimo nel Gorilla), il che costituisce una ragione della rigidità della colonna vertebrale, che si osserva nel vivente in queste forme. Le disposizioni delle superficie articolari delle zigapofisi della regione lombare sono molto diverse fra le forme del primo e quelle del secondo gruppo. La disposizione sagittale di dette facce è massima nel Gibbone e nello Scimpanzé, il che indica in queste forme una capacità assai forte di flessione della colonna lombare nel piano sagittale.
La forma del corpo delle vertebre toraciche è a triangolo ad angoli ottusi ed a base dorsale, cioè rivolta verso il canale neurale, nel primo tipo; più rotondeggiante nel secondo, ma soprattutto sensibile è la differenza della larghezza trasversale, assai più forte nel secondo tipo, il che fa sì che relativamente l'altezza del corpo diminuisca. La forma larga e bassa del corpo è ancora più accentuata negli Antropomorfi. La forma del corpo delle vertebre lombari intensifica quella delle ultime toraciche. L'aspetto reniforme delle superficie articolari intervertebrali è più marcato in tutti i tipi. L'altezza del corpo invece diviene più sensibile che nelle toraciche nel primo tipo ambulatorio. Il forame midollare è corto in senso dorso-ventrale nel primo tipo, più lungo nel secondo, assi più lungo ancora nel Gibbone e nello Scimpanzé.
La colonna vertebrale nel maggior numero dei casi è composta nelle razze umane di 33-35 vertebre. Per ciò che riguarda il numero dei segmenti, le più frequenti variazioni sono presentate dal tratto sacrale e coccigeo. Il numero delle vertebre presacrali è, nel 92% dei casi, di 24. Il Rosenberg ritiene che la colonna vertebrale dell'Uomo, in confronto di quella dei Primati, abbia subito un processo di accorciamento, che si dimostra appunto con la diminuzione del numero delle vertebre presacrali. Rosenberg ha dato una serie di formule fondamentali e teoriche derivanti l'una dall'altra per la successiva riduzione di una vertebra. Egli le indica con i numeri romani I, II, III, IV. Egli parte da una colonna costituita da 14 toraciche, 5 lombari, 5 sacrali, 4 coccigee. Il numero delle vertebre cervicali, com'è noto, è fisso e di sette nei Mammiferi, salvo poche eccezioni. Ogni formula fondamentale passerebbe alla successiva per mezzo di sette fasi successive: a) trasformazione di una lombare in lombo-sacrale; b) trasformazione della lombo-sacrale in sacrale, per cui il numero delle vertebre sacrali è portato a sei; c) trasformazione di una dorsale in una dorso-lombare, per cui il numero delle dorsali è diminuito di uno; d) trasformazione della dorso-lombare in lombare, per cui è ripristinato il numero di cinque lombari, e) trasformazione di una sacrale in sacro-coccigea, per cui il numero delle sacrali è ricondotto a cinque; f) la sacro-coccigea è incorporata al coccige ed il numero delle vertebre di questo segmento è portato a cinque; g) questa fase è data dalla riduzione a quattro del numero delle vertebre coccigee, con il che si arriva alla formula successiva. Questo processo di sette fasi ripetendosi tre volte, a partire dalla formula originale (I) conduce alla formula (IV) con 11 dorsali, 5 lombari, 5 sacrali e 4 coccigee, che è per così dire una formula iperumana. Cento colonne vertebrali di Olandesi, saggiate dal Rosenberg, in base a queste formule teoriche, hanno dato che il maggior numero di casi si raggruppava nelle tre formule particolari II, II f, III. 181 colonne vertebrali di Giapponesi avrebbero una posizione un po' più spostata verso la formula originale, vale a dire presenterebbero condizioni più primitive. Secondo il Sera, la teoria non tiene conto della grande variabilità, nei Primati, soprattutto del numero delle vertebre lombari, per cui ancora al giorno d'oggi è difficile stabilire con precisione la formula primitiva dei Primati.
La forma della colonna vertebrale delle diverse razze umane pare sia abbastanza diversa. Così la lordosi lombare pare assai accentuata nei Boscimani; è forte poi negli Australiani, quindi in molti altri gruppi umani in grado decrescente. Il cosiddetto indice lombo-vertebrale, che dovrebbe dare una misura della lordosi lombare, non è affatto fedele espressione del fatto morfologico, a ragione delle diverse forme dei dischi cartilaginei nelle diverse razze umane. Così ad esempio i Boscimani, alla massima lordosi lombare nel vivente, uniscono un indice lombo-vertebrale relativamente elevato.
Le vertebre cervicali hanno apofisi ed archi piuttosto gracili, in confronto del corpo, nei Negri e negli Australiani. I Giapponesi presentano i fatti inversi. Le apofisi spinose sono assai spesso corte e bifide in razze cosiddette basse. All'opposto fu osservata nei Giapponesi una tendenza alla biforcazione minore che negli Europei, il che li riavvicinerebbe alla caratteristica antropoidica. I processi spinosi delle toraciche sono rivolti dorsalmente nei Giapponesi, caudalmente nei Fuegini. Questi hanno anche le superficie articolari delle zigapofisi disposte molto meno frontalmente che negli Europei. Nel Negro, sono al contrario più frontali che nell'Europeo. I processi spinosi delle lombari nei Giapponesi e nei Papuani sono rivolti più caudalmente che negli Europei; nei Negri, come negli Europei; meno nei Fuegini. La direzione delle superficie articolari delle zigapofisi negli Uomini è in genere sagittale, ma questa disposizione è raggiunta al massimo nei Negri, al minimo nei Fuegini. Il diametro dorso-ventrale del corpo delle vertebre cervicali nei Negri è piuttosto forte, mentre quello trasversale è piccolo. La forma generale delle vertebre toraciche nei Fuegini e nei Negri è molto più allungata, dorso-ventralmente, in confronto delle vertebre europee. La larghezza del corpo vertebrale delle toraciche è, sulle prime vertebre di questa regione, più forte nei Giapponesi ed Europei, meno forte nei Negri, minima nei Fuegini. Il forame midollare è nelle vertebre toraciche più o meno circolare nei Fuegini, ellittico a grande asse trasversale nei Giapponesi, losangico, a grande diagonale dorso-ventrale, nei Negri. Nei Fuegini non esiste quell'ampliamento del forame midollare che si riscontra abitualmente in corrispondenza del rigonfiamento cervicale del midollo spinale (Sera).
Già il Mivart aveva osservato che i caratteri che sono attribuiti al sacro umano, si possono trovare, allo stato isolato, in Primati diversi. Così la curvatura ventrale è buona nei Cinocefali e assai forte nel Mandrillo, mentre la forma triangolare è posseduta da molte forme ecaudate, persino tra i Lemuri. Quanto alle razze umane è caratteristico il sacro tabulare, vale a dire diritto e con forma triangolare assai ottusa, cioè digradante verso la forma trapezoide, nei Fuegini. Il valore dell'indice sacrale è ormai riconosciuto come molto limitato anche a darci fatti quantitativi. Possono cadere nella categoria dei dolicoierici sacri che sono soltanto stretti e sacri che sono soltanto lunghi, mentre i due fatti hanno un valore morfologico assai diverso. La scarsa curvatura del sacro, che si incontra in alcune razze umane, ha probabilmente il significato di una minore inclinazione del bacino, che in esse si verifica (v. oltre).
Costole. - Il numero delle costole dei Primati risulta già dal numero delle vertebre toraciche. Quello delle vere costole è in genere superiore a quello delle false. Nei Primati più elevati le prime tendono a diminuire. Il numero maggiore è presentato dalle Nycticebinae con 10 paia (Perodicticus e Loris). Secondo il Sera tale accrescimento è in relazione alla sospensione con corpo all'ingiù. Negli Antropomorfi la riduzione va fino a 6, cioè supera persino quella dell'Uomo. Ciò indica che questo processo di riduzione è associato alla vita arborea e non alla stazione eretta, come spesso si dice. Le costole, per la loro forma, sono più simili a quelle dei Carnivori nei Lemuri. Nel genere di Platirrine Pithecia le costole sono assai larghe; anche larghe sono in Hapale. Fra le razze umane siffatta larghezza forte si trova in certi Americani, secondo il Sera, ad esempio nei Patagoni e negli Ona. Il torace nel suo insieme si presenta compresso bilateralmente nei Primati del 1° gruppo, più rotondeggiante in quelli del 2°, rotondo bene nei Gibboni, compresso dall'innanzi all'indietro negli Antropomorfi, in cui esso è anche piuttosto basso e caudalmente si allarga in modo sensibile.
Sterno. - Le misure più essenziali dello sterno sono: 1. Lunghezza totale: distanza rettilinea del punto più profondo dell'incisura soprasternale (cosiddetto suprasternale) dal punto più caudale del corpo dello sterno (l'appendice ensiforme non è compresa). Questa lunghezza è divisa in una lunghezza del manubrio ed una lunghezza del corpo (si prende col compasso scorrevole). 2. Larghezza massima del manubrio: distanza fra i due punti più divergenti dei due margini laterali del manubrio. 3. Larghezza massima del corpo: distanza fra i due punti più divergenti dei due margini laterali del corpo. Il rapporto di quest'ultima alla lunghezza totale dà l'indice di lunghezza dello sterno.
Tutti i Primati più bassi hanno uno sterno lungo e stretto, mentre i più elevati lo hanno largo e corto. Il manubrio è sempre più largo dei restanti pezzi. Questi sono lunghi nelle forme basse e non sono saldati fra loro. Quest'ultimo fatto rimane nell'Orango e nel Gorilla, in cui però i segmenti più distali hanno tendenza a saldarsi fra loro. Nello Scimpanzé invece esiste una spiccata tendenza alla saldatura, sebbene lo sterno nella sua forma generale stretta e lunga somigli di più a quello delle forme basse. Nel Gibbone vi è una forte tendenza alla fusione del manubrio col primo pezzo successivo. Ma si trova talvolta fusione completa, come nell'Uomo. Una caratteristica dell'Orango è la poca differenza nella larghezza del manubrio e dei pezzi successivi. Symphalangus e Orango hanno gli sterni più corti e più larghi.
Nell'Uomo lo sterno è un segmento assai sensibile alle variazioni e costituisce un buon carattere sessuale. Lubosch credette di poter stabilire negli sterni umani una forma "primatoide" e una ominidica e affermò più frequente la prima nelle razze basse. Stieve e Hintzsche hanno però negato ciò, ed hanno escluso la presenza di conformazioni raziali nello sterno. Si deve però osservare che quest'ultima asserzione si basa sopra materiale molto limitato, mentre se le differenze raziali esistono, possono solo essere stabilite su grandi numeri, date le forti variazioni dell'osso in questione. Ad ogni modo la Abicht nel 1927 affermò l'esistenza di differenze raziali fra lo sterno europeo e quello australiano; in questo si notano il manubrio più grosso, la larghezza del corpo più uniforme, l'angolo che il manubrio fa col corpo più piccolo. Crediamo che per decidere la questione siano necessarie misure eseguite dallo stesso autore sopra un grande numero di scheletri di razze diverse.
Clavicola. - Le dimensioni della clavicola sono molto variabili all'interno del gruppo dei Primati. Così hanno clavicola assai corta Hapale Lemur, Tarsius, molto lunga il Gibbone e l'Orango. La lunghezza sembra però in stretta relazione col prevalente uso dell'arto anteriore nell'arrampicamento. La robusticità non sembra invece aver relazione con quel fatto. Straordinaria è la sottigliezza di essa in Mycetes, che fa pensare che in questa forma l'arto anteriore non abbia una grande funzionalità nell'arrampicamento. La curvatura sigmoide, oltre che nell'Uomo, è presente in Ateles, qualche altro Cebida e nelle Nycticebinae. La concavità sternale dell'S, volta verso il dorso, si estende molto all'esterno in molti Lemuri e spesso nel Gibbone, poco estesa invece è nel Gorilla, Orango e scompare nelle Catarrine basse, come anche in Indris fra i Lemuri. La concavità acromiale, rivolta ventralmente, è più costante e scompare solo in quelle forme ove la concavità sternale posteriore si estende assai all'esterno. È molto formata nelle Nycticebinae e nelle Indrisinae. Lo Scimpanzé ha una curvatura sigmoide come l'Uomo. Nell'Uomo colpisce una struttura gracile della clavicola non solo nei primitivi attuali, ma anche nella razza fossile di Neanderthal. Una serie di razze ha clavicola più lunga di quella europea. I negri sono anche caratterizzati da clavicola lunga, ma l'indice clavicolo-omerale, stabilito dal Broca, non rende bene questo fatto, dato che nei Negri anche l'omero è piuttosto lungo.
Scapola. - 1. Larghezza morfologica (già chiamata nell'Uomo per lo più altezza, ma anche lunghezza) è la distanza rettilinea dal vertice dell'angulus superior (meglio angolo cefalico, D sulla figura) al vertice dell'angulus inferior (meglio angolo caudale, C della figura) (compasso scorrevole). 2. Lunghezza morfologica (già detta nell'Uomo larghezza): distanza rettilinea dal punto di mezzo della superficie articolare per la testa dell'omero (A sulla figura) ad un punto del margine vertebrale della scapola, che è sito in mezzo fra le due labbra che delimitano l'origine della spina di essa (B sulla figura) (compasso ricurvo). 3. Larghezza proiettiva della fossa sottospinosa (detta, prima, altezza): differenza di livello rispetto alla larghezza morfologica (linea C-D) fra i punti B e C. 4. Larghezza proiettiva della fossa sopraspinosa: differenza di livello rispetto alla larghezza morfologica (linea C-D) fra i punti D e B. 5. Lunghezza della cavità glenoide: distanza rettilinea fra il punto più cefalico del margine della superficie articolare per la testa dell'omero ed il punto più caudale del margine stesso (compasso scorrevole). 6. Larghezza della cavità glenoide: è la larghezza massima presa perpendicolarmente alla misura precedente, fra i margini laterali, dorsale cioè e ventrale, della superficie articolare per la testa dell'omero (compasso scorrevole). 7. Angolo fra la larghezza e la lunghezza: è l'angolo che le due linee sopra definite formano incontrandosi fra loro. Si prende di solito l'angolo esterno cefalico. Per determinare quest'angolo si dispone la scapola, mediante un opportuno apparecchio di presa, con la spina rivolta in alto, in guisa che i punti A, B, C, sieno in un piano orizzontale. Per mezzo di uno dei molti apparecchi, utili a eseguire graficamente la proiezione ortogonale di un punto qualsiasi di un oggetto sopra un piano orizzontale (ad es. per mezzo del cosiddetto parallelografo del Martin) si proiettano sopra un foglio di carta i quattro punti che abbiamo indicati, si congiungono con rette le due coppie C, D e A, B e si determina l'angolo con un comune goniometro da disegnatore, in materiale trasparente. Quest'angolo sostituisce un angolo vertebro-spinale, prima usato, che era determinato dal margine vertebrale e dall'asse della spina.
L'elemento fondamentale per la descrizione e per la comprensione della forma della scapola è la base della spina. Già il Ranke, molti anni fa, pose a base di un'esatta comparazione questo elemento. Per una sommaria ma esatta descrizione è bene partire dalla forma generalizzata della scapola dei Mammiferi, una scapola cioè piuttosto lunga, con bordo vetebrale piuttosto piccolo, ed il cui contorno si può descrivere come un triangolo isoscele a piccola base (il bordo vertebrale) e buona altezza. In questa forma generalizzata, la base della spina è perpendicolare al bordo vertebrale, che ha direzione unica e non è diviso in due parti a direzione diversa. La base della spina è anche, in generale ed all'ingrosso, perpendicolare alla direzione dell'asse della cavità glenoide. Il solo Primate che si mantenga fedele al tipo generalizzato della scapola è il Chiromys. La scapola del primo tipo locomotorio è già differente. La forma triangolare regolare della fossa sopraspinosa è cioè modificata per l'aspetto smusso già più o meno avanzato della regione dell'angolo cefalico interno. La scapola è sempre lunga, ma la spina non è più perpendicolare al bordo vertebrale; e forma con essa un angolo più o meno superiore al retto. Anche il bordo vertebrale non è più rettilineo, ma più o meno convesso. La scapola del secondo tipo locomotorio è già parecchio più corta. La fossa sopraspinosa però presenta, come nel primo tipo, l'aspetto smusso della regione dell'angolo, essendo il bordo cefalico, così, piuttosto arrotondato. La spina è perpendicolare al bordo vertebrale. La lamina che rappresenta la spina non è più sopra un piano, come nel tipo precedente, ma presenta, al livello del cosiddetto tubercolo del trapezio, un gomito più o meno manifesto. La fossa sottospinosa ha assai guadagnato in larghezza. Il bordo vertebrale si è fatto più o meno convesso per tutta la sua estensione. La zona di origine del grande rotondo è prominente bene sul margine ascellare. La scapola del Gibbone presenta la speciale caratteristica di avere la direzione della spina fortemente obliqua sul bordo vertebrale; insieme, l'angolo fra bordo vertebrale e bordo ascellare è divenuto assai acuto; la spina assai bassa alla sua radice s'innalza e s'ispessisce verso l'acromion, che è molto sviluppato. La lunghezza della scapola, se si misura a partire dalla radice della spina fino alla superficie glenoide, non si può dire molto ridotta. Eppure l'aspetto complessivo della scapola è quanto mai diverso da quello della scapola generalizzata. Le scapole dei tre Antropomorfi hanno in comune la riduzione ulteriore, in confronto del secondo tipo, della loro lunghezza, ma differiscono sensibilmente l'una dall'altra. Ciascuna di esse ha una sua speciale somiglianza con la scapola di una forma inferiore. Così, quella dello Scimpanzé somiglia più che ad ogni altra alla scapola di Gibbone, quella di Orango alla scapola di Perodicticus, quella di Gorilla alla scapola di Mycetes (Sera). Queste due ultime scapole però hanno tipi speciali, che non rientrano in quelli da noi descritti (v. antropomorfi). Il valore dell'indice scapolare e degli indici delle fosse, dapprima ritenuto notevole, è ora giudicato meno che mediocre, a darci differenze seriali, cioè di valore gerarchico o raziali. Nedi ultimi tempi si è data importanza alla forma del margine vertebrale della scapola e si è posto in rilievo il significato costituzionale, o, secondo alcuni, addirittura patologico della cosiddetta scapola scafoidea (Graves). Da un punto di vista comparativo, hanno acquistato recentemente importanza certi caratteri del margine ascellare, in base ai quali il Gorianowitch-Kramberger ha creduto persino di distinguere nelle scapole della razza fossile di Neanderthal quattro varietà diverse. Merita di essere invece ricordato il tentativo di H. V. Vallois di stabilire i tipi raziali della scapola degli Uomini. Egli distingue nove tipi fondamentali: un primo tipo, l'Europeo, che corrisponderebbe press'a poco alla descrizione classica dei trattati di anatomia (beninteso europei). Il secondo tipo, il Negro, è simile al precedente; è anche triangolare, ma meno alto nella fossa sottospinosa; aspetto gracile, con impronte muscolari poco rilevate, apofisi del grande rotondo debole, bordo vertebrale più convesso; incisura larga, spina gracile, poco alta alla sua origine interna, poco spessa anche al livello del tubercolo del trapezio. Questo tipo caratterizza i Negri di Africa, ad eccezione dei Negrilli e dei Boscimani. Il terzo tipo, Negrillo, sarebbe un tipo molto speciale, affatto differente da quello di tutte le altre razze umane. Avrebbe lunghezza morfologica forte. Questa distanza, infatti, sorpassa in valore assoluto la larghezza morfologica della fossa sottospinosa, fatto che non si osserva in nessun gruppo umano. Bordo cefalico orizzontale o persino ascendente, dall'interno verso l'esterno. La spina è molto obliqua sul bordo vertebrale. Il quarto tipo, Melanesiano, è, per la forma generale e per gl'indici, simile al negro, ma più vigoroso; fossa sopraspinosa poco grande, superficie di origine del grande rotondo assai sviluppata, ma che fa poca salienza sul bordo ascellare, bordo cefalico poco inclinato, incisura larga, spina che ha un bordo rettilineo assai spesso ed un tubercolo del trapezio enormemente sviluppato, acromion corto e massiccio. Il quinto tipo, Negrito, somiglierebbe al precedente, salvo le dimensioni più piccole e la cavità glenoide più piatta, bordo cefalico con tendenza all'orizzontalità, spina che si approssima a quella negra. Il sesto tipo, Polinesiano, è stato stabilito soprattutto in base all'aspetto assai curioso dell'acromion, che presenta un processo posteriore che lo fa apparire come aperto a ventaglio, in alcuni casi. Il settimo tipo, Giapponese, ha una forma generale a tendenza quadrilatera, per trasformazione dell'angolo caudale in un vero bordo, a sua volta dovuto al grande sviluppo, verso l'esterno, della zona di origine del grande rotondo, più saliente che altrove. Bordo superiore assai obliquo e spesso concavo. La spina ha il suo segmento interno fortemente piegato a gomito, il sommo del gomito corrispondendo al tubercolo del trapezio. L'ottavo tipo, Fuegino, ha qualche somiglianza col precedente. Se ne distingue per l'assenza del gomito sopra ricordato, per la forma piuttosto triangolare del suo contorno; l'indice scapolare è piccolo, per la larghezza forte della fossa sottospinosa. Incisura stretta. Il nono tipo, Neanderthaliano (dell'uomo fossile di Neanderthal), è caratterizzato da una cresta pronunciata, che limiterebbe l'origine del piccolo rotondo, verso l'interno; non esisterebbe poi il solco ascellare del sottoscapolare, che è comunemente parte dell'inserzione di questo muscolo.
Omero. - 1. Lunghezza massima dell'omero. Distanza rettilinea dal punto più cefalico della testa, al punto più distale della troclea (tavoletta osteometrica). 2. Diametro massimo alla metà. Il più forte diametro che si può prendere alla metà dell'osso, senza riguardo ad alcun piano (compasso di spessore). 3. Diametro minimo. Il più piccolo diametro che si può prendere alla metà dell'osso, senza riguardo ad alcun piano (compasso di spessore). 4. Circonferenza minima della diafisi. Circonferenza più piccola che si può prendere, che cade di solito alquanto distalmente alla cresta deltoidea (nastro metrico). 5. Angolo condilo-diafisario. È l'angolo che l'asse della diafisi fa con la retta tangente distalmente alla troclea (tavoletta osteometrica). Si traccia con una matita la linea assiale della diafisi, ovvero si applica con della cera un ago di acciaio su questa linea assiale, si dispone l'osso in guisa che la troclea sia tangente alla parete verticale della tavoletta, quindi applicando al bordo superiore di questa parete un goniometro trasparente si legge l'angolo che la retta tracciata (o l'ago) fa con lo spigolo suddetto. L'angolo che si prende è quello aperto all'esterno. 6. Angolo di torsione. È l'angolo che l'asse della testa fa con l'asse della troclea. L'asse della testa è determinato tracciando con un lapis nero, sulla testa, una linea che divida in due parti, presso a poco uguali, la superficie della testa. Questa linea si fa partire dalla tuberosità maggiore. Nel piano determinato da questa linea si applica sulla testa, mediante un po' di cera, un ago di acciaio. L'asse trocleare viene determinato applicando contro la troclea, distalmente, per mezzo ancora di cera, un ago di acciaio, che divida in due parti così la circonferenza interna della troclea come il capitello. L'osso viene quindi collocato verticalmente in un apparato che lo sostiene, in guisa che, visto dall'alto, le direzioni dei due aghi s'incrocino. Per mezzo del parallelografo, o di altro strumento, si tracciano le due rette che rappresentano gli assi. Dei quattro angoli che esse determinano, l'angolo di torsione è l'interno anteriore.
L'omero del primo tipo locomotorio è in genere corto, ma non molto massiccio, salvo forse nei saltatori specializzati (Tarsius). Specifica è l'inclinazione del suo quarto o terzo superiore sul restante dell'osso. Le due porzioni, cioè, non sono sulla stessa direzione; caratteristica che indica l'uso dell'arto in attitudine quadrupede, sia sul terreno, sia sugli alberi. La cresta detta deltoidea è sviluppata mediocremente in alcuni generi di questo tipo (Lemur, Hapale) ed assente in altri. Al riguardo della struttura della troclea, si può dire in generale che non è ben formata una gola, né nella troclea propriamente detta, né nella troclea in generale. La torsione è sui 90°. L'omero del secondo tipo locomotorio è fra i più massicci di tutti i Primati. L'inclinazione del terzo superiore sul restante dell'osso è la massima, il che significa che l'attitudine alla vita sul terreno è buona. La cresta deltoidea è un po' più sviluppata, specie nel Mandrillo. La gola della troclea è bene marcata. Ciò indica da una parte l'uso dell'arto in trazione verso l'alto, dall'altra la pratica del terreno che rende anch'essa necessario un forte ingranaggio dell'olecrano dell'ulna nella superficie articolare distale dell'omero. Questa è al massimo differenziata in tale senso nel Mandrillo. La torsione è di 100° all'incirca, cioè un po' più forte che nel tipo precedente. L'omero del Gibbone è fra i più lunghi e gracili, ad aspetto di corda, si può dire. Esiste una convessità anteriore dell'osso, estesa su tutta la sua lunghezza. Manca l'orletto del brachioradiale. La cresta deltoidea è assente. La troclea nell'estremità distale è affatto caratteristica. Essa presenta capitello rotondeggiante, circonferenza esterna, fra questa e l'interna vi sono dei solchi molto marcati. La torsione è di 120-130°. Per ciò che riguarda gli Antropomorfi l'omero di Gorilla è molto lungo, ma è anche assai robusto, unendo una forte circonferenza minima ad una grande lunghezza. Quello di Scimpanzé è il meno robusto. L'inclinazione del terzo superiore è presente solo, in piccola misura, nello Scimpanzé, assente negli altri due. La sezione della diafisi è più rotondeggiante nel Gorilla, più appiattita nello Scimpanzé, mentre le tracce più evidenti della cresta deltoidea sono nell'Orango. La cresta del brachioradiale è, tutto sommato, poco sviluppata in tutti e tre, il che si comprende bene, dato il loro potere di estensione estrema del braccio; caso mai il Gorilla ne presenta tracce, che sono minori nello Scimpanzé e minime nell'Orango. Le differenze più caratteristiche sono nell'estremità articolare distale. La troclea di Gorilla è simile a quella di Gibbone, quelle di Scimpanzé e Orango sono simili a quella dell'Uomo europeo. Gli Antropomorfi hanno valori di torsione siti ai limiti più bassi dell'Uomo e interferenti con la variazione umana.
Non abbiamo ancora per l'omero delle razze umane una caratteristica di tipi, come per la scapola. Del resto siamo nelle stesse condizioni per tutte le altre ossa lunghe. Solo possiamo dire che alcuni elementi analitici metrici hanno certi valori medî in certe razze. Un basso indice di robusticità è posseduto dai Negri, uno elevato invece dagl'Indiani Californiani. Un indice della sezione assai basso è posseduto dagli Aino; essi hanno una diafisi appiattita, invece che subcilindrica, come è negli Europei. L'angolo condilo-diafisario presenta più sensibili differenze raziali. Così esso ha un valore di 77° per gli Svizzeri, 80° per gli antichi Svevi e Alamanni della Baviera, 83° per gli attuali Fuegini, 84°,5 per gli Indiani di Paltacalo (Ecuador), 87° per l'uomo fossile di Neanderthal. La perforazione della fossa olecranica presenta oscillazioni raziali assai forti, dal 58% dei Vedda alle scarse percentuali degli Europei. Tutte le osservazioni hanno confermato la regola che la perforazione è più frequente nel sesso femminile e a sinistra. Ciò è conforme alla maggiore gracilità e al più forte grado di estensione di cui è capace l'avambraccio della donna. La variazione individuale dell'angolo di torsione va nell'Umanità da 113° a 182°, secondo Lambert. Esso è più forte nell'omero sinistro che nel destro, ed è più forte nella femmina che nel maschio. La differenza sessuale può salire a 10°. Nel feto la torsione è di circa 90°. Diamo alcuni valori dell'angolo di torsione per entrambi i lati destro e sinistro: Francesi, destro 163°, sinistro 165°; Svedesi, destro 161°, sinistro 166°; Indiani Salado, destro 159°, sinistro 159°; Sioux, destro 152°, sinistro 154°; Peruviani, destro 147°, sinistro 153°; Negri, destro 143°, sinistro 145°; Guanci, destro 139°, sinistro 144°; Australiani, destro 130°, sinistro 138°.
Ulna. - 1. Lunghezza massima. Distanza rettilinea dal punto più cefalico dell'olecrano al punto più distale del processo stiloideo (tavoletta osteometrica). 2. Circonferenza minima. È situata in prossimità dell'estremo distale (nastro metrico). 3. Diametro dorso-volare della diafisi. Diametro massimo della diafisi al livello del più forte sviluppo della cresta interossea (compasso scorrevole). 4. Diametro trasversale della diafisi. Diametro al livello del più forte sviluppo della cresta interossea e perpendicolarmente al precedente (compasso scorrevole). 5. Diametro trasverso prossimale (nell'Uomo, superiore). È il diametro trasverso al livello del punto più basso dell'incisura sigmoidea minore (compasso scorrevole); 6. Diametro dorso-volare prossimale (superire). Diametro massimo perpendicolarmente al precedente e allo stesso livello. È una misura molto delicata, perché il contorno dell'osso nel piano sagittale è a questo punto rapidamente cadente verso il dorso.
Botez osserva che l'ulna dei Primati appare, in confronto delle altre ossa del braccio, come un osso gracile. Ma bisogna osservare che questa impressione è esagerata dal cosiddetto indice di robusticità, essendo la circonferenza minima dell'osso, che serve alla determinazione di detto indice, per la forma stessa dell'osso, molto piccola. Ad ogni modo essa è giustificata nel 1° tipo locomotorio. L'incurvamento dell'osso nel piano volare in questo tipo è piuttosto debole e con convessità rivolta verso il radio. L'incurvamento nel piano sagittale è con concavità rivolta ventralmente. La forma della sezione della diafisi è triangolare, con base del triangolo piuttosto stretta, faccia più o meno scannellata, vertice smusso. Talvolta ne sorge una vera forma a lama di sciabola. L'apofisi olecranica è ben marcata ed ha direzione esclusivamente cefalica. Verso l'estremità distale ed all'interno è quasi sempre visibile una cresta piuttosto lunga, disposta nel senso della lunghezza dell'osso, che rappresenta il limite interno dell'inserzione del pronatore quadrato. L'apofisi stiloide è bene pronunciata. Nel secondo gruppo locomotorio, l'osso è meno slanciato, anzi forse è uno dei più massicci nei Primati. L'incurvamento dell'osso nel piano volare è talvolta fortissimo; in genere meno pronunciato che nel tipo precedente quello nel piano sagittale. La forma della sezione diafisaria è diversa alquanto ai diversi livelli; ad ogni modo non vi è mai un dorso ben definito; ma piuttosto una cresta dorsale; una seconda cresta interna, una terza cresta esterna e insieme spostata alquanto ventralmente. Ne risulta una sezione triangolare, ma con vertice postero-esterno e base antero-interna. Inoltre la base del triangolo è qui più larga. Sotto l'incisura sigmoidea minore, in corrispondenza cioè dell'origine del supinatore breve, l'osso è in genere più largo; questa conformazione è al massimo nel Mandrillo. L'apofisi olecranica. bene pronunciata, va un po' dorsalmente. La cresta del pronatore è presente, ma meno evidente. L'ulna di Gibbone è una delle più differenziate. Slanciatissima, con una lieve convessità rivolta radialmente nel piano frontale, con lievissima concavità rivolta ventralmente nel piano sagittale. Le ulne degli Antropomorfi sono lunghe e robuste, specie quella del Gorilla. Nel piano frontale l'ulna del Gorilla e dello Scimpanzé non hanno una curvatura unica, ma due, una cioè più cefalica, a concavità interna, una più distale a concavità esterna, onde ne risulta una forma sigmoide. L'ulna dell'Orango ha assai meno questa conformazione. La concavità ventrale nel piano sagittale è assai forte. L'apofisi olecranica è brevissima e la cresta del pronatore assai poco formata in genere.
In complesso si può dire che l'ulna presso i popoli allo stato di natura sia più slanciata e sottile che presso gli Europei. La curvatura nel piano sagittale può mancare del tutto, come appunto negli Europei. Un carattere che negli ultimi tempi ha attratto assai l'attenzione è la prominenza della cupola dell'olecrano, rispetto all'incisura sigmoidea maggiore, essendo giudicata una più forte prominenza un carattere primitivo. Al massimo prominente sarebbe la cupola olecranica dell'Uomo fossile di Neanderthal, fra le forme recenti, quella dei Fuegini. Il primo perciò non si attaccherebbe per questo carattere agli Antropomorfi. La forma della sezione diafisaria dipende in massima parte dallo sviluppo della cresta interossea, ma vi è sotto questo rispetto una grande variabilità individuale. L'indice di sezione varia da 67 a 100. Alcuni valori medî di esso sono: Europei 76, Fuegini 86, Australiani 80. Al riguardo dell'indice di platolenia, sembra che gl'Indiani Americani abbiano i valori più bassi, cioè presentino la parte superiore dell'ulna appiattita trasversalmente. I Negri e la razza di Neanderthal sono all'estremo opposto.
Radio. - 1. Lunghezza massima. Distanza rettilinea fra il punto più cefalico del capitello del radio e il punto più distale del processo stiloideo, senza riguardo all'asse di lunghezza (tavoletta osteometrica o compasso ricurvo). 2. Circonferenza minima. Circonferenza al livello dove l'osso è più sottile, sempre tuttavia distalmente dalla metà (nastro metrico). 3. Diametro trasversale della diafisi. Diametro trasversale al livello in cui la cresta interossea ha il massimo sviluppo (compasso scorrevole). 4. Diametro sagittale della diafisi. Diametro della diafisi, al livello in cui è stato preso il precedente diametro e perpendicolarmente ad esso.
Il radio nel primo tipo locomotorio ha un indice di robusticità medio. Medio-forte è l'incurvamento dell'osso nel piano volare e parimenti medio è l'angolo collo-diafisario, cioè l'angolo che il collo fa con la diafisi. La sezione dell'osso è triangolare, talvolta quasi isoscele, con base volare piuttosto stretta, ad angoli, salvo l'ulnare, piuttosto ottusi, la faccia volare è spesso concava. L'articolazione distale ha un diametro dorso-volare piuttosto piccolo. Il radio del 2° tipo ha un indice di robusticità forte, medio ancora è l'angolo collo-diafisario. La sezione è triangolare, irregolare. L'articolazione distale ha un diametro dorso-volare piuttosto forte. Le docce per i muscoli estensori della regione dorsale, sono bene pronunciate. Il radio del Gibbone è lunghissmo e slanciatissimo ad aspetto di una corda, come l'omero. L'incurvamento nel piano volare è il più piccolo fra tutti i Primati. La sezione della diafisi ha perduto l'aspetto triangolare, essendo quasi ellittica a piccolo asse trasversale. Fra i tre Antropomorfi, l'Orango ha, secondo il Botez, il più piccolo indice di robusticità, il che non significa che l'osso sia poco robusto, esso è solo molto lungo. Scimpanzé e Gorilla hanno press'a poco lo stesso indice medio. L'incurvamento nel piano volare è molto forte; nel Gorilla poi raggiunge il massimo fra tutti i Primati. La cresta interossea è poco sviluppata, specie in Orango. Nella diafisi lo Scimpanzé presenta un po' di compressione bilaterale, in confronto degli altri due.
Nell'Uomo il radio presenta oscillazioni sensibili della sua robusticità. I Giapponesi hanno radî tra i più robusti. I Melanesiani, i Vedda, gli Australiani fra i meno. L'angolo tra il collo e la diafisi è più aperto negli Europei, più piccolo nei Fuegini. Una forte curvatura del radio si può trovare anche nei popoli civili e non ha un grande valore filetico. Lo sviluppo della cresta interossea non ha nessun valore gerarchico, in quanto in alcuni popoli naturali (Ainu) è molto sviluppata, in altri niente affatto. È molto probabile che lo sviluppo diverso della cresta interossea abbia nell'Umanità un valore funzionale, dipenda cioè dall'attività specifica, professionale o altra.
Mano. - Al riguardo dello scheletro della mano dei Primati non abbiamo ancora al giorno d'oggi che lo studio sommario del Mivart, essendo quello della mano uno dei segmenti ossei meno studiati, anche per ciò che riguarda le razze umane. Nell'intiero gruppo dei Primati la lunghezza della mano oscilla fra quella di Tarsius, Chiromys, Hylobates, in cui è la metà della lunghezza della colonna vertebrale, e quella di Arctocebus, nelle Nycticebinae, in cui è meno di un quinto di quella lunghezza. Il carpo considerato nel suo insieme, raggiunge la sua massima lunghezza in Chiromys, Orango e Gibbone, la minima in Loris e Indris. La larghezza supera in genere la lunghezza di molto, essendo ordinariamente il doppio. In Gibbone, Perodicticus, Arctocebus, vi è poca differenza fra le due distanze. La prima serie carpale costituisce sempre, come nell'Uomo, un doppio arco e cioè una convessità nel piano volare data dalle superficie di articolazione coll'avambraccio e una concavità rivolta verso la palma. Nel carpo è da ricordare la presenza in tutti i generi, salvo pochi Lemuri (fra cui alcune specie di Indris) ed il Gorilla, del cosiddetto osso centrale (intermedio di Cuvier). Interessanti sono alcuni fatti presentati dal trapezio. La convessità in senso dorso-volare della sua superficie articolare per il primo metacarpeo è sempre presente. È invece assai variabile il grado della concavità in senso trasversale. Anche negli stessi Antropomorfi questa concavità talvolta è assai piccola o addirittura assente, il che porta per conseguenza che la mobilità del 1° dito è tutt'altro che perfetta. Nel Gibbone la concavità non esiste affatto. Nelle Catarrine, quando si ha concavità trasversale, è sempre leggiera. Nei Lemuri essa, sebbene leggiera, è sempre presente. Ciò è d'accordo col fatto che la funzionalità e lo sviluppo del pollice in queste forme sono sempre buoni, anzi raggiungono il loro massimo appunto nelle Nycticebinae. L'asse della superficie articolare del trapezio per il primo metacarpeo è sempre collocato in guisa che esso forma un angolo con la linea che passa per le 4 articolazioni metacarpo-carpali esterne. Quest'angolo è prossimo però al piatto nel Gorilla, come nell'Uomo; è meno aperto invece nello Scimpanzé, come spesso nelle Catarrine basse. Il primo dito, compresovi il metacarpeo, allorquando è esteso accanto al secondo, lo sorpassa grandemente in Arctocebus e Perodicticus, raggiunge l'estremità distale della 1ª falange nelle Cebidae (in cui non esiste riduzione del secondo), raggiunge press'a poco la metà della prima falange in Tarsius e Chiromys, la sua metà in Lemur, Indris e Galago. Nelle Catarrine basse raggiunge poco più dell'estremità prossimale della prima falange, come in Gorilla e Gibbone. Ancora più corto è nello Scimpanzé e nell'Orango fino a che nelle forme a pollice ridotto (Ateles, Colobus) non raggiunge la metà del secondo metacarpeo.
La più estesa comparazione che sinora possediamo delle ossa della mano nelle razze umane è quella di F. Sarasin. Disgraziatamente essa è puramente metrica ed i suoi risultati hanno perciò un valore limitato. Egli trovò, fra l'altro, che la lunghezza relativa del carpo, come insieme, alla lunghezza del terzo metacarpeo, fa distinguere tre gruppi di razze: 1. a carpo corto (microcarpi) fra cui sono Negri, Negrilli, Negritos, Vedda, Australiani; 2. a carpo medio (mediocarpi) Boscimani, Ottentotti, Fuegini; 3. a carpo lungo (macrocarpi) Polinesiani, Mongoli, Eschimesi, Europei. Gli Antropomorfi sono microcarpi, l'Uomo fossile di Neanderthal è mesocarpo. Il rapporto della larghezza del carpo alla lunghezza del 3° metacarpeo dà risultati assai simili. Per i valori metrici studiati dal Sarasin, l'Orango è l'Antropomorfo che più si allontana dall'Uomo, il Gorilla quello che più gli si avvicina. Vedda, Melanesiani, Australiani, hanno le mani più prossime a quelle degli Antropomorfi, gli Europei quelle che più se ne allontanano. L'uomo fossile di Neanderthal presenta nella sua mano insieme caratteri primitivi ed evoluti. La mano dei Boscimani è la più vicina, fra quelle delle razze studiate dal Sarasin, alle disposizioni europee. Maggior valore ci sembra abbiano i fatti stabiliti dai coniugi Adachi, riguardo alle differenze che passano fra la mano dei Giapponesi e quella degli Europei. Il navicolare è più stretto, più lungo, a foggia di biscotto nei Giapponesi. Il semilunare ha la superficie per il radio più estesa dorsalmente, più spesso ha una faccetta articolare per l'uncinato. Tutte e tre le ossa scafoide, semilunare, piramidale hanno la faccia radiale di articolazione assai più convessa nei Giapponesi. Le ossa della serie distale hanno, tutte e quattro, il diametro prossimo-distale più breve. Il trapezio ha la superficie per il primo metacarpeo più convessa dorso-volarmente, la sua doccia per il flessore del carpo-radiale è assai più profonda. Nel trapezoide le diverse facce articolari per le ossa circostanti s'incontrano sotto angoli più ottusi. Il capitato ha la superficie articolare prossimale più estesa sulla faccia dorsale, il margine ulnare della sua faccia dorsale ha una forte concavità verso l'uncinato. Le faccette articolari delle sue facce radiale e ulnare più spesso confluiscono fra loro. I metacarpei sono sensibilmente più corti, più massicci, specialmente alle loro estremità; le faccette articolari dei capitelli sono più estese, sia dorsalmente, sia volamente.
Bacino. - Prima di procedere alle misurazioni del bacino come un tutto, occorre assicurarsi che le connessioni dei due iliaci fra loro nella regione del pube e quella delle stesse ossa col sacro siano non troppo diverse da ciò che sono nel vivente.
1. Altezza. - Distanza rettilinea dal punto più cefalico della cresta iliaca al punto più distale della tuberosità sciatica (compasso ricurvo). In realtà questa distanza si dovrebbe chiamare lunghezza, ma questa denominazione non è entrata nell'uso neppure per i Primati.
2. Larghezza massima (o larghezza fra le creste). - Distanza rettilinea fra i punti più prominenti verso l'esterno dei labbri esterni delle due creste iliache (compasso scorrevole o ricurvo).
3. Diametro sagittale (o profondità). - Distanza rettilinea del punto più cefalico e più ventrale della sinfisi del pube alla punta del processo spinoso della prima vertebra sacrale. Questo diametro, introdotto dal Verneau, è più consigliabile dell'altro della tecnica del Martin, che fa capo al punto più prominente dei processi spinosi del sacro.
4. Larghezza bicotiloidea. - Distanza rettilinea fra i centri delle due cavità cotiloidee, per le teste femorali (compasso ricurvo).
5. Lunghezza dell'ilio. - Distanza rettilinea dal punto centrale della cavità del cotile al punto più cefalico della cresta iliaca (compasso scorrevole).
6. Lunghezza dell'ischio. - Distanza rettilinea dal punto centrale della cavità del cotile al punto più distale della tuberosità sciatica (compasso scorrevole).
7. Lunghezza del pube. - Distanza rettilinea dal centro della cavità del cotile al margine superiore della sinfisi pubica (compasso scorrevole).
8. Diametro sagittale dell'ingresso del piccolo bacino (detta anche coniugata vera o coniugata ostetrica). - Distanza rettilinea dal punto del promontorio sito sul piano sagittale mediano al punto più cefalico della sinfisi pubica (compasso scorrevole).
9. Diametro trasversale dell'ingresso del piccolo bacino. - Distanza rettilinea fra i due punti più laterali delle due linee arcuate interne, di destra e sinistra. È bene segnare i punti in precedenza (compasso scorrevole).
10. Altezza laterale del piccolo bacino. - Perpendicolare tirata dal punto più distale della tuberosità sciatica alla linea arcuata interna (compasso scorrevole).
11. Angolo d'inclinazione del bacino (detto anche angolo d'inclinazione della coniugata vera). - La determinazione di quest'angolo è basata sul presupposto che il bacino nel vivente sia disposto in modo che le due spine anteriori superiori di destra e di sinistra (v. osseo, sistema) e il punto più alto della sinfisi pubica siano in un piano verticale (piano di von Meyer). In verità questo presupposto è solo un'approssimazione alla realtà delle cose. Accettato questo presupposto, il metodo più semplice è quello di collocare il bacino sopra un piano orizzontale, in modo che appunto le due spine anteriori superiori e la parte più cefalica della sinfisi pubica entrino in contatto con il piano di appoggio. Si applica, con un po' di cera, un ago di acciaio sul punto di mezzo del promontorio e sul punto più cefalico della sinfisi pubica, e si legge, sopra un quadrante trasparente l'angolo che questo ago fa col detto piano. Il complemento di questo valore è l'angolo ricercato.
Il Sera applicò il suo metodo di analisi tridimensionale della forma (v. cefalici, indici) all'analisi del bacino; per poter utilizzare però i fogli grafici da lui proposti, la convenzione da lui adottata per il cranio va modificata in modo che le linee di lunghezza divengano linee di larghezza e viceversa. Per le proiezioni dei casi naturalmente ci si vale degl'indici di lunghezza-larghezza e di altezza-larghezza. L'applicazione del metodo del Sera al grande bacino è soggetta a riserve, soprattutto negli Antropomorfi, perché per questi, ma anche per alcuni gruppi umani, sebbene in misura minore, la dimensione detta di lunghezza (o profondità) diviene, per lo stiramento cefalico-caudale del grande bacino di cui diremo, quasi un'altezza. Il metodo invece va benissimo per il piccolo bacino, perché le distanze rappresentative delle tre dimensioni in questo segmento sono sempre perpendicolari l'una all'altra.
Press'a poco come nel Mammifero generalizzato, il van der Broek distingue nell'ilio dei Primati tre facce e tre margini. Una prima faccia è il cosiddetto planum sacrale. Esso è dato dalla faccia rivolta, nella sua porzione superiore, alla colonna vertebrale, nella inferiore al piccolo bacino; per cui è distinta in due parti; l'una, superiore, che contiene la facies auricularis per il sacro e la tuberositas iliaca (che è la porzione della faccia interna collocata sopra la facies auricularis), l'altra, inferiore, che è rivolta al piccolo bacino. Una seconda faccia è il cosiddetto planum iliacum, che guarda all'interno e all'innanzi. Esso è separato dal planum sacrale per la linea terminalis dell'anatomia comparata (linea innominata dell'anatomia umana). Si chiama linea limitans un rilievo che, partendo dal punto in cui la linea terminalis raggiunge la facies auricularis, delimita dapprima questa all'innanzi e poi ascende alla cresta iliaca. L'una e l'altra insieme costituiscono il margo pubicus, che così separa l'una dall'altra le due facce già nominate. La terza faccia è il planum gluteale, più o meno scavato e concavo generalmente e che guarda all'esterno. Il margo acetabularis divide il planum iliacum dal planum gluteale. Il margo ischiaticus divide invece il planum gluteale dal sacrale. Nel primo tipo locomotorio il piano sacrale più o meno predomina sul piano iliaco, che in alcune forme, persino (Hapalidae), è ridotto ad una larghezza di pochi mm. Il piano sacrale superiore è disposto quasi sagittalmente e la distanza che passa fra quello di destra e quello di sinistra è notevole rispetto alla larghezza massima del bacino. L'ingresso del piccolo bacino è formato da due piani che s'incontrano con un angolo superiore al retto ma distante dal piatto (angolo ilio-pubico del Mivart). Uno dei due piani è formato dalle due linee limitanti, l'altro dai due margini superiori delle ossa pubiche di destra e di sinistra. L'ilio infine è del tutto o quasi allineato con l'ischio, cioè non forma mai con esso un angolo molto inferiore a 180°. Nel secondo tipo locomotorio, il piano sacrale è piuttosto esteso, ma il piano iliaco si è accresciuto. Il primo è molto forte in alcuni Macachi, formando col piano iliaco un angolo ben netto, onde il piano gluteale diviene concavo trasversalmente. Si presenta qua, raggiungendo il suo massimo in Mandrillo, spesso, una disposizione un po' obliqua del piano sacrale, cioè non più sagittale. Non esiste più l'allineamento dell'ilio sull'ischio, pur non avendosi ancora gli angoli degli Antropomorfi. Il sacro fa con l'asse dell'ilio in certe forme di questo gruppo (Mandrillo) angoli piuttosto forti. La forma cilindrica del bacino è perduta più o meno, venendosi a costituire una differenza di larghezza più o meno sensibile fra grande e piccolo bacino. Per il gruppo dei Gibboni abbiamo differenze non trascurabili nel bacino delle piccole specie, in confronto del Symphalangus. Nelle prime il piano sacrale è discretamente sviluppato e a direzione prevalentemente sagittale. Nel secondo il piano sacrale è scarsamente sviluppato e disposto obliquamente, quasi nella stessa direzione del piano iliaco. Sintetizzando le caratteristiche del bacino negli Antropomorfi si può dire che in essi si verifichi un forte aumento della larghezza e dell'altezza e una forte diminuzione della profondità, del diametro cioè dorso-ventrale. L'allargamento è ottenuto sia con una disposizione frontale della paletta iliena, sia con un vero allargarsi di essa in superficie. L'aumento in altezza si verifica come se il bacino subisse uno stiramento nel senso cefalico-caudale, onde l'ingresso del piccolo bacino diviene verticale. Le dette disposizioni si verificano al massimo nell'Orango e nel Gorilla e meno nello Scimpanzé. Mentre poi il bacino dello Scimpanzé si avvicina a quello del Gibbone delle piccole specie, quello degli altri due Antropomorfi si avvicina a quello del Symphalangus. Nei due grandi Antropomorfi in definitiva l'ilio tenderebbe persino ad essere allineato col pube, non solo, ma l'allineamento ilio-pube è disposto quasi nella direzione stessa della corda della concavità ventrale della colonna vertebrale. Lo scopo di queste disposizioni del bacino antropoidico è quello di migliorare la condizione dell'arrampicamento. Lo spostamento dorsale infatti della cavità del cotile determina (insieme con l'arto posteriore corto, che vedremo oltre) un avvicinamento massimo possibile del tronco dell'animale all'albero da scalare; quindi una condizione migliore per l'attività trattoria dell'arto anteriore, il quale può così assumere una posizione più prossima alla verticale, onde la sua flessione ha un effetto verticale massimo. L'allargamento e la frontalità della paletta iliaca trovano la loro ragione nella necessità di sostenere i visceri in una posizione la più elevata possibile, allo scopo di sollevare al massimo il centro di gravità del corpo. Questo scopo è evidente anche in alcune disposizioni del peritoneo degli Antropomorfi ed è tanto più necessario, data la dieta erbivora degli animali, che richiede l'introduzione di una enorme quantità di cibo.
Lo studio più esteso del bacino delle razze umane, per numero di casi misurati e per numero delle misure prese, è ancora quello del Verneau. Un buono studio per molte razze è quello del Turner. Fecero un accurato studio del bacino dei Giapponesi e degli Ainu Koganei e Osawa, del bacino degli Australiani lo Scharlau. Il Sera applicando il suo metodo di analisi tridimensionale, poté stabilire, più sicuramente di ciò che non fosse stato fatto, come il bacino femminile, in tutte le razze, sia soprattutto più basso, in confronto del maschile, quindi più lungo (più profondo) ed infine più largo. La diminuzione del diametro di altezza si porterebbe in certa guisa sugli altri due diametri. La variazione del bacino maschile ha scarsa interferenza con la variazione del femminile, il che significa che la forma generale del bacino è un buon carattere di distinzione sessuale. L'indice ilio-pelvico è ancora un buon carattere per tale differenziazione (G. Sergi). Nelle medie etniche del Verneau, il Sera distinse due gruppi di forma nei bacini maschili; uno a grande bacino soprattutto più largo qundi più corto e un po' meno alto e l'altro soprattutto più stretto quindi più lungo e di poco più alto. Al primo gruppo apparterrebbero in primo luogo gli Europei che costituiscono il nucleo centrale del gruppo, poi Lapponi, Turchi, Egiziani, Indù, Hawaiani, Charrua, ecc., al secondo Nubiani, Negri del Mozambico, Negri Bornu, Cabili, Tongani, ecc. Ricordiamo che dai dati del Prochownick sul vivente risultano forti differenze fra i popoli europei per la forma generale del bacino. Così i Tedeschi avrebbero il bacino più largo, corto e basso fra tutti quelli misurati da questo autore, e cioè Romeni, Magiari, Slavi del Nord, Zingari, Ebrei. Questi ultimi avrebbero il bacino più lungo, più stretto e più alto. Le differenze fra i gruppi etnici per il piccolo bacino sono assai più marcate e permettono una divisione di più gruppi di forme. Tali differenze, però, come del resto quelle del grande bacino, non si possono dire, strettamente parlando, di valore raziale, ma solo si può affermare che esse hanno un valore statico-meccanico. Quindi si può dire che un certo determinato tipo di piccolo bacino caratterizza un certo numero di razze, che possono essere in realtà assai diverse tra loro, per il complesso dei restanti caratteri, e per i caratteri, soprattutto, più importanti. Al Sera è riuscito di distinguere cinque tipi di forma diversa del piccolo bacino o, per essere più precisi, 4 tipi distinti l'un dall'altro e un quinto, sotto molti rispetti, intermediario fra gli altri quattro. In un primo tipo sono comprese forme estremamente larghe, corte e di altezza media. A questo appartengono Europei, Lapponi, Turchi, Egiziani, Indù, Botocudo, Hawaiani, Annamiti, come si vede perciò molti dei gruppi che hanno nel grande bacino una forma simile. Al secondo tipo, orientato verso forme piuttosto strette e corte, ma molto alte, le più alte, fra tutte, appartengono in complesso i Negri. Anche qua noi abbiamo una corrispondenza con le forme del grande bacino. Il terzo tipo contiene forme a piccolo bacino piuttosto lungo, ma molto stretto e piuttosto alto. Questo tipo comprende molti Negri e molti Australiani e un gruppo etnico americano, i Charrua. Il quarto tipo abbraccia forme mediocremente larghe o strette, lunghe e molto basse. È il tipo che ha la massima affinità col piccolo bacino degli Antropomorfi e soprattutto dell'Orango e del Gorilla. Ad esso si possono attribuire i piccoli bacini degli Australiani, dei Boscimani, dei Malesi. Un elemento importantissimo anche per le questioni relative alla stazione e deambulazione sarebbe l'inclinazione; ma essa è desumibile solo in guisa approssimata da condizioni intrinseche al bacino. L'osservazione del vivente c'insegna che essa inclinazione è molto forte soprattutto nei Boscimani e negli Ottentotti, ma è anche forte negli Australiani, nei Malesi e in molti Negri. Disgraziatamente riguardo ad essa abbiamo, anche per il vivente, poche osservazioni rigorose. Dati a sufficienza comparabili ne abbiamo solo per alcune popolazioni europee, per i Giapponesi e per gli Ainu. L'inclinazione del bacino sarebbe così assai piccola nelle donne dell'Estonia (Weinberg).
Femore. - 1. Lunghezza totale nella posizione fisiologica. Perpendicolare calata dal punto più alto della testa ad un piano tangente ai punti più distali dei condili (tavoletta osteometrica). 2. Diametro sagittale della diafisi. Diametro dalla superficie ventrale alla prominenza della linea aspera al livello della metà della lunghezza diafisaria (compasso scorrevole). 3. Diametro trasversale della diafisi. Diametro trasversale allo stesso livello del precedente e perpendicolarmente ad esso. 4. Circonferenza della diafisi alla metà dell'osso (nastro metrico). 5. Diametro trasversale superiore della diafisi. Diametro trasversale della parte superiore della diafisi, al livello della massima larghezza sotto la base del trocantere minore e parallelamente all'asse del collo (compasso scorrevole). 6. Diametro sagittale superiore della diafisi. È il diametro perpendicolare al precedente e preso naturalmente allo stesso livello (compasso scorrevole). 7. e 8. Curvatura della diafisi. Si determina in primo tempo la lunghezza della corda della curvatura sulla convessità ventrale dell'osso. Si misura quindi la distanza da detta corda del punto più prominente della convessità. Le due misure si prendono facilmente, facendo uso della tavoletta osteometrica, sul piano della quale sono tracciate rette perpendicolari fra loro, in corrispondenza della divisione in centimetri e millimetri. L'osso viene applicato sulla tavoletta col suo lato esterno. 9. Torsione. Angolo che l'asse del collo fa con l'asse di movimento dell'estremità distale, rispetto ad un piano perpendicolare alla lunghezza diafisaria. Una volta materializzati, con degli aghi di acciaio applicati con della cera, i due assi, si dispone l'osso verticalmente e si prende con uno strumento di proiezione grafica qualsiasi la traccia di entrambi gli assi sul piano orizzontale. L'angolo fra queste due tracce è l'angolo ricercato. 10. Angolo collo-diafisario. È l'angolo che l'asse del collo fa con l'asse diafisario. Di solito i due assi vengono tracciati per mezzo di una matita sulla superficie ventrale (anteriore) dell'osso e l'angolo interno-inferiore da essi formato si legge con un comune quadrante trasparente.
Categorie dell'indice: platimerici: x − 85; eurimerici: 85 − 100; stenomerici: 100 − x.
Nel primo gruppo locomotorio il femore è slanciato, diritto, con estremità epifisarie relativamente strette. La sezione della diafisi è più lunga nel senso dorso-ventrale che nel trasversale, ovvero è circolare, non mai piatta nello stesso senso. Il collo è di solito corto; il grande trocantere è allo stesso livello o sormonta il livello della testa. I condili visti distalmente hanno uno sviluppo piuttosto sensibile nella direzione dorso-ventrale e divergono alquanto dorsalmente. L'esterno è un poco più lungo dell'interno o uguale ad esso. I rilievi che limitano all'esterno e all'interno la troclea per la patella sono piuttosto ravvicinati e la gola che essi delimitano è profonda. Il rilievo esterno di solito si spinge più in alto dell'interno. Questi caratteri si accentuano nelle forme di questo tipo più veloci e con maggiore disposizione al salto. La torsione dell'osso è variabile, ma sempre positiva, talvolta sensibile (Semnopithecus).
L'osso del secondo gruppo locomotorio è più massiccio e tozzo, meno diritto in genere, anzi talvolta con una sensibile convessità ventrale, con estremità epifisarie assai larghe. La sezione della diafisi differisce poco in genere da quella del gruppo precedente. Vi è tendenza ancora maggiore a formare un rilievo analogo alla linea aspera del femore umano. Valgono per il collo e per il grande trocantere le stesse cose osservate per il primo tipo. Il terzo trocantere in genere è assente, i condili sono sviluppati in senso dorso-ventrale, ma press'a poco uguali in lunghezza. I rilievi che limitano la troclea patellare sono più distanziati generalmente e, sulla faccia ventrale, rimontano cefalicamente press'a poco nella stessa misura. La torsione dell'osso è positiva, ma scarsa sempre. Il femore nel Gibbone è slanciatissimo, ad aspetto di corda. Le estremità epifisarie sono fra le più strette di tutto il gruppo dei Primati. La sezione è perciò circolare. Il collo è cortissimo. Il grande trocantere arriva col suo livello massimo al disotto del livello massimo della testa. Terzo trocantere assente. I condili sono mediocremente lunghi ed uguali. L'esterno ha una direzione perfettamente dorso-ventrale, l'interno un po' dall'innanzi e dall'esterno verso dietro e l'interno. I rilievi che contornano la troclea patellare sono discretamente distanti, ma la gola, malgrado ciò, è piuttosto profonda. Il rilievo esterno si spinge un po' più verso l'alto. La torsione è positiva, ma debole (5°-10°). Il femore dei tre Antropomorfi presenta differenze sensibili fra l'uno e l'altro. Il Gorilla ha l'osso più massiccio, più robusto, ad esso segue lo Scimpanzé ad una certa distanza e quasi immediatamente a questo segue l'Orango. Le estremità epifisarie sono assai forti, specie nel Gorilla. La sezione della diafisi è sempre più o meno appiattita, tanto in basso, quanto alla metà, ma nel Gorilla e nello Scimpanzé in alto, cioè nella regione cosiddetta platimerica (v. oltre), non è tale, solo l'Orango presentando in questa regione un forte appiattimento dorso-ventrale. La linea aspera non esiste, ma solo si presentano due rilievi distanti l'uno dall'altro parecchi millimetri. Il collo è piuttosto lungo e la testa supera fortemente il livello del grande trocantere. Il terzo trocantere è sempre assente. I condili sono nel Gorilla, e nell'Orango soprattutto, piuttosto corti dorso-ventralmente. L'interno è molto più sviluppato dell'esterno, così in lunghezza, come in larghezza ed è rivolto, col suo asse, fortemente verso l'interno. La troclea patellare è larga e poco profonda. La torsione dell'osso è positiva, ma piccola, in Gorilla e Scimpanzé, addirittura negativa in Orango.
L'indice di robusticità dimostra differenze non insensibili fra le razze umane diverse. I Negri hanno i femori più slanciati, i Giapponesi fra i più massicci, l'Uomo fossile di Neanderthal ancora più robusti. Raramente il femore umano è perfettamente diritto, di solito si presenta con una curvatura a convessità ventrale, che può essere più o meno forte. Il punto di massima curvatura è sito d'ordinario al disopra della metà della lunghezza. Allorquando la linea aspera è fortemente rilevata si dice che il femore è a pilastro. In tal caso, l'indice, detto pilastrico, raggiunge valori assai superiori a 100 anche nelle medie. Diamo qualche esempio in proposito: il più basso indice pilastrico medio è dato dai Giapponesi con 100. Seguono gli Aino con 103; i Malesi con 104; i Francesi attuali con 108; i Negri con 108; i Polinesiani con 110; i Patagoni con 111; i Melanesiani con 115; gli Eschimesi con 118; gli Australiani con 122; la variazione individuale è fortissima nei gruppi diversi. Molti autori sostengono che la curvatura determini uno stimolo formativo nella regione della linea aspera, che produce un accumulo di materiale osseo maggiore, onde appunto la produzione del pilastro. Bumüller giustamente osserva che tale stimolo formativo si comprenderebbe meglio sulla parte anteriore dell'osso. Manouvrier attribuisce curvatura e pilastro all'azione plasmatrice del crurale o vasto medio del quadricipite. Il bisogno di spazio dell'inserzione di origine di questo muscolo determinerebbe un respingimento verso dietro del labbro esterno della linea aspera. Il muscolo produrrebbe anche la escavazione della faccia esterna che così spesso accompagna un forte pilastro. La principale obiezione alla teoria del Manouvrier è che esiste curvatura senza pilastro e pilastro senza curvatura. In realtà, ancora non possediamo una teoria soddisfacente della genesi dei due fatti.
Dopo Manouvrier si chiama platimeria un appiattimento dorso-ventrale della sezione della regione superiore della diafisi, sotto il piccolo trocantere. Questo appiattimento, quale è espresso dall'indice platimerico, ha una forte variazione etnica, come si può constatare dai pochi esempî che diamo: Maori 64; Ainu 73; Neolitici francesi 75; Giapponesi 75; Andamanesi 78; Bantu 81; Melanesiani 82; Europei 85-86. La correlazione dell'indice platimerico con l'indice pilastrico non è univoca. Molte razze dimostrano con più forte platimeria associato un più basso indice pilastrico. Ma al contrario nei Fuegini si riscontra platimeria forte associata con alto indice. Il Sera pensa che sotto il nome di platimeria vanno parecchie conformazioni, che non hanno in comune altro che i valori numerici bassi dell'indice e che soprattutto bisogna distinguere un allargamento esterno ed uno interno, che sono dovuti a cause essenzialmente diverse. Il Manouvrier attribuisce anche la genesi della platimeria all'azione del crurale, che con un allargamento esterno della zona in questione cercherebbe di aumentare la propria zona di origine. Il Bumüller fa intervenire nella produzione dell'allargamento interno il vasto interno. L'oscillazione etnica della torsione è molto forte, come provano alcune poche cifre medie che diamo: Svizzeri 8°; Giapponesi 11°; Francesi 14°; Malesi 17°; Equatoriani antichi 19°; Patagoni 22°; Polinesiani 27°; Maori 40°. Riguardo alla produzione della torsione Le Damony stabilì che nei primi tempi della vita embrionale la torsione è di 0°. Dopo il quarto mese comincia la torsione che nell'epoca della nascita raggiunge una media di 40°, cioè superiore a quella dell'adulto in quasi tutti i gruppi etnici. Dopo la nascita si verifica una detorsione che porterebbe l'angolo al valore caratteristico per l'adulto. L'angolo collo-diafisario ha un'oscillazione etnica meno forte, che va da 121° di alcuni Americani a 133° degli Svizzeri. È probabile che influenze statico-meccaniche, professionali o simili, abbiano molta influenza nei valori di quest'angolo, come del resto prova la forte variazione individuale all'interno delle serie. Un certo interesse hanno anche alcune formazioni site dietro e sotto il grande trocantere, come il terzo trocantere, la cresta e la fossa ipotrocanterica. Le condizioni della loro formazione sono però ancora più oscure, se è possibile, dei caratteri che abbiamo visto.
Tibia. - 1. Lunghezza totale. Differenza di livello fra la faccia articolare del condilo esterno e la punta del malleolo interno (tavoletta osteometrica). La differenza di livello si ha immediatamente ponendo l'osso col suo asse parallelamente alle linee di lunghezza del piano della tavoletta. 2. Diametro massimo della diafisi alla metà. Distanza massima dalla cresta anteriore della tibia alla faccia posteriore, al livello della metà (compasso scorrevole). 3. Diametro trasverso della diafisi alla metà. Diametro trasversale dal margine interno alla cresta interossea, allo stesso livello del precedente (compasso scorrevole). I diametri [2] e [3] si prendevano un tempo al livello del forame nutritizio dell'osso; ma ora viene consigliato per migliore uniformità di prenderli alla metà. 4. Circonferenza minima. Questa circonferenza cade ordinariamente ad altezza variabile nel terzo distale dell'osso (nastro metrico). 5 e 6. Curvatura della diafisi. Si determina in primo tempo la lunghezza della corda della curvatura, prendendo, come espressione di essa, la convessità ventrale dell'osso e misurando la distanza fra i due punti estremi di essa convessità. Si misura poi la distanza fra detta corda e il punto più prominente della convessità. Le due misure si prendono facilmente a mezzo della tavoletta osteometrica, applicando l'osso, per il suo lato interno, sulla tavoletta. Non si parla qui dell'inclinazione e della retroflessione della testa della tibia, perché la tecnica attuale, soprattutto del secondo fatto, è lungi dall'essere soddisfacente. 7. Torsione. Angolo che l'asse trasversale delle due facce articolari prossimali fa con l'asse trasversale dell'articolazione distale. L'asse prossimale viene determinato materialmente applicando con cera un ago di acciaio, che passi per i due centri delle due facce articolari prossimali. Un altro ago viene applicato a rappresentare l'asse distale. L'osso è posto in posizione verticale. Quindi, mediante un qualunque apparato grafico, viene presa sopra un foglio di carta, posto sul piano di appoggio, la traccia di entrambi gli assi. L'angolo interno ventrale che essi determinano è l'angolo ricercato.
Le categorie comunemente date dagli autori si riferiscono all'indice cnemico, e sono le seguenti: platicnemici: × − 63; mesocnemici: 63 − 70; euricnemici: 70 − x.
Nel primo gruppo locomotorio la tibia, come le altre ossa lunghe dell'arto posteriore, è piuttosto slanciata. Nella sua parte superiore ordinariamente l'osso è compresso bilateralmente, onde la sezione ha l'aspetto di un triangolo isoscele a base stretta. La faccia esterna dell'osso è longitudinalmente scannellata e non presenta cresta interossea. Nella metà inferiore dell'osso quest'aspetto diminuisce gradualmente, passando ad una forma più o meno cilindrica, che però non è mai raggiunta completamente. Non si può dire che esista in genere una curvatura distribuita su tutta l'estensione dell'osso, ma si ha ordinariamente una retroflessione dell'estremità superiore. Le due facce articolari prossimali per i condili femorali sono site sulla parte posteriore del plateau epifisario, inclinate dall'alto al basso e dal ventre al dorso, però in maggior misura l'interna che l'esterna. Del resto questa è una disposizione quasi generale per i Primati, compreso l'Uomo. È anche quasi una disposizione generale che la faccia articolare interna è concava nei due sensi, mentre l'esterna è convessa in senso dorso-ventrale, piana in senso trasversale. Per esser meno inclinata e convessa essa perciò appare sita ad un livello superiore, soprattutto se si guarda l'osso dalla sua parte dorsale; ma esaminandolo con attenzione, dalla parte ventrale, si constata che la faccia interna nel suo tratto più ventrale è sita ad un livello lievemente più alto dell'esterna (Sera). Anche questo fatto vale per tutti i Primati, certamente ancora per il secondo gruppo locomotorio. Le due facce articolari sono nel primo gruppo locomotorio press'a poco uguali in estensione. La torsione dell'osso pare essere di solito positiva, ma debole. La tibia del secondo gruppo locomotorio è piuttosto tozza e massiccia. La sezione della diafisi perde in genere l'aspetto di triangolo isoscele, essendo il diametro dorso-ventrale alquanto più piccolo nel rapporto col trasversale, in confronto di quello che è nel primo tipo; solo nella parte più alta, in corrispondenza dell'inserzione del tendine del quadricipite, si ha un diametro dorso-ventrale forte; in altri termini, la tuberosità tibiale è prominente. La faccia esterna dell'osso è poco scavata. La curvatura è meno pronunciata e limitata alla parte più prossimale, con una vera retroflessione della testa. La torsione è debolmente positiva o nulla. La tibia del Gibbone è una delle più slanciate dell'intiero gruppo dei Primati. Essa ha nella sua sezione una forma compressa bilateralmente, che si estende assai in basso, ma non ha gli spigoli che separano le facce così marcati come nel primo gruppo. L'osso è diritto, salvo per 1/8 o 1/10 prossimale, che è un po' retroflesso. La torsione dell'osso è −7°,5. La tibia degli Antropomorfi è alquanto diversa dall'uno all'altro. La tibia più corta è quella dell'Orango. Tutte e tre però sono massicce. L'indice di platicnemia (v. oltre) dà la tibia più compressa bilateralmente allo Scimpanzé, la meno all'Orango, che è caratterizzato dal più piccolo diametro dorso-ventrale della sezione. La tibia dell'Orango è diritta affatto, quella dello Scimpanzé è incurvata più o meno, per tutta la sua lunghezza; quella del Gorilla presenta retroflessione accentuata. Le facce articolari prossimali nell'Orango sono molto estese e giungono entrambe molto innanzi ventralmente. Nel Gorilla però l'esterna è più corta, e nello Scimpanzé essa è più corta ancora. Le facce stesse in Orango sono poco inclinate all'indietro. La faccia esterna è sempre convessa in senso antero-posteriore. Essa è sempre più elevata alquanto dell'interna, vista dorsalmente. La torsione è sempre negativa ed ha il massimo valore assoluto in Orango, il minimo nello Scimpanzé.
Per le razze umane il più basso indice di robusticità è posseduto dai Negri (19,8); il più alto, fra le forme attuali, dagli Ona (21,5). Ma i dati sono finora scarsi. Assai robusta è la tibia dell'Uomo di Neanderthal (24,0). Il carattere più studiato è la platicnemia. È questa un appiattimento della regione del secondo quarto della tibia, che si manifesta per lo più con una sorta di escavazione dell'osso a questo livello, nella sua parte esterna e posteriore, sita dietro la cresta interossea, nella zona di origine del tibiale posteriore. Diamo alcuni esempî dei valori dell'indice: Neolitici francesi 63; Negriti 63; Neocaledoni 64; Guanci 66; Svizzeri 71; Negri 72; Giapponesi 74. Il Manouvrier ritenne che la diminuzione del diametro trasversale della tibia sia dovuta ad un maggiore sviluppo del tibiale posteriore, che in tal guisa plasmerebbe l'osso per crearsi un maggiore spazio d'inserzione. A sua volta, lo sviluppo forte del tibiale posteriore sarebbe determinato dall'esigenza di una più intensa attività del muscolo (nella sua funzione inversa, di sostegno della tibia e quindi del corpo intiero) resa necessaria da un cammino in flessione, esercitato dai primitivi, in terreni privi di strade o disuguali. Questa marcia o corsa in flessione sarebbe l'attività determinante non solo della platicnemia, ma della retroversione della testa della tibia e della platimeria del femore. A questa teoria del Manouvrier, difesa anche dal Vallois, sono state fatte molte obiezioni, ed essa appare al giorno d'oggi sempre meno soddisfacente. Per la torsione esistono forti differenze fra le razze umane. I più bassi valori sono presentati dai Giapponesi con 13°; seguono i Negri con 18°; i Francesi con 19°; gli abitanti antichi dell'Ecuador con 20°; i Melanesiani con 22°. Anche nelle razze umane si hanno differenze di curvatura della faccia esterna dell'articolazione prossimale della tibia, che è convessa più o meno in certi primitivi. La cosa è stata posta in relazione con l'abitudine della posizione accoccolata, presa molto spesso da certi primitivi.
Perone. - Quest'osso è sempre separato completamente, sebbene non mobile, dalla tibia, salvo in Tarsius, nel quale esso è fuso distalmente con la tibia. In alcune forme è così sottile e slanciato com'è nell'Uomo. Si può dire praticamente diritto, in generale, ma in realtà quasi sempre presenta una lieve curvatura. La sua testa è molto grossa nelle Nycticebinae. La faccia articolare dell'estremità inferiore è assai variabile nei diversi generi. Le scannellature dell'osso, così caratteristiche dell'Uomo, sono piuttosto rare in complesso. Nelle razze umane l'osso è fortemente influenzato dalle variazioni di sviluppo dei muscoli, che vi prendono inserzione o che lo circondano, onde talvolta è così profondamente scannellato, che la sua sezione assume un aspetto raggiato, talaltra invece esso è liscio. Secondo Klaatsch, esisterebbero differenze raziali nella direzione dell'osso, rispetto a quella della tibia, ma la cosa non è sicura.
Piede. - Il Weidenreich nota giustamente che non è possibile concepire il piede delle Scimmie (e a maggior ragione quello dei Primati) come morfologicamente e funzionalmente unitario. Fra il piede degli Antropomorfi e quello dei Cercopitecidi passano differenze che sono determinate dal fatto che questi dimostrano caratteri di specificazione cursoriale, mentre i primi, anche nel Gorilla, conservano relativamente puro il tipo dell'animale arboreo. Questo si esprime, innanzi tutto nell'uso che i Cercopitecidi fanno nella locomozione del segmento distale dei metatarsei e nella capacità, con quello legata, della flessione dorsale delle prime falangi, cosa che manca completamente agli Antropomorfi, e inoltre nella più forte capacità di appoggio del margine mediale del piede per sviluppi locali delle ossa del tarso. In tutte le Scimmie si trova che lo scheletro del piede ha portato a completo sviluppo l'arco di aggrappamento, il cui punto di appoggio posteriore non è costituito dal calcagno, ma dall'appoggio cuboideo. Allorquando il piede nelle Scimmie è posto sul terreno, in pieno contrasto con ciò che accade per l'Uomo, si verifica una convessità plantare nel territorio dell'articolazione calcaneo-cuboidea. Soltanto negli Antropomorfi, ritiene il Weidenreich, si aggiunge a questo appoggio quello del tubercolo del calcagno. Ma la principale caratteristica del piede scimmiesco, di tutti i Primati, anzi, è quella di una straordinaria mobilità di tutte le articolazioni, condizione resa necessaria dall'adattamento alle svariate condizioni di contatto del piede sugli alberi. Il piede dei Primati è un piede molle, quello dell'Uomo è un piede rigido. Nell'andatura quadrupede della generalità dei Primati, questa mobilità, nei tratti posteriori del piede, ha una parte minore che presso gli Antropomorfi che procedono semieretti e che per il forte peso corporeo debbono utilizzare anche la parte più all'indietro del piede. Il Weidenreich ha dato tre schemi, che riproduciamo, per i tre tipi da lui distinti: il tipo delle Scimmie cursoriali, il tipo antropomorfo, che sarebbe più proprio dell'Orango e dello Scimpanzé, e il tipo dell'Uomo. In questi schemi l'astragalo è rappresentato insieme al calcagno. Il piede o meglio il suo margine esterno, come il più semplice a comprendere, è diviso in cinque segmenti: 1. calcagno; 2. cuboide; 3. metatarso; 4. prima falange; 5. seconda e terza falange.
I punti di appoggio sono indicati nelle figure con sottolineature e con i nomi di appoggio calcaneo, cuboideo, capitolare e digitale.
Nel tipo cercopitecida, il piede nella stazione riposa sull'appoggio cuboideo e su quello digitale, il calcagno è tenuto col suo tuber sollevato in alto, i capitelli dei metatarsei non riposano sul terreno, l'arco di aggrappamento è insieme arco di appoggio.
La gamba è inclinata verso l'innanzi, il piede è in flessione dorsale e la linea di gravità del peso corporeo passa per i segmenti anteriori del piede. Nella locomozione il calcagno e l'appoggio cuboideo vengono sollevati e in luogo di essi subentra l'appoggio capitolare, e l'appoggio digitale è mantenuto. Nel tipo antropomorfo, l'attitudine semieretta, dipendente, è bene ripeterlo, dalla forte lunghezza delle braccia e non da una disposizione in senso umano, rende necessario un appoggio sito più indietro. È questo l'appoggio del tubercolo calcaneo. L'appoggio cuboideo permane e permane l'arco di aggrappamento che nell'Orango (che ha dita lunghissime e arcuate nei diversi segmenti) è ancora più sviluppato. Non essendo possibile una flessione dorsale delle dita nell'articolazione metatarsofalangea, l'appoggio capitolare non esiste. L'appoggio digitale viene rafforzato mediante chiusura delle dita nel palmo della mano, mentre esse vengono poste sul terreno per la loro parte dorsale. Il piede umano mostra un tipo affatto diverso. L'arco di aggrappamento non esiste. Invece è sorto un nuovo arco di sostegno. L'attitudine eretta completa carica l'estremità inferiore di tutto il peso corporeo, che a ragione del raddrizzamento della gamba viene trasferito sul segmento posteriore del piede. Il piede è in una posizione fissa di flessione plantare. L'appoggio calcaneo è l'appoggio posteriore del nuovo arco di sostegno. L'appoggio cuboideo è abolito completamente. I capitelli dei metatarsei costituiscono l'appoggio anteriore dell'arco di sostegno. L'appoggio digitale non esiste praticamente parlando. Nella deambulazione e nella corsa entra in attività solo l'appoggio capitolare. Le articolazioni sono fissate nell'arco di sostegno e non permettono scorrimenti degli elementi ossei.
Passiamo ora alla considerazione delle singole regioni del piede e dei suoi elementi. La lunghezza del tarso è ordinariamente, in confronto di quella del piede, compresa, nei Primati, fra 2/5 e 3/10; ma nel Gibbone essa è minore e nell'Orango ancora di più. Il calcagno è straordinariamente allungato, insieme col navicolare, nei due generi di Lemuri Galago e Tarsius (onde appunto il nome di quest'ultimo) che sono saltatori specializzati. Quella parte posteriore del calcagno, che è detta tuberosità, può presentare uno sviluppo dorsale e uno plantare o entrambi. Lo Scimpanzé e l'Orango, ad es., manifestano entrambi gli sviluppi. Il Gorilla, quasi unico fra i Primati, presenta la sola prominenza inferiore. Tutte le forme più basse dei Primati presentano la sola prominenza dorsale. In generale le facce esterna e interna del calcagno non sono verticali, come nell'Uomo, ma sono così rotate, che l'asse maggiore dorso-plantare della tuberosità forma un angolo più o meno acuto col piano del sustentaculum tali. Per questo carattere l'Orango, e meno il Gibbone, si avvicinano all'Uomo, lo Scimpanzé invece e il Gorilla, come le forme basse, presentano una tale rotazione che la faccia esterna guarda fortemente verso il basso. Tale carattere è al suo massimo nelle Nycticebinae, fra le quali Loris presenta quasi contatto fra la tuberosità rivolta verso l'innanzi, l'alto e la parte posteriore dell'astragalo. La faccia inferiore del calcagno, stretta sempre più o meno in senso trasversale nei Primati, è fortemente concava, in senso antero-posteriore, nel Gorilla e nello Scimpanzé; nelle forme basse è di solito rettilinea. La parte del calcagno sita dietro alla superficie articolare per l'astragalo è lunga in genere nelle forme non strettamente arboree, breve in queste, come l'Orango. Nelle forme più spiccatamente saltatorie, la lunghezza del calcagno, sita innanzi alla superficie anzidetta, è molto forte. L'astragalo presenta sensibili differenze nella lunghezza del collo. Esso è quasi sempre più lungo che nell'Uomo; ciò soprattutto si verifica nell'Orango. Lo Scimpanzé però, e soprattutto il Gorilla, lo hanno cortissimo. Il collo lungo perciò è connesso con la vita arborea, il collo corto con la frequentazione del terreno. La troclea è sempre convessa antero-posteriormente, concava in senso trasversale, ma la convessità è meno marcata nel Gorilla, più marcata nelle forme basse. L'angolo formato dalla superficie malleolare interna della troclea con la superficie superiore di essa è in genere più ottuso, mentre quello formato dalla superficie superiore stessa con la malleolare esterna è più acuto. Come è noto, nell'Uomo questi angoli sono entrambi prossimi più o meno al retto. Ma vi sono eccezioni a questa regolarità. La testa dell'astragalo è nelle forme più strettamente arboree (Orango, Ateles, Loris) stretta in senso dorso-plantare, fortemente convessa nel trasversale. La superficie anteriore di articolazione col calcagno sul collo dell'osso è assai forte nelle forme basse. Essa è in genere convessa. Il navicolare è straordinariamente lungo, in Galago e Tarsius, cioè nei saltatori arborei specializzati. La faccia posteriore di esso è, a differenza che nell'Uomo, inclinata dal dorso e dall'innanzi verso la pianta e all'indietro. In Gibbone la tuberosità di quest'osso è assai pronunciata. Le facce per l'articolazione col primo e secondo cuneiforme sono in genere più convesse che nell'Uomo, quella per il terzo è al contrario più concava. Il primo cuneiforme presenta differenze assai singolari nei diversi Primati; ciò si comprende bene pensando che la faccia articolare distale dell'osso serve all'articolazione del primo dito, la cui funzionalità è molto diversa nei diversi Primati, non soltanto per il grado in cui è realizzata l'opposizione, ma anche per il grado di sviluppo dell'alluce, come si dirà. L'asse di quest'articolazione forma sempre col piano delle altre articolazioni tarso-metatarsee un angolo acuto, ma ciò non vuol dire che esso sia obliquo sul piano di appoggio del piede, come ha bene dimostrato il Forster, facendo esso talvolta su questo piano un angolo retto o persino un angolo ottuso. Questa superficie inoltre nei Lemuri è quasi sempre compresa fra una forma a troclea e una a sella; è invece più cilindrica nelle Scimmie. Il secondo cuneiforme non presenta di notevole altro che esso in alcuni Lemuri è molto ravvicinato al cuboide, disotto al terzo cuneiforme, cosa che nelle Scimmie non si verifica mai. Il terzo cuneiforme nelle forme più basse tende ad essere più lungo che alto. Questa condizione è al massimo in Lemur. I tre Antropomorfi presentano la condizione opposta; invece in minor grado presenta la detta condizione opposta il Gibbone. Il carattere della faccia articolare prossimale dei tre cuneiformi risulta da quanto si è detto a proposito del navicolare. L'estensione per cui la superficie distale del terzo cuneiforme sorpassa quelle delle ossa vicine (cuboide e secondo cuneiforme) è molto variabile, nei diversi generi. Il cuboide presenta un processo piramidale assai variabile in sviluppo, forte in Simia e Ateles debole in Colobus. Esso nei suoi forti sviluppi pare in relazione col potere di supinazione del piede. Il metatarso sorpassa in lunghezza il tarso nelle seguenti forme: Orango, Gibbone, Semnopithecus, Ateles, Pithecia, Chrysothrix, Hapale, Indris. Nelle restanti il tarso uguaglia o sorpassa il metatarso, questa condizione essendo al massimo nel Gorilla e nell'Uomo. La prominenza delle dita verso l'innanzi nel vivente è espressa dalle cosiddette formule digitali. Così nei Lemuri prevale la formula 4, 3, 5, 2, 1. La formula delle Hapalidae differisce da questa solo per la tendenza alla uguaglianza fra 3° e 4°, affermata ancora più nelle Cebidae, in cui anche il 2° sorpassa spesso il 5°, onde la loro formula è più spesso 3, 4, 2, 5, 1, che è anche in complesso la formula di tutte le Catarrine. Queste formule non corrispondono alle lunghezze reali dei metapodî (metatarso più falangi). La lunghezza del primo metapodio comparata a quella del terzo è massima nell'Uomo. Ad esso seguono le Nycticebinae, lo Scimpanzé, l'Indris. Nelle Semnopithecinae e nell'Orango abbiamo i minimi valori. Il fatto in Orango è dovuto da una parte all'accorciamento dell'alluce, dall'altra al massimo allungamento delle dita.
Il problema dei caratteri specifici del piede nelle razze umane costituisce uno dei problemi antropologici più difficili. Ancora oggi, così, è posta in discussione l'esistenza di caratteri del piede delle razze diverse, che permettano di stabilire differenze di architettura essenziali o per lo meno abbastanza notevoli (Weidenreich). Ciò non deve far meraviglia, quando si consideri come ancora al giorno d'oggi vi è discussione riguardo alla costruzione meccanica del piede nell'Uomo, ed abbiamo numerose teorie in proposito, che reciprocamente si contrastano. La metodica più razionale per lo studio del piede umano, quella dell'indagine sulla "forma naturale", che dobbiamo a H. Virchow, è di recente introduzione e di applicazione assai laboriosa, onde abbiamo solo pochissime osservazioni su piedi isolati di qualche razza esotica. Questi dati non permettono nessuna conclusione generale. Per quanto il piede rappresenti certo il segmento corporeo che deve aver subito nell'acquisto della stazione eretta le influenze meccaniche più forti e quindi costituisca un segmento che deve tendere ad una forma simile in tutte le razze umane, l'opinione che non esistano differenze architetturali raziali notevoli in esso è certo eccessiva. Ad ogni modo l'indagine ha stabilito l'esistenza di sicuri caratteri differenziali fra le ossa componenti il piede di alcune razze. I risultati più positivi sono quelli relativi alle ossa del piede dei Giapponesi in confronto con gli Europei (B. Adachi). Eccoli in breve: l'astragalo giapponese è più corto, la sua troclea ha curvatura più forte in complesso, ma distribuita in guisa opposta a quella dell'Europeo. Il calcagno è più corto, più stretto, più alto, l'escavazione mediale più forte, il tuber di esso più prominente verso l'alto. Il navicolare è più sottile nel senso prossimo-distale, soprattutto all'esterno. Il primo cuneiforme con la sua faccia per il primo metatarseo guarda di più verso il basso. Il secondo cuneiforme ha una sezione più triangolare. Il suo spigolo inferiore è convesso tibialmente. Nel cuboide la superficie distale è più concava. Il processo piramidale è più lungo ed appuntito. I metatarsei sono più corti ed il primo è sempre più corto, mentre gli Europei presentano spesso più corto il quinto. Il corpo del metatarseo è più cilindrico, diritto, a sezione circolare. Le prime falangi sono più corte, più piatte. Il raggio metapodiale più corto è il primo.
Trattazioni generali: St. George Mivart, Contributions towards a more complete Knowledge of the axial Skeleton in the Primates, in Proceed Zool. Soc. London, 1865; id., On the appendicular Skeleton of the Primates, in Philos. Trans. Roy. Soc., CLVII, Londra 1867; A. H. Schultz, The skeleton of the trunk and limbs of higher Primates, in Human Biology, II (1930); R. Martin, Lehrubuch der Anthropologie, 2ª ed., Jena 1928.
Trattazioni di singoli segmenti: Colonna vertebrale: E. Rosemberg, Die verschieden Formen der Wirbelsäule des Menschen, Jena 1920; G. L. Sera, Sopra alcune caratteristiche morfologiche differenziali di valore statico-meccanico nella colonna vertebrale e nel bacino dei Primati ecc., in Giorn. per la morfologia dell'Uomo e dei Primati, IV (1927). In questo lavoro si trova una completa bibliografia dei lavori più importanti pubblicati fino al 1927 ed in particolare di quelli di H. Vichow assai notevoli per l'argomento; T. Kempermann, Zum Problem der Regionenbildung der Wirbelsäule, in Morph. Jahrb., LX.
Sacro: C. Radlauer, Beitr. z. Anthrop. d. Kreuzbeines, in Morph. Jahrb., XXXVIII (1908).
Torace: H. Frey, Untersuchungen über das Rumpfskelett, in Morph Jahrb., LXII (1929).
Cinto scapolare: H. V. Vallois, Les types raciaux de la omoplate, in III Congrès (Amsterdam) Inst. int. Anthrop., 1928; A. Reinhard, Über die Form der Scapula bei Säugetieren, in Zeits. f. Tierzüchtung u. Züchtungbiol., XVI (1929).
Omero, radio, ulna: I. G. Botez, Étude morphologique et morphogénique du squelette du bras et de l'avantbras chez les Primates, in Arch. de Morphol. gén. et expér., 1926; R. A. Miller, Evolution of pectoral girdle and fore limb in the Primates, in American Journ. phys. Anthrop., XVII (1932); E. Fischer, Die Variationem am Radius und Ulna d. Menschen, in Zeit. Morph. Anthrop., IX (1906).
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Tibia: H. V. Vallois, Considérations sur la forme de la section transversale du tibia chez les lémuriens, les singes et l'homme, in Bull. Soc. Anthrop. Paris, 1912.
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