SCHIAVITÙ
. Presso i primitivi. - Nelle società inferiori varie sono le ragioni che portano l'uomo alla schiavitù; ma esse si possono ridurre a due principali, la coazione e la dedizione. La prima si ha in caso di guerra o in seguito a condanna; la seconda quando l'uomo ricorre alla protezione o alla tutela di un potente, mettendosi alla sua dipendenza.
Alla schiavitù in tempo di guerra si giunge in due modi: per assoggettamento collettivo o per cattura dei singoli; nel primo caso il popolo vincitore si costituisce in classe dominante e privilegiata riducendo il popolo vinto nella condizione di classe non libera con diritti inferiori. Questo fatto, che non fu ignoto nel mondo antico, fra i Greci e gli Egiziani, e che è stato osservato in Taiti, Giava e fra i Quiché del Guatemala, avveniva su larga scala nel tempo passato tra le popolazioni dell'Africa, tanto in quelle che diciamo camitosemite (Habab, Bogos, Marea, Beni-Amer), quanto in quelle nere (Teda, Uolof, Congolesi, Mpongue, Nbangala, Balunda, ecc.).
Nel secondo caso il vincitore, invece di uccidere il nemico caduto nelle sue mani, gli concede la vita, sottoponendolo a duri obblighi, ovvero gli lascia la scelta tra la morte e la servitù (Aztechi, Neoguineani, Mande, Mpongue, Cambogia). Al trattamento dei prigionieri di guerra contribuiscono varie ragioni, ma in generale esso è in relazione col regime del popolo vincitore. Se questo è nomade e dedito alla pastorizia non suole risparmiare la vita al prigioniero, sia perché, dovendosi spostare continuamente, non può esercitare la vigilanza e la custodia necessarie, e sia anche perché non sempre le provviste e le risorse sono sufficienti per gli schiavi. Se invece il popolo è dedito all'agricoltura, ne trae profitto, impiegando i prigionieri nei lavori della coltivazione.
Al genere della schiavitù coatta o per coazione appartiene quella in cui si cade per uno di quei reati che annientano la libertà dell'individuo (adulterio, stregoneria, assassinio, furto) o la rimettono all'arbitrio della parte lesa. A essa si può equiparare la schiavitù per debiti, nella quale s'incorre per insolvibilità. Il caso è frequente tra i Negri del Sudan, del Congo, fra i Bogos e altri popoli africani. I Congolesi chiamano indico quelle persone che allo spirare del debito non siano in grado di corrispondere la somma o due schiavi a saldo. I Kandyani di Ceylon riconoscono al creditore la facoltà di assumere in pegno il debitore con tutta la famiglia, col patto che questa diventerà schiava dopo la morte del debitore, qualora questi non abbia corrisposto il pagamento. Talora l'insolvenza non fa diventare il debitore schiavo del creditore, ma accorda a questo soltanto il diritto di vendere l'altro e di rifarsi del suo avere come accade tra varie tribù dell'Africa equatoriale e occidentale (Bakelé, Mande, ecc.).
Differente da questa è la condizione di chi si costituisce nelle mani del creditore e presta l'opera propria fino all'estinzione del debito, e talvolta a pagamento degl'interessi che vanno a maturare (Bihé, Chimbunda, Gran Bassam). Si ha allora la figura della schiavitù per dedizione, la quale cessa col cessare del debito. Questa forma è comune nelle società a carattere feudale, e si pratica anche per altre ragioni, a titolo di noxae datio, quando l'individuo non sia in grado di risarcire o riparare il danno arrecato alla parte lesa per delitti o altri fatti. Nel Loango cade in schiavitù del signore l'individuo di bassa condizione che abbia osato strappargli dal capo il berretto o dargli uno schiaffo: e fra i Maimbunda chi gli abbia ucciso qualche animale o arrecato qualche altro danno. Questa tipica forma si chiama tombika o shimbika.
Una speciale categoria di servi è rappresentata dagli schiavi ereditarî, cioè dai figli dei servi. Nella pratica il fatto è variamente regolato: se uno dei genitori è libero e l'altro servo, lo stato del figlio è determinato dal regime familiare vigente, onde se questo è il matriarcato (Fulbe, Buna, Bataki, ecc.) il figlio segue la condizione della madre; se è invece il patriarcato, il figlio segue la condizione del padre. II regime familiare è invocato quando si tratti di decidere l'appartenenza dei figli di una coppia di schiavi che hanno differente padrone; onde si assegnano i figli al padrone della madre, se è in uso la parentela materna, o al padrone del padre, se è in uso il sistema di parentela paterna.
A seconda della condizione o della provenienza, gli schiavi vanno distinti in schiavi da tratta, da casa, da lussuria. In seguito all'influsso della civiltà coloniale gli schiavi da tratta, che un tempo rappresentavano la ricchezza di alcuni mercati insieme con l'oro e l'avorio, si possono considerare scomparsi, sebbene non manchino mercati clandestini o mascherati. Per la stessa ragione, vanno scomparendo gli schiavi da lussuria, in genere di sesso femminile, che linghi o domestici, detti altrimenti "prigionieri della casa" o "nati in casa", adibiti ai più umili servizî. La condizione di questi individui, i quali appartengono come tanti capi di bestiame al padrone, varia da popolo a popolo; ma essi ordinariamente sono adibiti alla coltivazione dei campi, alla custodia del bestiame, alla costruzione delle capanne, al taglio della legna, alla raccolta dei frutti. In qualche luogo, come fra i Berta, allo schiavo adulto il padrone dà i mezzi per costruirsi una capanna ed assegna una schiava per moglie continuando a somministrargli gli alimenti e le vesti. I figli che nascono da tale unione restano con i loro genitori, ma sono anch'essi schiavi del padrone. In qualche altro paese, come nella Nubia, prevalendo il concetto dello schiavo come merce, i frutti dell'unione sessuale sono messi a profitto e spesso in commercio. A tale scopo il padrone concede a qualcuno la sua schiava, per sostituirla con altra quando abbia concepito. Ad aumentare il valore dei maschi si ricorre all'evirazione, che si suole praticare ora nella prima, ora nella seconda infanzia. Gli schiavi improduttivi o che si siano resi colpevoli sono puniti o venduti e qualche volta abbandonati o uccisi. Tra i Berta dello Sciangalla quelli che sono inetti al lavoro o al matrimonio cadono in disgrazia del padrone e dei compagni, e se si ammalano vengono scacciati dalla casa e abbandonati a sé stessi.
La tradizione raccolta dai viaggiatori riferisce fatti orribili circa la potestà dominicale e la condizione degl'infelici ridotti allo stato servile. In alcuni paesi l'arbitrio del padrone era illimitato e lo ius vitae et necis imperava assoluto. Solo in qualche luogo, come nel paese dei Mande, la consuetudine obbligava il padrone a sentire il servo incolpato e il parere dei capi di famiglia prima di far morire uno schiavo ereditario. Racconta lo Jacolliot (Voyages aux rives du Niger) che nella valle dell'Akka il tedio della vita assaliva spesso gl'infelici servi tanto da indurli alla morte. Quand'essi manifestavano il loro desiderio di morire al padrone, questi li faceva ubbriacare prima di consegnarli al boia. Nell'interno del paese dei Bubu la procedura era più crudele: il padrone conduceva il servo che era sazio di vivere al cospetto dell'anziano del villaggio, e qualora non si riusciva a distoglierlo dal proposito di morire, lo schiavo veniva tradotto davanti all'assemblea dei capi di famiglia. Se anche davanti a questa, egli non mutava parere, veniva legato a un albero e fatto a pezzi da una turba di scalmanati.
Ma, indipendentemente da questi fatti, la consuetudine generale prescrive differente trattamento a seconda che gli schiavi siano domestici o da tratta o di guerra. Questi ultimi sono considerati come stranieri, posti fuori della protezione della legge e però il padrone può non solo infierire ad arbitrio su di loro, ma anche venderli. Gli altri sono trattati con moderazione, non potendo essere gravemente castigati, né posti in commercio. La vendita è eccezionalmente ammessa, quando il padrone non abbia mezzi per provvedere al vitto della famiglia. Nel caso, poi, di punizione eccessiva che importi gravi maltrattamenti, crudeltà, mutilazioni, lo schiavo diventa libero (Costa d'Oro).
Tra le punizioni corporali, oltre ai vincoli e alla sferza, la quale è fatta di pelle d'ippopotamo o di nervi di elefante, si notava nel passato anche l'evirazione. Il missionario Buss nel 1877 osservò che i negrieri, per risparmiare il nutrimento degli schiavi posti in vendita a Salago, praticavano un'incisione sulla lingua di quegli infelici, introducendovi un prodotto chimico che rimase un loro segreto. A impedire la fuga erano e sono tuttavia in uso i ceppi di legno per le gambe e per il collo. Quelli della prima forma consistevano in una specie di doppio anello, le cui estremità erano riunite da un pezzo di ferro diritto o da una catena; quelli della seconda in un grosso ramo forcuto di quattro o cinque piedi di lunghezza e l'infelice doveva tenerne sollevato il manico perché non battesse sulla nuca.
Il servo può pervenire all'agognata libertà in varî modi: o per manomissione, che è fatta dal padrone con cerimonie solenni, pubbliche, tradizionali (taglio dei capelli presso i Beduini), quando lo schiavo abbia fatto qualche importante servizio, in pace o in guerra; o per riscatto, quando si tratta di categorie di servi per i quali il riscatto è ammesso. In genere esso è escluso per i prigionieri di guerra e per gli schiavi di recente acquisto. Inoltre si può diventare liberi raggiungendo un luogo di asilo, come fra gli Aztechi; o rifugiandosi presso una donna di alta classe, come fra i Guaycurú, o dopo aver compiuto un certo periodo di tempo. Ad Ibu, sulle rive del Niger, gli schiavi nati in casa, dopo un periodo di tempo stabilito dagli usi locali, possono costruirsi una propria abitazione, acquistare delle proprietà e contrarre matrimonio e diventare quindi uomini liberi, col solo obbligo di corrispondere un tributo all'antico loro padrone. Il prigioniero di guerra ridotto allo stato servile può riscattare presso alcune tribù indiane dell'America Settentrionale la propria persona, qualora contragga matrimonio nella tribù vittoriosa.
All'infuori di questi casi previsti dalle consuetudini locali, la libertà non si ottiene che con la fuga, che è spesso a lungo meditata e alla quale sono propensi gli schiavi nati nelle montagne, dediti alla caccia e assuefatti ai viaggi.
Bibl.: A. E. Post, Giurisprudenza etnologica, trad. Longo e Bonfante, Milano 1906-08; id., Afrikanische Jurisprudenz, Oldemburgo-Lipsia 1887; E. Spencer, Principi di sociologia, trad. it., Torino 1881; Ch. Letourneau, L'évolution de l'esclavage dans les diverses races humaines, Parigi 1897; H. J. Nieboer, Slavery as an industrial system. Ethnological researches, L'Aia 1900; M. Delafosse, Enquête coloniale, Parigi 1930; id., Les Nègres, ivi 1927. Un interessante capitolo di carattere generale sulla schiavitù e sul modo con cui si fanno gli schiavi in Africa si trova in Mungo-Park, Viaggio nell'interno dell'Africa, trad. it., II, Milano 1816.
Nell'antichità.
Grecia. - Osservazioni generali. - L'esistenza della schiavitù in Grecia e la sua funzione necessaria nel mondo economico greco sembrò ai grandi studiosi della prima metà del sec. XIX costituire un problema di difficile soluzione, sembrando inconciliabile con l'alto grado di civiltà greca la tolleranza della servitù umana. Quel problema si presentava come essenzialmente morale, e nel prospettarlo si era ancora sotto l'influsso della filosofia illuministica. La filologia moderna ha posto il problema dello schiavo nella Grecia antica su basi diverse: storiche, non morali. Oggi la direzione dell'indagine moderna è volta da un lato a precisare i dati di fatto che consentano di ricostruire quale fosse la condizione materiale e morale dello schiavo, dall'altro a chiarire i principî morali che costituirono il fondamento spirituale della civiltà greca e la fecero tollerante dell'istituzione della servitù.
Com'è detto altrove (v. monarchia, XXIII, p. 611 segg.), il concetto di umanità presso i Greci non è semplice. Vi è un'umanità superiore, quella del Greco, libero per natura, destinato a partecipare alla polis e che solo come cittadino raggiunge i mezzi per l'attuazione della sua umanità, e vi è l'inferiore umanità del barbaro. Il barbaro ha natura servile e ha bisogno, nel suo stesso interesse e per la sua stessa felicità, di un padrone.
Non poteva dunque sembrare ai Greci strano o moralmente censurabile servirsi come strumento di fatica di un essere umano che la natura aveva disposto al lavoro materiale. Noi, anzi, vediamo con molta chiarezza accentuarsi questo sentimento di diversità naturale fra il Greco e il barbaro, fra il libero e lo schiavo, parallelainente al processo di degradazione che il lavoro materiale subisce nello sviluppo della civiltà greca. Nel mondo omerico lo schiavo è un compagno umile e fedele del padrone, sottoposto ma non disprezzato. Nell'età classica, invece, in cui tutta la spiritualità greca si impernia sul concetto di polis, si apre ormai un abisso fra il polites, cioè il greco libero per natura, e il barbaro schiavo per natura; si hanno come due tipi diversi di umanità, che ubbidiscono a norme diverse e tendono a diverse mete. Per l'uomo greco il barbaro, se è fuori della sua sfera personale, è un nemico, se gli appartiene, è un servo. Lo schiavo di nazionalità greca è, per Platone, un assurdo, e anche le leggi cercavano di limitare la possibilità di questo assurdo (divieto di pignorare la propria persona, da Solone in poi; norme speciali che favorivano il riscatto del prigioniero di guerra; estremo rigore contro il ratto di uomini liberi, ecc.); a meno che con la vendita in schiavitù non venisse sancita l'indegnità, in cui uno fosse incorso, di essere libero.
Gli schiavi nell'economia generale del mondo greco. - È giusto supporre che dal sec. VI a. C. in poi, con lo sviluppo delle industrie la popolazione schiavistica in Grecia andasse sempre crescendo; prima nelle città dell'Asia Minore, poi in quelle della Grecia peninsulare. All'incremento della schiavitù contribuivano varie cause: i parti delle ancelle, le guerre, l'abbandono dei fanciulli, i ratti, la perdita di libertà per reati gravi o per debiti, l'importazione di schiavi non greci da regioni barbare (Tracia, Egitto, Frigia, ecc.). Il commercio degli schiavi prosperava; il materiale umano che ne formava oggetto era di provenienza varia; uomini già liberi divenuti schiavi, ovvero schiavi comprati in terre dove tal merce era numerosa e di poco costo, anche se di qualità scadente; in particolare bambini raccolti qua e la. I mercanti di schiavi, generalmente, li allevavano per venderli adulti e ricavarne un prezzo maggiore: insegnavano ai maschi un mestiere e avviavano le femmine alla prostituzione. Né sempre tale commercio si esercitava con compravendita, essendo anche possibile trarre un maggior lucro dagli Schiavi col darli in affitto, provvedendo alle oscillazioni nel fabbisogno di lavoro nelle industrie (p. es., nelle miniere) o a certi servizî la cui necessità si sentiva solo in date occasioni (p. es., affitto di flautiste, di cuochi, ecc.). Anzi, questo mezzo di sfruttare lo schiavo dandolo in affitto era praticato anche dai più ricchi capi di famiglia.
Il mercato degli schiavi aveva luogo in giorni determinati, di solito quando faceva la luna (νουμηνία); il luogo in cui erano posti in vendita si chiamava "circolo" (κύκλος), gli schiavi in vendita stavano nudi su un tavolato (τράπεζα), da cui il compratore li faceva scendere per osservarli o farli correre e giudicare della loro agilità. Il prezzo era stabilito all'incanto o per libera contrattazione, e variava moltissimo a seconda della capacità dello schiavo, da 50 dracme, per uno schiavo di poco valore, sino a un talento (6000 dracme) per un abile ragioniere. Uno schiavo che non avesse abilità particolari valeva circa 200 dracme, un operaio dalle 500 alle 600 dracme; se esperto in arte difficile, ancora più; per es., un architetto 1000 dracme.
Nell'età greca che conosciamo meglio (sec. V e IV a. C.) gli schiavi costituiscono, come numero, una parte notevole della popolazione, la parte prevalente nelle città ricche per le industrie e i commerci. Di questi schiavi una gran parte serviva alle industrie; Nicia ne possedeva 1000 che lavoravano nelle miniere di argento.
Nelle case greche non vi era, per i servizî domestici, quella moltitudine di schiavi che riempiva le case dei Romani; ma il personale di servizio era anche in Grecia superiore a quello di una casa moderna, a parità di grado sociale. Ci mancano in proposito dati precisi, ma troviamo considerato come segno di ristrettezza economica il possedere solo sette schiavi. Nel valutare queste indicazioni si deve tener conto che fra i compiti della casa antica vi era il produrre manufatti che oggi sono oggetto di industrie extradomestiche e servizî che ai nostri tempi sono pubblici; si aggiunga che i Greci ritenevano sconveniente che un uomo di riguardo uscisse senz'essere accompagnato almeno da uno schiavo (ἀκόλουϑος).
Un maggior numero di accompagnatrici era richiesto per le donne nei rari casi in cui uscivano. Nelle case più frequentate vi era il portinaio (ϑυρωρός) e, dove il tono di vita fosse un po' alto, un soprintendente a tutti i servizî della casa (ταμίας). L'allevamento dei figli richiedeva molto personale: balie, bambinaie, accompagnatrici; le signore greche, poi, pur facendo, specialmente in Atene, vita molto ritirata, erano esigentissime in ciò che riguardava la loro cura personale; di solito avevano diverse cameriere (κομμώτριαι) fra le quali una di fiducia particolare, detta ἅβρα.
Condizione degli schiavi presso i Greci. - Lo schiavo è obbligato a lavorare per il padrone, il quale può utilizzare il suo lavoro, o direttamente destinandolo a servizî domestici o industriali, ovvero indirettamente sia locandone l'opera (v. sopra), sia consentendo allo schiavo una condizione di libertà di fatto, purché egli corrisponda da proventi del suo lavoro un tributo giornaliero al padrone, detto ἀποϕορά, corrispondente a circa due o tre oboli. Gli schiavi ἐπ' ἀποϕορᾷ, costituivano una categoria per la quale lo stato servile era meno gravoso e umiliante; abitavano separati dal padrone e potevano scegliersi una compagna e allevar prole in modo simile ai liberi, sebbene con effetto giuridico diverso. Apparteneva a loro il provento del lavoro che sopravanzava dall'ἀποϕορά, e potevano mettere da parte, se abili, la somma necessaria per riscattarsi e per raggiungere una relativa agiatezza. Particolarmente favorevoli erano le condizioni degli schiavi commercianti che contrattavano in nome proprio e avevano azione presso i tribunali mercantili (v. appresso).
Anche fra gli schiavi che lavoravano per conto del padrone ve ne erano alcuni ai quali una particolare competenza tecnica assicurava un trattamento di riguardo: tali erano gli schiavi preposti alla direzione e sorveglianza di altri (ἐπίτροποι), o incaricati dell'amministrazione del patrimonio del padrone, o quelli a cui fosse stato affidato l'esercizio di una grossa azienda o di una banca. A questi doveva spettare anche una cointeressenza; non ci spiegheremmo altrimenti il caso di schiavi banchieri come Pasione e Formione ad Atene, i quali comprarono la libertà, ottennero per decreto la cittadinanza e divennero ricchissimi.
Peggiore era la condizione degli schiavi addetti al lavoro materiale nei campi, nelle industrie manifatturiere, nelle miniere.
La condizione degli schiavi addetti alla casa variava a seconda del loro ufficio, non ugualmente grossolano e meccanico per tutti. Le ancelle meno esperte filavano e tessevano. In genere, poi, nella casa greca dei secoli V e IV mancavano gli schiavi dotti, come segretarî, amanuensi, precettori, e quelli che, come più tardi nella Roma imperiale, servissero solo a scopo voluttuario o di lusso, musicanti, ballerini, attori, ecc.; questi ultimi, quando occorrevano, si prendevano a nolo.
Il padrone, in virtù dei suoi poteri di capo dell'οἶκος, aveva sullo schiavo autorità di sovrano e di giudice e poteva infliggergli punizioni corporali anche gravi. Trattandosi di una colpa punibile con la morte, doveva consegnarlo al magistrato che, se trovava giustificato il giudizio del padrone, consegnava lo schiavo al carnefice. In ogni caso, però, lo schiavo aveva il dritto di esporre al padrone le proprie ragioni (ἰσηγορία), ma non di ricorrere ad altra autorità, essendo qualsiasi forma di appello diritto esclusivo dei liberi e cittadini.
Fra i reati più gravi dello schiavo appaiono come usuali il furto e la fuga; la fuga era frequente soprattutto in periodo di guerra; per rintracciare lo schiavo fuggitivo vi erano leggi speciali e convenzioni fra città e città. Il padrone che ritrovava lo schiavo fuggito aveva il diritto di impossessarsene e trascinarlo con sé (salvo il diritto di asilo nei templi); questo procedimento, che è una forma di autodifesa dei diritti dominicali, era detto ἀγωγή (o ἄγειν εἰς δουλείαν). Il cittadino che avesse ritenuto illegittimo l'operato del sedicente padrone poteva opporsi con una azione detta ἐξαίρεσις, la quale consisteva nella formale dichiarazione che colui che veniva trascinato come schiavo era libero. Di fronte all'ἐξαίρεσις, l'ἀγωγή doveva immediatamente cessare; in caso contrario, chi vi avesse persistito era passibile di un processo per violenza (δίκη βιαίων); tuttavia chi rilasciava lo schiavo aveva diritto di richiedere una cauzione da parte di chi lo aveva affermato libero, per essere sicuro del recupero o di un congruo indennizzo se i suoi diritti di padrone fossero riconosciuti dal tribunale. Mezzo per ottenere questo riconoscimento era la δίκη ἐξαιρέσεως che il padrone impedito di trascinare con sé lo schiavo poteva promuovere contro l'assertore in libertà.
Allo schiavo fuggitivo e allo schiavo ladro veniva impresso un marchio a fuoco sulla fronte. Altre pene erano, secondo la gravità della mancanza, l'essere posto in catene, immobilizzato in uno strumento di tortura consistente in un legno a cinque buchi per le mani, i piedi e il collo, le percosse con bastoni, cinghie e fruste. Si è vista una contraddizione fra la frequente menzione di schiavi percossi e la legge che vieta di percuotere lo schiavo. Ma il padrone che punisce per giusti motivi uno schiavo colpevole non commette una brutalità, di cui la legge fa divieto nei riguardi degli schiavi proprî o altrui, ma esercita il potere magistratuale che gli compete sulle persone appartenenti all'οἶκος.
Cause da cui deriva lo stato servile. - In Grecia si è schiavi per nascita; per marcato acquisto di stato civile; per perdita della libertà. È schiavo il figlio dell'ancella, tanto se generato dal padrone, quanto se figlio di padre schiavo (ἀμϕίδουλος). Anche il figlio che una donna libera abbia generato da uno schiavo è schiavo e appartiene al padrone del padre.
Per il diritto greco non si acquista lo stato civile di figlio legittimo in virtù della nascita da iustae nuptiae. Il figlio dev'essere riconosciuto dal padre; se il padre non intende riconoscerlo e allevarlo per suo, lo espone. In tal caso, se non perisce, diviene schiavo di chi lo raccoglie.
La libertà si può perdere: a) in seguito a prigionia di guerra. Il prigioniero di guerra è schiavo di chi lo ha catturato. Per favorire il riscatto dei prigionieri di guerra la legge stabiliva delle rigorose garanzie per la restituzione del prezzo sborsato da colui che aveva riscattato il prigioniero. Se il riscattato non pagava entro un certo termine, diveniva lo schiavo del suo creditore; b) per delittuosa azione altrui. Chi era rapito e regolarmente venduto a un padrone ne rimaneva schiavo, sinché non avesse ricomprato la libertà. Ciò in virtù del principio che chi acquista in buona fede e per regolare contratto uno schiavo ha diritto di possederlo; c) per debiti. Prima di Solone, chi avesse appignorato la propria persona al creditore, se insolvente al momento della scadenza, ne diveniva schiavo; d) per pena. Chi, pure essendo di stato libero, esercita indebitamente i diritti del cittadino, ovvero non sottostà alle limitazioni e agli obblighi che la polis pone ai liberi non cittadini (per es., obbligo dei meteci di pagare il μετοίκιον), ovvero sia indebitamente iscritto nella lista dei demoti, da cui risulta per ciascun cittadino lo stato di cittadinanza, è venduto schiavo dalla polis.
Condizione giuridica dello schiavo. - La condizione giuridica dello schiavo greco è molto complessa. Ma questa diversità di aspetti che offre in Atene (e, deve supporsi, anche nel resto della Grecia) lo stato servile, trova una ragionevole spiegazione nel fatto che il diritto attico è un diritto pluristico. Le norme che regolano l'azione del singolo e che sono fornite, in un modo o nell'altro, di sanzione, non promanano tutte e direttamente dalla polis; accanto al diritto della polis vi è il diritto sacrale, che preesiste e ubbidisce a principî d'ordine diverso, e, strettamente connesso con quello, il diritto familiare, che la polis riconosce indirettamente, ma non crea; il diritto commerciale, elaborato al difuori della polis, sotto la spinta di esigenze pratiche, differente come essenza e come singole norme dal diritto della polis, e con esso talvolta in piena antitesi, pur tuttavia accolto dalla polis per ineluttabili ragioni di interesse economico. Per conseguenza, la situazione giuridica dello schiavo è diversa a seconda della sfera giuridica in cui egli si muove. Di fronte alla polis, la quale non riconosce direttamente se non il polites, lo schiavo non è soggetto, ma oggetto di diritti. Ma la polis, in quanto munisce di sanzioni dirette o indirette anche ordinamenti giuridici di origine diversa, arriva per questa via a riconoscere indirettamente allo schiavo, sia pure entro limiti di ogni genere, una personalità giuridica che direttamente gli nega.
Nell'interno della famiglia lo schiavo fa parte di quel quid giuridico-sacrale, che i Greci chiamavano οἶκος, complesso di persone, di cose e di riti, fusi in inscindibile unità, e governato da norme che la città non ha create, ma che riconosce e sanziona. Quando uno schiavo entra a far parte dell'οἶκος viene accolto e festeggiato con manifestazioni di gioia simili al rito nuziale con cui si accoglie la sposa; egli è ammesso alle cerimonie religiose della famiglia e un reciproco vincolo sacrale lo lega al padrone. Lo schiavo fa dunque parte dell'οἶκος, che ne richiede il lavoro ma in cui egli trova mezzi di vita, anche in forme superiori (in ciò che si attiene alla religione), e protezione. Il padrone deve nutrirlo, rispettarlo, non esigere un lavoro eccessivo, concedergli le vacanze prescritte dal diritto sacrale, non oltraggiarne il pudore, non punirlo senza ragione. Orbene, la polis ha un sostanziale interesse a che l'οἶκος funzioni regolarmente; tuttavia non riconosce direttamente se non il cittadino che dell'οἶκος ha la titolarità e la direzione; solo il cittadino ha di fronte alla polis diritti soggettivi e azione per farli valere. La sanzione dei diritti familiari degli appartenenti all'οἶκος, ma civilmente incapaci (donne, minori, schiavi, ἄτιμοι), avviene soltanto obliquo modo (Paoli), attraverso il dovere del rispetto imposto al cittadino, capo dell'οἶκος; dovere giuridicamente sanzionato perché ogni cittadino può perseguire penalmente il capo dell'οἶκος che vi manchi. In pratica questo sistema funziona soprattutto a tutela dei diritti familiari delle donne e dei minori; ma anche lo schiavo vi trova la difesa dei suoi diritti umani e sacrali. Il padrone può, come sovrano dell'οἶκος, irrogare allo schiavo pene corporali, ma, si è visto, non può abusarne. Ove questo avvenga, ha luogo l'intervento sanzionatore della polis, non già perché lo schiavo abbia la capacità di ricorrere presso i tribunali della città, ma perché ogni cittadino può intentare contro il padrone disumano la γραϕὴ ὕβρεως, azione per oltracotanza.
Lo schiavo ha poi una personalità sacrale, per la quale incontra una diretta difesa nell'ambito del diritto sacrale (lo schiavo maltrattato può rifugiarsi in un tempio e ottenere dal sacerdote che lo venda a un padrone più umano) e anche un parziale riconoscimento di personalità da parte della polis, quando questa abbia fatto sua, per assorbimento, la disciplina giuridica elaborata dal diritto sacrale. Accade, p. es., che, mentre lo schiavo non può deporre davanti ai tribunali della polis se non con la formalità della tortura (βάσανος), nelle cause per omicidio, che sono regolate dal diritto sacrale, egli deponga come un libero.
In una posizione singolarmente favorevole si trova lo schiavo di fronte al diritto commerciale. La polis, riconoscendo davanti ai tribunali commerciali capacità di stare in giudizio a chiunque sia commerciante indipendentemente dalla sua qualità di cittadino (che è necessaria condizione per poter ricorrere ai tribunali civili), viene a riconoscere capacità di contrattare, di obbligarsi e di obbligare, di ricorrere ai tribunali, di valersi eventualmente delle concesse forme di autodifesa anche agli schiavi.
Affrancazione dello schiavo. - Lo schiavo poteva essere liberato dal padrone; ciò di regola avveniva quando poteva corrispondere il prezzo della libertà. Il caso non era raro se lo schiavo era in condizione di economizzare parte del provento del suo lavoro. In taluni casi la liberazione era un atto di liberalità; p. es., le etere schiave potevano essere liberate dalla generosità dei loro amanti. A volte era un premio della polis a cui lo schiavo aveva reso insigni servizî. I rapporti fra lo schiavo affrancato (ἀπελεύϑερος) e il padrone erano regolati dal contratto di liberazione; di solito il padrone si riservava il diritto a prestazioni da parte del liberato; ma non sempre. Contro il liberto che non osservasse tali obblighi la legge disponeva un'azione detta δίκη ἀποστασίου, che andava proposta al foro del polemarco; se il liberto soccombeva, ritornava schiavo; se l'accusa risultava ingiustificata, era libero da ogni vincolo con l'antico padrone.
Lo schiavo affrancato è libero, ma non cittadino; può tuttavia diventarlo, per particolari benemerenze, in seguito a un decreto della polis.
Roma. - Degli schiavi in generale. - Nel mondo romano gli schiavi, relativamente pochi nei primi secoli della repubblica, raggiungono in seguito un numero molto superiore a quello dei liberi. Da un lato le esigenze dell'edilizia, delle industrie minerarie e manifatturiere e, soprattutto, dell'agricoltura che, per l'esaurimento delle piccole proprietà, era affidata quasi esclusivamente all'opera degli schiavi; dall'altro, l'alto tono signorile della vita romana imponevano di mantenere veri eserciti di servi. Vi era chi possedeva anche dai 10.000 ai 20.000 schiavi.
A questa necessità di schiavi sopperivano solo in piccola parte i nati dalle ancelle, che appartenevano di diritto (v. sotto) al padrone; fiorentissimo, per conseguenza, era il commercio schiavistico. Dei mercanti (mangones, venalicii) compravano prigionieri di guerra e bambini abbandonati, ovvero schiavi venduti nei mercati lontani da Roma, in gran parte orientali, il cui maggior mercato era nell'isola di Delo, e li rivendevano a Roma, esercitando il loro turpe commercio sotto la diretta sorveglianza degli edili. L'acquisto degli schiavi più fini si faceva nei Saepta, una località presso il Foro, dove si trovavano le mercanzie di gran lusso; gli altri, nelle botteghe dei mangones, frequenti presso il tempio di Castore, nel Foro. Essi stavano esposti su un palco girevole (catasta); un cartellino (titulus) appeso al collo di ciascuno ne indicava la nazionalità, le attitudini, le qualità buone e cattive; la denunzia di queste ultime era imposta dagli edili e rispondeva anche all'interesse del mercante, il quale evitava così il pericolo che il compratore chiedesse la rescissione della vendita per vizî occulti. Il compratore poi cercava di accertarsi della bontà della merce, facendo denudare lo schiavo. Gli schiavi che il venditore non intendeva di garantire stavano esposti con un berretto in capo (pilleati), uso derivato probabilmente dalla vendita dei prigionieri di guerra, che venivano messi all'asta con una corona in testa (sub corona vendere), ed erano comprati a tutto rischio e pericolo degli acquirenti; quelli venuti di recente da terre lontane avevano un piede imbiancato col gesso (gypsati).
Per quanto si può ricavare dai dati oscillanti offertici dalle fonti, relativi a tempi diversi e non sempre pienamente attendibili, il costo di uno schiavo variava da una somma minima (p. es., uno schiavo comune costava 2000 sesterzî [L. it. 400] nell'età di Orazio e meno di 1000 [L. it. 200] negli ultimi secoli dell'impero) a un prezzo favoloso (un grammatico 700.000 sesterzî; un eunuco 500.000; un dispensator 130.000 sesterzî; un bel giovinetto 100.000 sesterzî). In genere gli schiavi più costosi erano quelli dotti (litterati), rappresentanti di un tipo di servo, che, quasi ignoto nell'età della Grecia libera, è proprio della civiltà romana.
Anche nelle famiglie che non potevano permettersi la spesa di comprare e mantenere schiavi dotti o di lusso, il numero della servitù, specie nell'età imperiale, era considerevole; l'avere solo dieci schiavi è ricordato come abitudine di vita assai modesta.
La "familia rustica". - I proprietarî di terre, oltre ai servi addetti alle esigenze domestiche, possedevano numerosi schiavi impiegati nelle aziende di campagna. I primi costituivano la familia urbana, gli altri la familia rustica. La direzione dell'azienda agricola spettava al vilicus, il fattore, che nelle amministrazioni più importanti era coadiuvato da un contabile (actor).
Il grosso della familia rustica era costituito dagli schiavi (operae) addetti al lavoro dei campi: divisi in squadre, attendevano alla loro dura fatica, sotto la direzione e la sorveglianza aguzzina dei magistri officiorum, spesso con la catena al piede. Su loro la servitù pesava nel modo più crudele; per cui il trasferimento dalla familia urbana alla rustica era, da padroni umani, considerato come una punizione. D'altra parte, se i padroni richiedevano allo schiavo di campagna un gravoso lavoro, non ne trascuravano la cura personale. La villa rustica dei Romani offriva un mirabile esempio di organizzazione e di previdenza: gli schiavi avevano per dormire le loro celle (cellae familiares), la possibilità di fare il bagno, di essere curati in caso di malattia, perché nelle villae meglio ordinate vi era il medico, schiavo anch'esso (v. sotto), e l'infermeria (valetudinarium). Un certo numero di schiavi d'ambo i sessi risiedeva nella villa con l'ufficio di radere gli schiavi (tonsores), di preparar loro i cibi e di tenerne in ordine i vestiti.
La "familia urbana". - Più divisi, com'è naturale, erano gli uffici degli schiavi nella familia urbana. A capo dell'amministrazione domestica stava uno schiavo (o un liberto), il procurator (nei tempi più antichi l'atriensis), che dirigeva i servizî e regolava le spese; in assenza del padrone agiva e impartiva ordini in suo nome. Da lui dipendevano altri schiavi esperti di amministrazione, quali il dispensator, incaricato della tenuta dei libri, il cassiere (arcarius), il contabile che registrava le entrate e le uscite giornaliere (sumptuarius).
Degli altri schiavi, ai quali erano affidati i numerosi e varî servizî domestici, i Romani distinguevano diverse categorie a seconda del lavoro che facevano e della considerazione presso il padrone di casa, se cioè avevano uffici direttivi o di fiducia (ordinarii), o se erano addetti alle più umili cure della casa. Questi ultimi erano detti vulgares, espressione generica che comprendeva i portieri (ianitores), le staffette (cursores), gli stallieri (agasones), i facchini (capsarii), i servi che portavano la lettiga del padrone (lecticarii), e quegl'infimi servi che, senza avere un ufficio fisso, erano via via incaricati dei lavori più materiali (mediastini, qualesquales). Altri, infine, la cui condizione è ricordata dagli scrittori romani come la più degradante, erano posti al servizio di altri schiavi (vicarii).
Nelle case signorili molti dei servi erano addetti alla cucina e al banchetto. Capo dei servizî di cucina era l'archimagirus, con varî sottoposti; per avere un buon cuoco i Romani non badavano a spesa. Un numeroso personale era richiesto anche dal banchetto; più numeroso ancora era quello addetto alla cura personale dei padroni o dei loro bambini: camerieri, cameriere, bambinaie, accompagnatori, accompagnatrici, ecc.
Si è già alluso agli schiavi dotti, la cui presenza nella casa è caratteristica dell'ordinamento familiare romano: appartenevano a questi i lettori (lectores, anagnostae), che leggevano al padrone nelle ore che egli dedicava allo studio, o ai commensali durante il banchetto; i comoedi che si distinguevano dai primi perché recitavano a memoria, con gesti studiati, teatrali, e, se in più, eseguivano anche delle semplici azioni drammatiche; i segretarî (librarii) addetti alla corrispondenza (ab epistulis), alla biblioteca (a bibliotheca), fra i quali gli amanuenses o scriptores librarii che copiavano i libri, agli studî del padrone (a studiis), gli stenografi (notarii). Ufficio particolarmente delicato fra gli schiavi dotti avevano quelli incaricati della prima educazione (paedagogi; custodes) o dell'istruzione dei figli (grammatici). Al qual proposito è da notare che certe prestazioni, non solo umili, come quella del barbiere (tonsor) o del massaggiatore (iatralipta), ma anche di carattere elevato, come l'insegnamento privato o le cure mediche e chirurgiche, nelle case più signorili, erano considerate ufficio di schiavi: della familia urbana facevano parte grammatici, medici e anche vulnerum medici, cioè professori, medici e chirurghi.
Speculazione industriale sugli schiavi. - Una speculazione che sembra non fosse disdegnata da persone della migliore società consisteva nel tenere degli schiavi abili in un'arte determinata (architetti, amanuensi o anche gladiatori), locandone l'opera a chiunque la richiedesse; dedito a questa industria era anche T. Pomponio Attico, il celebre editore, amicissimo di Cicerone. Ovvero ci si serviva di un gran numero di schiavi specializzati per l'esercizio di grosse imprese. Sappiamo che Crasso possedeva 500 schiavi muratori e falegnami con i quali costruiva delle case a scopo di speculazione.
Condizione materiale degli schiavi in Roma. - La durezza dei Romani verso i loro schiavi è nota e può essere documentata. Ma bisogna anche dire che in ciò che concerne i rapporti fra i padroni e gli schiavi in Roma trovano credito tuttora le più insulse e grossolane esagerazioni. Alcuni atti di scellerata crudeltà, come quello di Vedio Pollione, che puniva gli schiavi gettandoli nel vivaio delle murene, sono giunti a nostra conoscenza solo per l'esecrazione che destarono allora; ed era, in realtà, un modo atroce e pazzesco di punire e non un trovato gastronomico per ingrassare i pesci. Nessuno poi crederà che i padroni usassero, o permettessero che si usassero, gli stessi modi brutali con lo schiavo di fatica e con quelli che erano i fedeli cooperatori nell'amministrazione, negli studî e nell'educazione dei figli; la stessa convenienza economica imponeva di avere attento riguardo a ciò che non si trova facilmente e si acquista a prezzo elevato. Rileviamo ancora dagli scrittori che si faceva una differenza fra lo schiavo comprato e il verna nato in casa dall'ancella, e abitualmente trattato dai padroni con indulgenza, e talora con affetto.
Il diritto sottoponeva lo schiavo all'illimitato arbitrio del padrone. Il dominus aveva su lui poteri sovrani: "dominis in servos vitae necisque potestas" (Gaio, Inst., I, 52). "Quicquid dominus indebite, iracunde, libens, nolens, sciens, nescius circa servum fecerit, iudicium, iustitia lex est (Petrus Chrysologus, Serm., 141). Ma, se non il diritto positivo, una naturale legge di umanità segnava al potere dominicale un confine generalmente osservato, che non era lecito trasgredire senza esporsi alla pubblica riprovazione. "Cum in servum omnia liceant, est aliquid quod in hominem licere commune ius vetet" (Seneca, De clem., I, 18).
Se lo schiavo non ha diritti, il padrone ha verso di lui dei doveri morali sanciti dalla consuetudine. Anzitutto il dovere di nutrirlo e di vestirlo. Era uso costante passare allo schiavo per il suo mantenimento i mezzi di sussistenza (demensum), misurati a giorni (diaria) o a mesi (menstrua), che oscillava, secondo i dati di cui siamo in possesso, da quattro moggi di frumento a cinque moggi e cinque denari, e una certa quantità di vino. I vestiti (una tunica di rozza stoffa) e le scarpe (sculponeae) erano a carico del padrone. I risparmî che lo schiavo effettuava sul mensile gli venivano rilasciati, e con quelli egli poteva accumulare un peculium, con cui concedersi qualche svago e, eventualmente, comprare la sua libertà.
Origine e cessazione dello stato di servitù. - Lo stato servile ha origine dalla nascita o dalla perdita della libertà. Schiavo per nascita è il figlio della schiava; solo più tardi si considerò libero il figlio di una donna che in un qualsiasi momento dal concepimento al parto fosse stata libera.
Fra le cause di perdita di libertà la più comune, per un principio che ritroviamo presso tutti i popoli antichi, è la prigionia di guerra; i Romani consideravano schiavi gli appartenenti ai popoli belligeranti caduti in loro potere, e, in virtù dello stesso principio, capite deminutus il Romano divenuto prigioniero del nemico; questi decadeva da tutti i diritti pubblici e privati. Lo stato di prigionia produceva perciò la cessazione del matrimonio, l'incapacità di testare e la nullità del testamento anteriore alla prigionia. Tuttavia, se il prigioniero riusciva a varcare nuovamente i confini del territorio nemico e a rientrare in quello di Roma, si considerava, per benigna finzione, che non avesse mai perduto la libertà (ius postliminii); se moriva in prigionia, si supponeva che fosse morto nel momento in cui era stato fatto prigioniero (fictio legis Corneliae; dell'81 a. C.) e si apriva la successione a favore degli eredi testamentarî o legittimi.
Oltre alla prigionia di guerra, che è causa di servitù per ius gentium, vi erano altre cause proprie dello ius civile: diveniva schiavo il debitore insolvente, che fosse stato aggiudicato dal magistrato al creditore, e quindi, dopo un determinato periodo di prigionia, venduto trans Tiberim; ugualmente chi si fosse dolosamente sottratto al servizio militare o all'iscrizione nelle liste del censo; ovvero chi, per avere violato il diritto delle genti fosse stato consegnato al nemico dal capo dei feciali (pater patratus). Queste cause di perdita della libertà sono antichissime e col tempo furono abolite o andarono in disuso.
Meno antica, ma dell'età repubblicana, è la disposizione per la quale il libero che si è fatto vendere come schiavo per dividere col venditore il prezzo truffato all'incauto compratore rimane in stato servile. Nell'età imperiale perde la libertà la donna libera che mantenga rapporti con uno schiavo nonostante una triplice diffida del dominus di quest'ultimo; e chi è colpito da condanna a morte infamante, o ad metalla (lavori forzati nelle miniere).
Lo stato servile cessa o con la morte o con l'acquisto della libertà; questo avviene in seguito alla dichiarazione del padrone di lasciare libero lo schiavo, cioè con la manumissio. Lo schiavo manomesso diviene liberto dell'antico padrone.
Condizione giuridica dello schiavo. - Il diritto romano considerava lo schiavo come oggetto di diritto, cioè come cosa. Ma il fatto che lo schiavo, pur essendo astrattamente classificato fra le cose, era pur sempre un homo, cioè un essere dotato di intelligenza e di volontà, ne faceva, anche nel campo del diritto una cosa sui generis, ben distinta dalla categoria delle cose materiali e brute. Dello schiavo, essere umano, non si ha solo riguardo all'operare meccanico (e del resto anche la pura produzione materiale è considerata in rapporto alla volontà dello schiavo e giustifica la pena contro lo schiavo riottoso e negligente), ma anche ai suoi atti di volontà, che sono produttivi di conseguenze giuridiche sia di fronte al diritto punitivo dello stato, avendo i servi responsabilità penale (Dig., XLVIII, a, de accus. et inscr., 12, 4, omnibus legibus servi rei fiunt, il principio è enunciato nell'età imperiale, ma è già implicito nelle leggi delle XII Tavole), sia nei rapporti civili, nel senso che lo schiavo può validamente fare atti di acquisto del dominio e di diritti reali ed essere istituito erede, con l'effetto tuttavia che l'acquisto di quei diritti e dell'eredità va al padrone.
Lo schiavo è, poi, una cosa che ha la potenziale capacità di diventare persona, cioè di oggetto soggetto di diritto, per cui si possono creare nei suoi riguardi singolarissime situazioni che giustificano le eccezionali norme con cui venivano regolate, come quando si giunse, nell'età imperiale, a consentire allo schiavo (il quale prima di essere manomesso, non ha capacità di diritti e non ha quindi azione) un'azione contro il padrone che ne ostacolasse ingiustamente la manomissione, o non adempisse all'obbligo di manometterlo.
L'essere schiavo è uno stato che sussiste indipendentemente dal rapporto di soggezione dello schiavo al suo padrone; quindi uno schiavo senza padrone non cessa per questo di essere schiavo.
Lo stato servile, sottoponendo lo schiavo all'incontrollato arbitrio del padrone e rendendolo incapace di diritti soggettivi, porta con sé queste tre gravissime conseguenze: 1. che lo schiavo non ha modo di ricorrere a un'autorità superiore, quando il padrone ne abusi o lo maltratti o eserciti verso di lui un crudele arbitrio di potere punitivo; 2. che non può costituirsi una famiglia regolare; 3. che non può essere titolare di diritti patrimoniali. Lenti e parziali furono gli addolcimenti che il diritto portò a questa intollerabile situazione. Nell'età imperiale fu accolta dal diritto greco (v. sopra) l'umana norma che consentiva allo schiavo maltrattato di fuggire in un tempio e ottenere di essere rivenduto ad altro padrone; da Costantino in poi si cercò di impedire che si sciogliesse il contubernium, l'unione servile di fatto fra schiavi, vendendo separatamente lo schiavo e la sua donna; antica poi è la tolleranza con cui, in deroga al principio che ciò che lo schiavo acquista è del padrone (quodcumque per servum adquiritur, id domino adquiritur), si lasciava allo schiavo il possesso o la disponibilità del peculium, e con ciò l'eventuale mezzo di riscattarsi.
Sugli schiavi in Grecia: A. Boeckh, Die Staatshaushaltung der Athener, 3ª ed., Berlino 1886 (la 1ª ed. è del 1817, la 2ª del 1850), p. 85 segg. (traduzione italiana nella Biblioteca di Storia economica di V. Pareto, I, p. 189 segg.); A. Desjardin, L'esclavage dans l'antiquité, Caen 1857; H. - A. Wallon, Histoire de l'esclavage dans l'antiquité, 2ª ed., Parigi 1879; Becker-Göll, Charicles, Berlino 1877-78, III, p. 1 segg.; Th. Thalheim, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V (1903), col. 1785 segg.; J. H. Lipsius, Das attische Recht u. Rechtsverfahren, Lipsia 1905-15, III, p. 793 segg.: A. Calderini, La manomissione e la condizione dei liberti in Grecia, Milano 1908; J. Jüthner, Hellenen und Barbaren, Lipsia 1923, pp. 12, 26; U. E. Paoli, Studi di diritto attico, Firenze 1930, p. 105 segg.: L'autonomia del dir. commerc. nella Grecia classica, in Riv. del dir. comm. e del dir. gen. delle obbligazioni, anno XXXIII (1935), p. 38 segg.; W. L. Westermann, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., Suppl. VI (1935), col. 894 segg.
Sugli schiavi in Roma: Becker-Göll, Gallus, Berlino 1880-82, II, p. 115 segg.; H. Blümner, Die römische Privataltertümer, Monaco 1911, p. 227 segg.; E. Weiss, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III A, col. 551 segg.; W. W. Buckland, The roman Law of Slavery, Cambridge 1908; E. Albertario, Conceptus pro iam nato habetur, in Bull. Ist. dir. rom., XXXIII (1923), p. 1 segg.: P. Bonfante, Corso di dir. rom., I Diritto di famiglia, Roma 1925, p. 140 segg.; e il citato articolo del Westermann, col. 944 segg.; R. H. Barrow, Slavery in the Roman Empire, Londra 1928.
Medioevo ed età moderna.
Medioevo. - Da tre secoli almeno prima della caduta dell'Impero d'Occidente la schiavitù non aveva più nella vita economica del mondo antico quell'importanza decisiva ch'essa aveva avuto nel periodo delle grandi guerre di conquista. A determinarne la decadenza hanno indubbiamente contribuito le idee morali dello stoicismo e del cristianesimo, diffondendo il concetto che anche lo schiavo è un uomo, come il libero, e favorendo le manomissioni. Ma di questa loro azione puramente morale non bisogna esagerare la portata: nel campo politico e pratico stoicismo e cristianesimo accettarono pienamente la schiavitù come istituto sociale e come elemento indispensabile dell'economia del lavoro. Anche nel Medioevo la coscienza religiosa proibiva bensì che si riducessero in schiavitù i prigionieri di guerra, ma soltanto nel caso che prima della cattura essi fossero già di fede cattolica; l'ammetteva invece senza difficoltà per gl'infedeli e gli scismatici. Il battesimo, quando non fosse anteriore alla caduta in schiavitù, non aveva la forza di liberare lo schiavo e nemmeno i suoi discendenti.
Lo stesso papa Gregorio I incoraggia bensì, in una sua notissima lettera, le manomissioni di quegli uomini "quos ab initio natura liberos protulit et ius gentium iugo substituit servitutis"; ma in altra lettera deve riconoscere che il commercio degli schiavi, per sé stesso, è cosa lecita; e permette che gl'infedeli (Ebrei) comperino degli schiavi pagani, limitando la proibizione ai soli battezzati. Egli stesso del resto è costretto altra volta a ordinare l'acquisto dei famosi e tanto discussi "mancipia barbaricina".
In realtà l'importanza della schiavitù nel mondo romano era diminuita perché, cessate quasi del tutto le guerre di conquista, era venuta rarefacendosi l'offerta degli schiavi sul mercato, e perché, dopo il sec. I d. C., si viene compiendo nell'economia agraria una profonda trasformazione, per cui i latifundia coltivati da schiere di schiavi, a disposizione del proprietario o di un suo agente, si frazionano in poderi, su ciascuno dei quali è stabilita una famiglia di coltivatori dipendenti (v. colonato).
Ma se il numero degli schiavi è notevolmente diminuito, se il lavoro servile è stato in gran parte sostituito da quello dei coloni, la schiavitù non è affatto scomparsa alla caduta dell'impero e ad essa spetta ancora una parte, non del tutto insignificante, nella economia del lavoro.
Il mondo germanico, che è entrato allora in così frequenti contatti col mondo romano e ne ha dovunque invaso i confini, non solo conosceva anch'esso la schiavitù, ma la considerava ancora in tutta la sua rigidezza, senza quelle mitigazioni che il costume e l'opera legislativa degli ultimi imperatori erano venuti introducendovi nella società romana.
Sebbene non si possa accogliere la teoria, che vede nei liberi Germani del tempo di Tacito dei signori fondiarî, i quali non conoscono altra forma di lavoro che la guerra e la caccia, e traggono il loro sostentamento soltanto dal lavoro degli schiavi, tuttavia è indubitato che, presso i Germani di quel tempo e dei secoli posteriori, gli schiavi erano numerosi e che essi erano tratti dai prigionieri di guerra o dalla popolazione dei territorî conquistati. Il servo non è considerato come persona, ma come una cosa di cui il proprietario può disporre a suo arbitrio; essi sono elencati accanto ai cavalli, ai buoi e agli altri animali, e, come per questi, la loro uccisione non è punita col guidrigildo, ma con un semplice risarcimento del danno, secondo la stima fatta dal proprietario danneggiato. Il padrone può uccidere impunemente il proprio servo, può imporgli qualunque servigio a suo arbitrio. Il servo non ha capacità di acquistare per proprio conto, ma acquista soltanto per il padrone; non può contrarre matrimonio, ed è esposto al pericolo di vedere sciolta dalla volontà del padrone l'unione che avesse contratta. Per i danni recati dal servo a un terzo risponde il padrone.
La situazione giuridica degli schiavi, quale risulta dalle più antiche leggi germaniche, si avvicina dunque in tutto e per tutto a quella degli schiavi romani prima dell'impero; ma nella pratica le condizioni reali, corrette dalla lunga convivenza di servi e padroni sotto lo stesso tetto, dovevano essere in molti casi assai migliori di quelle che sarebbero loro assegnate dalle disposizioni legislative, in modo che, quando i Germani si stanziarono entro i confini dell'impero, non dovette essere in generale molto difficile l'adattamento (favorito anche dalla loro conversione al cristianesimo) alle disposizioni che vi trovarono in vigore, per cui si era tolto al padrone il diritto di vita e di morte sui suoi schiavi, s'impedivano gli abusi di potere, si riconosceva il matrimonio degli schiavi, purché esso fosse contratto fra i dipendenti da uno stesso padrone, e il loro diritto, sempre assai limitato, a disporre del proprio peculio.
Negli stati barbarici dal sec. VI al XI la schiavitù continua ad avere una funzione economica d'una certa importanza nelle grandi proprietà fondiarie, sebbene anche in queste la coltivazione delle terre si basi in misura di gran lunga predominante sul lavoro delle famiglie stabilmente insediate sui poderi in cui è diviso il fondo. Se rientrano in questa categoria anche molti lavoratori di origine servile (i cosiddetti servi casati), i quali per il solo fatto di essere stabiliti su una propria casa e sopra un pezzo di terra loro assegnato definitivamente vengono a mutare sostanzialmente la loro condizione, e da cose mobili di cui il padrone dispone liberamente, finiscono con essere considerati come degli immobili, i quali di regola (sebbene non manchino le eccezioni) seguono le sorti della terra su cui vivono; se anche la coltivazione delle terre dominiche, di quelle terre cioè che il signore riserva al suo diretto sfruttamento, è fatta per la maggior parte con le prestazioni d'opera di questi coltivatori dipendenti; non mancano tuttavia presso la corte del signore - laico o ecclesiastico che egli sia - gli schiavi veri e proprî, i quali non sono addetti soltanto ai servizî domestici, ma anche ai lavori industriali e a certi lavori agricoli specializzati.
A questa categoria di servi dominici, veri servi personali, privi di una casa e di una terra, abbandonati all'arbitrio del signore e viventi completamente a suo carico, appartengono in primo luogo i servi ministeriales, o homines manuales, che, ricordati già dall'editto di Rotari ("De illos vero ministeriales dicimus qui docti domui nutriti aut probati sunt"), si incontrano frequentemente in Italia e in Francia, come in Germania, e sono considerati come servi di un rango più elevato, tanto che hanno un guidrigildo molto più alto degli altri. Specialmente nelle corti maggiori, costituenti il centro di un'economia più vasta e più complessa, essi erano addetti ai varî mestieri, con cui si provvedeva ai bisogni della corte e forse anche a quelli di tutta la proprietà.
Così per citare soltanto alcuni esempî italiani (altrove, specialmente nelle vastissime proprietà del convento di Saint-Germain-des-Prés, essi sono anche più numerosi), nelle lettere di S. Gregorio troviamo un Petrus piter artis pistoriae; più tardi nelle terre del vescovo di Lucca un calicarius, un pristinarius, un vestararius; a Siena nuovamente un pistrinarius, un lavandarius, tre tappetarii; a Forcone (Farfa) un pistor e un lavandarius; sulle terre dell'abbazia di Montecassino un texitor e un pigmentarius. Accanto a questi ministeriales v'erano i servi addetti a speciali lavori domestici, a lavori sussidiarî dell'agricoltura: cuochi, cavallari, giumentari, porcari, pecorari, vaccari, aucari, ortolani, bifolchi, che sono ricordati sempre assieme agli altri servi manuali, ma dovevano trovarsi già - almeno in molti casi - in una posizione assai più indipendente, avendo ottenuto l'assegnazione di una casa e talvolta anche da un pezzo di terra. Talvolta poi, nelle grandi proprietà ecclesiastiche, sono ricordati fra i servi manuales anche alcuni servi clerici, che erano forse addetti ai più bassi servizî del culto.
Le donne, ancillae, famulae, mancipia, erano impiegate per lo più nel servizio interno della casa; ma nelle corti maggiori ve n'erano alcune, riunite a gruppi, per l'esercizio delle arti tessili: il genitium o pisele, che l'editto di Rotari ricorda alla corte del re, e di cui Carlo Magno regolava l'ordinamento nel Capitulare de villis, si ritrova anche nelle grandi proprietà ecclesiastiche italiane del sec. IX, p. es. a S. Giulia di Brescia, dove sono riunite 20 foeminae; a Farfa (infra casam in Forcone), dove sono distinte le 25 mancipia quae bene laborant, le 13 quae mediocriter laborant, e le 13 loro figlie; a Nonantola, dove le serve destinate alla tessitura dovevano essere assai numerose, se ogni anno se ne potevano mandare dodici al convento sottoposto di S. Michele in Firenze perché vi facessero camicie di lana e di lino; a Verona, dove il vescovo Rataldo donava ai canonici la decima parte delle vesti, quae de pisile veniunt et de gineceo.
Ma accanto a questi schiavi addetti alla casa e alla produzione industriale non mancavano, almeno nei primi secoli dopo l'invasione, anche i servi rustici veri e proprî; l'editto di Teodorico parla dei rustica utriusque generis mancipia, contrapponendoli ai servi addetti urbanis ministeriis; nelle Variae di Cassiodoro si dice che possono migliorare la loro condizone quei servi qui de labore agrorum ad urbana servitia transferuntur; papa Gregorio I parla di alcuni suoi messi, ch'erano andati in Sicilia a raccogliere alcuni mancipia, e stabilisce che siano condotti sulle terre dove devono lavorare, e che il frutto del loro lavoro, reservato unde ipsi possint subsistere, sia mandato ogni anno al monastero di S. Sebastiano. Lo stesso papa, nella lettera famosa al vescovo di Luni, con cui lo invita a impedire che gli Ebrei tengano al loro servizio schiavi cristiani, stabilisce tuttavia che i servi residenti sulle loro terre siano bensì personalmente liberi, ma seguitino a coltivare quelle terre utpote condicionem loci debentes, passando dalla condizione di mancipia a quella di coloni. La distinzione si mantiene ancora al tempo di Rotari, il quale colloca il servus rusticanus molto al disotto del ministerialis, e anche più in basso il servus rusticanus qui cum massario est. Testimonianze simili si trovano pure per l'età carolingia, in modo che è indubitato che, per quattro o cinque secoli dopo la caduta dell'impero, si continuano a trovare sulle grandi proprietà dei gruppi di schiavi che dipendevano direttamente dal signore o dal suo fattore, erano usati da lui, a suo arbitrio, per l'uno o per l'altro lavoro, riuniti per lo più in abitazioni comuni e da lui forniti di vesti e di vitto, donde il nome di provendarii, così frequenti nelle grandi proprietà ecclesiastiche della Francia, e che il Capitulare de villis, distinguendoli dai servi che hanno il loro manso e vivono di quello, definisce come coloro che non lo hanno et de dominica accipiunt provendam. Il peculio (paratum et conquestum), che il servo riuscisse a costituirsi, era considerato come proprietà del padrone il quale, manomettendo il servo, poteva tenerlo per sé. Il servo aveva sopra di esso una disponibilità limitata, subordinata al consenso del padrone.
Donde provenissero questi schiavi non è mai detto espressamente negl'inventarî delle grandi proprietà, né può essere per questo di grande aiuto lo studio dei loro nomi, che venivano sempre mutati dei servi romani, che non avessero goduto del beneficio della manomissione; in parte minore dovevano discendere da persone ridotte in schiavitù nel periodo delle invasioni; ma il numero maggiore, specialmente per i servi domestici, doveva provenire da acquisti sul mercato. In tutti questi secoli il commercio degli schiavi dovette mantenersi sempre abbastanza attivo. Da principio lo esercitavano di preferenza i mercanti orientali, che frequentavano i mercati del Mediterraneo occidentale, e fra questi sono particolarmente ricordati gli Ebrei, all'attività dei quali in questo campo accennano, a due secoli di distanza, Gregorio Magno e gl'imperatori carolingi, i quali confermano loro la licenza di acquistare mancipia peregrina e di venderli entro l'impero.
Nel sec. IX lo stesso commercio era esercitato pubblicamente dai Veneziani che nel "Pactum Lotharii" dell'840 s'impegnano a non comperare cristiani del regno per venderli ai pagani, e ancora nel 1007 il convento di S. Benedetto di Conversano otteneva l'esenzione dall'imposta per tutti gli schiavi che comperasse sul mercato di Bari per il servizio del monastero. Risale anzi a quest'epoca e alle numerose importazioni di servi dai paesi slavi l'uso diffusosi presto in Italia e, dopo il sec. XII, anche in Francia di designarli col nome di schiavi.
Intanto per il rapido aumento della popolazione che si manifesta dopo il Mille e specialmente nell'età dei comuni, il moltiplicarsi delle famiglie coloniche, il frazionamento delle terre dominiche, l'attrazione esercitata dalle città di cui "l'aria fa liberi", vengono a distruggere a poco a poco, nell'Europa occidentale, ogni funzione della schiavitù nell'economia agraria e nella produzione industriale. La schiavitù sopravvive soltanto per i servizî domestici e per i servizî di guardia del corpo a sovrani o a grandi signori; ma per questi due scopi il commercio degli schiavi, in maggioranza donne di età giovanile, raggiunge anzi, dopo la metà del Duecento, una nuova e considerevole fioritura, sia per l'aumento della ricchezza e del lusso nei paesi d'Occidente, sia per l'aprirsi a questo commercio di due nuove fonti lungo le coste del Mar Nero e nei porti di Barberia, sia per l'intensificarsi pauroso, di pari passo col commercio marittimo, della pirateria.
In conseguenza delle nuove invasioni mongoliche, iniziatesi nel sec. XIII, si moltiplicò il numero dei prigionieri di guerra o dei fuggiaschi, caduti in mano dei Turchi, i quali li portavano sui mercati del Mar Nero, dove mercanti occidentali, specialmente veneziani e genovesi, comperavano Circassi, Armeni, Siri, Bulgari, Serbi, e poi, in numero anche maggiore, Russi e Tatari, ch'essi rivendevano con notevole profitto nei principali porti del Mediterraneo occidentale, dove la domanda era in sensibile aumento, tanto da farne spesso salire il prezzo ad alti livelli. Nello stesso tempo i Negri del Sudan, che già da lungo tempo erano portati dai mercanti arabi, attraverso il Sahara, ai mercati del Marocco e della Spagna moresca, cominciano ad affluire ai porti di Barberia, frequentati dalle navi italiane, provenzali e catalane, e per questo tramite a figurare sempre più numerosi nelle corti principesche e nei palazzi dei ricchi mercanti cristiani.
Una diversione in questa corrente di traffico, importantissima per le conseguenze future più che per quelle immediate, viene determinata dalle esplorazioni e dalle conquiste portoghesi lungo le coste occidentali dell'Africa. Occupati nel 1444 alcuni tratti della costa del Senegal, i Portoghesi poterono acquistare direttamente e trasportare per via di mare a Lisbona gli schiavi sudanesi, i quali costituiscono anzi il principale oggetto delle loro esportazioni dall'Africa, e fanno di Lisbona, per più di un secolo, il maggiore mercato schiavista di Europa. Se si può ritenere esagerata la notizia, data da un osservatore contemporaneo, che a Lisbona vi sarebbe stato un numero di schiavi negri superiore a quello della popolazione bianca, è tuttavia certo che quel commercio dava allora vita e guadagno, nella sola capitale, a una settantina di mercanti.
Età moderna. - La scoperta dell'America apre una nuova era nella storia della schiavitù, che riacquista nel Nuovo Mondo la funzione che essa aveva avuto nell'antichità nel mondo romano e orientale e diventa lo strumento più efficace per lo sfruttamento agricolo delle colonie. Non mancarono i tentativi di valersi per questo scopo del lavoro forzato degl'indigeni e degli stessi Bianchi. Ma gl'Indiani, sia che fossero ridotti in schiavitù, com'era parzialmente avvenuto nei primi tempi della conquista, e come si rifece nel sec. XVII con le razzie dei Paulisti nelle missioni del Paraguay, sia che fossero trattati alla stregua di servi della gleba, mal si adattavano al lavoro eccessivamente gravoso delle piantagioni. La mano d'opera europea, a cui non provvede che in misura minima l'emigrazione libera, è reclutata col mezzo (a cui ricorreranno anche, alla fine dell'ottocento, i piantatori brasiliani di caffé) dei cosiddetti redemptioners, di quegli emigranti cioè che devono pagare col loro lavoro il prezzo del viaggio; con quello degli indented servants (servi ingaggiati), che si obbligano per contratto a lavorare come schiavi per un periodo determinato, che varia da 3 a 10 anni (servi temporanei, che sono reclutati nel Seicento particolarmente in Germania nel periodo della sua massima depressione economica), e finalmente col mezzo della deportazione dei condannati.
Ma tutti questi espedienti non offrono che una mano d'opera insufficiente e su cui non si può fare che scarso assegnamento. In misura assai maggiore e con risultati più soddisfacenti il lavoro nelle colonie americane, specialmente nelle Antille, nel Brasile settentrionale e più tardi nelle più meridionali fra le colonie inglesi dell'America Settentrionale viene fornito dagli schiavi negri.
La strada alla tratta dei Negri era stata aperta dalle numerose importazioni che da più di mezzo secolo s'era cominciato a farne dalle coste della Guinea al Portogallo e di qui nella Spagna, e dal loro impiego non solo nei servizî domestici, ma anche nei lavori agricoli, specialmente nelle terre aride e spopolate dell'Algarve. Di una prima importazione di Negri dalla Spagna ad Haiti si ha notizia fin dal 1501; successivi decreti del 1511-12-13 autorizzano il traffico diretto dei Negri dalle coste della Guinea alle Indie occidentali, e Carlo V concede al fiammingo La Bresa il privilegio di fornire annualmente 4000 schiavi negri ad Haiti, Cuba, Giamaica e Portorico. Soltanto un anno più tardi si ha la famosa proposta del vescovo domenicano B. de La Casas, a cui perciò si fa risalire a torto la responsabilità prima dell'introduzione della tratta dei Negri, ch'egli tutt'al più ha incoraggiata, giustificandola con la necessità di salvare da una rapida distruzione gl'indigeni americani, mentre i Negri non solo erano più resistenti al lavoro in un clima torrido, ma erano già schiavi nel loro paese prima di essere venduti ai mercanti europei e trasportati al di là dell'Atlantico.
Il lavoro degli schiavi negri si limitò alle colonie spagnole, ma fu esteso poco dopo nel Brasile, con l'incoraggiamento della corona portoghese, che ne ritraeva un duplice vantaggio fiscale: di riscuotere un dazio sui Negri che affluivano sul mercato di Lisbona, e di poter esigere un tributo personale dagl'Indiani, lasciati, almeno teoricamente, in libertà. Vantaggi anche maggiori, per la richiesta molto più larga delle sue colonie, ne ritrae la corona spagnola, la quale considera la provvista degli schiavi come un proprio monopolio, dandolo in subconcessione a privati, anche stranieri, i quali pagavano una tassa che nel sec. XVII superò i 30 ducati per ogni negro imbarcato.
Ma se le ragioni fiscali erano in primissima linea, il monopolio e la stretta vigilanza della corona erano determinate anche da ragioni religiose, per il timore spesso manifestato dalla Chiesa spagnola che una importazione troppo numerosa di schiavi d'ogni provenienza potesse ostacolare l'opera della conversione degl'Indiani al cattolicismo, considerato uno degli scopi principali della conquista coloniale. Perciò la corona continuò a proibire l'introduzione in America di schiavi di origine moresca o "di Levante", intendendo con quest'ultima designazione gli schiavi comperati in Sardegna o nelle Baleari, la maggior parte dei quali erano incroci moreschi o ebrei, oppure erano convertiti alla fede musulmana.
All'importazione degli schiavi negri è legato l'estendersi delle piantagioni della canna da zucchero nel Brasile settentrionale e nelle Antille, poiché gl'indigeni non si erano rivelati adatti a quel genere di coltura. Si disse anzi per questo che "dove arriva la canna da zucchero, essa trae dietro a sé il commercio degli uomini". È appunto perciò che la tratta dei Negri, contenuta per gran parte del sec. XVI entro limiti ancora modesti, cominciò a intensificarsi negli ultimi anni del secolo e nei due secoli successivi, a mano a mano che si diffondeva in Europa l'interesse per la colonizzazione americana, e si moltiplicavano e ampliavano le piantagioni.
Affidato nel sec. XVI dalla corona spagnola ai maggiori offerenti, per mezzo di particolari contratti (i cosiddetti "asientos de negros"), esercitato per qualche tempo da alcuni gruppi di mercanti genovesi e tedeschi, e passato nel secolo stesso in mano dei Portoghesi, che ne tennero il monopolio fino al principio del Settecento, il commercio dei Negri africani sulle coste americane si andò, molto prima di quell'epoca, estendendo anche agli altri popoli marinari dell'Atlantico, Francesi, Inglesi e Olandesi, che lo esercitarono sia nella forma della pirateria e del contrabbando, sia legalmente per il rifornimento delle colonie che anch'essi andavano assicurandosi al di là dell'Oceano, servendosi poi di qualcuna di queste colonie per costituirvi dei depositi di Negri (p. es., gl'Inglesi nell'isola di Giamaica), da introdurre poi nelle vicine colonie spagnole.
Ma è soprattutto nel sec. XVIII che quel commercio assume proporzioni grandiose, e che di esso la massima parte è ormai assunta da Francesi e Inglesi. Bordeaux, Le Havre e più che tutto Nantes devono ad esso una parte considerevole della loro attività marittima e commerciale. Dal 1714 al 1774 il porto della Loira è il primo porto negriero della Francia, e il commercio degli schiavi è il più lucroso dei suoi commerci, nel quale si riassume non solo la ricchezza, ma l'economia stessa e la vita politica e sociale della città, per le ripercussioni e interferenze che tale commercio esercita su tutte le attività cittadine.
Il commercio negriero di Nantes ha, come quello della maggior parte dei porti specializzati in questa attività, quel tipo di commercio triangolare che gli è caratteristico: le navi cioè caricano a Nantes bevande alcooliche, tele, conterie e altri oggetti minuti di scarso valore, che servono loro sulle coste della Guinea per il baratto con gli schiavi; dalla Guinea fanno vela verso l'America Centrale col loro carico umano, che rivendono sui mercati del Brasile o delle Antille, investendone il prezzo in zucchero o in tabacco, che trasportano a Nantes. Essi hanno quindi la possibilità di trarre un triplice profitto dal loro viaggio e sempre in misura altissima. Per l'acquisto di uno schiavo di Angola bastavano degli oggetti di scambio del valore di 40 o 50 fiorini olandesi, mentre lo stesso uomo, il cui trasporto non aveva che un costo assai modesto, era rivenduto sulle coste del Brasile per un prezzo oscillante dai 200 agli 800 fiorini, a cui si deve aggiungere il guadagno dello zucchero greggio, trasportato dal Brasile in Europa. Nel quinquennio 1751-55, che segna l'apogeo del commercio negriero della Francia, la sola Nantes vi partecipa con una media annuale di 9000 schiavi, trasportati da 33 navi.
Ma nello stesso periodo in cui la Francia saliva a questo livello, l'Inghilterra si era assicurato il primo posto nel commercio degli schiavi. Con la pace di Utrecht (1713) essa aggiungeva infatti, al rifornimento delle colonie britanniche, il monopolio per un trentennio del mercato coloniale spagnolo grazie al pacto del asiento de negros, col quale si conveniva che la corona inglese si incaricasse, per mezzo di persone da essa nominate, di trasportare alle Indie Occidentali spagnole 144.000 Negri nello spazio di 30 anni, con una media di 4800 l'anno.
Per 25 anni l'esecuzione del trattato fu concessa, in regime di monopolio, alla compagnia del Mare del Nord, di cui erano azionisti, per un quarto rispettivamente del capitale, il re di Spagna e la regina d'Inghilterra; ma nel 1739 il contratto fu revocato e la tratta africana fu lasciata libera a tutti i sudditi inglesi. Comincia appunto da questo periodo la massima fioritura del commercio negriero inglese, favorito dal rapido sviluppo delle piantagioni nelle colonie meridionali dell'America Settentrionale.
Di questa fioritura il vantaggio maggiore ricade sui porti occidentali dell'Inghilterra, dapprima su Bristol, e poi in misura altissima su Liverpool, che nella seconda metà del Settecento diventò il primo porto negriero del mondo, e fu debitrice a questo commercio della spinta iniziale per la sua rapida ascesa. Nell'anno 1771 la sola Liverpool aveva in mare, per questo scopo, 107 vascelli, che trasportarono in America 28.500 schiavi, più dei 3/5 cioè del numero che vi fu trasportato, in quell'anno, da navi inglesi (192 in tutto, di cui 58 di Londra e 23 di Bristol).
Le colonie inglesi dell'America Settentrionale contavano nel 1715 solo 60.000 Negri, nel 1754 il loro numero era salito a 260.000, nel 1776 a 460.000; il primo censimento degli Stati Uniti, nel 1790, rileva la presenza di 752.069 Negri. Press'a poco nello stesso anno, nelle Antille inglesi, si sarebbero contati 463.208 schiavi, in quelle francesi 504.000; mentre nelle Antille spagnole essi non sarebbero stati che 32.296.
Ma il numero considerevole di schiavi che alla fine del sec. XVIII si trova nel continente americano - probabilmente, quando si aggiungano gli altri territorî dell'America spagnola e il Brasile (dove in certe provincie del nord il rapporto fra Negri e Bianchi era di 20 : 1), esso deve avvicinarsi ai 3 milioni - non rappresenta che una piccola parte del numero dei Negri che in 300 anni sono stati strappati al loro paese d'origine per essere venduti sui mercati americani.
Condotti alla costa dall'interno del continente dopo lunghe e penosissime marce, i Negri erano ammassati, in numero di circa 300, entro la stiva di una nave, che in media non doveva superare le 200 tonnellate, senz'aria, senza luce, con poca acqua e con un vitto insufficiente, senza alcuna vigilanza sanitaria, in modo che la mortalità durante la traversata era fra essi altissima. Se si dovesse prestare fede ai calcoli di uno storico della schiavitù americana, si dovrebbe ammettere che, sopra un migliaio alla tratta, 500 ne perissero nella cattura, 125 durante il tragitto, e 75 durante il periodo di acclimamento nelle nuove terre; in modo che solo 300 su 1000 sarebbero stati effettivamente utilizzati. Di queste cifre la più grossa, la prima, si sottrae a ogni controllo; ma la seconda trova piena conferma in alcuni dati precisi sul commercio di Nantes.
Per 11 anni, dal 1764 al 1775, la media del carico sulle coste africane era stata di 314 teste per ogni nave, la media degli schiavi sbarcati in America di soli 277. In media dunque 37 su 314 (117 su 1000) ne erano morti durante la traversata (G. Martin, Nantes au XVIIIe siècle. L'ère des négriers [1714-1774], Parigi 1931).
Eppure a quell'epoca la situazione sarebbe dovuta essere sensibilmente migliorata in confronto dei due secoli precedenti; fin dal principio del Settecento i mercanti di schiavi si erano indotti, nel proprio interesse, ad adottare delle misure sanitarie migliori. Su ogni nave negriera francese si prescriveva la presenza di un medico; gli schiavi ammalati dovevano avere assistenza; il capitano era obbligato ad assicurar loro un nutrimento sufficiente, e a permettere loro di distrarsi con la musica e la danza. Il capitano riceveva un premio di 5 lire per ogni negro portato sano a destinazione. Così in Inghilterra furono fissati dei premî per il capitano e il medico di bordo, se durante la traversata non avessero avuto più del 3% di perdite.
Ma la sproporzione fra il numero dei Negri sottratto all'Africa e quello degli schiavi effettivamente utilizzati e destinati a moltiplicarsi nel continente americano è determinata anche dalle sue condizioni di vita e di lavoro, generalmente assai cattive. Senza alcuna tutela da parte dell'autorità, il loro trattamento dipende unicamente dall'arbitrio del piantatore, che in generale li sfrutta come animali da lavoro, senza alcun rispetto per i loro vincoli di famiglia, che non sono in alcun modo protetti dalla legge, mutandone il luogo e la specie di lavoro a seconda del bisogno o del capriccio, guidato per lo più dal calcolo che sia per lui conveniente sostituire uno schiavo vecchio o inabile con uno giovane di nuovo acquisto. Si lamenta perciò fra gli schiavi delle piantagioni una mortalità altissima, specialmente fra i giovani; i suicidî, le fughe e le ribellioni sono frequenti, in particolare nei primi tempi o fra gli schiavi arrivati di recente e fra i quali erano più vivi il ricordo della libertà perduta e la nostalgia del paese d'origine. Ma la maggior parte dei Negri d'America si rivela di temperamento adattabile e fedele, e le nuove generazioni, nate in America, non oppongono più alcuna resistenza.
In generale, nei rapporti fra Bianchi e Negri si rilevano condizioni migliori nelle colonie spagnole che in quelle anglosassoni; e la differenza è dovuta in parte al minore pregiudizio di razza, che permette agli Spagnoli più frequenti e relativamente cordiali contatti con i Negri, aiutati anche dall'opera dei preti cattolici, i quali assai più dei pastori evangelici favoriscono i battesimi, i matrimonî, le manomissioni dei Negri; in parte alla differenza dell'ordinamento politico per cui il governo più accentratore e autocratico delle colonie spagnole permette una tutela degli schiavi un po' più efficace che nelle colonie inglesi del tutto autonome, dove il diritto di proprietà dei padroni sugli schiavi non aveva alcun limite.
Il movimento antischiavista. - In generale però le condizioni degli schiavi erano pessime in tutte le colonie, e nel periodo dell'illuminismo esse cominciano ad attirare l'attenzione e le critiche del ceto più colto d'Europa e dell'America stessa, dove numerosi filantropi cominciano a denunciare i danni e le vergogne di quella istituzione. Per lunghi anni questa propaganda non raggiunse alcun effetto, perché troppo forti erano gl'interessi contro cui essa urtava; il commercio coloniale che nel Settecento cresce con ritmo assai rapido, contribuendo in misura sempre più alta allo sviluppo economico della madrepatria, si fondava quasi esclusivamente sui prodotti delle piantagioni, che erano debitrici della loro prosperità al lavoro degli schiavi. D'altra parte allo stesso commercio negriero era legato l'interesse non solo di numerosissimi e potenti privati, ma anche dello stato, che vedeva in esso un mezzo efficace per aumentare la propria potenza navale, impiegando un numero considerevole di navi e di marinai.
Ma fu appunto in questo campo che, nella seconda metà del sec. XVIII, si comincia a manifestare un forte mutamento delle opinioni, perché le lunghe soste che le navi inglesi devono fare sulle coste africane determinano disagi, malattie, diserzioni, per cui si comincia a pensare che i danni siano superiori ai vantaggi; mentre nel tempo stesso l'alto prezzo raggiunto dagli schiavi cominciava a sollevare i primi dubbî sull'economicità del loro lavoro. Il distacco poi delle 13 colonie nordamericane, dove più vivo, almeno nel sud, era l'interesse per il mantenimento della schiavitù, viene a togliere l'ostacolo più grave contro cui urtava la propaganda abolizionista. Questa propaganda, che aveva registrato i suoi primi successi nella sentenza famosa del giudice inglese Granville Sharp del 1772, per la quale lo schiavo che toccasse il suolo britannico doveva considerarsi libero, e in quella del tribunale di Boston del 1783, negante lo stato di schiavitù in base all'art. 1 della costituzione del Massachusetts, che aveva proclamato la libertà e l'uguaglianza di tutti gli uomini; questa propaganda otteneva, dopo ripetuti tentativi, il primo trionfo legislativo col bill del 1807 che proibiva la tratta marittima. L'Inghilterra, preceduta già su questa via dalla Francia rivoluzionaria (1791), che però poco dopo dovette revocare l'abolizione, e dalla Danimarca (1792), fu seguita subito dopo dagli stessi Stati Uniti d'America (1807), dall'Olanda (1814), dalla Svezia (1815), dalla Francia stessa (1815); dagli stati dell'America Centrale e Meridionale (eccetto il Brasile), nel momento in cui acquistano l'indipendenza; dal Portogallo (1830). Il congresso di Vienna del 1815 si era pronunciato in massima contro la schiavitù e aveva proclamato la necessità di un'intesa internazionale per la sua soppressione. Si arrivò così, dopo varie convenzioni fra singoli stati, al trattato anglo-franco-russo-austro-prussiano del 1841, per cui ognuno dei contraenti concedeva agli altri il diritto reciproco di visita a bordo dei vascelli sospetti di tratta nelle acque africane, escluso il Mediterraneo (v. anche appresso).
La soppressione della tratta doveva condurre in breve tempo all'abolizione della schiavitù nei pochi stati civili in cui ancora sopravviveva e nelle colonie d'oltremare. Dava l'esempio l'Inghilterra con la legge famosa del 1833; seguivano la Francia nel 1848, e poco dopo l'Olanda, gli stati dell'America latina, eccettuato il Brasile, gli Stati Uniti con la legge del 1° gennaio 1863, che però non si estendeva agli stati schiavisti del sud se non dopo la fine della guerra di secessione e il trionfo degli stati unionisti. Nel 1870 l'aboliva la Spagna nelle due colonie americane che le erano rimaste, Cuba e Portorico; e finalmente si adattava all'abolizione, nel 1888, anche il Brasile, che aveva resistito per il timore che ne derivasse la rovina delle sue grandi piantagioni di caffe.
Rimaneva soltanto, oltre a poche sopravvivenze sporadiche di schiavitù domestica nei paesi orientali, il continente africano dove, specialmente nelle sue regioni centrali e meridionali, la schiavitù si può considerare come una malattia endemica. Contro di essa rivolsero i loro sforzi gli stati europei, quando essi cominciarono a considerare tutto il continente africano, e non solo qualche tratto delle coste, come il teatro della loro futura espansione coloniale. Dopo una dichiarazione contro la tratta degli schiavi della conferenza di Berlino del 1885, si arrivò alla conferenza antischiavista e all'atto generale di Bruxelles del 2 luglio 1890, comprendente impegni precisi per impedire la tratta dei Negri con vigilanza nei paesi di reclutamento degli schiavi e nei paesi di destinazione (specialmente sulle coste dell'Oceano Indiano).
Ulteriori passi sulla stessa strada si compirono dopo la guerra mondiale con la convenzione di Saint-Germain del 1919, con cui si considerava illecita e si condannava la schiavitù in tutte le sue forme compreso il lavoro forzato, la pseudo-adozione, il concubinaggio forzato, la schiavitù per debiti; e con la convenzione (della quale è più ampiamente detto nel paragrafo: Diritto internazionale) di Ginevra del 1926, promossa dalla Società delle nazioni e ratificata da 38 stati, che sanciva ancora una volta la totale soppressione del commercio degli schiavi.
Nel 1932 il comitato degli esperti sulla schiavitù, nominato dalla Società delle nazioni, constatava che la schiavitù era riconosciuta legalmente soltanto in alcune regioni dell'Asia centrale, nel Tibet, in Arabia e in Abissinia. Però alcuni studiosi di tale problema affermano che si è ancora lontani dal trionfo completo dell'abolizionismo, e calcolano che esistano ancora sulla terra parecchi milioni di schiavi. Nell'Abissinia, fondamento dell'intero sistema economico era pur sempre la schiavitù: scrittori inglesi e nordamericani calcolarono che in Abissinia circa un quinto della popolazione totale fosse costituito da schiavi; la tratta degli schiavi vi era largamente praticata con periodiche razzie per la cattura d'individui destinati alla schiavitù. L'ultimo imperatore etiopico Hailé Sellassié aveva bensì emanato platonici editti per la liberazione degli schiavi, contro le razzie in danno delle popolazioni vicine, e contro il commercio negriero: ma erano stati editti puramente formali. Solo col bando del maresciallo Badoglio (12 aprile 1936) e con la conquista italiana la schiavitù ha potuto essere abolita in Etiopia. Né molto dissimili da quelle che erano le condizioni dell'Abissinia prima della conquista, sono le condizioni in gran parte dell'Arabia. Qui, come del resto in tutti i paesi musulmani finché essi riuscirono a sottrarsi all'influenza preponderante degli stati occidentali, la schiavitù è un istituto contemplato e regolamentato dal diritto religioso. Il trattamento degli schiavi è peraltro, in conformità delle norme del diritto stesso, abbastanza mite.
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Diritto internazionale.
L'ordine internazionale non possiede alcuna norma generale con la quale possa imporre agli stati di non ammettere nel proprio interno la schiavitù. Solo di recente (26 settembre 1926) fu sottoscritta a Ginevra, per iniziativa della Società delle nazioni la già ricordata convenzione (resa esecutiva in Italia con la legge del 26 aprile 1928) nella quale gli stati si impegnano tra l'altro (art. 2 lettera b) "a perseguire la soppressione completa della schiavitù in tutte le sue forme, in modo progressivo e al più presto possibile".
Numerose sono, invece, le norme internazionali che tentano di reprimere la tratta degli schiavi, cioè il commercio per il quale persone, private della loro libertà, vengono trasportate da certi luoghi, per lo più dall'Africa, in altri dove la schiavitù ancora è ammessa. Se l'ordine internazionale è impotente a vietare la schiavitù all'interno degli stati, ha almeno cercato di impedire nuovi reclutamenti di schiavi e la riduzione in schiavitù di nuove persone.
La prima norma internazionale al riguardo si ebbe nell'annesso a dell'atto finale del già ricordato congresso di Vienna del 9 giugno 1815. In questo annesso le potenze condannarono energicamente la tratta degli schiavi, e dichiararono di voler agire per la sua soppressione; ma in pari tempo rilevarono che bisognava avere riguardo anche per gl'interessi, le abitudini e le stesse prevenzioni dei loro sudditi che quel commercio esercitavano, e da cui ritraevano vantaggio; e che pertanto solo gradualmente si doveva provvedere, e che la determinazione dell'epoca in cui la tratta degli schiavi dovesse cessare, doveva ottenersi solo in seguito, per mezzo di convenzioni particolari fra gli stati. L'atto di Vienna non contiene pertanto nulla più che un'astratta affermazione di principio, e non pone alcuna norma obbligatoria, ma solo esprime la fiducia che gli stati provvedano a vietare quel commercio e ad impegnarsi tra loro al riguardo con convenzioni internazionali.
Convenzioni di questo genere tardarono però a essere concluse tra gli stati, a causa di alcune difficoltà, derivanti non solo dai privati interessati al commercio, ma dagli stati stessi e dal loro timore che le misure necessarie per la repressione della tratta degli schiavi potessero tornare loro di danno. Come misure idonee per una efficace repressione della tratta, si proponeva infatti dall'Inghilterra che si concedesse alle navi da guerra di ogni stato di sottoporre a visita qualunque nave incontrata in alto mare, onde assicurarsi se non trasportava schiavi, e di tradurla poi nei proprî porti e di applicare le congrue pene, ove quel commercio risultasse accertato. Si sarebbe così derogato, in vista di un fine umanitario, alla norma generale secondo la quale la nave commerciale resta anche in alto mare sottoposta all'esclusiva sovranità dello stato al quale appartiene, e nessun atto di giurisdizione può sopra di essa venire esercitato dalle navi da guerra di altri stati. E si temeva, ciò concedendo, di finir col favorire la supremazia marittima dell'Inghilterra, e con l'attribuire a questa, che aveva il più gran numero di navi da guerra, un generale diritto di visita e di controllo su tutte le marine mercantili altrui.
Fallirono pertanto i tentativi inglesi al congresso di Verona del 1822; ma in seguito numerose convenzioni poterono essere conchiuse. Nel 1841 si conchiuse a Londra il già ricordato trattato collettivo tra le grandi potenze del tempo, le quali si concedettero reciprocamente di giudicare, qualunque ne fosse la nazionalità, le navi sospette di tratta che avessero catturato. Un trattato del 1845 tra la Francia e l'Inghilterra ammetteva, se non il diritto di visita, almeno il diritto di inchiesta della bandiera delle navi onde accertare se non trasportavano schiavi. Il reciproco diritto di visita fu invece stipulato tra gli Stati Uniti d'America e l'Inghilterra nel 1862. Numerose norme contro la tratta degli schiavi si ebbero nella convenzione di Berlino del 1885, nella convenzione di Bruxelles del 1890, e nella convenzione di Saint-Germain del 10 settembre 1919. Infine anche della tratta degli schiavi si occupa la già citata convenzione di Ginevra del 1926.
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