schizofrenia
Patologia mentale caratterizzata da gravi sintomi psicotici, apatia, ritiro sociale e compromissione delle funzioni cognitive. Induce deterioramento nell’attività lavorativa, scolastica, familiare e incapacità da parte del soggetto di prendersi cura di sé, svolgere una vita indipendente e condurre una buona vita di relazione. La s. rappresenta la patologia psichiatrica, maggiormente disabilitante e con i costi più alti per il sistema sanitario.
La s. esordisce tra i 16 e i 25 anni; l’incidenza annuale, simile tra i diversi Paesi, è di circa 1/10.000 individui, mentre la prevalenza è attorno allo 0,6%. Le femmine presentano un’età di esordio più tardiva e un decorso della malattia più favorevole, con minore numero di ricoveri e migliore funzionamento sociale. La diagnosi di s. non è stabile nel tempo: dal 21% al 30% dei pazienti diagnosticati al primo episodio di malattia come schizofrenici non manifesta successivamente nessuna ricaduta.
Nella s. sono coinvolti numerosi geni che, interagendo con fattori epigenetici e ambientali, determinano l’insorgere della patologia. I fattori ambientali coinvolti comprendono sia fattori biologici sia fattori psicosociali. Il rischio di sviluppo di s. è aumentato dalla presenza di eventi natali e perinatali, quali influenza materna, rosolia, malnutrizione, diabete mellito, fumo durante la gravidanza e complicanze ostetriche. La povertà e un basso livello sociale sono associati a una maggiore incidenza; i soggetti nati in aree urbane sviluppano più facilmente la s. rispetto a quelli nati in aree rurali. La presenza di alterazioni strutturali e del funzionamento cerebrale (come la diminuzione della trasmissione dopaminergica nella corteccia frontale e le alterazioni della mielinizzazione), in pazienti al primo episodio di malattia e che non hanno mai assunto farmaci, suggerisce che tali alterazioni siano primitive. L’insorgere dei sintomi psicotici dopo numerosi anni dallo sviluppo delle alterazioni della struttura cerebrale indica come la s. sia un disturbo del neurosviluppo. Va considerato, inoltre, che l’assenza di reazioni gliali nei pazienti schizofrenici suggerisce come i cambiamenti della struttura cerebrale siano prenatali piuttosto che postnatali. Queste anomalie della citoarchitettura cerebrale costituiscono la base dell’anormale connessione neuronale che sottende la malattia, forse per eccessivo pruning sinaptico («potatura», nel senso di diminuizione delle arborizzazioni sinaptiche). I farmaci antipsicotici possono ridurre la gravità dei sintomi e prevenire le ricadute, mentre l’abuso di sostanze agisce in senso contrario. I fattori psicosociali che influenzano maggiormente la malattia sono lo stress, le strategie di coping (ossia il modo in cui si affronta una situazione di stress) e il supporto sociale.
La moderna concezione della s. è fondata sugli studi di E. Kraepelin, che aveva posto l’attenzione sul progressivo deterioramento (dementia praecox), e su quelli di E. Bleuler, che aveva identificato i sintomi principali del disturbo in difficoltà del pensiero astratto (perdita dei nessi associativi), una affettività incongrua o appiattita, la perdita dei comportamenti finalizzati, ambivalenza e ritiro in un mondo interiore (autismo). La s. è caratterizzata da tre gruppi di sintomi: i sintomi psicotici, i sintomi negativi e la compromissione cognitiva. I primi sono caratterizzati da perdita del contatto con la realtà e includono convinzioni erronee e illogiche (deliri), allucinazioni (uditive, visive, olfattive, gustative o tattili; quelle uditive sono in assoluto le più frequenti) e comportamenti bizzarri. I deliri più comuni sono di tipo persecutorio, di riferimento, di controllo, di grandezza, e quelli somatici. I sintomi negativi sono caratterizzati dall’appiattimento affettivo e dalla mancanza di emozioni, interessi o preoccupazioni (apatia), dall’incapacità di provare piacere (anedonia) e dalla mancanza di spontaneità nella parola e nella loquacità (alogia). I sintomi negativi, a differenza di quelli psicotici, tendono a essere più pervasivi e meno fluttuanti nel corso del tempo e sono associati alla compromissione del funzionamento sociolavorativo. La compromissione cognitiva si esprime nei deficit di attenzione, concentrazione, psicomotricità, apprendimento, memoria e funzioni esecutive, ed è associata allo scadimento del funzionamento sociolavorativo. I pazienti schizofrenici presentano anche compromissione delle abilità sociali e alterazioni comportamentali, spesso prima dell’esordio dei sintomi psicotici.
I farmaci antipsicotici costituiscono il trattamento di prima scelta per la s., determinando una riduzione dei sintomi psicotici e la prevenzione delle ricadute; senza di essi non sarebbe possibile utilizzare la maggior parte degli interventi psicosociali. Il loro effetto risulta, al contrario, modesto sui sintomi negativi e sulla compromissione cognitiva. Gli interventi psicosociali migliorano la gestione della malattia nel suo complesso (controllo dei sintomi e prevenzione
delle ricadute) e il funzionamento dei pazienti in alcune aree, come la capacità di essere autonomi, avere relazioni con gli altri, avere una occupazione. Gli interventi psicosociali riguardano la psicoeducazione dei pazienti e delle famiglie, il social skills training (una specifica tecnica psicologica volta a sviluppare le competenze sociali degli individui al fine di migliorare la propria vita e le proprie relazioni), la psicoterapia cognitivo-comportamentale, le psicoterapie basate sull’insight. I pazienti schizofrenici che usufruiscono di un intervento psicosociale evidenziano una prognosi migliore rispetto a quelli trattati con la sola terapia farmacologica. L’integrazione dei trattamenti, farmacologico e psicosociale, costituisce quindi una necessità assoluta nella terapia della schizofrenia.
Il ruolo della cannabis nella genesi della schizofrenia
I più recenti e autorevoli studi confermano che l’uso della cannabis in adolescenza comporta un rischio relativo da 3 a 4 volte maggiore di sviluppare schizofrenia o un disturbo schizofreniforme. Più è precoce l’inizio dell’abuso, maggiore è il rischio di sviluppo di psicosi. La cannabis non rappresenterebbe una causa necessaria e sufficiente, ma sarebbe parte importante di una costellazione causale. Solo una minoranza di individui svilupperebbe psicosi in conseguenza dell’uso di cannabis, ma questa minoranza è molto significativa sia da un punto di vista clinico che di popolazione: si stima infatti che oltre il 15% dei casi di psicosi potrebbe essere prevenuto eliminando l’uso di cannabis nella popolazione.
La sostanza a maggiore effetto psicoattivo presente nella cannabis è il D-9-tetraidrocannabinolo (D-9-THC). Il THC tende a concentrarsi nei tessuti più ricchi di grassi, quali l’encefalo, perché è una sostanza fortemente lipofila. Per tale motivo, è possibile reperire il THC nel cervello anche a distanza di molti mesi dall’ultima assunzione. I recettori per il THC sono di due tipi: i recettori CB1, presenti soprattutto sui neuroni centrali e periferici, e i CB2, localizzati soprattutto sulle cellule immunitarie. Per entrambi i recettori sono stati identificati agonisti endogeni (endocannabinoidi), attivamente coinvolti, attraverso i CB1, nel circuito dopaminergico mesolimbico della ricompensa. I cannabinoidi aumentano, infatti, il rilascio di dopamina nel nucleo accumbens. I recettori CB1 sono presenti in grandi quantità nei nuclei basali, disposti a controllo dei movimenti, nel cervelletto, nell’ippocampo, associati alle funzioni cognitive, mnesiche e di controllo dello stress, e nella corteccia cerebrale. Sono anche presenti nell’ipotalamo, che regola tra l’altro la sensazione di sazietà; nell’amigdala, luogo dell’elaborazione delle emozioni e della paura; nel midollo spinale, associato a sensazioni periferiche come il dolore; nel tronco encefalico, associato con il sonno, l’eccitazione sessuale e il controllo motorio; nel nucleo del tratto solitario, associato con sensazioni viscerali come la nausea e lo stimolo al vomito. A dosi elevate, la cannabis determina distorsioni marcate della percezione del tempo, dello spazio e del corpo, deliri, allucinazioni visive e uditive, depersonalizzazione. Nelle aree del controllo motorio e della memoria gli effetti della cannabis risultano direttamente evidenti. L’uso prolungato di cannabis determina fenomeni di assuefazione e dipendenza. Infine, il THC stimola la produzione del principale amminoacido eccitatorio, il glutammato, che a medio e lungo termine incrementa i fenomeni di pruning e di apoptosi.
Non vi sono ormai dubbi che l’intossicazione da cannabis possa portare a episodi psicotici acuti e transitori in alcuni individui, o che possa produrre riacutizzazioni di sintomi psicotici preesistenti. Tuttavia, vi è ancora controversia sul fatto che l’uso di cannabis possa causare schizofrenia nel lungo periodo. Recenti studi epidemiologici hanno prodotto evidenze in tal senso: tra questi uno studio sulla popolazione generale degli individui nati nella città di Dunedin in Nuova Zelanda in un determinato anno (Dunedin multidisciplinary health and development study), con un tasso di follow up del 96% a 26 anni. Per quanto statisticamente ristretto, questo studio presenta vantaggi unici: fornisce informazioni sui sintomi psicotici all’età di 11 anni, cioè prima dell’inizio dell’uso di cannabis, e permette la valutazione dell’età di esordio dell’abuso di cannabis in rapporto agli esiti a lungo termine; inoltre, per questi ultimi non fa riferimento ai dati del trattamento perché l’intera coorte è valutata all’età di 26 anni con un’intervista psichiatrica standardizzata. Ciò consente l’esame dell’esito della schizofrenia sia come un continuum (attraverso la valutazione dei sintomi), sia come un disturbo, escludendo i sintomi psicotici presentati sotto l’effetto di alcol e droghe. Lo studio ha dimostrato che gli individui che hanno fatto uso di cannabis a 15 e 18 anni hanno un tasso di sintomi psicotici a 26 anni molto più alto dei coetanei che non ne hanno fatto uso, e questo dato resta significativo anche dopo il controllo dei sintomi psicotici precedenti l’inizio dell’uso di cannabis. Inoltre, l’esordio dell’abuso a 15 anni è associato a un aumento della possibilità di presentare i criteri diagnostici per disturbo schizofreniforme all’età di 26 anni. Infatti, oltre il 10% degli utilizzatori di cannabis all’età di 15 anni in questa coorte è stato diagnosticato come schizofrenico a 26 anni, a fronte del 3% dei controlli. L’uso di cannabis a 15 anni, invece, non predice un esito di depressione a 26 anni, e l’uso di altre droghe in adolescenza non predice esiti di schizofrenia. Al contrario, vi è un effetto significativo di esacerbazione (o interazione) tra uso di cannabis a 18 anni e sintomi psicotici a 11 anni.
L’abuso di cannabis è largamente diffuso nel mondo, in partic. tra gli adolescenti, ed è in forte aumento. In Olanda e Gran Bretagna sono recentemente comparse varietà geneticamente modificate (skunk) che presentano una concentrazione di THC anche venti volte superiore a quelle prima conosciute. L’uso prolungato di cannabis nell’adolescenza determina effetti cognitivi e comportamentali descritti come sindrome amotivazionale; tale disturbo regredisce con la sospensione della cannabis. La relazione tra cannabis e psicosi sembra essere bidirezionale. Recenti revisioni sistematiche della letteratura scientifica hanno dimostrato che la cannabis, in partic. se assunta massicciamente nel corso dell’adolescenza, aumenta il rischio di psicosi, indipendentemente da effetti transitori e confondenti di intossicazione, mentre l’evidenza per i disturbi affettivi è meno marcata.