SCHIZOFRENIA (XXXI, p. 98)
Il progresso nella conoscenza dei molteplici aspetti di questa psicosi (o gruppo di psicosi), non ha chiarito molto la sua etiopatogenesi.
Il fattore genetico è stato definitivamente confermato dai recenti studî (F. S. Kallman, 1959). La malattia, con una frequenza media di circa 1%, sembra diffusa, press'a poco uniformemente, a tutti i popoli e i ceti sociali; con l'eccezione, forse, di alcune zone oltre il Circolo Artico. Il rischio di morbilità della malattia cresce proporzionatamente al grado di consanguineità del parente schizofrenico (cugino 2,5%, fratello 13%, uno dei genitori 16%) e raggiunge il massimo nei figli di due genitori schizofrenici (68%) e nei gemelli uniovulari (80-85%).
L'interpretazione di questi dati è controversa, perfino nel definire "dominante" o "recessivo" il fattore ereditario; ma la loro importanza è stata riconosciuta da quasi tutte le teorie etiopatogenetiche. Alcuni ammettono due differenti geni di malattia per due gruppi nosologici, che sono simili solo per alcuni tratti fenomenologici (teoria dualista: che distingue una vera schizofrenia, da una cosiddetta schizofrenia confusionale). Altri sostengono una eredità di caratteri multifattoriali, la cui differente quantità produce un grado variabile di "psicotismo" (H. Eysenck e M. Prell), che va, dall'estremo di una apparenza normale, attraverso una gamma di espressioni psicopatiche (cosiddetto schizoidismo), all'estremo opposto di una schizofrenia a rapido e grave decorso (teoria quantitativa secondo E. Kretschmer). Per altri, infine, questa eredità, quantitativamente diversa, è solo di predisposizione: la malattia è necessariamente legata a fattori non ereditarî di tipo psicogeno (teoria quantitativa secondo E. Bleuler). oppure di tipo organico (teoria organicista, secondo V. M. Buscaino, ecc.), oppure di tipo misto (teoria psicobiologica del tipo di reazione). Per le teorie psicogenetiche più estremiste, di marca psicoanalitica, questi dati hanno il significato di ulteriore smentita. Tuttavia gli studî di psicodinamica e di psicoterapia della schizofrenia fioriscono sempre, specie negli S. U. A.
Anche nell'ambito della impostazione non psicoanalitica, si sono rinnovati i tentativi di delineare una formula psicopatologica e una teoria fondamentale. Gli aspetti più moderni sono quelli della "schizoforia" (J. J. Lopez Ibor), riferita ad una particolare depressione ansiosa, e quelli più vaghi del "disturbo dei rapporti interpersonali" (H. S. Sullivan) o di un particolare modo di essere, secondo la visione filosofica esistenzialista (H. C. Rümke).
Le ricerche di anatomia patologica, nonostante l'accuratezza di esecuzione e la modernità dei metodi impiegati, hanno purtroppo dato risultati contradditorî o comunque criticabili (G. B. David): perciò la s. deve essere ancora definita malattia senza anatomia patologica.
Anche la formula dismetabolica o l'ipotetica sostanza tossica della s. sono sempre costruzioni teoriche, quantunque numerose siano le moderne ricerche di biochimica (D. Richter) e di endocrinologia (J. C. V. Batt e collaboratori). L'ipotesi più recente, in questo campo, si riferisce alla cosiddetta "psicosi adrenocromica": un'alterazione (legata a fattori genici) del ricambio dell'adrenalina produrrebbe sostanze tossiche, capaci di indurre "sintomi della schizofrenia". Il vario grado di penetrazione del gene ereditario dismetabolico e la diversa occorrenza di elementi ambientali, psichici e fisici, regolatori della secrezione adrenalinica, sarebbero responsabili dei differenti decorsi e delle varietà della malattia.
L'aspetto fisiopatologico della malattia è stato indicato, per analogia con alcune sindromi psichiche della epilessia temporale, in una "disfunzione temporo-limbica": ma anche in questo campo si tratta solo di ipotesi (v. psichiatria, in questa App.).
L'impossibilità di una integrazione globale delle attuali conoscenze, pratiche e teoriche, sul problema della s. è risultata chiara al simposio sulla "sintesi della schizofrenia", tenuto al Congresso internazionale di psichiatria (Zurigo 1957). Fra discordanti opinioni, la meno opinabile appare quella di W. Mayer Gross, che nega la possibilità di un attacco al problema, riconoscendo la impossibilità di isolare con sufficienti dati biologici l'entità nosologica della schizofrenia. Infatti nei trattati o manuali di psichiatria la nosologia clinica non è unitariamente intesa, neanche per le grandi divisioni. Così il gruppo della paranoia vera e della parafrenia è ancora distinto dalla s., nei più moderni trattati nord americani; mentre in quasi tutti quelli di lingua tedesca queste entità nosografiche sono scomparse.
La terapia della s. ha fatto un modesto progresso con l'uso dei farmaci psicoplegici (v. psicofarmaci, in questa App.). I derivati promazinici, usati (assieme ai barbiturici) per la terapia del sonno prolungato, si sono dimostrati molto utili per le forme acute con agitazione; promazinici e derivati della rauwolfia, in alte dosi, e con somministrazione molto prolungata, hanno dimostrato effetto favorevole in schizofrenici cronici per diminuire la vivacità delle allucinazioni, dei delirî e i disturbi del contegno. Queste nuove terapie hanno ridotto l'uso della insulinoschokterapia (da alcuni abbandonata del tutto) e della psicochirurgia (v. anche psichiatria, in questa App.).
Bibl.: H. C. Rümke, in Congrès mondial de psychiatrie, I, Parigi 1950, p. 125; H. Eysenck e M. Prell, in Journal of mental science, XCVII (1951), p. 441; J. C. W. Batt, W.W. Kay e M. Reiss, ibidem, V (1957), p. 5; G.B. David, Die pathologische Anatomie der Schizophrenie, in Schizophrenie, 1957, p. 85; J. J. Lopez Ibor, in Congress. Report del II Congresso internazionale di psichiatria, Zurigo 1957, IV, p. 171; W. Mayer Gross, ibidem, IV, p. 173; D. Richter, Biochemischer Gesichtpunkte der Schizophrenie, 1957, p. 48; V. M. Buscaino, Dementia praecox, Milano 1958; F. S. Kallmann, The genetics of mental illness, in American handbook of pschiatry, New York 1959.