Scienza e diagnostica dei beni culturali
Conservazione preventiva e metodo scientifico
Nel corso del 20° sec., si è registrata una profonda evoluzione del concetto di conservazione di un bene culturale. Si è passati dall’idea di doverne preservare la funzione originaria (estetica, testuale) a quella di dover tutelare il suo ruolo di testimonianza di una civiltà. Il restauro, per es., da semplice intervento di ripristino funzionale si è trasformato in restauro conservativo, un’azione che preserva, oltre all’integrità del manufatto, il suo contenuto storico-artistico di memoria collettiva, che non deve essere alterato o cancellato in alcun modo. L’attribuire a un bene culturale un fondamentale ruolo documentario impone di preservarlo per un futuro remoto e ripropone, in un’ottica moderna, il tema della prevenzione. Ogni manufatto è soggetto a invecchiamento naturale, continuo e inarrestabile, dovuto ai processi fisico-chimici d’interazione con l’ambiente in cui viene conservato. L’obiettivo da porsi non può essere quello di bloccare il degrado, azione spesso irrealizzabile, ma di rallentarlo il più possibile intervenendo sui meccanismi che lo alimentano. La conservazione, quindi, non è più intesa come opera di mantenimento, ma va connotandosi piuttosto come conservazione preventiva, un’azione continua per contrastare il deterioramento, anche solo naturale, del bene.
Con le moderne strategie conservative si è rinnovato anche il concetto di degrado, inteso non solo come alterazione macroscopica percepibile qualitativamente per via visuale o tattile, ma anche come qualsiasi alterazione irreversibile molecolare o microstrutturale dei materiali che costituiscono il bene culturale. Valutare il degrado significa, quindi, analizzare in modo oggettivo l’integrità dei materiali e descriverne in modo quantitativo, attraverso analisi strumentali, l’evoluzione delle proprietà fisico-chimiche. Si tratta dell’applicazione del metodo scientifico alla tutela dei beni culturali per una scienza della conservazione.
Per intervenire in maniera preventiva sul degrado occorre, dunque, limitare i processi d’invecchiamento, ovvero, in primis, studiare l’interazione manufatto-ambiente e creare le condizioni contestuali più idonee alla conservazione. Si consolida, nella moderna concezione, una connessione sempre più stretta, estesa trasversalmente a tutte le categorie di beni culturali materiali, tra prevenzione e questione ambientale. Si legge, per es., tra i principi dettati dall’UNESCO per la tutela del patrimonio documentario che «le condizioni ambientali e i metodi di immagazzinamento hanno grande influenza nella conservazione dei documenti. Il controllo dell’ambiente e la creazione di idonee condizioni di conservazione costituiscono la prima tra tutte le misure di prevenzione» (Preserving our documentary heritage, 2005, p. 7).
La gestione dell’ambiente e, in particolare, del microclima di conservazione rappresenta quindi un primo fondamentale campo di applicazione per indagini scientifiche finalizzate alla tutela dei beni culturali, sicché il controllo continuo dei fenomeni foto-termo-igrometrici e della presenza di inquinanti e infestanti richiede un crescente supporto tecnologico. Supporto che, per la conservazione in spazi chiusi, deve estendersi a un’opera di creazione e mantenimento di condizioni d’idoneità ambientale che preveda, oltre al trattamento del microclima, lo studio e l’adeguamento delle strutture e degli edifici.
Diagnostica e sviluppo tecnologico
Assumere che il degrado sia comunque alimentato da fenomeni di interazione tra manufatto e ambiente (G. Thomson, The museum environment, Oxford 19862) porta a considerare il bene e il suo contesto come un sistema unico. Per mettere in relazione lo stato di conservazione di un manufatto con i processi fisico-chimici cui i suoi materiali componenti sono stati sottoposti nel tempo, diventa importante che esso sia studiato nel suo storico contesto conservativo e, quindi, con strumentazione disponibile in situ. D’altra parte, al di là di esigenze scientifico-analitiche, è il concetto stesso di bene culturale nella sua generalità che ha acquisito la connotazione di entità integrata con il territorio. Non si pensi, quindi, al solo patrimonio costruito (monumentale, urbanistico, archeologico), per il quale è ormai unanimemente accettato che «ogni intervento […] deve essere strettamente relazionato al suo contesto, al territorio e al paesaggio» (La Carta di Cracovia 2000, 2002, art. 5). Si consolida, piuttosto, l’idea che dell’intero patrimonio culturale vada preservata la connessione con il paesaggio minimizzando gli interventi di musealizzazione fuori contesto. Si afferma, pertanto, una visione moderna di conservazione contestuale che alimenta nuove politiche di musealizzazione del paesaggio culturale, inteso come «opera integrata della natura e dell’uomo» (Operational guidelines for the implementation of the world heritage convention, 2005, p. 83), attraverso la progettazione e l’istituzione di parchi culturali e musei territoriali. La visione sistemica del bene culturale e del suo ambiente, considerati inscindibili, porta ad ampliare la categoria dei cosiddetti beni immobili, per lo studio dei quali la richiesta di diagnostiche applicabili in situ è da sempre prioritaria. Una richiesta, quest’ultima, di grande impulso allo sviluppo tecnologico della portabilità della strumentazione (Brunetti, Matteini, Miliani et al. 2007). Analisi basate su fluorescenza di raggi X, spettroscopia Raman, risonanza magnetica nucleare ecc., confinate in passato in laboratori dedicati, vengono oggi effettuate anche in loco con strumenti compatti, dalle dimensioni sempre più contenute e capacità diagnostiche sempre più vicine a quelle degli apparati di laboratorio.
Distruttività e invasività
Alla crescente richiesta di portabilità della strumentazione si accompagna quella, da sempre presente nello studio dei beni culturali, di minimo impatto delle tecniche di analisi. Secondo uno schema diffusamente accettato di valutazione dell’impatto diagnostico, i diversi metodi d’indagine vengono classificati in base alla loro distruttività e invasività, concetti che, occorre chiarire, sono in genere estremamente relativi, assumendo diversa pregnanza nei differenti contesti, e che occorre pertanto definire correttamente per quanto concerne i beni culturali.
Si considerano distruttivi quei metodi diagnostici che non preservano l’integrità strutturale e funzionale del manufatto e/o dei suoi materiali componenti; di conseguenza devono essere considerate distruttive tutte quelle indagini che prevedono prelievi di campioni dal manufatto. Sono, invece, paradistruttivi i metodi che, pur richiedendo un prelievo di materiale, permettono poi analisi ripetute sul campione che rimane integro e dunque resta disponibile anche per indagini di altra natura. Pure le analisi non distruttive, secondo la definizione appena data, possono però contribuire in modo apprezzabile al degrado del manufatto innescando o alimentando processi di alterazione microstrutturale con effetti rilevabili a lungo termine, dopo anni, decenni o più. Per es., irraggiare manufatti con radiazioni intense accelera fenomeni di alterazione cromatica, di infragilimento delle fibre in materiali organici (legno, carta, pergamena, tessuto ecc.); analisi realizzate in vuoto possono far essiccare alcuni materiali igroscopici modificandone lievemente le proprietà meccaniche o innescare fenomeni di evaporazione e sublimazione che ne alterano la composizione. Valutare l’entità di questo contributo al deterioramento significa stimare il grado d’invasività della procedura d’analisi. Si definiscono non invasive quelle indagini che non introducono alterazioni dello stato fisico-chimico del manufatto con conseguente accelerazione dell’invecchiamento. Il carattere non invasivo di una tecnica corrisponde alla sua capacità di non alterare l’equilibrio termodinamico del sistema indagato perturbandolo con scambi energetici. Sono, quindi, analisi rigorosamente non invasive soltanto quelle che non interferiscono con i processi di scambio già normalmente attivi nel sistema manufatto-ambiente. Le analisi visive, che non prevedano l’impiego di sorgenti luminose dedicate, sono esempi di indagini non invasive. Le tecniche microanalitiche di superficie che utilizzano particelle ionizzanti incidenti sul manufatto o che prevedono assorbimento e riemissione di radiazione come quelle di fluorescenza o di termovisione, pur non essendo distruttive, implicano comunque uno scambio energetico e devono essere considerate, a vario titolo, tecniche invasive. Proprio su un’attenta analisi del grado di invasività e dell’eventuale carattere distruttivo del metodo diagnostico si basa la valutazione della sostenibilità dell’impatto che un’indagine produce su un bene culturale. Tale analisi va, di norma, effettuata in una fase progettuale iniziale, precedente a ogni tipo di intervento, in cui, oltre a stabilire le tipologie d’indagine e a preordinarne la sequenza applicativa, se ne valuta singolarmente il possibile impatto sull’oggetto studiato.
Funzioni della tecnologia per i beni culturali
Il ruolo che la scienza e la tecnologia assumono nella gestione del patrimonio culturale si ramifica in diverse funzioni di supporto: studi storico-artistici, valutazione dello stato di conservazione, restauro, gestione ambientale (Boutaine, in Physical techniques in the study of art, 2006-07). Nella gran parte degli studi sui beni culturali l’importanza del ruolo ausiliario che scienza e tecnologia rivestono viene valutata, in primo luogo, in base al contributo conoscitivo di tipo storico-artistico che riesce a produrre. Come supporto a studi storico-artistici, infatti, i metodi di datazione e autenticazione, le indagini strutturali delle tecniche realizzative, le analisi della composizione dei materiali costitutivi forniscono dati fondamentali per la collocazione temporale e territoriale della manifattura di un bene artistico e archeologico e contribuiscono alla ricostruzione delle sue vicende storiche. Indagini di diagnostica macro- e microstrutturale, molecolare ed elementale consentono una valutazione dello stato di conservazione del manufatto e un’analisi dei processi di deterioramento dei materiali. Relativamente al restauro, le tecniche per il rilievo di interventi precedenti, per la realizzazione e il monitoraggio di puliture, per il trattamento fisico-chimico dei materiali, ne supportano e indirizzano gli interventi. Infine, per quel che riguarda il controllo ambientale, i metodi di analisi microclimatica, di disinfestazione, di rimozione degli inquinanti (contaminanti, particolato) e delle polveri consentono di approntare ambienti idonei alla conservazione.
Metodi d’indagine
In generale, la tecnologia per i beni culturali si sviluppa lungo due diverse linee, quella delle tecniche diagnostiche e quella delle tecniche d’intervento per la gestione e il trattamento dei manufatti. Per quanto riguarda la diagnostica, propedeutica a qualunque forma d’intervento, i metodi d’indagine possono essere raggruppati sulla base delle loro finalità conoscitive in: metodi di datazione, metodi d’indagine strutturale e morfologica, metodi analitici. Seguendo questa classificazione e passando in rassegna i metodi d’indagine più frequentemente impiegati, è possibile ricavare un quadro generale di come l’innovazione tecnologica, con la nascita di nuove metodiche e lo sviluppo mirato di tecniche classiche, contribuisca all’evoluzione della diagnostica per i beni culturali.
Metodi di datazione
Sono i metodi che mirano a stabilire l’età di un manufatto. Nel caso delle datazioni, risulta particolarmente opportuno parlare di metodi o procedure anziché di tecniche, dal momento che l’informazione prodotta da queste ultime deve sempre essere corredata da conoscenze o ipotesi storiche di contesto. Di un documento su carta, pergamena o papiro, la procedura tecnica può datare la manifattura del supporto scrittorio, o meglio, la morte dell’organismo da cui è ricavato, ma non l’epoca della redazione del testo. Nel caso di una scultura in legno, si ricaveranno informazioni oggettive sull’epoca del taglio dell’albero ma non della sua lavorazione. Di un vaso si può stabilire l’epoca della cottura ma, per una valutazione corretta, occorre conoscere quale sia stato, da allora, il luogo di conservazione, ed essere certi che non sia stato più sottoposto ad altri trattamenti termici. La datazione è, quindi, il risultato di studi che integrano valutazioni storico-artistiche ad analisi scientifiche, assegnando a queste ultime e alle tecniche di misurazione sulle quali si basano una funzione fondamentale ma parziale, mirata alla produzione di dati necessari anche se non sufficienti a stabilire un’età affidabile della manifattura di un bene.
Metodo del radiocarbonio. È applicabile a tutti quei manufatti realizzati almeno in parte con materiali di origine animale o vegetale: si basa sulla misura della concentrazione residua dell’isotopo 14 del carbonio (14C, radiocarbonio), dalla quale è possibile stabilire il tempo trascorso dalla morte dell’organismo vivente impiegato per la realizzazione del reperto. Originariamente il metodo, proposto dal chimico statunitense Willard Frank Libby alla fine degli anni Quaranta del 20° sec., prevedeva di determinare la concentrazione di radiocarbonio misurandone la sua radioattività relativamente a un campione prelevato. Al metodo originario se n’è affiancato, in epoca recente, un secondo, molto meno distruttivo (richiede soltanto pochi milligrammi di campione), basato sull’impiego della spettrometria di massa con acceleratore (AMS, Accelerator Mass Spectrometry), che misura direttamente la concentrazione di 14C. La tecnica presenta una risoluzione estremamente elevata che le consente di rivelare un solo atomo di radiocarbonio ogni 1015 altri isotopi dello stesso elemento. È questo un requisito fondamentale, dal momento che il valore della concentrazione da misurare è già inizialmente estremamente piccolo (dell’ordine di un radioisotopo ogni 1012 atomi di carbonio in vivo) e diminuisce nel corso dei millenni, dimezzandosi ogni 5730 anni. In prospettiva occorrerà quindi disporre di strumentazione con risoluzione sempre maggiore per misurare concentrazioni residue più piccole e datare manufatti sempre più antichi, in modo più preciso. La tecnologia attuale consente di datare manufatti realizzati fino a circa 50.000 anni fa. È con questa tecnica, per es., che sono stati realizzati recenti studi di datazione sul reperto dell’uomo di Similaun e sulla pergamena di Vinland.
Termoluminescenza. Si applica alla datazione di quei manufatti realizzati con materiali contenenti quarzo o feldspati, come, per es., l’argilla, che abbiano subito trattamenti ad alta temperatura durante la manifattura. Il metodo si basa sulla misurazione di emissioni luminescenti di determinate lunghezze d’onda, stimolate termicamente in alcuni cristalli precedentemente esposti a radiazioni ionizzanti. Dall’intensità di queste emissioni di termoluminescenza si può stabilire per quanto tempo il manufatto è stato esposto all’azione delle radiazioni ionizzanti naturali, dopo il trattamento termico ricevuto durante la sua realizzazione, e quindi quale sia la sua età. Con tale metodica si riescono a datare manufatti realizzati fino a oltre 10.000 anni fa. Inizialmente concepito per datare ceramiche, terrecotte e laterizi, la termoluminescenza vede il suo spettro d’impiego allargarsi a nuove applicazioni, come la datazione dei vetri archeologici e dei manufatti bronzei a partire, per questi ultimi, dall’analisi dei residui delle terre di fusione, prelevabili per via endoscopica all’interno, in modo che il metodo non risulti assolutamente distruttivo per i bronzi. Un’applicazione, quest’ultima, particolarmente importante considerando l’impossibilità di datare i bronzi con altri metodi oggettivi, e potendo al più basarsi, per stabilire l’epoca di manifattura, su dati relativi alla composizione della lega. D’altra parte, è bene sottolineare che non sempre è possibile impiegare la termoluminescenza per la datazione di bronzi, come è accaduto, per es., nel caso del Satiro danzante di Mazara del Vallo, in cui non sono stati trovati residui di fusione, o in quello della Lupa capitolina, per la quale i risultati indicano un trattamento a caldo subito tra il 9° e il 15° sec., relativo o alla fusione, e quindi alla manifattura, o riferibile a successivi interventi di riparazione eseguiti a caldo. I recenti sviluppi di questa tecnica, che l’hanno resa sempre più sensibile, sono legati a quelli della strumentazione spettroscopica, in particolare dei rivelatori a stato solido CCD (Charge-Coupled Devices), arrays di fotodiodi, che consentono di analizzare la lunghezza d’onda delle emissioni termoluminescenti e di ottimizzare l’efficienza di rivelazione accordandola al tipo di radiazioni da rivelare (Martini, Sibilia 20072).
Dendrocronologia. È un metodo per la datazione di manufatti lignei basato sul riordino cronologico delle sequenze d’ampiezza degli anelli di crescita di determinate specie arboree in specifiche aree geografiche. Si analizza la coincidenza di una parte di sequenza ricavata dal legno di un manufatto con tratti datati della sequenza ricostruita per quella specie: ciò permette di stabilire l’epoca esatta in cui l’albero è cresciuto. Per alcune specie arboree, in particolari aree climatiche, si è potuta ricostruire una cronologia che consente datazioni fino a circa 11.000 anni fa. L’attuale evoluzione di questa tecnica si lega a quella dell’informatica che, attraverso la realizzazione di vaste banche dati e lo sviluppo di software dedicati, permette analisi dendrocronologiche su larga scala. Un impulso all’espansione di questo metodo nel campo dei beni culturali è derivato dalla recente diffusione della microtomografia computerizzata che, in molti casi, permette di ottenere ricostruzioni virtuali di sequenze anulari senza la necessità di ricorrere a interventi di esplorazione del legno che, per il loro carattere distruttivo, rappresentano spesso un serio limite in molte applicazioni. È, infine, importante menzionare come la dendrocronologia svolga una funzione fondamentale per la calibrazione delle datazioni con il metodo del radiocarbonio.
Metodi d’ispezione strutturale e morfologica
Tali metodi permettono d’investigare, a livello macro- e microscopico, l’organizzazione delle varie parti di un manufatto, la struttura dei materiali costitutivi e le loro proprietà fisico-meccaniche, nonché di analizzarne e registrarne la forma. Come in quasi ogni altra disciplina scientifica, anche nella diagnostica per i beni culturali è capillarmente diffuso l’impiego di molte tecniche di microscopia ottica e non: tra tutte, particolarmente importante per potenzialità e prospettive d’impiego è la microscopia elettronica a scansione (SEM, Scanning Electron Microscopy). Si tratta di un tipo di microscopia a elevato ingrandimento (fino a circa 100.000 volte) nella quale per l’ispezione si utilizza un fascio di elettroni che viene focalizzato sul campione con lenti elettromagnetiche. Le immagini vengono prodotte per scansione lineare della porzione di superficie da visualizzare analizzando sia gli elettroni secondari, espulsi per interazione con quelli incidenti, sia quelli retrodiffusi elasticamente. In quest’ultimo caso, le immagini prodotte riescono a evidenziare per contrasto distribuzioni di elementi con diversa massa atomica, in particolare quelli pesanti come i metalli, fornendo indicazioni sui componenti del materiale. La composizione degli elementi, però, di solito si analizza in dettaglio combinando l’ispezione microscopica con una tecnica di rivelazione e analisi delle radiazioni X emesse per fluorescenza dopo l’emissione degli elettroni secondari. Ciascuna di queste radiazioni è caratteristica di una determinata specie atomica e dall’analisi del loro spettro energetico è possibile individuare gli elementi di cui è composto lo strato superficiale del campione investigato. Questo metodo, noto come spettroscopia in dispersione di energia (EDS, Energy-Dispersive X-ray Spectroscopy), appartiene alla famiglia delle tecniche analitiche che utilizzano fasci incidenti di particelle elettricamente cariche per analizzare la composizione del campione (IBA, Ion Beam Analysis).
In alcuni studi, come quelli recentemente condotti su reperti metallici provenienti dal sito archeologico di Petra (Giordania), l’apparato microscopico è integrato con un ulteriore sistema di diagnostica analitica, basato sulla fluorescenza di raggi X (XRF, X-Ray Fluorescence), che permette di analizzare strati più spessi di materiale e di aumentare la sensibilità di rivelazione degli elementi presenti in basse concentrazioni. La diagnostica multisensoriale integrata SEM-EDS è, nella sua configurazione classica, di tipo distruttivo sia perché richiede in genere un prelievo di materiale sia per la necessità di dover analizzare i campioni in vuoto. Inoltre, materiali elettricamente non conduttori, per poter essere efficacemente analizzati, devono essere rivestiti, in modo irreversibile, con un sottile strato metallico. Tuttavia, si sta attualmente diffondendo una versione evoluta di questo metodo d’indagine nella quale i campioni vengono mantenuti in atmosfera controllata (VP-SEM, Variable Pressure-SEM) minimizzando i problemi di perdita d’acqua e di altre sostanze volatili e, soprattutto, evitando di dover coprire irreversibilmente i campioni con materiali conduttori estranei. Di queste caratteristiche hanno potuto beneficiare studi di tecnica pittorica, condotti in modo non distruttivo su frammenti di dipinti prelevati già da molti anni e analizzati senza trattamenti di copertura (Scienza & ricerca per i beni culturali, 2008). È necessario rimarcare infine che, nonostante con la microscopia elettronica a scansione si riescano a osservare strutture molto piccole, con dimensioni anche di pochi nanometri, per studiarne in dettaglio la morfologia con indagini visive su scala pienamente nanometrica occorre far ricorso ad altre tecniche come, per es., la microscopia elettronica in trasmissione (TEM, Transmission Electron Microscopy) o la microscopia a forza atomica (AFM, Atomic Force Microscopy), capaci di visualizzare dettagli di strutture molecolari. Mentre la prima richiede per materiali non conduttori un processo di replica, la seconda permette direttamente la ricostruzione morfologica superficiale di porzioni micrometriche nel campione e si svolge, trattandosi di un’analisi per scansione, con tempi lunghi (alcune ore).
Tecniche radiografiche. Tra i primi metodi impiegati per indagare in modo non distruttivo la struttura interna di corpi e oggetti, tali tecniche forniscono generalmente immagini che rappresentano mappe di assorbimento di radiazioni penetranti, tipicamente raggi X o γ (ma anche elettroni e neutroni) che attraversano il manufatto. Queste immagini sono capaci di evidenziare caratteristiche geometriche ed elementi strutturali, anche interni, di materiali diversi che, per la loro varia capacità di assorbimento, attenuano in modo differente le radiazioni incidenti. Originariamente, le immagini venivano ottenute con pellicole radiografiche, rese come proiezioni bidimensionali anche di elementi sovrapposti. Il superamento di questo limite si è avuto con lo sviluppo della radiografia digitale e, soprattutto, con quello della tomografia computerizzata (CT, Computed Tomography) che, rielaborando serie di immagini radiografiche registrate ad angoli diversi intorno a un asse di riferimento, permette in modo non distruttivo di ottenere una ricostruzione virtuale, tridimensionale, della struttura interna di un manufatto. Di rilevante importanza per le applicazioni nel campo dei beni culturali è il recente sviluppo sia della microtomografia (μ-CT), che permette la ricostruzione di oggetti di pochi millimetri con una risoluzione di qualche milionesimo di metro, sia della tomografia realizzabile in situ su grandi manufatti: ne è un interessante esempio l’analisi che è stata effettuata sul globo cinquecentesco di Egnazio Danti conservato a Palazzo Vecchio, a Firenze, che misura ben 2,2 m di diametro (Casali, in Physical techniques in the study of art, 2006-07).
È importante rilevare alcune interferenze che le diagnostiche radiografiche, al pari di tutte quelle che prevedono l’irraggiamento del manufatto con radiazioni ionizzanti, possono produrre su altre indagini e, in particolare, sulla datazione di bronzi effettuata con il metodo della termoluminescenza. L’esposizione a radiazioni ionizzanti dei residui delle terre di fusione produce un incontrollato invecchiamento artificiale che preclude definitivamente la possibilità di datare correttamente il manufatto. È il caso di celeberrimi bronzi, come quelli di Riace o i Cavalli di San Marco, radiografati innumerevoli volte. Ciò richiama alla necessità d’introdurre rigorosi protocolli diagnostici il cui mancato rispetto contravviene allo spirito già citato della moderna conservazione preventiva, secondo cui ogni manufatto storico-artistico rappresenta un unicum per il suo contenuto documentario e del quale ogni perdita, anche minima e parziale, costituisce un danno storico-culturale irrecuperabile.
Tecniche di diffrazione e diffusione. Sono impiegate per caratterizzare gli elementi microstrutturali di un materiale studiando i fenomeni di diffrazione e diffusione in fasci di radiazioni monoenergetiche, generalmente raggi X, che interagiscono con il materiale stesso. La diffrazione di raggi X (XRD, X-Ray Diffraction) consente di caratterizzare la struttura cristallina di un materiale. La diffusione delle radiazioni, che non dipende da ordine e composizione dei cristalli, consente invece di studiarne forma, dimensione e organizzazione. Nel campo dei beni culturali si registra un crescente impiego di queste tecniche anche nello studio di materiali organici. Per es., sulla pergamena antica, già studiata negli anni Ottanta del 20° sec. da Stephen Weiner con la XRD in manufatti di grande importanza come i Rotoli del Mar Morto, sono state recentemente condotte analisi di diffusione di raggi X a piccolo angolo (SAXS, Small-Angle X-ray Scattering), per caratterizzarne lo stato di deterioramento (Kennedy, Wess, in Physical techniques in the study of art, 2006-07). Questi studi sono stati realizzati impiegando, anziché sorgenti radiogene convenzionali, radiazioni di sincrotrone caratterizzate dall’essere ben collimate, molto intense e di elevata monocromaticità. Grazie a queste caratteristiche, le radiazioni di sincrotrone si possono focalizzare su scala submicrometrica e permettono di realizzare sul campione indagini puntuali di microdiffrazione (μ-XRD) e anche di diagnostiche analitiche come la microspettroscopia (μ-XRF). In recenti studi su fibre di tessuti antichi, per es., sono state realizzate analisi μ-XRD e μ-SAXS su singole fibre di cellulosa. La possibilità di disporre con le radiazioni di sincrotrone di fasci intensi e microfocalizzabili consente di effettuare scansioni con cui costruire immagini che riproducono, in due o tre dimensioni, mappe composizionali e morfologiche fondamentali per studiare la natura del materiale, il suo stato di deterioramento e i trattamenti cui è stato sottoposto. Inoltre, attraverso acquisizioni multisensoriali sui punti di scansione è possibile realizzare, per immagini, una diagnostica simultanea e complementare di caratteristiche strutturali, chimiche ed elementali. Nel campo dei beni culturali l’impiego di tecniche multisensoriali di microispezione per immagine è in grande espansione e il ricorso a radiazioni di sincrotrone è sempre più frequente. Ciò è testimoniato dal fatto che in grandi sincrotroni europei trovi spazio un numero crescente di linee e attività strutturalmente dedicate alla diagnostica dei beni culturali, come nel caso dell’HALO (Heritage and Archaeology Liaison Office) presso il sincrotrone SOLEIL (Source Optimisée de Lumière d’Énergie Intermédiaire du LURE) in Francia. Tra i recenti studi di questo tipo si possono citare le indagini condotte sui cosmetici egizi e su pigmenti antichi di varie epoche e provenienze.
Diagnostica multispettrale per immagine. Si basa su tecniche con le quali vengono registrate diverse immagini di un manufatto, ottenute rilevando selettivamente radiazioni di diversa lunghezza d’onda mentre la sua superficie viene irraggiata con una sorgente continua che emette radiazioni in un’ampia porzione dello spettro elettromagnetico, dall’ultravioletto all’infrarosso. Le caratteristiche delle radiazioni analizzate che provengono dal manufatto sono determinate da processi di assorbimento, diffusione e remissione, e dipendono dalle proprietà fisiche, chimiche e geometriche della superficie illuminata. L’analisi multispettrale si sta rivelando di enorme impatto nel campo dei beni culturali, sia per l’importanza e la mole di informazioni che fornisce, rese immediatamente leggibili in forma d’immagine (imaging), sia per il suo carattere assolutamente non distruttivo e quasi del tutto non invasivo. A questo si aggiunge la portabilità della strumentazione che consente di realizzare facilmente indagini in situ. La diffusione di queste tecniche è certamente legata allo sviluppo di dispositivi per la registrazione di immagini digitali, come i già citati CCD, disponibili a costi sempre più bassi, ma anche all’accresciuta capacità d’immagazzinare una grande mole di dati e di selezionare efficientemente porzioni strette dello spettro, requisiti di primaria importanza in tecniche come quella dell’imaging iperspettrale, con cui si registrano serie di immagini ad alta risoluzione scansionando, a intervalli di pochi nanometri di ampiezza, l’intero spettro elettromagnetico. Con questa tecnica, dalle sequenze spettrali ottenute, si può ricavare per ogni punto (pixel) dell’immagine una curva che ne caratterizza il comportamento in funzione della lunghezza d’onda (risposta spettrale). Da questo andamento è possibile risalire alla natura del materiale e ricavare informazioni sulla sua composizione.
Tra le innumerevoli applicazioni nel campo dei beni culturali, la diagnostica multispettrale si è rivelata di particolare importanza nello studio dei dipinti e dei beni documentari. Per quanto riguarda i primi, data la diversa capacità che le radiazioni di differente lunghezza d’onda hanno di propagarsi in profondità attraverso lo strato pittorico, l’analisi di determinate radiazioni infrarosse riflesse al di sotto dello strato pittorico esterno (riflettografia infrarossa) può fornire un’immagine del disegno preparatorio, rilevare pitture sottostanti o ripensamenti dell’autore. Le radiazioni ultraviolette, invece, assorbite principalmente dallo strato più esterno, possono indurre fenomeni di riemissione fluorescente (fluorescenza ultravioletta) che si differenziano da pigmento a pigmento in base alla loro composizione. Ciò permette, per es., di ottenere mappe di ritocchi e interventi di restauro eseguiti con pigmenti che, anche se della stessa classe cromatica della pittura originale, possono differenziarsi per il tipo di fluorescenza. Per quel che riguarda i beni documentari, attraverso analisi multispettrali è possibile rendere nuovamente leggibili i testi di palinsesti o di papiri bruciati. Le importanti prospettive di diffusione di queste applicazioni sono testimoniate dalle attività legate a progetti (come l’europeo Rinascimento virtuale) e organismi (come la Fondazione Rinascimento digitale) che promuovono il recupero su larga scala di testi classici erasi da pergamene riutilizzate attraverso la loro acquisizione in forma di immagini digitali multispettrali rielaborabili.
Le analisi multispettrali risultano di solito limitate dall’ampiezza della banda di sensibilità dei dispositivi CCD, che si estende generalmente non oltre il vicino infrarosso. Per superare questa e altre limitazioni si possono generare immagini da scansioni punto a punto della superficie del manufatto con rivelatori a singolo elemento (Daffara, Pampaloni, Pezzati et al. 2010) la cui sensibilità si estende oltre il vicino infrarosso. Il limite delle scansioni puntuali risiede nei tempi di acquisizione intrinsecamente lunghi per questa modalità di registrazione, sui quali incide anche un rapporto segnale/rumore di solito non particolarmente elevato nel medio e lontano infrarosso. In fase di presentazione dei risultati, sempre più spesso le immagini da analisi multispettrale vengono integrate con quelle di altre diagnostiche per immagini come, per es., radiografie o termografie, che impiegano radiazioni di altre porzioni estreme dello spettro. Si registra, infatti, la tendenza a integrare il prodotto delle varie tecniche di imaging estendendo sempre più lo spettro (Ambrosini, Daffara, Di Biase et al. 2009) delle radiazioni impiegate e delle proprietà che permettono di esplorare.
La termografia infrarossa (IRT, InfraRed Thermography) è un esempio di diagnostica non distruttiva per immagine. Il suo funzionamento si basa sulla possibilità di ottenere informazioni relative alla struttura interna e ai materiali costitutivi analizzando le radiazioni infrarosse emesse dal manufatto durante processi, naturali o indotti, di scambio termico. Misurando l’intensità di queste radiazioni, con la termografia si ottengono immagini, dette termogrammi, che rappresentano mappe di temperatura della superficie del manufatto ed evidenziano dettagli della struttura al di sotto della superficie stessa. In particolare, con questa tecnica si possono studiare la geometria e l’assemblaggio delle parti componenti, la presenza di vuoti o difetti di adesione e molti altri elementi cui corrispondono disomogeneità termiche e strutturali. In grandissima espansione è l’impiego di questa tecnica in campo architettonico: negli edifici e nelle grandi opere si possono, per es., individuare rifacimenti, tamponature, fessurazioni in muri e intonaci, ma anche monitorare fenomeni, come quelli di risalita capillare dell’umidità nei muri, di grande importanza nell’alimentare i processi di deterioramento. Questi tipi d’indagine vengono in genere condotti sfruttando gli scambi termici indotti da particolari condizioni di differenza di temperatura tra interno ed esterno dell’edificio, che si determinano naturalmente in alcune fasi dell’anno e della giornata. In questo caso l’analisi termografica, che non prevede alcuna perturbazione artificiale controllata del manufatto, risulta essere del tutto non invasiva. In altre situazioni è necessario, invece, riscaldare il manufatto per indurre fenomeni di propagazione termica. Con questo metodo, sempre in campo architettonico, sono stati studiati alcuni mosaici sovraintonacati, mentre di altri si sono ottenute mappe dell’adesione delle tessere. Anche su affreschi sono state condotte indagini per rilevare distacchi e crepe. Le potenzialità della termografia si stanno rivelando però anche in molte applicazioni a manufatti di medie e piccole dimensioni, analizzati perturbandoli con piccole alterazioni termiche indotte per assorbimento di luce. In questa modalità estremamente poco invasiva, la termografia è stata applicata con successo allo studio di reperti archeologici, bronzi, dipinti, libri antichi e pergamene.
Tecniche analitiche
Queste metodiche permettono di analizzare la composizione atomica e molecolare di un campione. Spesso integrate da indagini morfologiche complementari, sono tra le tecniche più impiegate per studiare beni culturali di ogni genere. L’analisi composizionale dei manufatti, per es., risulta fondamentale nel ricostruire il quadro di conoscenze e abilità che, in vari luoghi ed epoche, popoli, comunità, scuole d’arte, botteghe, singoli artisti o artigiani hanno mostrato di possedere nel trattamento e nell’uso dei materiali. Indagini sulla composizione consentono di identificare siti di produzione e tecniche realizzative e di ricostruire quindi anche reti di commerci e scambi culturali. Con gli studi analitici si può valutare lo stato di conservazione dei materiali oppure, soprattutto dall’analisi delle superfici, risalire alle caratteristiche dell’ambiente storico-conservativo dei manufatti, individuando su di essi prodotti di corrosione e biodeterioramento, inquinanti, residui di combustione e così via. Le analisi con fasci ionici IBA si basano sull’analisi delle emissioni indotte in un campione da un fascio incidente di ioni o di particelle elettricamente cariche, come protoni o particelle alfa. Quando le particelle del fascio incidente interagiscono con il materiale possono stimolare, scambiando energia con atomi e nuclei, l’emissione di particolari radiazioni (raggi X e γ) e particelle, o anche essere retrodiffuse elasticamente dai nuclei. L’energia di ogni radiazione stimolata emessa dal campione è caratteristica di una determinata specie atomica e dalla sua misurazione è quindi possibile risalire alla presenza di un dato elemento. Rivelando selettivamente quali radiazioni vengono emesse e la loro intensità (spettro di emissione), si può stabilire la natura e la quantità degli elementi che compongono il materiale. D’altro canto, poiché l’energia finale di una particella che è stata retrodiffusa elasticamente dipende dalla massa del nucleo che ha urtato, anche partendo dall’analisi dello spettro energetico di tali particelle retrodiffuse è possibile ottenere informazioni sulla composizione del materiale. Le indagini IBA vengono classificate in base alla tecnica di analisi, che può basarsi sullo studio dei raggi X emessi dagli atomi del campione (PIXE, Particle Induced X-ray Emission), dei raggi γ emessi dai nuclei (PIGE, Particle Induced Gamma-ray Emission) o dell’energia delle particelle retrodiffuse (RBS, Rutherford Backscattering Spectrometry).
I fasci ionici fatti incidere sul campione vengono generati solitamente in grandi acceleratori, strutture estremamente complesse di tecnologia avanzata, collocate in ampi spazi dedicati e spesso integrate in grandi centri di ricerca. I fasci prodotti da tali acceleratori trovano impiego in ogni settore scientifico, ma l’estrema rilevanza che le indagini a essi collegate hanno nel campo dei beni culturali è testimoniata dalle numerose linee dedicate, ed è significativo che uno dei più importanti istituti di conservazione, il C2RMF (Centre de Recherche et de Restauration des Musées de France), abbia, unico al mondo, un proprio acceleratore (AGLAE, Accélérateur Grand Louvre d’Analyse Élémentaire) dedicato ai beni culturali. Il successo delle tecniche IBA è sicuramente legato anche al basso impatto di tali analisi sui manufatti. In particolare, in questi ultimi anni è stato sviluppato un sistema di analisi in aria che consente di non dover effettuare prelievi da manufatti di grandi dimensioni e comunque, anche per oggetti piccoli, di non doverli tenere in vuoto durante l’ispezione. Le indagini IBA in aria, quindi, possono essere condotte in modo non distruttivo e minimamente invasivo. Inoltre, per quanto riguarda le PIXE, è stato sviluppato un sistema portatile (PIXE-alfa) già ampiamente utilizzato con successo per molte analisi in situ. Tra gli innumerevoli studi condotti sui beni culturali impiegando tecniche IBA, se ne può citare uno sugli inchiostri, finalizzato al riordino cronologico dei circa 200 fogli manoscritti di Galileo Galilei conservati alla Biblioteca nazionale di Firenze (ms. Gal. 72). Su questi fogli non datati sono riportati calcoli, dimostrazioni e appunti annotati da Galileo in diversi periodi della sua vita utilizzando gli stessi inchiostri con cui venivano redatti anche altri scritti datati, come lettere e registri domestici. Gli inchiostri dell’epoca erano artigianali e diversi nella composizione tra le varie preparazioni. Con le misure PIXE è stato possibile correlare, per confronto tra spettri di composizione, gli inchiostri dei fogli non datati con quelli dei documenti datati, rendendo possibile il loro riordino cronologico (Mandò 2005).
Analisi di fluorescenza a raggi X. È una tecnica simile alla PIXE, da cui differisce per il fascio incidente che non è un fascio di particelle cariche ma di raggi X. L’energia di queste radiazioni viene assorbita dagli atomi del materiale che poi la rilasciano emettendo per fluorescenza altri raggi X, caratteristici degli elementi che li hanno originati. Come per le tecniche IBA, anche con la fluorescenza XRF a raggi X si ottengono spettri energetici delle radiazioni emesse dalla cui analisi è possibile determinare la composizione del materiale. Le analisi di fluorescenza a raggi X sono non distruttive, quasi del tutto non invasive e possono essere realizzate in situ con strumentazione portatile, di dimensioni sempre più contenute grazie ai nuovi rivelatori a stato solido: tutte queste caratteristiche ne giustificano il largo impiego per indagini analitiche sui beni culturali. Un’importante analisi condotta con strumentazione XRF portatile è quella sugli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova allo scopo di monitorare la presenza di zolfo in superficie, potenzialmente dannoso, sia prima sia dopo un trattamento di rimozione. In altre indagini la fluorescenza a raggi X è stata utilizzata congiuntamente ad altre diagnostiche analitiche portatili come, per es., nello studio di importanti codici miniati membranacei, analizzati anche con la già menzionata PIXE-alfa e con la spettroscopia Raman (Libri & carte. Restauri e analisi diagnostiche, 2006). Questa tecnica di fluorescenza, al pari di altre basate sull’impiego di sorgenti di raggi X, ha beneficiato negli ultimi anni della disponibilità di radiazioni di sincrotrone. Con questi fasci microfocalizzati sono state realizzate analisi integrate di microfluorescenza (μ-XRF) e microdiffrazione (μ-XRD), per es. su reperti ceramici di terra sigillata, per studiarne simultaneamente composizione e fasi cristalline. Grazie, infine, alla possibile microfocalizzazione dei fasci, si possono realizzare immagini a scansione per micromappature di singoli elementi.
Spettroscopia infrarossa e Raman. A differenza delle tecniche analitiche appena descritte, in grado di fornire informazioni sugli elementi presenti nella composizione dei materiali analizzati ma non sul modo in cui sono legati, la spettroscopia infrarossa (IR spectroscopy) e quella Raman rivelano con i loro spettri la presenza di determinate molecole, in particolare quelle organiche. Con la spettroscopia infrarossa si studia, in funzione della lunghezza d’onda, l’assorbimento di radiazioni infrarosse da parte di un materiale. Con la spettroscopia Raman, invece, si studiano le variazioni di energia che subisce una radiazione che viene diffusa propagandosi in un materiale. In particolare, con tale tecnica si rivelano quelle molecole non polari che la riflettografia infrarossa non consente di individuare, risultando non attive in tale porzione dello spettro. Sono quindi tecniche che, insieme a quelle per l’analisi degli elementi, per es. la XRF, vengono usate in modo complementare tra loro. Come per altre tecniche già descritte, anche nella spettroscopia infrarossa si possono impiegare radiazioni di sincrotrone, microfocalizzabili e anche 1000 volte più intense di quelle prodotte da sorgenti convenzionali. Anche la spettroscopia Raman si sta sviluppando sia come diagnostica portatile sia per indagini su scala microscopica (μ-Raman), il che la rende applicabile, considerando anche il suo carattere non distruttivo, allo studio di ogni tipo di manufatto artistico e archeologico, come documentato dal grande numero di indagini eseguite in ogni settore dei beni culturali con questa tecnica.
Spettroscopia indotta da laser. Tecnica basata sull’impiego di radiazioni laser che, assorbite da un campione, attivano processi di riemissione dal cui spettro si ricavano informazioni sulla composizione molecolare e atomica del materiale. Nella spettroscopia di fluorescenza indotta da laser (LIF, Laser-Induced Fluorescence), le radiazioni di un fascio laser vengono assorbite dalle molecole del campione che, con un certo ritardo, solitamente dell’ordine dei nanosecondi, riemettono per fluorescenza radiazioni di lunghezza d’onda maggiore di quella assorbita. Rispetto ad altre spettroscopie d’assorbimento, questa tecnica presenta un’elevata risoluzione nel discriminare le varie specie molecolari, grazie alla capacità che le radiazioni laser hanno, per la loro monocromaticità, di essere assorbite in modo selettivo soltanto da singole specie molecolari. Si tratta di una tecnica non distruttiva utilizzata recentemente, per es., su affreschi, materiali ceramici e lapidei e, ultimamente, anche per la rilevazione a distanza (qualche metro). La spettroscopia di breakdown indotta da laser (LIBS, Laser-Induced Breakdown Spectroscopy) utilizza impulsi laser ad alta densità di energia focalizzati sulla superficie del campione con i quali, per ablazione, viene vaporizzata una piccola porzione di materiale formando un plasma in cui la materia aggregata si scompone (processo di breakdown) in atomi e ioni. Segue una fase di rilascio energetico in cui i singoli atomi emettono radiazioni caratteristiche dalla cui analisi spettroscopica è possibile ottenere informazioni sulla composizione elementale del materiale. Tale tecnica, pur non richiedendo prelievi, è evidentemente distruttiva anche se la quantità di materiale persa per ablazione è estremamente piccola, pari a frazioni di microgrammo. Nelle applicazioni ai beni culturali, se da un lato questo suo carattere microdistruttivo rappresenta un limite, dall’altro può essere sfruttato per la rimozione controllata di patine e sporcizia dalla superficie di alcuni manufatti. Inoltre, è già impiegata per misure in situ e gli ultimi sviluppi della ricerca indirizzano verso una piena portabilità della strumentazione.
Una recente evoluzione della LIBS, basata su una stimolazione a doppio impulso, si sta rivelando promettente per la realizzazione di analisi subacquee di reperti archeologici. In molte applicazioni la LIBS viene impiegata in combinazione con altre diagnostiche: ne sono esempi recenti le indagini su ceramiche in combinazione con la spettroscopia LIF e gli studi su miniature condotti insieme a indagini di imaging iperspettrale, mentre analisi su dipinti per l’identificazione di pigmenti e leganti sono state realizzate con strumentazione ibrida per spettroscopia integrata LIBS e Raman. Un’ulteriore caratteristica utile per indagini su pitture o altre superfici multistrato riguarda la capacità che questa tecnica offre di produrre analisi stratigrafiche scavando in modo controllato il materiale con impulsi ripetuti nello stesso punto. La diffusione di questa spettroscopia sembra essere destinata a crescere se si considera, in aggiunta alle caratteristiche precedentemente descritte, la brevità dei tempi di misurazione, il non utilizzo di radiazioni ionizzanti e la capacità, che altre spettroscopie non hanno, di poter rivelare elementi leggeri.
Risonanza magnetica nucleare. Si tratta certamente di una delle tecniche che più si sono evolute in termini di portabilità. È una diagnostica basata sull’analisi del comportamento degli spin magnetici di alcuni nuclei sottoposti all’azione di un campo magnetico esterno. È sviluppata per studi spettroscopici, stratigrafici e di imaging. Nella sua configurazione classica, un’indagine di risonanza magnetica nucleare (NMR, Nuclear Magnetic Resonance) prevede che il campo magnetico esterno sia generato da magneti disposti intorno al campione. Recenti sviluppi di questa tecnica hanno consentito di effettuare indagini con magneti esterni al campione. Ciò ha permesso di ridurne le dimensioni a pochi centimetri e di realizzare sonde portatili da affiancare semplicemente alla superficie studiata (NMR unilaterale). In questa nuova modalità di utilizzo in situ, e per la sua natura assolutamente non invasiva, questa tecnica sta trovando largo impiego nello studio di manufatti artistici e reperti archeologici. Sono stati, per es., condotti studi stratigrafici su mummie antiche, analisi su dipinti, su affreschi e sul degrado della carta antica.
Prospettive della diagnostica per i beni culturali
Nell’ambito dei nuovi o innovativi sistemi diagnostici per lo studio dei beni culturali, in molti casi l’elemento di novità non riguarda le singole tecniche ma piuttosto la loro capacità di integrarsi sia in fase di misurazione (con sistemi multisensoriali spesso concepiti per operare simultaneamente) sia in fase di elaborazione e sintesi dei risultati acquisiti. È quello che avviene combinando, per es., un processo di ablazione laser con analisi di spettroscopia di massa, o analisi iperspettrali con misure colorimetriche. Per quanto riguarda i risultati, si pensi invece a immagini di diagnostiche diverse della stessa porzione di manufatto, integrate per sintetizzare risultati radiografici, multispettrali, termografici, ma anche olografici, da risonanza magnetica nucleare o da rilievi di forma. Anche su scala microscopica, per lo studio delle microstrutture e della distribuzione locale di determinati elementi della composizione, si tende sempre più a integrare indagini di microimaging di diversa origine combinando, per es., mappature di μ-XRF, μ-XRD e μ-Raman. I beni culturali appaiono come i primi beneficiari degli sviluppi di diagnostiche integrate; le indagini multiple simultanee consentono di minimizzare le interazioni con gli apparati di misurazione, mentre le sintesi per immagine combinano i diversi risultati ottenuti rendendoli immediatamente leggibili anche da non specialisti.
Relativamente alle tecniche innovative, molti recenti sviluppi sono il risultato di specifiche istanze della diagnostica per i beni culturali, come quelle di non distruttività e di portabilità della strumentazione. Si assiste quindi al completamento di un processo di transizione che, partito da una visione in cui per le indagini sui beni culturali si adattavano in genere tecniche sviluppate in altri ambiti, approda oggi a un contesto nuovo in cui la tecnologia evolve in maniera originale, trainata proprio dalle esigenze della nuova diagnostica per i beni culturali.
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