Scienza e filosofia: Geymonat e Preti
Nell’immediato dopoguerra, a partire all’incirca dal 1945, Ludovico Geymonat (1908-1991) e Giulio Preti (1911-1972) figurano tra i principali fautori di una filosofia che si propone di svilupparsi in sintonia con il pensiero scientifico.
Allievo di Valentino Annibale Pastore (1868-1956) all’Università di Torino, Geymonat si laurea in filosofia nel 1930 e due anni più tardi in matematica. Antifascista, rifiuta l’iscrizione al partito e, negli anni Quaranta, aderisce al Partito comunista italiano (PCI); durante la Seconda guerra mondiale partecipa alla Resistenza, arruolandosi nella brigata Carlo Pisacane. Dopo la Liberazione, intrapresa la carriera accademica, ottiene nel 1949 la cattedra di filosofia teoretica presso l’Università di Cagliari; si trasferisce quindi all’Università di Pavia, e dal 1956 al 1978 terrà la cattedra di filosofia della scienza presso l’Università di Milano. Autore di numerose pubblicazioni e infaticabile promotore di attività culturali, dirigerà la collana Filosofia della scienza presso l’editore Feltrinelli, la collana I classici della scienza della casa editrice UTET e sarà il curatore della fortunata Storia del pensiero filosofico e scientifico in 7 volumi (1970-1976). Negli anni Sessanta lascerà il PCI per avvicinarsi a gruppi marxisti minoritari.
Giulio Preti, dopo avere iniziato gli studi di filologia indiana, indirizza i propri interessi verso la filosofia e si laurea quindi presso l’Università di Pavia nel 1933. Partecipa anch’egli attivamente alla Resistenza e, iscrittosi al PCI, non ne rinnova la tessera nel 1946. Professore incaricato di filosofia morale presso l’Università di Pavia nel 1950, nel 1954 passa a insegnare prima storia della filosofia e poi filosofia presso l’Università di Firenze, dove rimarrà fino alla morte. Profondamente fedele a un’immagine del filosofo come promotore di valori, nel suo caso quelli della democrazia e della conoscenza in primo luogo, Preti svolgerà un’intensa attività pubblicistica, collaborando a riviste e giornali come «Il Politecnico», «La fiera letteraria», «Il Paese».
Sia Geymonat sia Preti si schierano contro la tradizione crociano-gentiliana, che fino allora era stata dominante, e si situano nel clima di rinnovamento che caratterizzò la fase della ricostruzione del Paese. Entrambi concepiscono la filosofia non soltanto come attività accademica, ma anche come impegno civile, come uno strumento critico che deve contribuire a rendere gli esseri umani consapevoli del proprio ruolo all’interno della società e dare loro i mezzi per ribellarsi contro ogni forma di oppressione e di dogmatismo. Da questo punto di vista, la piena valorizzazione del pensiero scientifico è considerata da entrambi i filosofi come un potente antidoto nei confronti della superstizione e un mezzo per generare nel cittadino una matura coscienza critica.
Tuttavia, com’è stato messo in rilievo da più interpreti (Ferrari 1985; Garin 1985; Bobbio 1988; Scarantino 2007), per quel che concerne la filosofia il rinnovamento era iniziato già alla fine degli anni Trenta. In questo periodo erano sorte numerose riviste che tentavano di innovare il panorama culturale del Paese: tra di esse spicca «Corrente», che ebbe in Antonio Banfi il principale riferimento filosofico e che raccolse intorno a sé numerosi intellettuali, molti dei quali svolgeranno un ruolo di primo piano nella cultura dell’Italia repubblicana. Subito dopo la Liberazione, la «finitudine della condizione umana, il naturalismo epistemologico, la laicità della ricerca filosofica e l’impiego civile della filosofia» divennero i motivi conduttori «di una tensione speculativa che univa analisi teorica e filosofia dell’azione, empirismo, esistenzialismo e filosofia scientifica in nome di una rinnovata partecipazione della filosofia alla vita civile del paese» (Scarantino 2007, p. 117).
Per quello che concerne i rapporti tra filosofia e scienza, Geymonat si era intensamente impegnato, già prima della Liberazione, in un’ampia attività di promozione della cultura scientifica e della filosofia della scienza in Italia.
Già prima di recarsi a Vienna nel 1934, Geymonat aveva pubblicato due saggi che avevano per oggetto le prospettive teoriche avanzate dal neopositivismo (Il problema della conoscenza nel positivismo. Saggio critico, 1931; La nuova filosofia della natura in Germania, 1934). Dopo il soggiorno viennese, durante il quale entra in contatto con Moritz Schlick ed è ammesso alle sedute del circolo filosofico da questi fondato, Geymonat ha modo di approfondire la conoscenza della corrente neopositivistica, e nel 1945 dà alle stampe gli Studi per un nuovo razionalismo, che costituiranno a lungo, nella cultura italiana, una delle poche fonti autorevoli per chi vorrà documentarsi su aspetti centrali del neopositivismo. Tra gli argomenti discussi negli Studi, un ruolo centrale è svolto dalle problematiche poste dal convenzionalismo, che Geymonat interpreta secondo una prospettiva prevalentemente logico-linguistica, e dal mutamento delle teorie scientifiche (Parrini 2004, p. 95). Già in quest’opera, l’esigenza di tener conto dello sviluppo storico della scienza per trarne indicazioni di carattere teorico prefigura la futura proposta di interpretare tale sviluppo mediante lo strumento della dialettica:
Mentre sin verso la fine del secolo scorso la scienza si era sviluppata senza svolte [...] e aveva dato l’impressione, anche all’osservatore più scrupoloso, che la ragione umana fosse in grado di cogliere per gradi via via più perfetti il nucleo costitutivo dell’assoluto; da alcuni decenni invece essa ha preso un andamento impetuoso e violento, che la trascina di crisi in crisi, ponendola di continuo innanzi a situazioni profondamente contraddittorie. Chi voglia descrivere onestamente questo sviluppo, non può far a meno di ammettere che esso è, di principio, inconciliabile col quadro della gnoseologia classica […]. Egli constaterà allora che l’unico schema capace di inquadrare lo sviluppo, per crisi successive, della scienza moderna è uno schema dialettico, inteso [...] come schema razionale che riesce a mettere in esatta luce la struttura logica delle idee scientifiche, delle loro crisi, dell’ampliarsi e determinarsi del significato dei loro termini (Studi per un nuovo razionalismo, 1945, p. 157).
Nel 1947, Geymonat fonda a Torino, insieme a Nicola Abbagnano, Eugenio Frola, Prospero Nuvoli, Enrico Persico e Adriano Buzzati Traverso, il Centro di studi metodologici, sorto come prosecuzione di incontri che si erano svolti nella stessa città due anni prima. Il Centro aveva lo scopo di far discutere tra loro scienziati e filosofi su questioni generali di metodo, ma anche su problemi specifici interni a ciascuna disciplina. Negli anni successivi, Geymonat partecipa, ancora con Abbagnano, al movimento del neoilluminismo. Il risultato di questo coinvolgimento nell’esperienza neoilluminista è il volume del 1953, Saggi di filosofia neorazionalistica, nel quale, prendendo ulteriormente le distanze dal neopositivismo, Geymonat cerca di definire un concetto di razionalismo che si distingua tanto dal tradizionale razionalismo metafisico, quanto dal razionalismo critico di ascendenza kantiana e da quello che egli chiama razionalismo scientista (di ascendenza positivista e neopositivista).
Nel lavoro del 1953, l’attività del filosofo è assimilata a quella del ‘metodologo’. Questi dovrà svolgere una funzione analoga a quella che, nell’Ottocento e agli inizi del Novecento, era esercitata dagli stessi scienziati: analizzare e precisare le basi e i procedimenti delle singole teorie scientifiche, indagare i rapporti fra una teoria e l’altra, fra teoria e applicazioni, fra linguaggio tecnico delle singole scienze e linguaggio generico dell’uomo comune (Saggi di filosofia neorazionalistica, 1953, p. 29). Il filosofo neorazionalista dovrà proporsi di studiare la razionalità attraverso le sue realizzazioni concrete, vale a dire attraverso le conquiste della scienza moderna, senza presupporre una concezione generale, a priori, di razionalità.
Nei Saggi di filosofia neorazionalistica il tema principale è il rapporto di una non ben precisata ‘razionalità’ con le sue manifestazioni nei differenti ambiti nei quali si attua l’indagine scientifica. Al fine di fornire un’alternativa alla concezione idealistica, Geymonat sentirà tuttavia insufficiente il semplice appello alla scienza, e cercherà di recuperare gli elementi di realismo già presenti nelle opere degli anni Trenta. Il realismo, però, non basta: realisti erano anche i filosofi medievali, e il realismo metafisico è del tutto compatibile con una prospettiva religiosa. Il materialismo diverrà, perciò, l’esito naturale delle riflessioni di Geymonat: non il materialismo ‘volgare’ degli scienziati dell’Ottocento, che facevano riferimento a un concetto ‘passivo’ di materia, bensì il materialismo dialettico.
L’adesione al materialismo dialettico, sanzionata dalla pubblicazione del saggio Filosofia e filosofia della scienza (1960), permette a Geymonat di continuare la battaglia teorica contro le ‘filosofie idealistiche’ e di rimanere legato ai movimenti marxisti che all’epoca egemonizzavano l’opposizione politica in Italia. Dal punto di vista teorico, il materialismo dialettico offre a Geymonat la possibilità di comporre una serie di esigenze che erano emerse negli anni che vanno dai primi studi sul neopositivismo fino alla metà degli anni Cinquanta. In primo luogo, l’esigenza di dare un correlato esterno alle teorie scientifiche che ne garantisca la ‘realtà’; quindi l’esigenza di salvarne la ‘verità’, trovando un modo per armonizzare i loro mutamenti con il fatto che alcune di esse, con il trascorrere del tempo, diventano ‘false’ (Parrini 2004, pp. 120-29).
Negli anni successivi a Filosofia e filosofia della scienza, Geymonat cercherà di raffinare e rendere plausibile la svolta materialistico-dialettica in una progressione di pubblicazioni (Metodologia neopositivistica e materialismo dialettico, 1972; Primi lineamenti di una teoria della conoscenza materialistico-dialettica, 1974), che culminerà con il saggio Scienza e realismo (1977). In Scienza e realismo, Geymonat si propone di «rinnovare radicalmente» la nozione di proposizione vera, sostenendo che è possibile «parlare di verità anche senza esigere che essa possegga il carattere di assolutezza tradizionalmente attribuitole» (Scienza e realismo, 1977, p. 147). Secondo Geymonat, infatti, un requisito essenziale del concetto ‘tradizionale’ di verità è che, se un enunciato è vero, debba esserlo in maniera assoluta, senza essere passibile di revisione. Lo sviluppo della scienza, tuttavia, ci mostra il caso di teorie che, ritenute vere per un determinato periodo di tempo, a un certo punto non vengono più considerate tali. Ciò potrebbe suggerire l’idea che la verità sia relativa e quindi aprire la porta a un relativismo che Geymonat ritiene inaccettabile. Per questo motivo, egli fa propria la proposta avanzata da Vladimir I. Lenin in Materializm i empiriokriticizm (Materialismo ed empiriocriticismo, 1909), secondo la quale la scienza ci porta ad acquisire risultati «sempre più veri» (Scienza e realismo, cit., p. 74). L’intento di Geymonat è sostituire al tradizionale concetto ‘statico’ di verità e di conoscenza un concetto ‘dinamico’. ‘Dinamicità’, in questo caso, che non va riferita al solo soggetto che conosce, ma anche ai risultati dell’attività conoscitiva,
i quali vengono così ad acquistare un valore di verità solo in quanto inseriti in una catena di conoscenze tutte transitorie e relative, e tutte sostituibili da altre più complete e più precise (p. 74).
Poiché conserva l’idea di verità come adeguazione alla realtà e prende atto che la verità muta, Geymonat inferisce da queste due premesse che la realtà stessa debba mutare, al mutare della verità:
Una volta preso atto del carattere intrinsecamente dinamico della verità, sarà gioco forza rinunciare al carattere statico tradizionalmente attribuito alla realtà stessa (p. 75).
Di conseguenza, per Geymonat, sia le nostre conoscenze sia la realtà conosciuta hanno un carattere dinamico. D’altra parte, egli ritiene che il concetto di approfondimento della verità sia incompatibile con l’ipotesi di una verità assoluta e definitiva, il cui conseguimento segnerebbe la fine della ricerca. L’evolversi della scienza, perciò, non presuppone una descrizione totale e definitiva del mondo. Geymonat, quindi, non solo inferisce che la realtà è dinamica dal fatto che la nostra conoscenza della realtà si evolve, ma assume anche che la nostra conoscenza progredisca ‘approssimando’ la realtà. Al tempo stesso, sostiene che la conoscenza approssima la realtà, negando che esista uno stadio finale della conoscenza, nel quale la realtà venga adeguata completamente. Geymonat non dà un criterio esplicito per distinguere materialismo e realismo, né sembra avvertire alcuna tensione tra la professione di materialismo e la convinzione secondo la quale
non esiste un esperire puro antecedente a ogni teoria, ma in qualunque processo conoscitivo sono sempre compresenti intuizioni e categorizzazioni (più o meno elaborate) (L. Geymonat, Primi lineamenti di una teoria della conoscenza materialistico-dialettica, in E. Bellone et al., Attualità del materialismo dialettico, 1974, p. 101; cfr. Parrini 2004, p. 124).
Il problema che Geymonat si trova a gestire è come giustificare l’affermazione che una determinata teoria è una ‘verità’ approssimata, se non è possibile far riferimento a un ipotetico ‘stadio finale’ della conoscenza che consenta, tra l’altro, di discriminare una teoria vera da una completamente arbitraria. La soluzione prospettata da Geymonat consiste nel richiamarsi al ‘criterio della prassi’. Geymonat vuole evitare, tuttavia, che il riferimento alla prassi comporti l’identificazione della sua posizione con una qualche forma di pragmatismo o di utilitarismo. Un punto centrale delle sue riflessioni, infatti, consiste nel tentativo di salvaguardare il convenzionalismo nella scienza, inglobandolo
in una nuova concezione che concili il carattere relativo (limitato, circoscritto) dei principi scientifici col loro valore conoscitivo, in un senso del termine ‘conoscenza’ diverso da quello tradizionale (Scienza e realismo, cit., p. 66).
È evidente che Geymonat assume come riferimento per sviluppare il proprio punto di vista una concezione degli aspetti pragmatici e convenzionali della scienza ancora fortemente deformata dalla tradizione idealistica crociana (Parrini 2004, p. 127).
La ‘prassi’ alla quale pensa Geymonat è una ‘prassi sociale’ avente natura dialettica. Componenti teoriche e componenti pratiche dei processi cognitivi formano, secondo Geymonat, un’unità dialettica, ed è questa unità che, permeando la prassi, ci permette di selezionare «le convenzioni meramente arbitrarie da quelle che posseggono un certo valore conoscitivo» (Scienza e realismo, cit., p. 66). In Scienza e realismo, Geymonat fornisce alcune indicazioni ‘negative’ e altre ‘positive’ sul modo in cui intende la dialettica. Per quel che riguarda le caratterizzazioni negative, egli non pensa la dialettica nei termini dei ‘tre stadi’ di derivazione hegeliana, e nemmeno ha in mente la logica dialettica antitetica alla logica formale, prefigurata da Friedrich Engels. Le caratterizzazioni positive, invece, sono sostanzialmente tre: 1) la dialettica si applica a fenomeni di tipo storico che coinvolgono un’evoluzione nel tempo; 2) impone di considerare i fenomeni studiati tenendo conto della totalità dei rapporti reciproci tra le parti che li compongono; 3) attribuisce «un’attenzione specialissima al rapporto di contraddizione».
Geymonat sostiene che il metodo dialettico ha una funzione fondamentale nello studio di quelle che si possono considerare caratteristiche esterne delle teorie scientifiche, vale a dire le caratteristiche che riguardano la genesi delle teorie medesime e l’impulso che tale genesi riceve sia dalla tecnica sia dalle concezioni filosofiche. I criteri che egli fornisce per individuare il metodo dialettico, tuttavia, sono generici: né in Scienza e realismo, né in opere successive, per es., si tenta di dare una caratterizzazione precisa del concetto di contraddizione. Geymonat assume semplicemente come un dato di fatto che certe situazioni conflittuali che si verificano nello sviluppo di una determinata scienza siano contraddittorie. Analogamente, assume come presupposto che la storia sia razionale:
Il presupposto da cui prende le mosse il metodo dialettico […] è il presupposto che la storia (come fenomeno globale) sia oggettivamente razionale, sia pure nel senso della razionalità dialettica (p. 95).
Siffatta fiducia nella razionalità della storia viene fondata sulla considerazione dell’impossibilità che il processo storico, «frutto del lavoro umano» si risolva in una successione caotica di azioni prive di qualsiasi nesso logico che le colleghi l’una all’altra. È evidente, in questo caso, l’analogia con quanto sosteneva Benedetto Croce rifacendosi a Giambattista Vico: che, cioè, la storia, in quanto prodotto umano (a differenza della ‘natura’), dev’essere necessariamente intelligibile agli uomini.
Naturalmente, l’enfasi posta sulla positività e sull’importanza del pensiero scientifico, inteso non soltanto come produttore di conoscenza, ma anche come fattore di progresso civile, distanzia Geymonat dalla tradizione idealistica italiana. La differenza con quella tradizione, tuttavia, si esaurisce in tale antitesi. Il modo di argomentare di Geymonat si svolge evocando categorie generali (materialismo, realismo, progresso, dialettica ecc.) senza mai impegnarsi in analisi dettagliate, e perlopiù limitandosi ad asserzioni apodittiche («la storia è oggettivamente razionale», «la storia della scienza ha un andamento dialettico», «le contraddizioni sono il motore del progresso scientifico»), che non sono mai motivate adeguatamente. Sotto questo riguardo, si può dire che la riflessione di Geymonat continui a muoversi in un orizzonte ancora tutto interno alla particolare forma che l’idealismo aveva assunto nel Paese prima della Seconda guerra mondiale.
Giulio Preti, componendo istanze provenienti da tradizioni di pensiero differenti come il pragmatismo di John Dewey, il neopositivismo, la fenomenologia husserliana e il neokantismo della scuola di Marburgo, riesce a dar vita a una prospettiva filosofica che, confrontata con altre elaborate da filosofi a lui contemporanei, risulta più organica e, soprattutto, più capace di misurarsi con gli sviluppi da cui, a livello internazionale, sarà caratterizzata la filosofia della scienza nella seconda metà del 20° secolo.
Dopo una prima fase, nella quale assume il neopositivismo come principale punto di riferimento per la propria riflessione, Preti, a partire dagli anni Sessanta, attribuisce alla fenomenologia un ruolo sempre più importante. Questo cambiamento, tuttavia, si integra bene con un’idea che appare una costante nello sviluppo delle posizioni filosofiche di Preti. Già negli anni Quaranta, egli cerca di porsi in una situazione di equidistanza, nell’ambito della teoria della conoscenza, rispetto ai due estremi dell’idealismo e del realismo, elaborando progressivamente una concezione ‘neutra’ e ‘oggettiva’ dell’esperienza. Preti ritiene, infatti, che l’ipostatizzazione di uno solo dei due poli coinvolti nell’attività conoscitiva, vale a dire soggetto e oggetto, abbia come esito da un lato l’idealismo (quando il soggetto è separato e reso autonomo rispetto all’oggetto), dall’altro il realismo metafisico (qualora l’oggetto venga reso autonomo e contrapposto al soggetto). Entrambe queste opzioni, però, sono insostenibili: la seconda in quanto finisce preda dei problemi e dei paradossi posti dallo scetticismo, la prima perché, nelle sue estreme conseguenze, porta a forme di filosofia poco plausibili come quella gentiliana dell’atto puro.
Riguardo al legame tra ‘realismo’ e scetticismo, Preti è convinto che ‘fideismo-autoritarismo’ e scetticismo siano gemelli; e che filosoficamente lo scetticismo sia la conseguenza di una concezione realistica del conoscere (G. Preti, Saggi filosofici, 1° vol., 1976, p. 132). Se, infatti, si concepisce la conoscenza come la produzione di una sorta d’immagine mentale di una realtà esterna al soggetto conoscente, e la verità come adeguazione di tale immagine a quella realtà, emerge l’impossibilità di controllare se l’immagine si adatti effettivamente al modello. In questa concezione, la realtà trascendente viene postulata, ma non c’è modo di accedervi direttamente, indipendentemente dall’immagine che se ne ha. Questa situazione non solo alimenta lo scetticismo ma, a causa dello iato che interpone tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, spinge sovente chi la condivide, quando deve distinguere la conoscenza effettiva dall’errore, ad aderire al platonismo e a postulare un accesso privilegiato, basato sull’intuizione, a un ‘mondo delle idee’ altrimenti inaccessibile. È così che si alimenta un atteggiamento iniziatico alla conoscenza, ed è su questa base che sorgono prospettive autoritarie, legate alla convinzione di essere in contatto con la verità.
Al realismo metafisico, Preti contrappone una forma di realismo legata alla nozione di mondo del senso comune. Senso comune va inteso in questo caso come sinonimo di mondo ordinario, così com’è dato nell’esperienza vissuta, tipica di ogni essere umano. Il mondo del senso comune è, sotto certi aspetti, privo di struttura: in quanto pretematico, è antecedente a ogni ordine, e quindi, a parlare propriamente, non è neppure un mondo (cosmos). D’altra parte, poiché è «il campo dei nostri atti vitali e insieme il luogo d’incontro e di possibilità di reciproca traduzione delle nostre conoscenze scientifiche» (Saggi filosofici, cit., 1° vol., p. 488), il mondo del senso comune non è un agglomerato di meri dati percettivi. Di esso fanno parte il linguaggio parlato nella vita quotidiana, ma anche categorie tratte dai più diversi ambiti dell’attività umana (compresa l’indagine scientifica) che, con il tempo, vi si sono sedimentate, diventando nozioni acquisite. Secondo Preti, il linguaggio del senso comune,
con la sua evidenza pragmatica, appare il limite inferiore di ogni verificabilità, e quindi ciò che in ultima istanza conferisce il suo senso a tutti i nostri discorsi (p. 482).
Tale linguaggio, dal punto di vista logico, è privo di una sintassi e di una semantica vere e proprie: è un mero strumento, immerso nell’esperienza vissuta e parte essenziale di questa (G. Preti, Praxis ed empirismo, 1957, p. 90).
Il mondo del senso comune e il linguaggio che vi corrisponde sono il punto di partenza e, in certo senso, il punto di ritorno dell’indagine scientifica. Punto di partenza, in quanto è su di essi che vengono costruiti i vari ambiti scientifici; punto d’arrivo, in quanto è a essi che vengono infine ricondotti i risultati della ricerca, come Preti scrive in un saggio incompiuto del 1963-64:
Tutto il conoscere, sia quello del senso comune che quello più elevato e tecnicizzato delle scienze, muove di fatto da un’esperienza fondamentale, e ad essa continuamente ritorna (In principio era la carne..., a cura di L.M. Scarantino, «Rivista di storia della filosofia», 2003, 1, p. 121).
La scienza, secondo Preti, sorge nel momento in cui gli esseri umani cercano d’introdurre ordine nel ‘mondo’ del senso comune, mediante opportune concettualizzazioni, cominciando a distinguervi gli oggetti e i fenomeni che ne fanno parte. Già
i più semplici e rozzi tentativi di dare un nome ai fenomeni e di connetterli anche nel più elementare degli schemi categoriali, quello di causa ed effetto, porta a una dissectio naturae e ad una trasvalutazione dei fenomeni in un mondo diverso di significati, in una definita ontologia regionale (Praxis ed empirismo, cit., p. 129).
Ciascuna scienza, dividendo il mondo del senso comune in regioni, costruisce un’ontologia regionale, che non è però un frammento di mondo, bensì un mondo in sé unitario e ben definito. Usando un lessico spinoziano, Preti si riferisce ai mondi costruiti dalle varie scienze come a ‘modi’ di un unico mondo reale, che però non è dato: «è solo un’idea regolativa, che fonda i piani d’incontro e contaminazione tra i vari mondi» (p. 135). Nel momento in cui assume una posizione affine a quella neokantiana, Preti riconosce che alla costruzione degli oggetti della conoscenza contribuiscono concetti e principi a priori. Questi, tuttavia, quando sono invarianti hanno un carattere meramente formale: sono vuote forme che vengono riempite di volta in volta di contenuti storicamente determinati. Così, in ogni momento dato, quella che si configura come ‘scienza’ si trova a dipendere da strutture a priori, da un insieme di principi, categorie e assunzioni che ne definiscono l’orizzonte e che però, avendo carattere contingente, sono suscettibili di mutamento. In questa prospettiva, il concetto di verità inteso come corrispondenza ai dati dell’esperienza resta uno stabile punto di riferimento, mentre i contenuti di ciò che, all’interno di ciascuna sfera dell’esperienza, risulta ‘vero’ possono variare (e di fatto variano).
Oltre a ‘storicizzare’ l’a priori, Preti introduce un’altra importante modifica nella sua peculiare prospettiva neokantiana: considera il cosiddetto soggetto trascendentale come una sorta di ‘io’ sociale, privo però di qualsiasi realtà di tipo metafisico-ontologico. Siffatto ‘io sociale’ non esiste al di sopra e al di fuori dei vari ‘io’ empirici che, in un determinato momento, popolano il mondo. Questa precisazione è importante, poiché evita possibili ipostatizzazioni del soggetto trascendentale, com’era accaduto nel caso dell’idealismo postkantiano. Di conseguenza, il soggetto trascendentale
resta una façon de parler per indicare un insieme (peraltro assai sciolto, indeterminato e variabile) di strutture logiche, sintattiche o semantiche, colte mediante l’analisi, e storicamente determinate e condizionate (pp. 131-32).
Il soggetto trascendentale diventa un «soggetto sociale», nel quale sono depositate le
forme, categorie, significati, attraverso e mediante cui viene selezionata e interpretata l’esperienza, e portata a costituirsi, entro le forme ammesse per la ‘verità’, in ‘mondo reale’ (p. 147).
La conoscenza scientifica si sviluppa operando distinzioni concettuali e categorizzazioni nell’ambito del mondo del senso comune che generano una molteplicità di scienze «ognuna con il suo reticolato di categorie e di principi, le sue risoluzioni e anticipazioni di fenomeni, il suo modo di sceglierli» (In principio era la carne..., cit., p. 128). Fin dal suo sorgere, quindi, la scienza, per come si è venuta configurando a partire dalla rivoluzione scientifica del 17° sec., ha generato una molteplicità irriducibile di teorie che costituiscono prospettive diverse sulla natura. Questo pluralismo, sottolinea Preti, è, «e resta, una struttura tipica della nostra civiltà contemporanea» (p. 131).
La pluralità dei ‘mondi’ nei quali si articola la ricerca scientifica presuppone un assetto politico-sociale che incoraggi il pluralismo: l’attuale sviluppo della scienza, infatti, trova nella democrazia la propria base, e presuppone un atteggiamento intellettuale fondato sul rifiuto di qualsiasi autorità e il libero esercizio della critica. Non è un caso che, dal punto di vista storico, l’avvento della democrazia coincida
con l’avvento della scienza: l’uomo democratico è identicamente uguale all’uomo che è stato ed è protagonista della nuova scienza, e i destini della democrazia sono strettamente legati a quelli della scienza (Saggi filosofici, cit., 1° vol., p. 83).
Nel citato In principio era la carne..., Preti scrive che il «valore essenziale della scienza è la ‘verità’»: da quando l’episteme si è imposta non soltanto come modo di sapere autonomo ma anche come sapere autentico, contrapponendosi all’opinione e alla superstizione religiosa, la ‘verità’ è stato il suo scopo e il suo valore proprio (p. 131). Il concetto di verità, in questo caso, fa riferimento a un sapere dotato di un’universalità ideale che si fonda sulla prova e sulla dimostrazione, e a «una libera ricerca individuale, in quanto però l’individuo supera i limiti della sua biografia ed opera secondo criteri metodici e razionali rigorosi» (G. Preti, Retorica e logica, 1968, p. 84). La ricerca e l’elaborazione di tali metodi trovano la propria origine nel bisogno di oggettività insito nell’esigenza sociale di comunicare con gli altri individui umani (Praxis ed empirismo, cit., p. 82). La verità scientifica, osserva Preti,
è un valore che si appella ad una libera ideale universalità umana in generale. ‘Libera’ nel senso che essa non riconosce alcuna autorità come tale – né di uomini né di dotti, né di tradizione: che anche un solo scienziato può riconoscerla e farla valere contro le opinioni anche più venerande e accreditate. ‘Ideale’ perché essa è, in un certo senso, astratta, cioè (meglio) formale: i suoi criteri sono criteri formali, in un certo senso a priori, rispetto ad ogni possibile esperienza e ad ogni possibile discorso (Retorica e logica, cit., p. 197).
Alla pluralità delle scienze corrisponde, nella storia del pensiero occidentale, una pluralità di ‘filosofie’. Secondo Preti, infatti, come non si può parlare di un’unica scienza, giacché esistono campi d’indagine scientifica assai lontani tra loro, così, all’interno di quella che chiamiamo ‘filosofia’, esistono e sono esistite filosofie differenti e settori di ricerca che applicano metodi profondamente diversi. Pur tuttavia, Preti ritiene, da un lato, che la possibilità di riferirsi a una pluralità di discipline con un unico nome caratterizzante (‘scienza’ o ‘filosofia’) sia dovuto al persistere di una sostanziale unità concettuale; dall’altro, che ciò che tiene unite le differenti scienze e le differenti filosofie sia «qualcosa che storicamente è stato presente in quasi tutta la storia del pensiero tanto scientifico quanto filosofico», vale a dire quella che egli chiama scientificità (Saggi filosofici, cit., 1° vol., pp. 114-15). La separazione tra filosofia e scienza, osserva Preti, è un evento recente, da ricondursi alla seconda metà dell’Ottocento: storicamente, tra le due discipline vi è sempre stata una fondamentale identità strutturale. A questo proposito, già nel 1943 Preti scriveva:
la filosofia ha sempre aspirato ad essere scienza; e forse ciò che la distingue dalle singole scienze è soltanto il fatto che, mentre queste attuano l’ideale scientifico nei riguardi di una sezione particolare dell’esperienza, la filosofia deve trasporre tutta quanta l’esperienza nella forma della scientificità (Idealismo e positivismo, 1943, p. 119).
Preti ritiene che, se la filosofia in futuro vuol mantenere un proprio ruolo e quindi se intende conservare i suoi tradizionali caratteri razionalistici di formalità e universalità, può soltanto diventare epistemologia unitaria. Le molteplici ontologie regionali, nelle quali si organizzano le scienze, possono trovare un’unità soltanto mediante una riflessione che ne metta in luce i tratti comuni, concernenti il metodo, le procedure d’indagine, le leggi che caratterizzano il divenire interno a ciascun singolo sistema e la struttura della loro varietà. Al tempo stesso, ricondotta la filosofia all’impiego di un metodo rigoroso (lo stesso della scienza), non c’è di per sé un ambito di problemi appartenenti alla tradizione filosofica che si sottragga a essa. Commentando Immanuel Kant, Preti rileva come la metafisica sia stata per millenni, e continui a essere, un campo di lotte infinite, mentre «solo le scienze continuano a progredire, campo non di lotte vane, ma di discussioni feconde e concludenti» (Praxis ed empirismo, cit., p. 29). Le scienze, però, a differenza della metafisica tradizionale, ottengono i loro risultati in quanto, «prive di ‘santità’ e di ‘maestà’, resistono al ‘pubblico e libero esame’ della ragione» (p. 29). Antiautoritarismo e libero esame della ragione devono essere i tratti distintivi della filosofia, se questa vuol riassumere in sé la ‘scientificità’ che caratterizza il modo di procedere delle discipline scientifiche particolari.
Si delinea così per il filosofo democratico il compito di costruire una cultura di tipo scientifico, senza, tuttavia, ridurre la filosofia o la cultura a scienza. Neppure si tratta di ridurre la filosofia a una qualche scienza particolare come la logica, la matematica o la metodologia, immergendosi in un ambito specialistico e lasciando da parte i problemi generali che tradizionalmente sono stati tipici della riflessione filosofica. Come Preti rivendica, il filosofo democratico deve impegnarsi nella
costruzione di una cultura, e, per cominciare, di una filosofia, che affronti i suoi problemi (li delimiti, li precisi, li tratti) con i due criteri in uso nelle scienze: della possibile verificazione empirica e del possibile controllo linguistico (‘logico’) (Praxis ed empirismo, cit., p. 30).
Ciò, tuttavia, non va inteso come un tentativo di introdurre nella riflessione filosofica
il ‘rigore’ a ogni costo, segregando o ripudiando ogni questione non suscettibile di rigore: ma di distinguere vari gradi di rigore, e di sapere in quale grado si operi (pp. 30-31).
Ipotesi, congetture e ‘vedute’ generali non dovranno essere messe da parte in quanto tali, bensì dovranno essere assunte e considerate esattamente per quello che sono: ipotesi, congetture, vedute generali, «non ‘rivelazioni’ di chi è in grado di ‘scorgere’ con occhi invisibili, invisibili realtà» (pp. 30-31).
In Praxis ed empirismo, Preti definisce la filosofia come «un orientamento attivo verso il mondo» (p. 20). La filosofia, però, non agisce direttamente sul mondo: tra filosofia e mondo, perlomeno a partire dalla rivoluzione scientifica del Seicento, si è progressivamente inserito un complesso diaframma di attività umane come le scienze, l’arte e la politica, che costituiscono quella che si può chiamare cultura in generale. È introducendo modificazioni nella cultura che la filosofia modifica il mondo. La filosofia, di per sé, non produce
cose, o istituzioni, o rapporti sociali, ma produce fatti culturali complessivi, poiché il suo compito specifico è appunto quello di introdurre entro la varietà e complessità dei fatti culturali dei punti di vista e delle direzioni unitarie (p. 20).
Saranno, quindi, questi punti di vista e ‘direzioni unitarie’ a spingere la cultura a modificare il mondo in una determinata direzione. In senso proprio, perciò, la filosofia andrebbe intesa come un «orientamento attivo verso la cultura» (p. 20).
L’idea di filosofia alla quale, infine, perviene Preti è quella di una disciplina ‘liberale’ che tende a includere più che a escludere: una disciplina che condivide con la scienza l’assenza di ossequio verso qualsiasi forma di autorità e che, al pari della scienza, da un lato si attiene alle regole logiche dell’argomentazione, dall’altro è attenta alle ricadute pratiche, nel ‘mondo’, delle dottrine che elabora. Questa concezione ‘aperta’ della filosofia permette a Preti di assimilare anche istanze derivanti dal marxismo. In rapporto al marxismo, Preti suggerisce di compiere tre operazioni: 1) privarlo della carica ‘metafisica’, considerandone i principali assunti teorici (fondamentalmente riguardo all’economia) come semplici ipotesi interpretative, suscettibili di essere modificate o abbandonate nel corso stesso della storia; 2) intendere il concetto di economia come riferito alla mutevole e articolata esperienza storica comprendente «tutta la sfera sensibile-pratica, ogni rapporto attivo dell’uomo con la natura, con i suoi simili, con se stesso»; 3) valorizzare del pensiero di Marx soprattutto la prospettiva delineata nei giovanili Ökonomisch-philosophische Manuskripte, che ancora risentono fortemente dell’influenza di Ludwig Feuerbach (G. Preti, Alle origini dell’etica contemporanea: Adamo Smith, 19772, pp. 197-202).
Sia Geymonat sia Preti, partiti da un forte interesse per il neopositivismo, finiscono per incontrare il marxismo, ma con esiti molto diversi. Geymonat si abbandonerà agli schematismi del materialismo dialettico, senza riuscire ad articolare una proposta originale; Preti, al contrario, cercherà di innestare istanze derivanti dal marxismo sulla base di una prospettiva di tipo pragmatista, interna alla propria filosofia. Per Geymonat, il materialismo dialettico fornirà il guscio nel quale chiudere i problemi irrisolti di un approccio teorico improntato a un facile scientismo, mentre per Preti il marxismo sarà una posizione parzialmente integrabile nella sua concezione filosofica, con valore eminentemente strumentale. Gli eventi della contestazione studentesca e la politica dei partiti della sinistra italiana negli anni Sessanta, tuttavia, spingeranno Preti ad allentare il rapporto con il marxismo, conferendo alla sua impostazione filosofica un’impronta sempre più laica.
A partire dagli anni Sessanta, Preti verrà accentuando una distinzione, che sarà teorizzata compiutamente in Retorica e logica, tra quelle che potremmo chiamare, rispettivamente, sfera del conoscere e sfera del sentire. La prima s’incentra sul concetto di verità e corrisponde all’attività di ricerca scientifica, all’indagine razionale del mondo; la seconda ruota, invece, intorno al concetto di validità, inteso come riferito alle credenze, ai gusti estetici e alle opinioni costituenti il ‘mondo dei valori’ che orienta l’agire pratico di ciascun essere umano. Entrambe le sfere hanno le proprie radici nel ‘mondo della carne’, nel mondo del senso comune: a dar loro unità è la vita dei singoli individui che, al tempo stesso, conoscono e amano, valutano e scelgono, in una parola: vivono. Cionondimeno, l’ambito della verità ha principi e regole che non vigono nell’ambito del valore: nella sfera del vero valgono il rigoroso rispetto delle leggi della logica e un principio liberalizzato di verificazione ‘empirico-fattuale’, mentre la verifica di un giudizio di valore ha a che fare con la sfera emotiva. Nel primo caso si riesce a raggiungere qualcosa di molto vicino a un’universalità empirica (un consenso intersoggettivo pressoché completo), mentre nel secondo ciò è molto difficile. Aderendo a una forma di ‘emotivismo’ ispirata al filosofo americano Charles Leslie Stevenson (1908-1979), Preti sostiene che i giudizi di valore «si sentono» come giusti o sbagliati, ma che non è possibile provarli come veri o falsi, poiché non descrivono ciò di cui sono detti (G. Preti, In principio era la carne. Saggi filosofici inediti (1948-1970), a cura di M. Dal Pra, 1983, p. 115). Alla sfera del valore, secondo Preti, appartengono non solo i giudizi morali ma anche le arti, per es. la letteratura e la pittura, e in generale l’intera sfera dell’estetica.
Al di sotto della struttura politico-legale e addirittura sotto quella costituita dai rapporti economici, scorre nella sua concretezza l’autentica vita degli uomini che si svolge entro queste cornici. Si tratta della vita quotidiana, che dà sostanza e riempimento alle strutture che la racchiudono; secondo quanto afferma Preti, è l’autentica vita degli uomini a conferire senso e valori sia alle strutture economiche sia agli ordinamenti politico-giuridici. Ed è questa stessa vita a costituire «la sostanza dell’ethos» (p. 107). Con ethos, Preti intende designare, conformemente alla tradizione di ascendenza hegeliana, il costume di un popolo o di un determinato gruppo, ovvero l’insieme di istituzioni, tradizioni e canoni sociali che ne regolano l’attività pratica. L’ethos dà luogo a un sistema chiuso, nel senso che gli elementi che lo compongono si sostengono reciprocamente l’uno con gli altri, sovente dando luogo a un’esplicita circolarità nelle motivazioni. Così, per es., si argomenta che si deve vivere onestamente per avere il rispetto degli altri; e si sostiene che il rispetto degli altri è necessario per vivere una vita onesta. L’ethos ha per lo più carattere locale ed è strettamente legato agli usi e alle abitudini di un determinato gruppo sociale. La moralità, invece, dà luogo a un sistema ‘aperto’: essa corrisponde alla «volontà razionale» che, come la rousseauiana «volontà generale», non è né la volontà di un singolo (come tale), né la volontà di tutti (come insieme dei singoli), bensì è la volontà dell’universale necessario (Retorica e logica, cit., p. 205).
Nella moralità la volontà pone direttamente la legge con carattere di validità universale, astraendo dalle circostanze empiriche determinate. Per questa sua qualità, perciò, la morale, al contrario dell’ethos, è svincolata dal costume e non di rado vi si contrappone. Così intesa, la moralità è un sistema di valori che vengono affermati nel momento in cui una persona morale si ‘autotrascende’: non ha origine in una norma superiore né in una sfera di valori che la preceda (p. 207). Preti caratterizza la moralità come ‘libera universalità’; e questa proprietà la pone direttamente in antitesi con l’ethos, che ha necessariamente un carattere conservatore e confini ristretti. Proprio in quanto ha in sé il proprio fondamento, la moralità è affine alla verità logica e, in generale, alla verità scientifica, anch’essa ‘autofondata’.
Sebbene la progressiva presa di distanza del PCI dall’Unione Sovietica avesse comportato un tacito abbandono del materialismo dialettico, la posizione di Geymonat era tollerata dai dirigenti e dagli intellettuali del partito per il fatto che comunque egli aderiva senza riserve a parti fondamentali della teoria marxista. Anche dopo la fuoriuscita dal PCI, l’adesione al marxismo gli permetterà di non trovarsi mai in una situazione di totale isolamento. Geymonat riuscirà a raccogliere intorno a sé una vera scuola: numerosi discepoli si riconosceranno sotto la bandiera del materialismo dialettico e molti di loro contribuiranno alla stesura della Storia del pensiero filosofico e scientifico. Ben presto però, ancor vivo il maestro, la maggior parte di costoro si lascerà dietro le spalle il materialismo dialettico, abbracciando esplicitamente altre concezioni teoriche o, più semplicemente, lasciando nell’ombra il riferimento alla dialettica e limitandosi a una difesa del solo realismo-materialismo. Tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, il marxismo in Italia entrerà in una crisi irreversibile. Nel giro di pochi mesi, con una rapidità che non si riscontra in nessun altro Paese europeo, la quasi totalità degli intellettuali che si richiamavano al marxismo subisce una brusca conversione, passando a difendere concezioni e filosofie alternative o semplicemente dimenticando il marxismo e non parlandone più. Nelle università, i corsi su Marx lasciano il posto a corsi su Carl Schmitt, Martin Heidegger e Friedrich Nietzsche, tenuti dai medesimi docenti che per anni avevano divulgato varie forme di marxismo. A questo rapido mutamento fa seguito una vera e propria migrazione di intellettuali della sinistra e, soprattutto, dell’estrema sinistra extraparlamentare, in partiti e formazioni di destra o legate all’establishment politico.
Ben diversa sarà invece la reazione degli intellettuali del PCI e, in generale, dei marxisti italiani, di fronte alle tesi avanzate da Preti in Praxis ed empirismo. Ad appena un anno di distanza dalla comparsa di quest’opera, Cesare Cases pubblicherà Marxismo e neopositivismo (1958), un pamphlet scritto in uno stile che intende ricalcare le stroncature di Marx ed Engels e che rifiuta senza appello qualsiasi contaminazione tra neopositivismo e marxismo. Sebbene Cases tratti con rispetto Preti e rivolga i suoi attacchi più feroci contro altri autori dichiaratisi favorevoli a un incontro con la filosofia neopositivistica, risulta evidente che il bersaglio principale è costituito proprio dalle posizioni espresse in Praxis ed empirismo. Fondandosi su concetti improntati a un forte dogmatismo, Cases s’ingegna soprattutto per difendere un’ortodossia marxista largamente ispirata a György Lukács, asserendo che sussiste un’incompatibilità di fondo tra la dottrina marxista e certi assunti propri dei neopositivisti. Anche se il libro non svolge alcuna argomentazione filosofica di rilievo e si limita ad avere un tono generalmente assertorio, esso contribuì, da un lato, a creare tra i seguaci del marxismo e gli intellettuali che orbitavano intorno al PCI una forte ostilità nei confronti dell’opera di Preti e, dall’altro, a falsare il dibattito su Praxis ed empirismo, ponendo al centro dell’attenzione non tanto le tesi filosofiche proposte da Preti, quanto il problema della loro compatibilità rispetto al marxismo.
Al pari di Federigo Enriques e di Geymonat, anche Preti, appellandosi a una caratteristica tipica della filosofia italiana, riteneva che uno dei rimproveri che si potevano muovere all’empirismo logico fosse quello «di antistoricismo» (Saggi filosofici, cit., 1° vol., p. 55). Alla luce di questa considerazione, può apparire singolare che gli intellettuali del PCI, prevalentemente orientati a favore di una prospettiva storicistica, abbiano nutrito diffidenza, se non addirittura ostilità, nei confronti delle proposte filosofiche di Preti. Ciò si spiega, tuttavia, tenendo conto di almeno due fatti: la natura del rapporto che intercorre tra ‘verità’ e storicità, all’interno della dottrina marxista, e la forma di storicismo alla quale aderivano gli intellettuali del PCI.
Erede di una concezione ottocentesca della nozione di teoria scientifica, il marxismo italiano si è mosso tra l’accettazione di una teoria economico-sociale considerata ‘definitiva’, assunta come verità non negoziabile, e l’adesione a una forma di storicismo assoluto, che riteneva suscettibili di mutamento qualsiasi concezione e aspetto della vita umana. Si generava così una tensione fra la necessità di tener fermo il dettato fondamentale della teoria, da un lato, e l’accettazione di cambiamenti imposti dal modificarsi delle circostanze economico-sociali, dall’altro. Nella prassi politica, i corni di siffatto dilemma erano sfruttati di volta in volta, ora per epurare o emarginare chi non si uniformava all’ortodossia, ora per accettare compromessi pratici che, a rigore, sarebbero potuti apparire contrastanti con il dettame teorico. Nel caso di Preti, il richiamo all’ortodossia servì per tenere a distanza le sue posizioni filosofiche. Al tempo stesso, la concezione dello storicismo egemone nel PCI s’identificava con un mero relativismo: storia civile e storia del pensiero erano viste come un ininterrotto succedersi di mutamenti privo di struttura. La storia della filosofia finiva per configurarsi come una mera raccolta di opinioni; e lo strumento fondamentale della filosofia era la retorica, più che la rigorosa argomentazione razionale. Niente di più lontano dallo storicismo di Preti, che aveva come modello d’indagine filosofica il ragionamento scientifico e come guida il concetto di verità:
il filosofo non può e non deve rimaner legato ad alcuna ‘morale’, ma solo alla verità – la fedeltà alla verità, il ricercare, il dire, il proclamare la verità è l’unico dovere che, almeno come filosofo, egli ha, e solo di ciò è responsabile davanti agli uomini – questa è la sua vera ‘missione’ (G. Preti, Bíos theoretikós, «Studi filosofici», 1944, 5, p. 62; cfr. Parrini 2004, p. 228).
Ciò fece sì che la proposta di Preti «non riuscì a penetrare fra gli intellettuali di sinistra né a modificare in qualche modo le linee guida della politica culturale del Partito Comunista Italiano, che si mantenne saldamente ancorata all’impostazione gramsciana già dominante, e quindi a un’impostazione storicistica e umanistica» (Parrini 2004, p. 232).
Né, d’altra parte, il messaggio di Preti, con il suo insistere sul momento teorico come carattere distintivo della filosofia, e come ingrediente fondamentale non solo per la storia della filosofia e per la storia della scienza, ma anche per la storia tout court, riceveva l’attenzione che avrebbe meritato da parte di pensatori non marxisti e dagli stessi eredi del movimento neoilluministico (Parrini 2010).
Con la seconda metà degli anni Sessanta, Preti mette a fuoco, quasi esclusivamente in lavori che resteranno inediti, una serie di riflessioni aporetiche circa il rapporto tra democrazia e filosofia, che coinvolgono la funzione del filosofo nella società. In seguito, queste riflessioni vedranno la luce in brevi saggi pubblicati su «La fiera letteraria» e riuniti nella raccolta intitolata Que serà, serà (1970). Scostandosi dalle posizioni delineate in Praxis ed empirismo, nell’ultima parte della vita Preti attribuisce alla filosofia la «difesa di certi valori spirituali non ‘massificabili’, e come tali in tensione con gli ideali democratici» (Parrini 2004, p. 178). Ciò lo porta a richiamare l’attenzione sul «necessario distacco della speculazione filosofica dai bisogni pratico-reali» e sul destino riservato a Socrate dalla democrazia ateniese (Parrini 2004, p. 178).
Come abbiamo visto, Preti ritiene che la filosofia, dopo la rivoluzione scientifica, non verte più sul mondo ma sulle condizioni che ci permettono di conoscere il mondo: se vuole mantenersi rigorosa e fare proprio il metodo scientifico, la filosofia deve accettare il destino di diventare esclusivamente formale e metalinguistica. Questo situarsi della filosofia a una sorta di ‘secondo livello’, rispetto non solo alle varie regioni nelle quali si articola la scienza, ma anche rispetto alla sfera dei valori, implica che, sebbene la sfera del valore cada al di fuori della scienza, sia possibile assumerla a oggetto di studio, sottoponendola a un’analisi scientifica. Siffatto processo di ‘professionalizzazione’, che corrisponde all’assunzione di una veste scientifica da parte della filosofia, è visto da Preti sotto un duplice profilo: da un lato attrae entro il dominio del discorso filosofico rigoroso anche settori che, per loro natura, vi si sottraggono; dall’altro rischia di indurre, in chi pratica la filosofia, una sorta di sterilizzazione della ricerca e un allontanamento dal ‘mondo della vita’. Il filosofo, acquisendo un atteggiamento neutrale (non valutativo) nei confronti degli oggetti che tratta, rischia di distanziarsi eccessivamente dalla sfera dei valori, facendosi un alibi del proprio lavoro per non prendere posizione nel mondo, e quindi per non scegliere quando si tratta di affrontare questioni vitali.
A questo proposito, Preti rileva che la tradizione di pensiero occidentale ha attribuito al filosofo due funzioni fondamentali: quella del profeta e quella dello scienziato (o quasi-scienziato). Nella prima veste il filosofo ha il compito di risvegliare nell’umanità il senso dei valori più alti e di additare mete spirituali; nella seconda, dovrebbe elaborare costruzioni concettuali coerenti e rigorose, non contaminate da giudizi di valore. Nella società moderna queste due funzioni, che per secoli sono state unite nella rappresentazione del filosofo come una sorta di «profeta razionale», si sono separate: immerso nel mondo dell’ethos al pari di ogni altro essere umano, il filosofo assume a proprio oggetto di studio i valori e le condizioni di validità dei medesimi, e nel momento in cui propone egli stesso valori morali, è consapevole sia del fatto di stare operando una scelta fra alternative possibili, sia che le sue motivazioni, per quanto radicate nella cultura e nell’esperienza, non potranno mai assurgere al rango di dimostrazioni. Dietro questo atteggiamento, tuttavia, Preti scorge il rischio di una sorta di pericolosa ‘tecnicizzazione’:
Molti filosofi di oggi, soprattutto tra quelli relativamente più giovani, sembra che accettino questa situazione non solo rassegnati, ma gioiosi. È una sottile forma di corruzione della società capitalistica […] quella di far nascere in tutti il desiderio di essere, o di apparire, dei ‘tecnici’. Questa posizione non solo promette onesti guadagni, ma scarica da molte responsabilità e libera da molte lotte con il milieu sociale. È comodo, molto comodo, essere assai bravi nel proprio lavoro specializzato, e fuori di esso pensare, nei problemi di tutti, come la mamma, la fidanzata e il signor parroco. Ma proprio perciò, una simile posizione, se non è dovuta a mera idiozia e inautenticità, è tradimento – trahison des clercs (In principio era la carne. Saggi filosofici inediti (1948-1970), cit., p. 113).
Il tradimento consiste nel delegare allo status quo e alle istituzioni che lo rappresentano, «la direzione degli uomini, il senso dei valori, l’elaborazione degli standards di vita», togliendo così all’umanità la voce dei pochi che si sforzano di parlare in nome della ragione, contro la tradizione e i falsi idoli. Sul piano strettamente legato al ‘lavoro’ proprio del filosofo, Preti osserva, tra l’altro, che la ‘tecnicizzazione’ della filosofia implica la richiesta che questa sia forzata a mostrare la propria utilità in maniera immediata, al pari dei risultati che ci si aspettano da un qualunque strumento tecnico, risultando così completamente snaturata:
Così vediamo che oggi la filosofia tende a sfaldarsi in ‘altro’: in qualcosa che ‘serve’, che fa del filosofo non più un maestro o un insegnante […], ma un ‘lavoratore intellettuale’. Così la Logica, il grande Sanctum Sanctorum della filosofia, tende (insieme alla sua sorella, la linguistica generale) a diventare una teoria generale delle calcolatrici elettroniche; la morale a divenire pedagogia (nella migliore delle ipotesi), quando non addirittura sociologia o antropologia culturale; e tutta la filosofia si pretende che sia, attraverso l’impegno del filosofo, null’altro che una forma esplicita di ideologia politica (Que serà, serà, 1970, p. 58).
Il nesso che lega tra loro scienza, filosofia e democrazia, può tuttavia essere messo in crisi, secondo Preti, dallo stesso ethos democratico. Le analisi di Preti sono fortemente influenzate, sotto questo riguardo, dalle riflessioni sociologico-filosofiche di Max Scheler basate sul concetto di risentimento, che lo stesso Scheler, a sua volta, aveva mutuato da Nietzsche. Sull’ethos democratico, infatti, vale a dire sull’insieme dei valori che costituiscono la sostanza della vita democratica, disposta ‘al di sotto’ delle strutture politiche ed economiche, agirebbe, secondo Preti, una pressione del risentimento di gruppi sociali che si sentono tendenzialmente esclusi rispetto ai benefici indotti dalla democrazia. Il risentimento spingerebbe a trasformare l’uguaglianza degli individui rispetto ai diritti, in ugualitarismo senza limitazioni. Legata allo sviluppo capitalistico, e quindi alla stabilizzazione del mercato e alla creazione di una massa omogenea di consumatori, la democrazia ha comportato in vasti strati della popolazione dei Paesi nei quali è applicata, una sostanziale uguaglianza di mezzi. L’uguaglianza dei mezzi, tuttavia, non elimina la disuguaglianza nelle capacità e nelle disposizioni naturali di ciascun individuo. Così, chi è incapace di vivere valori che, dal punto di vista della mera disponibilità economica, gli sarebbero accessibili, radicalizza il proprio risentimento nei confronti di coloro che, invece, quei valori sono in grado di fruirli. Effetto di tale risentimento è il tentativo di abolire le differenze, riducendo il diverso sotto il giogo di un’unica norma: chiara testimonianza di questo processo è il predominio, nella società contemporanea, dell’uomo di massa, dell’individuo appartenente comunque a un gruppo, nel quale il noi prevale sull’io. Scottato dall’esperienza conflittuale con la ribellione studentesca innescata dal Sessantotto, Preti conclude con una nota amara le proprie riflessioni sulla democrazia e il suo futuro:
Di fronte alle persone stanno le collettività, o per lo meno il gruppo (la classe, il partito, la nazione) come incorporanti valori decisamente superiori. Le virtù inerenti al sentimento del valore della persona (l’onore, l’orgoglio, ecc.) sono considerate vizi, anzi a volte reati: sono invece il lasciarsi assorbire nel gruppo, il sopprimere sé nel gruppo, il posporre i propri valori personali ai valori del gruppo, i sentimenti che l’odierna democrazia esige. In un senso ben diverso da Pascal, la democrazia ripete con lui «le moi est haissable»: ma perché all’‘io’ deve sostituirsi il ‘noi’, il mistico pronome che denota il dio-massa (In principio era la carne. Saggi filosofici inediti, cit., p. 217).
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