Scienza e processo
La scienza nel processo
Il ricorso alla scienza per accertare i fatti nell’ambito del processo, civile e penale, è un fenomeno che risale indietro nel tempo. È dovuto al fatto che il giudice è un esperto del diritto, ma non ha altre competenze specialistiche: per tutto ciò che non attiene al diritto il giudice è un quisque de populo poiché dispone soltanto delle conoscenze che appartengono alla cultura media e al senso comune del luogo e del tempo in cui opera (Taruffo 2002, p. 121; Twining 2006, pp. 313, 335, 443). Egli può solo servirsi delle «nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza» (art. 115, 2° co., c.p.c.). D’altra parte, accade spesso che il giudice si trovi ad accertare o a valutare fatti la cui conoscenza va oltre le nozioni offerte dalla cultura media e dalla comune esperienza, in quanto presentano caratteristiche di tecnicismo o di scientificità per le quali solo un esperto di quel particolare settore di conoscenza è in grado di fornire informazioni e valutazioni attendibili. In questi casi il giudice deve risolvere un problema preliminare assai delicato, almeno negli ordinamenti di civil law: deve cioè stabilire se egli stesso è in possesso delle conoscenze tecnico-scientifiche necessarie per occuparsi di quei fatti (il che di regola non accade) o, in caso contrario, dovrà servirsi dell’assistenza di un esperto. Il giudice diventa, quindi, giudice delle proprie conoscenze: è lui, infatti, a stabilire se i fatti di cui deve occuparsi rientrano o non rientrano nell’ambito di ciò che egli conosce. Un giudice che presume molto di sé tenderà a trasformarsi in un apprenti sorcier e a occuparsi, magari in modo rozzo e inadeguato, di cose che conosce poco e male; il giudice prudente preferirà affidarsi all’opinione di un tecnico o di uno scienziato.
Situazioni di questo genere diventano sempre più frequenti per alcune ragioni convergenti. Accade sempre più spesso che il giudice debba occuparsi di reati o di illeciti civili che sono stati commessi, per così dire, con mezzi scientifici, e che quindi richiedono, per essere accertati, l’impiego della scienza o della tecnica necessarie (si pensi, per es., ai danni derivanti dall’esposizione a materiali cancerogeni o dall’uso di medicinali dannosi). Un’altra ragione è che la disponibilità di tecniche scientifiche di indagine di crescente precisione e sofisticazione (sulle prove scientifiche di ‘seconda generazione’, v. Murphy 2007, pp. 728 e sgg.) implica che si ricorra a ‘prove scientifiche’ in campi nei quali in passato si poteva utilizzare soltanto la cultura media. Anche in molte situazioni in cui si ricorreva già in passato all’ausilio della scienza si dispone ora di strumenti di analisi più evoluti, e quindi più attendibili e più ampiamente utilizzabili: si pensi, per es., al test del DNA rispetto alle prove ematologiche che già avevano segnato un progresso notevole rispetto ai secoli precedenti, oppure al test del DNA mitocondriale rispetto alle analisi genetiche più tradizionali. Una ragione ulteriore è data dal diffondersi del convincimento che la conoscenza scientifica rappresenti il paradigma ideale della conoscenza certa ed empiricamente dimostrata: poiché nel processo si tratta di accertare la verità dei fatti, l’impiego di conoscenze scientifiche sembra fornire il mezzo più sicuro per giungere a questo risultato.
Ragioni come queste spiegano il rapido estendersi del ricorso alle prove scientifiche in tutti i tipi di processo. La scienza, in altri termini, sta occupando territori sempre più ampi che in passato erano riservati al senso comune (Taruffo 2002, p. 145). Nel processo il giudice è sempre meno libero di affidarsi all’esperienza e alle ‘massime’ che da questa possono talvolta essere derivate (Taruffo 2002, p. 140), poiché accade sempre meno spesso che queste conoscenze – non di rado incerte, inaffidabili e contraddittorie – siano il solo strumento disponibile per l’accertamento e la valutazione dei fatti della causa. Sembra così che sia in atto una tendenza a espandere il ricorso alla scienza, e, in proporzione inversa, a ridurre il ricorso al senso comune e all’esperienza. Per molti versi si può va-lutare positivamente una tendenza di questo genere, poiché si può supporre che la scienza fornisca al giudice fondamenti conoscitivi più sicuri, oggettivi e controllabili, e quindi gli consenta di accertare in modo più razionale la verità dei fatti. Tuttavia, non si tratta di un’evoluzione semplice e armoniosa, e sorgono anzi numerosi problemi di non facile soluzione.
Quale scienza?
I fattori che si sono ora ricordati operano nel senso di portare in primo piano il ruolo che la conoscenza scientifica può svolgere nell’accertamento processuale dei fatti ma, nel momento stesso in cui fanno sì che l’attenzione dei giuristi si concentri sull’impiego delle prove scientifiche, mettono anche in crisi il convincimento – abbastanza ingenuo – che la conoscenza scientifica sia sempre e comunque sinonimo di verità, e che quindi sia sufficiente far ricorso a essa per risolvere ogni questione che, nel processo, renda necessario andare oltre le semplici nozioni di senso comune.
La crisi di questo convincimento, che si verifica sempre più spesso nella prassi giudiziaria oltre che nelle opinioni della dottrina, determina problemi di vario genere, che si possono indicare genericamente con l’interrogativo ‘quale scienza?’, ma che sono riconducibili fondamentalmente a due ordini di questioni, ossia: a) quale tipo di scienza è utilizzabile nel processo; b) esiste solo una scienza buona o esiste anche una scienza cattiva?
Le scienze dure
Il convincimento secondo il quale il ricorso alle conoscenze scientifiche assicura razionalità e attendibilità in quanto la scienza si fonda sull’impiego di metodi controllabili ed empiricamente verificabili, e quindi garantisce certezza dei risultati, si fonda normalmente sul riferimento – implicito o esplicito – alle scienze dure o della natura. Si tende a ritenere, in altri termini, che queste scienze, avvalendosi di metodi empirici e di apparati teorici e matematici, siano in grado di produrre risultati ‘certi’, e quindi idonei a fondare un accertamento veritiero dei fatti. In questa prospettiva, il concetto di scienza che viene evocato è quello che include, per es., la fisica, la chimica, l’ingegneria, la biologia, la farmacologia, e che rinvia a calcoli matematici, esperimenti di laboratorio, frequenze statistiche e altri metodi ‘scientifici’ di indagine. Si tratta, come è facile vedere, dell’immagine tradizionale e popolare della scienza come metodo per indagare la ‘realtà oggettiva’ di fenomeni del mondo esterno e della realtà materiale di esso. Questa immagine è carica di valore culturale perché rappresenta il modello ideale di conoscenza certa e indiscutibile che il senso comune contrappone alle forme di sapere che non vengono qualificate come scientifiche.
Quando si impiega questa concezione della scienza, la sua utilizzazione nell’ambito del processo si configura secondo schemi relativamente semplici. Un connotato che si ritiene tipico delle scienze dure consiste nel loro essere nomotetiche, ossia caratterizzate dal portare alla formulazione di leggi generali (le cosiddette leggi della natura). Tali leggi avrebbero la proprietà di stabilire connessioni regolari tra accadimenti, af-fermando che tutte le volte che si verifica il fatto F si verifica anche il fatto F1. Nell’ambito di un processo, qualora occorra stabilire se, essendo dimostrato il fatto F, si è verificato anche il fatto F1, da accertare, si ricorre al modello di ragionamento definito nomologico-deduttivo proprio per mettere in luce che esso si fonda sul ricorso a una legge generale dotata di fondamento scientifico: da tale legge generale si deduce che il rapporto tra F e F1 si è necessariamente verificato anche nel singolo caso che è oggetto di giudizio, e con ciò si giunge a una conclusione certa (Stella 2003, pp. 339 e sgg.). Nella pratica emerge tuttavia l’esigenza di utilizzare criteri in parte più flessibili, perché soltanto in casi relativamente infrequenti la scienza fornisce leggi davvero generali che siano rilevanti per accertare i fatti specifici di un processo. Si ammette quindi anche la possibilità di usare un argomento quasi nomologico-deduttivo nei casi, abbastanza frequenti, in cui la scienza non fornisce leggi generali bensì frequenze statistiche così elevate (superiori all’80-90%) da far ritenere che vi sia un’alta probabilità che, dato F, si sia verificato anche F1 nel singolo caso (Stella 2003, pp. 342 e sgg.). In situazioni di questo genere lo schema dell’inferenza è ancora di tipo deduttivo, ma la conclusione che ne deriva riflette la natura probabilistica della premessa impiegata: essa non ha più un valore di certezza, ma di probabilità che riflette quello della frequenza statistica usata.
Il modo in cui operano questi ragionamenti si nota abbastanza bene considerando una situazione che si verifica spesso, sia nel processo penale sia nel proces-so civile, tutte le volte che si tratta di dimostrare la sussistenza del nesso causale tra due eventi, ossia che il fatto F, che si conosce, è stato la causa o l’effetto del fatto F1 (Stella 2003, pp. 221 e sgg., 339 e sgg.; Taruffo 2006). Se si dispone di una legge scientifica generale, o di una frequenza statistica elevata, in funzione delle quali si sa che i fatti del tipo F-F1 sono regolarmente connessi da un vincolo causale, allora se ne può de-rivare (con certezza o con elevata probabilità) che anche nel caso particolare i due fatti sono connessi da tale vincolo, e quindi che F1 è stato la causa oppure l’effetto di F.
In questa prospettiva sorgono però alcune questioni rilevanti. Esse derivano principalmente dal fatto che le situazioni nelle quali si dispone di leggi scientifiche generali riferibili agli eventi da accertare nel processo sono in realtà assai rare. Il caso che può considerarsi normale è quello in cui la scienza mette a disposizione del giudice soltanto frequenze statistiche. Se, come si è pure detto, queste frequenze hanno un valore particolarmente elevato, si può applicare ugualmente un’inferenza quasi deduttiva e si raggiungono risultati praticamente certi (anche se non assolutamente veri). Il caso paradigmatico che si verifica di frequente è quello in cui ci si serve di un test del DNA per accertare l’identità di un soggetto. Solitamente il test produce conclusioni che si presentano come vere con una probabilità del 98-99%, e quindi non sorgono difficoltà nell’accettare come praticamente certe queste conclusioni (tuttavia, sui rischi di errore insiti nell’esecuzione del test e nella determinazione dei suoi risultati, v. Murphy 2007, pp. 731 e sgg., 754 e sgg., 779 e sgg.).
Non sempre, però, ci si trova in situazioni così poco problematiche. Per un verso, sorge la questione del valore probatorio delle statistiche. Normalmente si dice, infatti, che le statistiche servono per fare previsioni (e magari anche scommesse), ma non per stabilire la probabilità che un certo fatto si sia verificato in un determinato modo: in altri termini, la frequenza numerica di una regolarità statistica non si traduce nella probabilità che il fatto in questione si sia verificato. Se disponiamo di una statistica secondo la quale i fatti del tipo F si verificano – poniamo – nel 60% dei casi in un universo dato, ciò non dimostra affatto che nel caso particolare quel fatto si sia verificato con un 60% di probabilità. Si tratta peraltro di una questione assai complessa, sulla quale vi sono opinioni varie e contrastanti: taluni non escludono che l’impiego di frequenze statistiche possa produrre l’accertamento di un fatto in giudizio, ma prevale l’opinione che ciò si possa ammettere soltanto in alcuni casi molto particolari (Frosini 2002, pp. 65 e sgg., 98 e sgg.).
Per altro verso, si tratta di stabilire quali frequenze possano essere utilmente impiegate nel contesto processuale. Fino a che si ipotizzano – come si è fatto poc’anzi – frequenze vicine al 100%, appare intuitivo fondare su di esse una inferenza praticamente certa. Il problema è però un altro, ossia: qual è la frequenza statistica minima perché ciò sia possibile? Oppure: qual è la frequenza statistica al di sotto della quale non si è disposti a ritenere fondata la conclusione relativa all’esistenza del fatto? Non esistono criteri prestabiliti per rispondere sensatamente alle domande che ci siamo posti. La risposta dipende, in realtà, dal margine entro il quale si è disposti ad accettare un rischio di errore: è chiaro, per es., che se si usa una frequenza del 75% vi è un margine di errore del 25%, mentre se si usa una frequenza del 30% vi è un margine di errore del 70%.
Questo discorso consente di toccare il problema delle basse frequenze, ossia delle numerose situazioni nelle quali si dispone in realtà di frequenze statistiche poco elevate, dell’ordine del 30%, del 20%, o anche meno (Stella 2003, p. 350). Si tornerà su questo tema sotto altro profilo (v. oltre): qui possiamo però osservare che tali frequenze non sono certamente idonee a fondare inferenze probatorie come quelle descritte poc’anzi. È chiaro che frequenze statistiche particolarmente basse non possono fondare conclusioni in qualche modo attendibili.
La questione è importante perché in molti casi, come quello delle indagini epidemiologiche condotte, per es., sulle conseguenze del fumo, sull’esposizione a sostanze tossiche o sull’uso di medicinali dannosi, ciò che la scienza fornisce è costituito soltanto da frequenze statistiche basse o molto basse, relative al verificarsi di un fatto dannoso come conseguenza di queste situazioni, all’interno di popolazioni specifiche prese in considerazione (Stella 2003, pp. 374 e sgg.). In questi casi, ciò che si tratta di stabilire è l’utilità che queste frequenze statistiche possono avere nel contesto di un processo penale o di un processo civile. Tornando al problema del nesso causale – che è quello su cui in entrambi i tipi di processo sorgono le maggiori difficoltà ed è però più frequente il ricorso alle prove scientifiche – si possono indicare criteri di riferimento razionali. È certo che frequenze basse non possono fondare l’applicazione del modello quasi deduttivo di cui si è detto in precedenza: una conclusione sorretta dal 10% di probabilità non avrebbe praticamente senso. Tali frequenze, allora, non possono giustificare la conclusione che nel caso particolare il fatto F è stato davvero la causa o l’effetto del fatto F1. In altri termini: in questo modo non si consegue la prova della causalità specifica o individuale.
Le scienze umane
Un ulteriore ordine di problemi emerge nel mo-mento in cui, accanto all’impiego processuale delle scienze della natura, si configura l’eventualità dell’uso delle scienze umane o sociali, come la psicologia, la sociologia, l’economia, la storia, la storia dell’arte, la critica letteraria e così via. È chiaro, per un verso, che questi ambiti del sapere scientifico possono essere in vario modo rilevanti nel contesto del processo: basti pensare al caso di perizie psicologiche sul minore, sull’interdicendo o sull’imputato, per intuire che la psicologia può essere assai rilevante per molte valutazioni che il giudice deve effettuare; si può poi pensare alla qualificazione di un edificio come di ‘rilevante interesse storico’ per rendersi conto che anche lo storico dell’arte o dell’architettura, può essere chiamato a esprimere una valutazione scientifica. Non occorre poi grande fantasia per comprendere come l’economista e il sociologo possano offrire conoscenze rilevanti per il giudice civile e per il giudice penale.
Per altro verso, l’impiego delle scienze sociali crea alcune difficoltà che vanno sinteticamente affrontate. Non appare rilevante, almeno in questo contesto, il problema della tassonomia delle scienze, in quanto non interessa stabilire quali delle scienze ora ricordate si fondino anche – o esclusivamente – su dati empirici, come accade in alcune aree della psicologia, della sociologia e dell’economia, e quali, invece, prescindano da questi dati. Interessano piuttosto due altri problemi, ossia: a) il rapporto tra queste scienze e il senso comune; b) il tipo di conoscenza che esse forniscono al giudice.
Quanto al primo problema, si può osservare che le scienze umane si riferiscono a campi del sapere che per lunga tradizione sono stati considerati non scientifici, con la conseguenza che i giudici, dovendo formulare interpretazioni e valutazioni di tipo psicologico, sociologico, economico o artistico, si sono sempre serviti del senso comune, ossia della propria cultura (media) individuale. La difficoltà consiste allora nel fatto che il giudice, al quale spetta la decisione se avvalersi o meno di un esperto, dovrebbe anzitutto riconoscere che si tratta di aree del sapere che ormai hanno acquisito uno status scientifico e un livello di approfondimento che vanno ben al di là delle conoscenze comprese nella cultura media e nel senso comune. In altri termini, i giudici dovrebbero valutare con grande cura e cautela la propria capacità di occuparsi di materie nelle quali il grado di conoscenza richiesto per una valutazione attendibile è sostanzialmente diverso e assai superiore rispetto al livello delle loro conoscenze personali. In sostanza, i giudici dovrebbero avvalersi sempre più spesso di esperti capaci di fornire conoscenze scientifiche, anche in settori tradizionalmente ritenuti esclusi dal novero delle scienze.
Il secondo, e più importante, problema sorge a proposito dei paradigmi che caratterizzano un gran numero delle scienze umane, e che, appunto, le differenziano dalle scienze della natura. La questione è assai complessa, ma può essere semplicemente sintetizzata così, facendo riferimento a una distinzione ormai classica: come si è detto, le scienze della natura si considerano nomotetiche; le scienze umane, invece, si qualificano come idiografiche in quanto mirano a fornire la conoscenza di un singolo evento, di un singolo individuo o di un singolo oggetto. In altre parole, si può anche dire che le prime mirano alla spiegazione di fenomeni empirici, mentre le seconde mirano alla comprensione di atti, comportamenti, tendenze o preferenze (S. Borutti, Filosofia delle scienze umane. Le categorie dell’antropologia e della sociologia, 1999, pp. 21 e sgg., 151 e sgg., 205 e sgg.). Sotto il profilo che qui interessa maggiormente, la caratteristica di queste scienze è che esse tendenzialmente non forniscono la conoscenza di leggi nelle quali ricomprendere i fatti della singola controversia al fine di derivarne la conoscenza per via di inferenze deduttive o quasi deduttive, ma forniscono piuttosto modelli di interpretazione o di valutazione di ‘oggetti’ che possono non essere eventi del mondo materiale. Si tratta dunque di attività di natura fondamentalmente ermeneutica. Una perizia psicologica può aiutare a comprendere qualche aspetto della personalità di un soggetto, mentre una consulenza sociologica può chiarire le implicazioni che sull’evento da valutare derivano dalle condizioni sociali circostanti, e una consulenza artistica può stabilire, per es., l’autenticità e il valore di un dipinto. In tutti questi casi, ciò che la scienza in questione fornisce non è costituito (necessariamente) da leggi o da frequenze statistiche e neppure da (meri) dati empirici: quelle che la scienza fornisce sono essenzialmente interpretazioni di eventi, comportamenti oppure oggetti.
Pare dunque intuitivo che in questi casi ci si trova di fronte a paradigmi conoscitivi e valutativi strutturalmente diversi da quelli che si considerano come tipici delle scienze della natura. Si può pur sempre dire che sono conoscenze scientifiche, che come tali trascendono il livello della cultura media, e che quindi sono dotate di un particolare grado di attendibilità, ma si tratta di conoscenze con caratteristiche peculiari e, quindi, da non confondere con quelle derivanti dalle scienze dure. Va comunque sottolineato che è pur sempre necessario controllare il fondamento scientifico dei saperi che si riconducono alle scienze umane, dato che i relativi giudizi non possono essere abbandonati alla pura soggettività dell’esperto.
Scienza buona e scienza cattiva
Tra le tante conseguenze del fatto che al termine scienza non si ascrive più il significato semplice e riduttivo che fa riferimento alle scienze tradizionali della natura, vi è anche l’emergere del problema che riguarda la qualità della scienza di cui si fa uso nel processo. Questo problema presenta due aspetti principali.
Da un primo punto di vista, è necessario stabilire che cosa rientra e che cosa non rientra in ciò che si definisce come scienza. Questa questione sorge in quanto vi sono varie aree di ‘attività’ (non è detto che si tratti di aree di ‘conoscenza’) che pretendono di presentarsi come scienze, ossia affermano di fornire conoscenze veritiere. Gli esempi sono vari, e vanno dall’astrologia (che pretende di avere uno status non inferiore a quello dell’astronomia), alla chiromanzia, all’ausilio di maghi, veggenti e medium di vario genere, e ad attività analoghe che possono includere persino la lettura dei fondi di caffè (o delle foglie di tè, se si è anglofili). A parte ogni facile ironia in proposito, non va dimenticato che molti hanno fiducia nell’impiego di metodi di questo genere per la scoperta di fatti anche molto importanti (sicché non sarebbe forse improprio parlare di una cultura media che include il ricorso a questi metodi), e che in non pochi casi anche indagini giudiziarie hanno fatto ricorso, se non alla chiromanzia, a medium e veggenti. Peraltro, non esistono soltanto situazioni che si collocano con ogni evidenza al di fuori di qualunque concezione sensata della scienza: esistono anche metodi che per molto tempo sono stati ritenuti dotati di validità scientifica, e che invece – a un’analisi più approfondita – si rivelano privi di tale validità. Gli esempi sono vari, e includono sia i diversi ‘sieri della verità’, sia le ‘macchine della verità’ come il lie detector. In proposito la comunità scientifica è abbastanza d’accordo nel negare che si tratti di metodi o di pratiche capaci di controllare la verità o la falsità delle risposte date da un soggetto: essendo dubbia la loro attendibilità, si riconosce normalmente che questi metodi non possono essere impiegati come mezzi di prova in un processo (il che non esclude, peraltro, che essi possano essere usati – ovviamente con il consenso del soggetto che vi si sottopone – nel corso di indagini o in sedi stragiudiziali). Esistono poi tecniche di indagine che per lungo tempo sono state considerate ineccepibili dal punto di vista della validità scientifica, e che ancora oggi sono di impiego assai diffuso, ma che con ogni probabilità non meritano di essere definite scientifiche a causa della scarsa attendibilità dei risultati che producono (v. in proposito l’ampia analisi in Faigman, Kaye, Saks et al. 20022, 2° vol., pp. 346 e sgg., 400 e sgg.). Vale comunque la pena di far capo a una regola di prudenza, secondo la quale non bisogna chiedere a chi svolge una certa attività se essa è o non è scientifica: l’astrologo è il primo ad affermare che l’astrologia produce conoscenze veritiere, e lo stesso accade con il lettore dei fondi di caffè (v. D. Faigman, Legal alchemy. The use and misuse of science in the law, 1999, pp. 2 e sgg., 62 e sgg., 77 e sgg.). Vi sono dunque numerose scienze che scienze non sono; inoltre, esistono numerosi casi nei quali di una scienza – che rimane tale – si fa cattivo uso perché i suoi metodi di indagine non vengono impiegati correttamente, con la conseguenza che se ne derivano ‘conoscenze’ false e inattendibili.
Da problemi come quelli ora indicati emerge una distinzione fondamentale, che assume anche una crescente valenza pratica: quella tra scienza buona, capace cioè di produrre conoscenze attendibili, controllate con metodi adeguati, e quindi veritiere, e scienza cattiva (la junk science della letteratura americana in argomento), che è costituita da tutti quei saperi che sfuggono a qualunque seria valutazione di scientificità, e da tutti i casi di impiego improprio, scorretto ed errato di metodi scientifici di indagine.
Posta questa distinzione, si deve tuttavia stabilire secondo quali criteri essa può essere tracciata. In proposito le indicazioni più interessanti provengono dalla recente esperienza nordamericana. In passato le corti statunitensi applicavano il Frye test, così chiamato in riferimento a una famosa sentenza del 1923, secondo la quale il criterio per determinare l’ammissibilità delle prove scientifiche sarebbe stato costituito dalla loro general acceptance, ossia dal generale consenso della comunità scientifica intorno alla validità di tali prove (Dominioni 2005, pp. 117 e sgg.). Tuttavia, con l’andare del tempo e con il moltiplicarsi delle ipotesi in cui questo criterio non riusciva a impedire che i giudici utilizzassero conoscenze prive di fondamento scientifico, il Frye test apparve sempre più inadeguato. Ciò indusse la Corte suprema degli Stati Uniti a tornare sull’argomento nel 1993, con la sentenza sul caso Daubert v. Merrell Dow pharmaceutical inc. (509 U.S.579; su tale sentenza v., anche per altri riferimenti, Dominioni 2005, pp. 137 e sgg.). In questa decisione, ormai famosa anche per la grande quantità di commenti che ha suscitato negli Stati Uniti, come pure in Italia, il giudice Harry Blackmun, che scrisse la motivazione di maggioranza, enunciò alcuni criteri di valutazione che dovrebbero guidare il giudice nell’ammettere o escludere prove scientifiche. Si tratta: a) della controllabilità e falsificabilità della teoria che sta alla base della prova scientifica; b) della percentuale di errore relativa alla tecnica impiegata; c) del controllo sulla teoria o tecnica in questione da parte di altri esperti; d) del consenso della comunità scientifica di riferimento. Inoltre, Blackmun sottolineava la necessità che la prova scientifica potesse essere ammessa soltanto quando direttamente rilevante per accertare fatti specifici della controversia.
Questa sentenza rappresenta un tentativo molto interessante in una materia che si prestava e si presta troppo facilmente a malintesi, abusi ed errori nell’impiego di ciò che appare come conoscenza scientifica, ma che in realtà non presenta alcuna garanzia di attendibilità. Sotto questo profilo la sentenza costituisce un punto di riferimento pressoché inevitabile quando si discute dei problemi relativi all’impiego della prova scientifica. Peraltro, essa non solo non fornì una soluzione definitiva del problema, ma costituì piuttosto un punto di partenza assai problematico per una evoluzione successiva che presenta caratteri assai complessi.
In particolare, è risultato molto problematico il riferimento a Daubert v. Merrell Dow pharmaceutical inc. nei casi nei quali entrano in gioco le soft sciences (Dominioni 2005, pp. 163 e sgg.). La sentenza, infatti, era stata pronunciata in una causa nella quale il problema fondamentale riguardava la determinazione della pericolosità di un medicinale, sicché venivano considerate rilevanti scienze come la farmacologia, la medicina e l’epidemiologia. È quindi comprensibile che i criteri di scientificità indicati nella sentenza fossero in certo modo ricalcati sulle caratteristiche di queste scienze, e che in proposito si parlasse di verificabilità empirica o di determinazione del margine di errore. Peraltro, è evidente che criteri di questo genere non sono applicabili nel caso di altre scienze, come quelle umane, nelle quali il metodo è diverso e non sono configurabili controlli empirici e calcoli precisi. A questo proposito il caso esemplare è quello della perizia psicologica, che viene usata sempre più spesso in numerose situazioni, sia nel processo civile sia nel processo penale (Dominioni 2005). Questa perizia, infatti, non mira a proporre dati verificabili secondo criteri quantitativi di probabilità, ma a interpretare il carattere o a determinare le reazioni psichiche o gli atteggiamenti di un singolo individuo: anche quando lo psicologo riesce a servirsi di regole o di criteri generali, si tratta pur sempre di una conoscenza essenzialmente idiografica ed ermeneutica, orientata all’interpretazione e valutazione di alcuni tratti psicologici di un soggetto specifico.
Considerazioni come questa fanno vedere, per un verso, quali sono i limiti intrinseci che caratterizzano i criteri indicati nel caso statunitense in esame, ma, per altro verso, rendono evidente l’estrema difficoltà di individuare standard di validità che possano essere applicati a campi di conoscenza scientifica strutturalmente diversi tra loro. In realtà, il solo criterio che sembra avere applicazione generale è quello della general acceptance da parte della comunità scientifica di riferimento, per la buona ragione che se una certa conoscenza o tecnica di analisi scientifica non è uniformemente riconosciuta come attendibile nel contesto rilevante, esiste una forte presunzione contraria alla sua validità. Tuttavia questo criterio non può trovare un’applicazione meccanica e indiscriminata: da un lato, può accadere che una nuova tecnica di analisi non sia ancora riconosciuta uniformemente dalla comunità scientifica, ma sia tuttavia idonea a fornire risultati più significativi e più sicuri di quelli conseguibili con le tecniche generalmente riconosciute (come nel caso dei primi anni di applicazione del test del DNA); dall’altro lato, può accadere che una conoscenza o una tecnica generalmente accettata si riveli scarsamente attendibile a un’analisi più aggiornata e più approfondita (come nel caso della perizia grafologica e del confronto delle impronte digitali).
Il giudice e l’esperto
Il fatto che siano state la giurisprudenza e la dottrina statunitensi a rivolgere per prime, e per lungo tempo, l’attenzione ai problemi connessi all’impiego delle prove scientifiche si spiega non solo perché questi problemi sono emersi in quell’ordinamento con una notevole frequenza e con un impatto molto forte sulla prassi giudiziaria, ma anche tenendo conto delle modalità con le quali vengono acquisite al processo le conoscenze scientifiche necessarie per accertare i fatti della causa. Nel processo nordamericano non è il giudice che stabilisce se occorre o non occorre servirsi di un esperto per ottenere queste conoscenze, e non è il giudice a scegliere e a nominare l’esperto dal quale intende farsi assistere. Il sistema processuale statunitense, caratterizzato da una struttura adversarial che lascia alle parti pressoché tutte le iniziative che occorrono per il funzionamento del processo, fa perno sull’attività delle parti anche per quanto riguarda l’assunzione delle prove scientifiche. Ciò significa che sono le parti a stabilire se è utile l’assistenza di un esperto: in tal caso lo scelgono, gli indicano di che cosa hanno bisogno e che cosa si aspettano da lui, e quindi – se tutto va bene – gli conferiscono l’incarico e lo retribuiscono. L’esperto comparirà poi in giudizio e verrà interrogato con lo stesso metodo che si usa per i testimoni (donde la qualificazione di expert witness): ciò significa che egli verrà interrogato prima dall’avvocato della parte che lo ha indicato (direct examin-ation, o examination in chief), e poi sarà controinterrogato dall’avvocato avversario (cross-examination). Ognuna delle due parti si comporta in questo modo, contrapponendo il ‘suo’ o i ‘suoi’ esperti a quelli della controparte.
Questo metodo ha alcune implicazioni che meritano di essere brevemente sottolineate. Anzitutto, gli esperti che vengono ascoltati sono per definizione di parte: nessuno si aspetta che essi forniscano conoscenze, opinioni o informazioni neutrali, imparziali, dotate di un fondamento oggettivo e quindi di una vera e propria validità scientifica. Al contrario, la parte che ha nominato l’esperto e lo retribuisce si aspetta che costui presenti alla corte conoscenze tali da poter orientare la decisione finale in proprio favore. Secondo l’etica dominante nel processo nordamericano (e non solo in esso), la parte combatte per vincere, non per far accertare una verità scientifica anche quando questa le è sfavorevole: il ricorso all’expert witness fa parte di questa strategia, e quindi l’esperto svolge tanto meglio la funzione che gli viene affidata quanto più riesce a far credere che la scienza confermi la tesi difensiva della parte che lo ha chiamato.
Su questi aspetti della expert testimony il giudice non ha particolari poteri di controllo, e comunque non esercita i pochi poteri di cui dispone. Da un lato, come si è detto, sono le parti a scegliersi i propri esperti secondo le loro convenienze. Dall’altro lato, secondo la Rule 706 delle Federal rules of civil procedure, il giudice statunitense ha il potere di nominare esperti neutrali per farsi assistere nella decisione, ma questo potere viene esercitato soltanto in casi del tutto eccezionali, perché i giudici cercano di evitare ogni interferenza sul libero dispiegarsi delle iniziative individuali delle parti.
Naturalmente questo sistema è criticabile da vari punti di vista. Per es., nulla assicura che la competizione avvenga su una ragionevole base di parità: la parte più ricca è in grado di pagare l’esperto ‘migliore’ (ossia quello più abile, più influente, più persuasivo, più allenato al controinterrogatorio; non necessariamente quello dotato di maggior prestigio scientifico), ed è anche in grado di pagare un avvocato più abile e più efficace nell’attaccare la credibilità dell’esperto presentato dall’avversario.
È essenzialmente in questo contesto che si può comprendere l’insistenza con cui le corti e la dottrina statunitensi si sono occupate, in questi ultimi anni, dell’ammissibilità delle prove scientifiche. In effetti il solo compito utile che il giudice può svolgere è quello di gatekeeper, ossia di portiere che apre o chiude l’accesso al processo della scienza che le parti gli forniscono attraverso i loro esperti, in base al giudizio preliminare che verte sulla rilevanza e sull’ammissibilità delle prove che le parti deducono, e quindi, in particolare, delle expert testimonies delle quali le parti intendono servirsi. Ecco perché il giudice ha bisogno di standard in base ai quali ammettere o escludere queste testi-monies: in sostanza, malgrado dubbi e difficoltà di varia natura, Daubert v. Merrell Dow pharmaceutical inc. e la giurisprudenza successiva si sono mosse nella direzione di indicare ai giudici almeno una soglia minima al di sotto della quale non si dovrebbe andare nell’ammettere prove che pretendono di essere scientifiche, se non si vuole correre il rischio sistematico di ottenere decisioni fondate su ‘conoscenze’ che non hanno alcuna credibilità.
Nell’ordinamento italiano, così come in molti altri sistemi di civil law, l’acquisizione in giudizio delle conoscenze scientifiche necessarie per la decisione avviene con metodi completamente diversi. Di regola è il giudice a decidere se tali conoscenze sono necessarie, e in questo caso nomina un esperto (che prende il nome di consulente tecnico del processo civile e di perito nel processo penale), incaricandolo di svolgere le attività necessarie e di formulare un parere in risposta ai quesiti che lo stesso giudice formula. L’esperto viene scelto di solito in appositi albi che esistono presso i tribunali, e che includono i nomi di vari esperti nei singoli settori tecnico-scientifici (artt. 13 e sgg. disposizioni per l’attuazione c.p.c.). Il presupposto fondamentale è che l’esperto nominato dal giudice sia indipendente e imparziale rispetto alle parti e all’oggetto della controversia: infatti egli giura di «bene e fedelmente adempiere le funzioni affidategli al solo scopo di fare conoscere ai giudici la verità» (art. 193 c.p.c.). Inoltre, la legge prevede che egli non accetti l’incarico se esiste un giusto motivo di astensione, e possa essere ricusato dalle parti per le stesse ragioni per cui potrebbe essere ricusato il giudice (v., gli artt. 63 e 192 c.p.c.). In effetti il consulente si configura come un ausiliario del giudice, e si presuppone che fornisca un parere oggettivo, neutrale, fondato esclusivamente su conoscenze scientificamente valide. Le parti svolgono un ruolo rilevante, poiché partecipano alla formulazione dei quesiti che il giudice rivolge all’esperto, possono ricusarlo e possono partecipare a tutte le attività che l’esperto svolge (indagini, esperimenti, audizione di persone al corrente dei fatti), anche per mezzo di propri consulenti (art. 194 c.p.c.). Tuttavia la funzione dei consulenti di parte è sostanzialmente quella di controllare l’attività del consulente d’ufficio affinché questi tenga in considerazione le ragioni delle parti, ma non ci si aspetta che siano i consulenti di parte a fornire al giudice informazioni e valutazioni oggettive e neutrali circa i profili scientifici dell’accertamento dei fatti. In altri termini, viene garantito appieno il diritto di difesa delle parti anche nell’ambito della consulenza tecnica, ma è il consulente nominato dal giudice che deve fornire risposte oggettive e imparziali.
Di fronte a un metodo siffatto di acquisizione delle nozioni scientifiche, si potrebbe ritenere che i proble-mi di cui si è fatto cenno in precedenza, e in particolare la necessità di applicare criteri che sbarrino l’accesso al processo della scienza ‘cattiva’, non abbiano particolare rilevanza. Le cose, tuttavia, non stanno così. Vero è che il giudice italiano non deve stabilire in via preliminare la validità scientifica delle informazioni che verranno offerte dagli esperti nominati dalle parti, ma il problema di assicurare la validità scientifica delle informazioni che saranno acquisite si pone ugualmente, soprattutto dal punto di vista della scelta del consulente e del tipo di attività che gli viene demandata. Sorge in particolare la questione relativa alla preparazione scientifica del consulente e alla sua capacità di fornire risposte adeguate alla natura dell’accertamento che il giudice dovrà compiere. In linea di massima il giudice sceglie il consulente in appositi albi, ma di per sé l’iscrizione a un albo viene ottenuta sulla base di controlli puramente burocratici (art. 14 disposizioni per l’attuazione c.p.c.), che verificano l’appartenenza del consulente a una categoria professionale, ma non dicono nulla intorno al livello di preparazione professionale degli iscritti. D’altra parte, mentre i motivi di ricusazione dell’esperto nominato dal giudice non appaiono sufficienti ad assicurarne davvero l’imparzialità, spetta allo stesso esperto di valutare se esiste un giusto motivo di astensione in base al quale il giudice possa dispensarlo dall’obbligo di assumere l’incarico. Ne deriva la conseguenza, purtroppo spesso confermata nella pratica giudiziaria, per cui accade che venga nominato un consulente non dotato della necessaria preparazione professionale, o che si trova in una situazione tale da non assicurare la sua assoluta imparzialità rispetto alle parti o all’oggetto della controversia su cui deve formulare il proprio parere. È chiaro infatti che, se il consulente non è rigorosamente imparziale, la qualità scientifica delle informazioni e delle valutazioni che egli sottopone al giudice rimane dubbia. D’altronde, se la sua preparazione non è adeguata alle difficoltà del quesito che deve risolvere, e se, per es., egli usa tecniche di analisi o di indagine superate o comunque poco attendibili perché non conosce i metodi di ricerca più aggiornati, accade ugualmente che egli fornisca al giudice una scienza ‘cattiva’ invece che una scienza ‘buona’.
Va tuttavia considerato che il metodo consistente nel ricorso al consulente tecnico d’ufficio non è più il metodo esclusivo di acquisizione delle conoscenze scientifiche, neppure nei sistemi processuali di civil law. Per es., nel processo penale italiano si registra una rilevante tendenza a far perno più sulle perizie di parte che sui periti d’ufficio (Dominioni 2005, pp. 340 e sgg.), e comunque a inserire la perizia nel contesto del contraddittorio delle parti, con la conseguente svalutazione della neutralità della perizia disposta d’ufficio (Dominioni 2005, pp. 342 e sgg.). Può darsi che questa tendenza risponda a esigenze rilevanti del processo penale, e che quindi debba essere considerata positivamente. Si può peraltro osservare che l’ingresso nel giudizio di conoscenze ‘di parte’ non può che rafforzare il potere-dovere del giudice di verificare ac-curatamente, sulla base di oggettivi parametri di scientificità, l’attendibilità della ‘scienza’ che le parti, attraverso i loro periti, introducono nel materiale su cui si fonderà la decisione.
Tendendo conto di queste eventualità, appare evidente che l’impiego di rigorosi criteri di scientificità è necessario negli ordinamenti che si fondano sul ricorso a esperti nominati d’ufficio, non meno di quanto accade negli ordinamenti che si fondano sull’impiego di esperti nominati dalle parti. L’esigenza principale, infatti, è pur sempre quella di assicurare la fondatezza scientifica delle conoscenze di cui il giudice dovrà servirsi per decidere sui fatti.
A maggior ragione, poi, la stessa esigenza deve essere soddisfatta quando l’acquisizione al processo di conoscenze scientifiche non avviene attraverso l’opera degli esperti, ma attraverso la produzione degli esiti di test o esperimenti compiuti al di fuori del processo. È chiaro che l’utilizzabilità di queste informazioni dev’essere subordinata al controllo più rigoroso intorno alla validità metodologica e alla correttezza scientifica dell’esperimento, in mancanza delle quali i suoi risultati debbono considerarsi come privi di qualunque efficacia probatoria.
La valutazione delle prove scientifiche
Il problema fondamentale per l’utilizzazione della scienza nel processo riguarda la formulazione della decisione finale sui fatti: è questa la fase del processo in cui il giudice si fonda sulle conoscenze scientifiche acquisite al giudizio per accertare, ed eventualmente valutare, i fatti della causa. Di regola questo problema si formula analizzando i rapporti che intercorrono tra il giudice e l’esperto che ha apportato al giudizio le sue conoscenze scientifiche. In proposito valgono alcuni principi generali, che richiedono qualche considerazione.
Il principio fondamentale è che le conoscenze fornite dall’esperto, le sue informazioni, le sue valutazioni e le sue opinioni, per quanto esse siano au-torevoli, attendibili e influenti, non possono mai considerarsi vincolanti per il giudice. Anche quando l’esperto ha svolto analisi complesse, esperimenti, test, e magari ha anche interrogato testimoni, e giunge a esprimere un parere analitico e approfondito sui fatti che sono oggetto del processo, egli non può mai sostituirsi al giudice nella formulazione della decisione finale: la funzione del decidere, infatti, rimane nelle mani del giudice e non può essere in alcun modo delegata al perito o al consulente. Ciò significa che, di fronte alle conclusioni formulate dall’esperto, il giudice conserva intatta la sua discrezionalità nell’accertamento e nella valutazione dei fatti, in base al principio fondamentale della libertà del convincimento del giudice stesso, che ormai da tempo sta alla base di tutti gli ordinamenti processuali.
Tradizionalmente si usa esprimere questa posizione del giudice nei confronti dell’esperto dicendo che il giudice è il peritus peritorum, ossia colui che deve formulare la decisione finale fondandosi su ciò che gli esperti hanno sottoposto alla sua valutazione. Altrettanto tradizionalmente, tuttavia, si segnala un paradosso che sembra stare al fondo di questa definizione: se – come si è visto più sopra – il giudice fa ricorso all’ausilio di un esperto o di più esperti, proprio perché egli stesso non possiede le conoscenze scientifiche che risultano necessarie per un’adeguata ricostruzione e valutazione dei fatti della causa, appare difficile pensare che lo stesso giudice che – per così dire – si è riconosciuto incapace di giungere a una decisione scientificamente fondata, possa poi formulare una decisione di questo genere valutando, ed eventualmente criticando o respingendo, le conclusioni formulate dall’esperto. Dal paradosso si uscirebbe ritenendo che, almeno per quanto attiene all’utilizzazione della scienza ai fini della decisione, il parere dell’esperto sia definitivo e concludente, ma ciò urterebbe contro il principio fondamentale enunciato poc’anzi, secondo il quale è il giudice – e solo il giudice – a essere titolare della piena potestà di decidere la controversia e pronunciare la sentenza finale.
D’altronde, si potrebbe anche osservare che l’attività svolta dal consulente non è sostitutiva di quella che spetta al giudice e non si sovrappone a essa: il compito del consulente, infatti, consiste essenzialmente nell’analisi e nella ricostruzione di circostanze di fatto che non sarebbero determinabili senza l’impiego di conoscenze specialistiche e di metodi scientifici. In molti casi viene demandata all’esperto anche la valutazione dei fatti (come, per es., quando si tratta di stabilire la gravità di una ferita o il valore commerciale di un quadro o di un immobile), ma in linea di principio l’ambito di ciò che viene chiesto all’esperto attiene ai fatti, e a quei soli fatti per la cui conoscenza e valutazione la sua opera è necessaria. Egli non si occupa delle circostanze che possono essere accertate con gli strumenti probatori ordinari, e soprattutto non si occupa del diritto, ossia dell’interpretazione e dell’applicazione delle norme giuridiche che governano il caso. Rimane tuttavia certo che il giudice deve formulare il proprio convincimento anche sulle questioni specifiche che l’esperto ha affrontato nell’ambito delle sue particolari competenze. Vero è, dunque, che il consulente non prende il posto del giudice, ma è anche vero che il giudice deve comunque formulare un giudizio intorno a ciò che l’esperto ha detto.
Il paradosso, però, è più apparente che reale. Esso esisterebbe davvero se con la formula peritus peritorum si intendesse attribuire al giudice il compito di sindacare e di verificare in tutti i suoi aspetti – anche in quelli scientificamente più sofisticati – l’opera e l’opinione espressa dall’esperto, per poi giungere a formulare la propria personale decisione. È chiaro che ciò non è possibile: se lo fosse, la figura dell’esperto non comparirebbe neppure sulla scena, perché il giudice sarebbe egli stesso in possesso di tutte le conoscenze scientifiche necessarie per decidere sui fatti. Ciò che il giudice può e deve fare è altra cosa: non si tratta di ripetere ciò che l’esperto ha posto in essere per giungere alle sue conclusioni, ma di verificare se queste conclusioni sono giustificate, e quindi se sono attendibili sul piano del metodo. In altri termini, il giudice deve controllare la validità dei procedimenti che l’esperto ha seguito nell’analizzare i fatti, nel compiere esperimenti e nel formulare le sue valutazioni, e deve verificare l’attendibilità degli argomenti con cui l’esperto ha giustificato le sue conclusioni. Il giudice deve cioè stabilire se l’esperto ha prodotto ‘buona scienza’ o ‘cattiva scienza’, senza che ciò implichi la trasformazione – evidentemente impossibile – del giudice stesso in una sorta di super scienziato.
Così definito il ruolo che il giudice deve poter svolgere nei confronti dell’esperto, appare però evidente che sorgono diverse difficoltà, che possono trovare qualche soluzione ma che debbono essere prese in seria considerazione (v. in particolare Murphy 2007, pp. 750 e sgg.). Per un verso, si può notare che in molti casi il giudice non è solo nel valutare l’esito della perizia o della consulenza tecnica. Soprattutto quando si tratta di problemi di qualche complicazione, solitamente le parti si avvalgono dei loro consulenti, che partecipano alle attività del consulente d’ufficio e possono formulare osservazioni, obiezioni e critiche nei confronti del lavoro di costui e delle conclusioni cui egli giunge. In questo modo il giudice dispone di valutazioni diverse, di argomentazioni contrapposte, e di elementi di confronto e di analisi che possono essere assai utili in sede di formulazione delle sue valutazioni finali sull’attendibilità dei risultati cui è giunto il consulente d’ufficio. Questo rilievo vale però soltanto nei sistemi che, come il nostro, fanno perno sulla consulenza tecnica disposta d’ufficio: le consulenze di parte sono utili al giudice nel senso ora detto, oltre che per attuare il diritto di difesa delle parti, ma non prendono il posto della consulenza posta in essere dall’ausiliario del giudice. Discorso diverso va fatto invece a proposito dei sistemi che – come quello nordamericano ricordato in precedenza – conoscono soltanto il confronto dialettico e competitivo degli expert witnesses chiamati e interrogati dalle parti. In questi sistemi le risposte date dagli esperti di parte all’interrogatorio e al controinterrogatorio rappresentano tutto ciò di cui il giudice dispone per formulare la sua decisione sui profili scientifici della controversia. Un compito, questo, che può presentare difficoltà molto rilevanti se gli esperti di parte hanno tutelato ognuno gli interessi della propria parte, e se il controinterrogatorio è stato efficace. Districarsi in situazioni di questo genere può essere davvero molto difficile, e non di rado impossibile (Murphy 2007, pp. 767 e sgg.).
Per altro verso, l’esito della valutazione che va fatta sulla ‘scienza’ offerta dagli esperti dipende in modo sostanziale da chi è il giudice che formula questa valutazione. Se si tratta di un giudice professionale, si può ipotizzare che egli sia in possesso delle nozioni necessarie per svolgere un controllo adeguato sull’attività e sulle conclusioni dell’esperto. In realtà spesso ciò non accade, e il giudice non possiede queste nozioni: tuttavia è anche possibile che, se non altro sulla base dell’esperienza accumulata nell’attività giudiziaria, il giudice sia in grado di valutare adeguatamente l’attendibilità del metodo applicato dall’esperto. Rimane comunque vero che l’incremento nell’impiego di varie scienze e di metodi sempre più sofisticati pone una seria sfida alla preparazione professionale del giudice. Non sempre l’esperienza è sufficiente ed è invece necessario integrare il bagaglio culturale del giudice con una formazione anche extragiuridica che lo metta in condizione di poter svolgere un controllo effettivo sulle conoscenze scientifiche fornite dall’esperto, e quindi di utilizzare efficacemente queste conoscenze (Murphy 2007, pp. 774 e sgg.).
Le valutazioni che il giudice compie in ordine all’attendibilità e al valore probatorio delle prove scientifiche, comunque acquisite al giudizio, debbono essere razionalmente giustificate. I giudici civili e penali hanno infatti l’obbligo di dover motivare le loro decisioni. Quest’obbligo è stabilito da norme ordinarie (art. 132 n. 4 c.p.c.; art. 125 n. 3 c.p.p.) e da un principio costituzionale (art. 111, 6° co., Cost.), ed è presente nella maggior parte degli ordinamenti. Esso riguarda tutti gli aspetti della decisione, e in particolare il giudizio formulato dal giudice sui fatti della causa. Motivare il giudizio di fatto significa addurre ragioni idonee a dimostrare che l’accertamento condotto sui fatti della causa trova fondamento razionale nei dati conoscitivi di cui il giudice disponeva: ciò equivale a dire che il giudice deve giustificare, con idonei argomenti, sia la sua valutazione relativa all’attendibilità e al valore delle prove che sono state acquisite al giudizio, sia le inferenze in base alle quali egli ha derivato dalle prove conclusioni inerenti alla verità o alla falsità dei fatti della causa. Nella interpretazione rigorosa – la sola che appare valida – dell’obbligo di motivazione, esso impone al giudice di prendere esplicitamente in considerazione ogni elemento di prova per giustificare la propria valutazione positiva o negativa in termini di credibilità e di peso probatorio; inoltre, il giudice deve spiegare quali sono le ragioni che giustificano la sua valutazione complessiva di tutti gli elementi di prova disponibili, e quindi la decisione finale sui fatti. Si è sottolineato che questa è una interpretazione rigorosa dell’obbligo di motivazione, in quanto accade non di rado, in dottrina e in giurisprudenza, che di quest’obbligo si accolgano versioni più generiche o elastiche, in base alle quali il giudice non dovrebbe giustificare esplicitamente la sua valutazione relativa a ogni elemento di prova. Basterebbe infatti una motivazione che riguardasse soltanto le prove che il giudice ha ritenuto particolarmente rilevanti nel determinare la sua decisione sui fatti. Bisogna però ritenere che questa interpretazione lassista non corrisponda all’esigenza del controllo di razionalità a cui è finalizzato l’obbligo di motivazione della sentenza: conoscere le ragioni per cui il giudice ha ritenuto di non prendere in considerazione determinate prove non è meno importante del conoscere le ragioni per cui egli ha fondato la sua decisione su determinate prove e non su altre.
Senza approfondire qui ulteriormente questi problemi, alcune osservazioni vanno formulate a proposito della valutazione delle prove scientifiche. Per queste prove valgono i principi generali che si sono appena richiamati: il giudice è obbligato – a proposito di ogni elemento di prova scientifica che sia stato in qualunque modo acquisito al giudizio – a esplicitare le ragioni per le quali ha ritenuto che quegli elementi di prova fossero, o non fossero, attendibili e dotati di un determinato grado di efficacia probatoria in relazione ai fatti della causa. È soprattutto svolgendo questo compito che il giudice è chiamato ad adempiere alla sua funzione di peritus peritorum, nel significato che si è chiarito poc’anzi: egli non è tenuto a ripercorrere l’intero iter delle analisi, degli esperimenti, dei calcoli e delle valutazioni che l’esperto ha effettuato per formulare il parere che ha sottoposto al giudice, poiché ciò sarebbe impossibile. Il giudice deve tuttavia enunciare i criteri in base ai quali ha formulato la propria interpretazione e valutazione dei dati e delle informazioni scientifiche che l’esperto ha sottoposto alla sua attenzione. In particolare, il giudice [ tenuto a giustificare con adeguati argomenti il giudizio che ha formulato intorno all’attendibilità della prova scientifica, alla rilevanza che essa ha per l’accertamento dei fatti della causa, e al grado di conferma probatoria che la prova offre per la decisione sui fatti, anche sotto il profilo della soddisfazione o mancata soddisfazione degli standard probatori che si applicano nei diversi tipi di processo.
È opportuno insistere su questi aspetti della motivazione che il giudice deve svolgere intorno alla prova scientifica, dato che anche in questo ambito particolare sono presenti, in dottrina e in giurisprudenza, orientamenti poco rigorosi e non condivisibili. Si ritiene comunemente, infatti, che il giudice abbia uno specifico obbligo di motivazione solo quando ritiene di non seguire l’opinione dell’esperto o di non prendere in considerazione una determinata prova scientifica (come, per es., un test effettuato fuori del processo, di cui si producono gli esiti). Solo in questo caso, infatti, il giudice dovrebbe argomentare specificamente adducendo le ragioni per le quali ritiene di non fondare il proprio convincimento sulla prova scientifica che pure aveva a disposizione: per farlo dovrà, per es., spiegare perché non ritiene attendibile il test in questione, e in particolare perché non considera convincenti le informazioni, i dati e le argomentazioni in base alle quali l’esperto ha formulato le proprie conclusioni. In altre parole, il giudice dovrà articolare un’analisi critica puntuale e razionalmente fondata della prova scientifica, identificandone gli eventuali vizi e le ragioni per cui essa non risulta scientificamente valida, e quindi non attendibile e utilizzabile ai fini della decisione. Tutto ciò corrisponde alla funzione di peritus peritorum che si assegna al giudice, e deriva dalla previsione dell’obbligo di motivazione della decisione in fatto: è in questo modo, infatti, che il giudice definisce la propria funzione autonoma rispetto a quella dell’esperto.
Ciò che non appare degno di approvazione, nell’orientamento prevalente, è la tendenza a non richiedere al giudice una motivazione specifica e analitica nei casi in cui egli utilizza i risultati della prova scientifica, aderendo alle conclusioni formulate dall’esperto. In questo modo si finisce con il legittimare una sorta di subordinazione del giudice alle risultanze della prova scientifica (Dominioni 2005, pp. 362 e segg.), e una sostanziale rinuncia dello stesso giudice a esercitare la propria funzione autonoma di controllo e di valutazione sulla validità e sull’attendibilità dei dati scientifici e delle valutazioni che l’esperto gli ha fornito. Non è sufficiente, insomma, che il giudice si limiti a rinviare a ciò che è emerso dalla consulenza tecnica o dalla perizia, o dalla documentazione dell’esito di un test o di un esperimento, per fornire una giustificazione della propria decisione. In questo modo, infatti, egli evita di elaborare la propria motivazione del proprio giudizio sui fatti della causa. L’obbligo di motivazione implica invece che il giudice sottoponga ad analisi e a controllo, e quindi giustifichi esplicitamente le proprie valutazioni, anche quando ritiene che la prova scientifica che è stata acquisita al giudizio sia valida e attendibile, e consenta di formulare una decisione veritiera e fondata sui fatti della causa.
Si potrà dire che intendendo in modo così analitico e rigoroso l’obbligo di motivazione relativo all’impiego della prova scientifica si attribuisce al giudice un compito difficile e impegnativo, che con ogni probabilità richiede una preparazione culturale sofisticata ed estesa ai metodi che si impiegano in vari e numerosi ambiti di conoscenza. Ciò è vero, ma discende in maniera inevitabile – come si è cercato di spiegare – da un’interpretazione necessariamente rigorosa dell’obbligo di motivazione, e dall’esigenza che l’accertamento dei fatti si fondi su una base razionale controllabile. D’altra parte, si illuderebbe chi pensasse che l’impiego sempre più esteso e frequente della scienza come strumento di conoscenza dei fatti nell’ambito del processo abbia l’effetto di rendere più facile il compito del giudice, o addirittura di consentirgli di delegare ad altri la formulazione di decisioni difficili e impegnative. Il ricorso alla scienza costituisce infatti uno strumento poderoso di accertamento processuale della verità dei fatti, ma implica difficoltà che non vanno sottovalutate e che il giudice deve saper affrontare.
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