Scienza e Risorgimento nazionale
Lo sviluppo della cultura scientifica nell’età del Risorgimento costituì un importante elemento del processo che portò all’unità nazionale, contribuendo alla diffusione delle idee di libertà e di tolleranza. Come avrebbe rilevato il celebre fisico svizzero Auguste De La Rive (1801-1873), nel corso della Seconda riunione degli scienziati italiani tenutasi a Torino nel 1840, la frammentazione politica rappresentava il più grande ostacolo alla crescita della scienza italiana. Da qui l’esigenza di costruire la comunità scientifica nazionale attraverso la riunificazione politica, e di valorizzarla nei modi più opportuni. Nel corso dell’età del Risorgimento gli scienziati svolsero un ruolo di primo piano non soltanto per l’importanza della loro attività di ricerca, ma anche per l’impegno in campo politico. Infatti, oltre a produrre contributi teorici di eccezionale livello e notevoli lavori sperimentali, gli scienziati italiani furono impegnati in prima linea, dai moti rivoluzionari alle guerre d’Indipendenza, e ricoprirono importanti incarichi a livello istituzionale.
Gli scienziati dei diversi Stati nei quali era divisa l’Italia si concepirono come una comunità nazionale ben prima dell’unità politica. Allo scopo di sottolineare il carattere unitario del lavoro dei ricercatori italiani, dal Regno di Sardegna a quello di Napoli, nel 1782 venne creata, su iniziativa del veronese Anton Mario Lorgna, la Società italiana delle scienze (poi comunemente detta dei XL, dal numero dei suoi membri), che si propose di risolvere il problema della frammentazione geografica, la quale non soltanto isolava «gli uomini illuminati», ma impediva il «reciproco e libero scambio di lumi», scambio che gli scienziati avrebbero potuto realizzare «naturalmente in comunione d’interessi e di volere». La valorizzazione della scienza nazionale, dunque, risultava essere strettamente legata all’autonomia della ricerca rispetto alle esigenze della politica.
Le finalità della Società non prevedevano l’appoggio vincolante di nessun governo; si trattava di una libera associazione fondata sulla «mutua amica corrispondenza» fra scienziati. Per questo motivo, durante il periodo della dominazione francese, manifestandosi la possibilità di un’ingerenza del potere statale sull’attività della Società, Lorenzo Mascheroni, «esaltata la libertà di ricerca e di riunione» e rivendicata la dignità del «filosofo-scienziato», che era finalmente riuscito a trovare uno spazio autonomo in un’accademia spogliata di ogni «macchia di esclusivismo», sottolineò con grande energia come lo sviluppo di una scienza libera potesse avere un ruolo fondamentale nella «formazione di un’opinione pubblica aperta» (Farinella 1996, pp. 510 e 519). Se si tengono presenti queste premesse, risulterà meno sorprendente trovare la scienza, dalla Restaurazione al Risorgimento, al centro di tutti i programmi politici che avevano come obiettivo la trasformazione degli ordinamenti vigenti e l’unificazione nazionale.
Dopo la ristrutturazione degli Stati italiani decisa al Congresso di Vienna, un fondamentale contributo alla diffusione del sapere scientifico e tecnologico fu dato da «Il Conciliatore», pubblicato a Milano dal 3 settembre 1818 al 2 ottobre 1819. La rivista, diretta da Silvio Pellico (1789-1854), si avvalse della collaborazione di numerosi intellettuali lombardi e piemontesi, fra i quali Ludovico di Breme (1780-1820), originario di Torino e allievo di Tommaso Valperga di Caluso (1737-1815), matematico, letterato (Vittorio Alfieri gli dedicò il Saul) e membro fondatore, nel 1783, dell’Accademia delle scienze di Torino, la più importante istituzione scientifica italiana prima dell’Unità. Anche molti scienziati offrirono il loro aiuto a «Il Conciliatore». Fra questi vanno ricordati il fisico Anton Maria Vassalli-Eandi (1761-1825) e l’astronomo Giovanni Plana (1781-1864), i quali appoggiarono con decisione il progetto, apprezzandone in particolar modo l’impegno per la diffusione della cultura scientifica, come ebbero modo di far segnalare sulla «Gazzetta piemontese» del 23 luglio 1818:
L’Italia più di ogni altro paese dovrebbe essere inclinata a favorire queste lodevoli imprese, ora principalmente che tutta intera può rivolgersi agli studi e sentire il bisogno di ripigliare quel primato che già aveva sulle altre nazioni, non solo in fatto di poetica e di lettere, ma altresì in fatto di scienze. Noi dunque raccomandiamo «Il Conciliatore» ai nostri lettori, portando opinione che quanto più si moltiplichino le opere di tal maniera, tanto maggiore sarà la guerra che si fa da ogni parte all’ignoranza e agli errori (L. di Breme, Lettere, a cura di P. Camporesi, 1966, p. 539).
Oltre che con gli scienziati e intellettuali piemontesi, gli uomini de «Il Conciliatore» erano in stretti rapporti con quelli toscani, i quali, dopo le vicende e gli arresti che misero fine all’esperienza riformatrice del gruppo lombardo, si fecero carico di rilevare, insieme ai piemontesi, l’eredità degli amici milanesi. È dunque nell’ambito del triangolo Milano-Torino-Firenze che vanno individuate una serie di fecondissime relazioni, le quali si riveleranno decisive per lo sviluppo sia della cultura scientifica in Italia sia dei progetti politici a essa collegati.
All’inizio del 1820, Giovan Pietro Vieusseux (1779-1863), originario di Ginevra, stabilitosi a Firenze nel luglio del 1819, aprì un Gabinetto scientifico e letterario destinato a diventare un punto di riferimento per la cultura italiana, e avviò, a partire dal gennaio 1821, la pubblicazione di una rivista, l’«Antologia». Anche la rivista fiorentina, come «Il Conciliatore», costituì un formidabile canale di informazione e divulgazione scientifica, svolgendo una decisiva funzione politica proprio grazie all’uso della diffusione della scienza. Tale funzione fu ben evidente agli uomini del tempo, come, per es., Enrico Mayer (1802-1877), il quale in una lettera del 1859 indirizzata a Carlo Luciano Bonaparte (1803-1857) scriveva:
Il signor Vieusseux, pur non essendo un uomo politico, forse più d’ogni altro in Toscana ha cooperato col suo Gabinetto e colle sue pubblicazioni a creare fra noi una opinione politica (Carpi 1974, p. 12).
L’importanza riservata alla diffusione del sapere scientifico venne messa in evidenza da Vieusseux fin dall’intervento rivolto «Ai lettori» posto in apertura del quinto fascicolo (gennaio 1822), che iniziava il secondo anno di pubblicazione:
Quanto mai piccolo sarà il numero de’ lettori del mio Giornale i quali guarderanno con occhio indifferente i progressi che da un mezzo secolo in poi han fatto le scienze naturali ed esatte sotto un cielo, che vide nascere un Galileo, un Torricelli, un Volta, uno Spallanzani, un Mascagni, e tanti altri, e che promette altrettanti degni successori a quei grandi uomini (Antologia, a cura di S. Serangeli, 1983, pp. 51-52).
Le parole di Vieusseux ci ricordano anche che la ricerca scientifica nazionale nei primi decenni dell’Ottocento era viva e vegeta. Si è spesso insistito sul fatto che la scienza italiana, nel periodo compreso fra l’età di Alessandro Volta e quella di Enrico Fermi, sia andata incontro a un periodo di minore brillantezza e produttività se paragonata a quello dei secoli precedenti. Ma i documenti non avvalorano questa interpretazione. Al contrario, le ricerche degli scienziati italiani mantennero un alto livello qualitativo. Basti pensare, solo per fare qualche esempio, alle indagini di Amedeo Avogadro sulla struttura della materia, sui calori specifici e sull’elettromagnetismo; di Ottaviano Fabrizio Mossotti sulle forze molecolari; di Carlo Matteucci sull’elettrofisiologia; di Plana sui movimenti lunari; di Agostino Bassi sulla microbiologia delle malattie infettive. Se non si tenesse conto di questo contesto, sarebbe difficile spiegare (se non tramite il ricorso all’ipotesi del ‘genio solitario’) come gli scienziati italiani abbiano potuto produrre, nei decenni successivi, ricerche capaci di portare alla conquista, nei primi anni di istituzione del premio Nobel (1901), del riconoscimento per la medicina (Camillo Golgi, 1906) e per la fisica (Guglielmo Marconi, 1909), mentre quello per la chimica, destinato a Stanislao Cannizzaro, sarebbe sfumato per ragioni di tipo accademico e non certo scientifico.
In realtà, la maggior parte degli scienziati italiani, nel periodo della Restaurazione, si trovò spesso in difficoltà perché non riuscì a disporre di strutture, laboratori e finanziamenti adeguati per sviluppare le proprie ricerche. Le politiche condotte dai vari Stati italiani non videro, nella maggior parte dei casi, l’utilità di realizzare un piano di sviluppo a lunga scadenza che privilegiasse, o almeno incoraggiasse, la ricerca scientifica. Esemplificativa è la situazione del Regno delle Due Sicilie, dotato di uno straordinario patrimonio di ricercatori e tecnici (come sarà messo in evidenza dalla Riunione degli scienziati italiani di Napoli nel 1845) che per primo in Italia porterà due innovazioni tecnologiche strategiche nell’ambito della rivoluzione industriale: la macchina a vapore e le ferrovie. Una fortissima impressione fu destata dal varo, nel giugno del 1818, del Ferdinando I, che effettuò la sua prima traversata marittima verso Marsiglia nel settembre successivo. Allo stesso modo, come era accaduto per la navigazione a vapore, anche la prima linea ferroviaria italiana venne inaugurata nel Regno delle Due Sicilie, dal re Ferdinando II, il 3 ottobre 1839. Si trattava del celebre tratto Napoli-Portici. Tuttavia, questi due primati non ebbero un seguito nello sviluppo scientifico, tecnologico e imprenditoriale dello Stato meridionale. In questo contesto, un’eccezione di notevole rilievo fu rappresentata, come vedremo, dall’operato del granduca di Toscana Leopoldo II, almeno fino ai moti del 1848.
In alcune occasioni gli scienziati vennero colpiti in prima persona, attraverso la rimozione dai loro incarichi. La perdita da parte di Vassalli-Eandi della cattedra di fisica sperimentale all’Università di Torino, dopo la caduta di Napoleone, diventò un caso internazionale, grazie alla notorietà del ricercatore piemontese, nonostante il processo di restaurazione in atto nei vari Paesi. Filippo Asinari di San Marzano, rappresentante del Regno di Sardegna al Congresso di Vienna, scriveva al ministro degli esteri Alessandro di Vallesa il 25 novembre 1814:
Ultimamente è apparso sui giornali viennesi un articolo tratto dalle gazzette italiane riguardante la nostra università, che ha suscitato sensazione. Ha prodotto reazioni da parte di tutte le assemblee e ha molto colpito anche l’Imperatore Alessandro. Veniamo considerati come dei barbari che cacciano gli intellettuali, e tutti sono indignati per l’esclusione di Vassalli (A. Segre, Il primo anno del ministero Vallesa (1814-1815). Saggio di politica sarda, interna ed estera, nel primo anno della Restaurazione, 1928, pp. 165-66).
Non era certo un problema di fondi, ma di volontà politica. Qualche anno dopo, nel 1823, il re Carlo Felice avrebbe acquistato la collezione egizia del console Bernardino Drovetti per 400.000 lire, somma che corrispondeva a circa la metà dei fondi annualmente investiti dal Regno di Sardegna per la pubblica istruzione e le belle arti.
Nonostante tali difficoltà, la scienza italiana fu ben conosciuta all’estero e trovò ampio spazio sulle riviste scientifiche internazionali. Questo è sicuramente uno dei motivi per cui gli studiosi italiani facevano fatica a tollerare di avere maggiori difficoltà a comunicare con i propri connazionali che non con i colleghi stranieri. Non è certo un caso che l’«Antologia», fin dalle sue prime uscite, abbia iniziato a pubblicizzare le riunioni annuali delle comunità scientifiche nazionali, che avevano iniziato a tenersi in Svizzera (dal 1815) e in Germania (dal 1822), riunioni che avrebbero dovuto caratterizzare anche la vita scientifica italiana. La scienza era per sua natura ‘trasversale’ e parlava la stessa lingua in tutti i laboratori del mondo, quella della conoscenza della realtà. Come già teorizzato nell’ambito della Società italiana delle scienze, la politica non poteva condizionare la libertà della ricerca e dei suoi protagonisti. Fu così che anche gli scienziati italiani riuscirono a dare vita a un’iniziativa che li metteva sullo stesso piano delle altre comunità scientifiche internazionali.
La Prima riunione degli scienziati italiani si tenne a Pisa dal 1° al 15 ottobre 1839 e vide la presenza di 421 iscritti. In seguito, si tennero altre otto riunioni prima delle rivoluzioni del 1848. Queste le sedi, con l’indicazione del numero dei partecipanti: Torino 1840 (573); Firenze 1841 (888); Padova 1842 (514); Lucca 1843 (494); Milano 1844 (1611); Napoli 1845 (1613); Genova 1846 (1062); Venezia 1847 (1478).
Il quadro che emerge dalle biografie dei partecipanti è assai variegato e testimonia come i congressi rappresentarono una straordinaria occasione per diffondere cultura scientifica, e i valori a essa connessi, non solo fra ristretti circoli intellettuali. Infatti, oltre agli scienziati più famosi (che includevano anche parecchie presenze internazionali), un numero elevato di partecipanti era costituito da insegnanti di scuola, medici, farmacisti, ingegneri, proprietari terrieri e appassionati a vario titolo di scienza.
Non c’è dubbio che gli scienziati toscani abbiano avuto un’influenza determinante nella conduzione dei congressi, sia per il ruolo ricoperto da Leopoldo II (appassionato di scienza fin dagli anni giovanili e fresco di nomina, nel 1838, a membro della Royal society) nelle vicende risorgimentali, sia per la presenza nel Granducato di uomini come Vincenzo Antinori (1792-1865), Giovan Battista Amici (1786-1863), Paolo Savi (1798-1871), Maurizio Bufalini (1787-1875), Gaetano Giorgini (1795-1874) e Cosimo Ridolfi (1794-1865), non soltanto scienziati di primo piano, ma tessitori di una fitta trama di relazioni nazionali e internazionali, grazie anche all’apporto di tutta una serie di ‘scienziati esuli’ per motivi politici, che contribuirono a una straordinaria circolazione di idee scientifiche e politiche nell’età del Risorgimento.
Particolarmente rilevanti furono i rapporti tra Charles Babbage (1791-1871) e numerosi scienziati italiani. Tra il 1827 e il 1828, Babbage effettuò un viaggio in Italia, visitando numerose zone, tra cui il Regno di Sardegna, il Granducato di Toscana e il Regno delle Due Sicilie. Nel corso del soggiorno toscano, Babbage incontrò Leopoldo II, in compagnia di Antinori e Ridolfi, e sottopose al granduca il progetto di un’Accademia europea per l’avanzamento delle scienze fisiche. Babbage, quindi, tentò di coinvolgere nel progetto anche Alexander von Humboldt, un altro degli scienziati stranieri molto legati all’Italia e in ottimi rapporti con Leopoldo II, in occasione del Congresso degli scienziati tedeschi del 1828. Le parole rivolte da Babbage a Humboldt ci fanno capire come quell’iniziativa abbia potuto contribuire a rafforzare negli intellettuali italiani, e toscani in particolare, l’idea della necessità di costituire una nuova occasione d’incontro per tutti gli scienziati della penisola:
Nel mio viaggio attraverso l’Italia settentrionale ho incontrato numerosi uomini di cultura e scienziati sparsi nelle università e nelle città, e ho osservato con rammarico le notevoli difficoltà in cui si dibattevano per l’insufficienza delle comunicazioni che avevano tra loro e anche con il resto d’Europa. Rivolgendomi a chi sa bene che la luce della conoscenza risplende più viva se viene comunicata, è superfluo ricordare gli ostacoli che questo stato di cose può determinare. Riflettendo su ciò mi è occorso di pensare che una Accademia concepita su ampie basi avrebbe potuto ovviare a molte di queste difficoltà e assicurare importanti vantaggi. Su richiesta di alcuni miei amici scienziati ho quindi esposto le mie idee più compiutamente nello scritto che vi sottopongo. Da allora il piano è stato presentato a molti di coloro che si occupano di scienza in Italia e ha riscosso notevoli consensi (I congressi degli scienziati italiani nell’età del positivismo, 1983, pp. 336-37).
Fra le personalità che maggiormente si impegnarono nel tentativo di organizzare riunioni annuali sul modello di quelle straniere (nel corso di quegli anni iniziarono anche gli incontri degli scienziati britannici e francesi), non va dimenticato il già citato Carlo Luciano Bonaparte. Principe di Canino e Musignano, uomo certamente di origini ingombranti (era uno dei dieci figli nati dal secondo matrimonio di Luciano Bonaparte con Alessandrina Bleschamps, matrimonio che fu all’origine di un grave dissidio con il fratello Napoleone), ma anche stimato zoologo e naturalista a livello internazionale, Bonaparte fu forse colui che più di ogni altro intese le riunioni come strumento di rinnovamento della scienza e della politica italiane, traendo ispirazione proprio dall’attività svolta da Vieusseux e dall’«Antologia».
Le occasioni di incontro fornite dalle riunioni degli scienziati ebbero un ruolo molto importante nella formazione della coscienza nazionale. Esse sono state spesso interpretate dagli storici soprattutto come un’occasione per discutere di politica piuttosto che di scienza. Al contrario, le riunioni ebbero prima di tutto un carattere eminentemente scientifico. Semmai, seguendo l’analisi di Eugenio Garin (1990), si può sostenere una tesi opposta, cioè che l’attività politica esercitata in maniera crescente all’interno dei congressi «fu piuttosto conseguenza che programma» (p. 282), nel senso che furono la struttura e i contenuti scientifici degli incontri a favorire lo sviluppo di una crescente consapevolezza politica nazionale.
L’esigenza di riunire gli scienziati italiani in assemblee generali risultò soprattutto dovuta a «ragioni interne allo sviluppo stesso della ragione scientifica» (Garin 1990, p. 284), la quale stava tentando di liberarsi dai condizionamenti della politica tradizionale, piuttosto che cercare di esserne espressione o strumento. In sostanza la scienza, come avrebbe scritto Gianalessandro Majocchi a Lorenzo Valerio nel 1849, era «un ottimo mezzo per risvegliare il principio della fratellanza e della nazionalità nei popoli italiani» (Lacaita 1996, p. 214). Anche il commento del genovese Lorenzo Pareto, uno dei più famosi geologi italiani della prima metà del secolo, allo svolgimento del congresso di Venezia, di cui fu presidente per la Sezione di geologia e mineralogia, può risultare in questo senso di un certo interesse. Secondo Pareto, infatti, «le aspirazioni della scienza», inizialmente «timide», in seguito «allargarono il campo a più vaste disquisizioni», facendo maturare la consapevolezza «che eravamo tutti figli di una stessa Patria di cui era obbligo preciso di curare il bene supremo». Così, grazie ai valori della scienza, i congressi videro
ogni giorno progredire ed ampliarsi l’idea di nazionalità e il desiderio della Patria indipendente, unico cardine intorno a cui deve aggirarsi di preferenza ogni più desiderabil sistema; giacché prima di disputar delle forme e delle modificazioni fa d’uopo aver l’esistenza (Gli scienziati italiani e le loro riunioni 1839-1847 […], 1991, p. 104).
Scienza e politica rappresentarono due aspetti complementari di un più ampio progetto di rinnovamento della cultura italiana, a cui le Riunioni degli scienziati italiani fornirono un notevole contributo, grazie alla concreta opportunità di mettere in contatto ricercatori e intellettuali di diversa provenienza. Ricercatori e intellettuali che ebbero modo di trovarsi fianco a fianco non soltanto nelle discussioni scientifiche, ma anche sui campi di battaglia.
Proprio nell’anno in cui si tenne a Pisa la Prima riunione degli scienziati italiani nella città toscana venne avviata la riforma dell’Università, fortemente voluta da Leopoldo II e affidata principalmente alla supervisione del matematico e fisico Gaetano Giorgini, soprintendente agli studi del Granducato. La riforma portò a un’importante ristrutturazione delle facoltà e degli insegnamenti a partire dall’anno accademico 1840-41. Si fece in modo, inoltre, di acquisire i migliori scienziati disponibili in circolazione, comprendendo che tale investimento avrebbe potuto avere ricadute sensibili sul miglioramento dell’economia del Granducato. Matteucci fu chiamato a insegnare fisica sperimentale. A Pisa giunse inoltre Mossotti, in esilio da molti anni, che andò a ricoprire la cattedra di fisica matematica e meccanica celeste. Quindi, nel gennaio del 1842, Raffaele Piria e Leopoldo Pilla furono chiamati rispettivamente sulla cattedra di chimica e su quella, appena creata, di mineralogia e geologia.
Nato a Scilla in provincia di Reggio Calabria, Piria (1814-1865) si era laureato a soli vent’anni in medicina e chirurgia a Napoli, manifestando tuttavia un forte interesse per la chimica. Per perfezionare le sue conoscenze egli decise così di trasferirsi a Parigi nel maggio del 1837, dove ebbe modo di collaborare con Jean- Baptiste Dumas (1800-1884), che lo avrebbe considerato come il migliore dei giovani usciti dal suo laboratorio. Nella capitale francese Piria conobbe uno dei più celebri ‘scienziati esuli’ italiani, Macedonio Melloni (1798-1854). Professore di fisica all’Università di Parma dal 1824, Melloni, dopo essere stato coinvolto nei moti di Parma del 1831, si era prima rifugiato a Ginevra, trascorrendo sei mesi presso De La Rive, poi a Parigi. Piria e Melloni si sarebbero ritrovati non molto tempo dopo a Napoli, nel 1839, quando il fisico parmense venne chiamato a dirigere due nuove istituzioni ancora in formazione, l’Osservatorio meteorologico e il Conservatorio di arti e mestieri. Anche in questo caso, alla vicenda partecipò attivamente Humboldt. Con l’aiuto di Melloni, Piria aprì a Napoli una scuola di chimica privata assieme all’amico Arcangelo Scacchi (1810-1893). Tra gli studenti dell’istituto si distinse Sebastiano De Luca (1820-1880), che da quel momento legò la sua carriera a quella del maestro. Nativo di Cardinale, in provincia di Catanzaro, De Luca sarebbe in seguito rientrato in Calabria per partecipare ai moti del 1848. Sfuggito all’arresto, si sarebbe quindi rifugiato a Parigi, dove avrebbe perfezionato la sua preparazione chimica.
Una volta a Pisa, Piria cercò di realizzare un grande progetto, quello di costruire una scuola nazionale di chimica. A tale scopo, allestì un laboratorio che fosse all’altezza della situazione internazionale, circondandosi anche di brillanti allievi. Fra questi ci fu, dall’autunno del 1845, Cannizzaro. Nato a Palermo, il giovane Cannizzaro aveva una solida preparazione in fisiologia e chimica, quando partecipò alla Settima riunione degli scienziati italiani, che si tenne a Napoli dal 20 settembre al 5 ottobre 1845. Come abbiamo visto, quello di Napoli fu significativamente il congresso che vide la partecipazione più alta, ben 1613 iscritti. Alla riunione si ritrovarono Matteucci, Mossotti, Piria, tutti provenienti da Pisa, e Melloni. Questo incontro ebbe delle ripercussioni molto importanti sulla futura carriera di Cannizzaro e, più in generale, della scienza italiana. Poco prima del convegno, Cannizzaro aveva dato alle stampe un Corso di agricoltura, dedicato proprio a Melloni. Durante il convegno, Melloni presentò Cannizzaro a Piria, promuovendone la causa. Fu così che lo scienziato siciliano ottenne il posto di preparatore straordinario nel laboratorio di chimica dell’Università di Pisa a partire dall’anno accademico 1845-46.
A Pisa Cannizzaro strinse amicizia con uno dei giovani allievi di Piria, Cesare Bertagnini (1827-1857), originario di Montignoso, vicino Massa (come Gaetano Giorgini). I due erano destinati nel giro di qualche anno a produrre contributi di rilevanza internazionale, ponendo così le basi anche per una brillante carriera universitaria. Ma l’attività scientifica era destinata a intrecciarsi continuamente con quella politica. Nel luglio del 1847 Cannizzaro rientrò a Palermo per trascorrervi la vacanze, ma venne coinvolto nei preparativi della rivoluzione che sarebbe scoppiata nel gennaio del 1848, a cui prese parte attiva come ufficiale d’artiglieria nell’esercito rivoluzionario. In seguito venne eletto, come deputato di Francavilla, alla Camera dei Comuni, dove prese più volte la parola fra il 5 maggio e il 7 settembre 1848.
Nel frattempo le rivoluzioni stavano scuotendo l’intera Europa: prima Parigi, verso la fine di febbraio, poi Vienna, il 13 marzo. Immediate le ripercussioni nel Lombardo-Veneto. Il 17 marzo la rivoluzione scoppiò a Venezia, il 18 a Milano, dando così l’avvio alle Cinque giornate che videro come protagonista Carlo Cattaneo (1801-1869), uno tra gli intellettuali che offrirono un contributo decisivo allo sviluppo della cultura scientifica in Italia, soprattutto grazie all’impresa editoriale de «Il Politecnico», il giornale da lui diretto dal 1839 al 1844, che in qualche modo raccoglieva l’eredità de «Il Conciliatore» e dell’«Antologia»:
Sotto un titolo che ad alcuno sembrerà per avventura ambizioso, noi divisiamo di annunciare la più modesta delle intenzioni, quella cioè di appianare ai nostri concittadini con una raccolta periodica la più pronta cognizione di quella parte di vero che dalle ardue ragioni della Scienza può facilmente condursi a fecondare il campo della Pratica, e crescere sussidio e conforto alla prosperità comune ed alla convivenza civile (Il Politecnico 1839-1844, a cura di L. Ambrosoli, 1° vol., 1989, p. 7).
Il 23 marzo 1848 il re Carlo Alberto decise di far entrare il Regno di Sardegna in guerra contro l’Austria, adottando il tricolore con lo stemma sabaudo in luogo dell’antica bandiera azzurra del regno. La Guardia universitaria dell’Università di Pisa, istituita tra il novembre e il dicembre del 1847, aveva chiesto a Ridolfi, in quel momento ministro dell’Interno del Granducato di Toscana, di essere autorizzata a partire per il fronte. Il comando del Battaglione universitario, affidato a Mossotti, era composto da numerosi professori, ricercatori e studenti. Il 19 maggio il Battaglione raggiunse il quartier generale delle Grazie, in prossimità di Curtatone e Montanara. Dieci giorni dopo, mentre le truppe piemontesi assediavano Peschiera del Garda, verso le nove e trenta il maresciallo Joseph Radetzky uscì da Mantova con oltre 20.000 uomini e una consistente artiglieria, attaccando il campo delle milizie regolari toscane, dove si contavano circa 6000 uomini. Gli universitari, guidati da Mossotti, si misero in movimento verso il teatro degli scontri. Sul campo di battaglia, tra i numerosi caduti, ci fu anche il professore di geologia Pilla. L’intervento della divisione toscana riuscì comunque a rallentare l’azione degli austriaci, che il 30 maggio subirono una sconfitta a opera dei piemontesi a Goito, alimentando le speranze degli italiani in una vittoria finale. Bertagnini, il chimico, sopravvisse alla battaglia. Purtroppo per lui, l’appuntamento con la morte era solo rimandato di poco. Morì per la tubercolosi a soli trent’anni.
Al termine dei moti, Cannizzaro, a causa del suo impegno politico, fu costretto a trascorrere qualche anno a Parigi. Nel novembre del 1851 lo scienziato siciliano riuscì finalmente a rientrare in Italia, trovando sistemazione presso il Collegio nazionale di Alessandria come professore di chimica e fisica, grazie all’aiuto di Francesco Selmi (1817-1881), un altro dei numerosi scienziati italiani protagonisti nell’età del Risorgimento in campo sia scientifico sia politico.
Diplomato in farmacia nel 1839, Selmi entrò in contatto con gli ambienti scientifici torinesi soprattutto grazie alla Seconda riunione degli scienziati italiani, tenutasi a Torino nella seconda metà del settembre 1840. Alcuni suoi lavori furono stampati sugli appena nati «Annali di fisica, chimica e matematiche» di Majocchi, che era stato uno degli animatori del congresso. Come segnalava Majocchi nell’introduzione al primo volume uscito nel gennaio successivo, la nascita della rivista era stata approvata proprio nell’ambito della riunione torinese:
I fogli periodici pei nostri studi non soddisfano quindi in Italia al desiderio esternato dai membri della sezione di fisica, chimica e matematiche nella Riunione degli Scienziati Italiani tenuta nel settembre del trascorso anno a Torino; essendosi appunto parlato in essa della necessità di una tale impresa diretta a raccogliere mensualmente in un sol quadro i progressi che ogni giorno quelle scienze vanno facendo («Annali di fisica, chimica e matematiche», 1841, p. 1).
La mancanza di una rivista scientifica a livello nazionale incideva non soltanto, come aveva rilevato De La Rive, che era anche l’editore della celebre «Bibliothèque universelle», sulle relazioni all’interno della comunità scientifica italiana, frammentata dalla divisione in piccoli Stati, ma impediva la diffusione della scienza italiana a livello internazionale.
Un elemento che favorì l’integrazione di Selmi nell’ambiente torinese fu la ricezione delle nuove teorie di Justus von Liebig (1803-1873), soprattutto per quanto riguarda la chimica applicata all’agricoltura. In quegli anni, infatti, si stava avvicinando all’opera del chimico tedesco anche uno dei futuri protagonisti della scena politica del Regno di Sardegna, Camillo Benso, conte di Cavour, che in seguito avrebbe avuto numerosi rapporti con Selmi, dal punto di vista sia scientifico sia istituzionale. Nel 1835 Cavour, dopo aver effettuato un viaggio di estrema importanza per la sua formazione in Francia e in Inghilterra, aveva iniziato a occuparsi di imprenditoria agricola, grazie all’affidamento della tenuta familiare di Leri nel Vercellese, interessandosi particolarmente alla sperimentazione del guano come concime. Selmi cominciò a esporre le teorie di Liebig a partire dalla Riunione degli scienziati italiani di Padova del 1842; tre anni più tardi venne eletto socio corrispondente dell’Accademia delle scienze di Torino. In quel periodo Selmi strinse anche rapporti di amicizia con Ascanio Sobrero (1812-1888), destinato a diventare famoso in tutto il mondo per la scoperta della nitroglicerina nel 1847. Sarebbe stato proprio Selmi a comunicare la scoperta nel corso della Riunione degli scienziati italiani di Venezia.
Durante i moti del 1848, Selmi fu uno dei direttori del «Giornale di Reggio» (edito tra il 27 marzo e il 26 giugno), sulle pagine del quale sostenne l’unione dei Ducati al Regno di Sardegna. Per questo motivo, dopo la sconfitta delle truppe di Carlo Alberto a Custoza per mano dell’esercito austriaco, nella notte del 25 luglio Selmi si rifugiò in Piemonte, dove venne accolto dall’amico Sobrero. Uno dei problemi politici scaturiti dagli eventi del 1848 negli Stati italiani fu proprio la questione degli esuli. Il Regno di Sardegna arrivò a ospitare circa cinquantamila espatriati. Tra i lombardi che raggiunsero Torino ci fu anche Majocchi, che proprio nella capitale sabauda avrà modo di continuare la pubblicazione degli «Annali», dei quali Selmi era diventato il principale collaboratore. In una significativa lettera scritta a Serravalle Scrivia il 12 settembre 1848 e indirizzata a Carlo Ignazio Giulio (1803-1859), una delle personalità più in vista della scienza sabauda del tempo, Majocchi descrive la sua situazione di esule nonché i suoi desideri e le sue aspettative. Una situazione simile a quella di molti altri patrioti:
Amerei anche essere collocato in Torino per poter continuare la produzione degli Annali di Fisica, ecc., e così anche nel caso probabile come pare, che il Sardo colla Lombardia possa attuarsi in un sol regno secondo la votazione dei due popoli. L’Italia ha avuto nel corrente anno la maggior crisi, e speriamo che da questa sortirà la sua indipendenza e che i suoi voti vorranno una volta essere esauditi, speriamo; e le nostre speranze hanno il maggior fondamento nell’aiuto dei nostri vicini (Torino, Museo del Risorgimento, Archivio Giulio, cart. 44bis/57).
Purtroppo Majocchi scomparve il 27 ottobre 1854 e non fece in tempo a vedere realizzato l’auspicio di un’Italia unita e indipendente. Il suo contributo a questa causa, tuttavia, era stato di eccezionale livello e valore. L’anno successivo, comunque, Matteucci (che dopo l’Unità avrebbe anche ricevuto l’incarico di ministro della Pubblica istruzione) e Piria dettero vita a «Il nuovo cimento» che, proseguendo sulla strada aperta da Majocchi, sarebbe diventata la rivista scientifica italiana più importante del periodo.
Nel frattempo, come abbiamo visto, Cannizzaro era rientrato in Italia, trovando a sua volta ospitalità nel Regno di Sardegna, ad Alessandria. Nonostante le attrezzature di cui poteva disporre non fossero quelle di Parigi, il chimico siciliano riuscì a sviluppare molte delle sue ricerche, portando a termine, tra l’altro, nel 1853, la celebre scoperta dell’alcool benzilico, ottenuta attraverso una reazione nota in seguito come reazione di Cannizzaro. Poco tempo dopo si aprì la possibilità di un trasferimento all’Università di Genova. La situazione si sbloccò nell’estate del 1855, nel momento in cui divenne ministro della Pubblica istruzione Giovanni Lanza, la cui formazione aveva avuto a che fare con la cultura scientifica del tempo.
Lanza, infatti, aveva studiato medicina e forse avrebbe continuato la carriera universitaria se una malattia agli occhi non lo avesse costretto ad abbandonare gli studi. In seguito, aveva partecipato alle attività dell’Associazione agraria subalpina (che contribuì alla diffusione delle teorie di Liebig in Piemonte), scrivendo numerosi articoli sia per la «Gazzetta» della stessa associazione, sia per le «Letture di famiglia» di Valerio. Volontario nella Prima guerra d’indipendenza e riformista dal punto di vista politico, Lanza esercitò con forza, in qualità di ministro, la sua prerogativa di poter nominare, con decreto reale, i titolari di cattedra nelle università.
Una volta a Genova, forse ricordando le parole dell’ormai scomparso amico Bertagnini, Cannizzaro decise di realizzare un lavoro volto a mettere ordine nella teoria chimica del suo tempo. Così l’amico gli aveva scritto il 18 aprile 1856:
È proprio indispensabile che teniamo un congresso chimico, Piria, tu e io, perché vi sia unità nell’insegnamento della Chimica italiana (S. Cannizzaro, Scritti vari e lettere inedite nel centenario della nascita, a cura di D. Marotta, 1926, p. 274).
L’unità della scienza e l’unità della nazione rappresentavano un progetto comune e indissolubile. Fu così che nel 1858 Cannizzaro, dopo circa cinquant’anni di discussione sul corretto modo di calcolare i pesi atomici e molecolari delle sostanze, pubblicò su «Il nuovo cimento» il Sunto di un corso di filosofia chimica, destinato a diventare un classico della scienza. Fortemente convinto del valore universale dell’ipotesi di Avogadro, Cannizzaro unificò la chimica organica con l’inorganica, definendo in maniera chiara la distinzione fra atomi e molecole e, in particolare, la biatomicità delle molecole degli elementi allo stato gassoso. Le idee di Cannizzaro ebbero la loro massima risonanza durante il congresso internazionale che si svolse a Karlsruhe, in Germania, dal 3 al 5 settembre del 1860. Cannizzaro, qualche mese prima, aveva probabilmente partecipato alla preparazione della spedizione dei Mille.
Alcuni chimici presenti a Karlsruhe, dopo aver aderito alla teoria di Cannizzaro, si dedicarono alla ricerca di un metodo in grado di stabilire una classificazione degli elementi chimici. Fra questi, spicca ovviamente il nome di Dmitrij Ivanovič Mendeleev (1834-1907), che faceva parte della delegazione russa inviata al congresso. Nel giro di una decina d’anni Mendeleev mise a punto la prima versione del sistema periodico degli elementi, che avrebbe rappresentato l’essenza e l’icona della chimica contemporanea. Ciò fu possibile perché, fin da Karlsruhe, Mendeleev riconobbe l’importanza fondamentale dell’opera di Cannizzaro il quale, divenuto ormai celebrità a livello mondiale, sarebbe in seguito stato uno dei primi scienziati italiani candidato al premio Nobel.
È assai significativo che il 1860 abbia visto contemporaneamente realizzarsi l’Unità d’Italia e il massimo trionfo della nascente scuola chimica nazionale al congresso di Karlsruhe, con il riconoscimento a livello mondiale dell’ipotesi di Avogadro (un torinese), grazie all’opera di Cannizzaro (un palermitano), il quale fu, al tempo stesso, come molti altri suoi colleghi, scienziato e patriota.
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