Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il rapporto fra letteratura e scienza deve essere inteso come un dialogo di frontiera fra due modalità culturali che, anche quando entrano in contatto, restano ben distinte fra loro. Nei primi decenni del secolo, gli scrittori vengono attratti soprattutto dalle rivoluzioni avvenute nel campo della fisica teorica, che con la teoria della relatività e l’atomismo quantistico generano un’evoluzione vertiginosa e inaspettata della scienza positivista. In seguito, invece, sotto la spinta di una repentina evoluzione tecnologica, si fanno strada nell’immaginario letterario anche elementi più concreti, come le prassi del ragionamento matematico applicate al linguaggio o il problema degli usi possibili delle nuove scoperte biologiche e chimiche.
Premessa
Bertolt Brecht
Vita di Galileo
Ora, la gran parte della popolazione è tenuta dai suoi sovrani, dai suoi proprietari di terra e dai suoi preti, in una nebbia madreperlacea di superstizioni e di antiche sentenze, una nebbia che occulta gli intrighi di costoro. [...] La nostra nuova arte del dubbio appassionò il gran pubblico, che corse a strapparci di mano il telescopio per puntarlo sui suoi aguzzini. Questi uomini egoisti e prepotenti, avidi predatori a proprio vantaggio dei frutti della scienza, si avvidero subito che il freddo occhio scientifico si era posato su una miseria millenaria quanto artificiale, una miseria che chiaramente poteva essere eliminata con l’eliminare loro stessi. Allora sommersero noi sotto un profluvio di minacce e corruzioni, tali da travolgere gli spiriti deboli. Ma possiamo noi ripudiare la massa e conservarci ugualmente uomini di scienza? I moti dei corpi celesti sono diventati più chiari; ma la battaglia della massaia romana per il latte sarà sempre perduta dalla credulità. Con tutt’e due queste battaglie, Sarti, ha a che fare la scienza. [...] Io credo che la scienza abbia come unico scopo quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana. Se gli uomini di scienza, intimiditi dai potenti egoisti, si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, e le vostre nuove macchine non saranno fonte che di nuovi triboli per l’uomo. E quando, con l’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande che, un giorno, ad ogni vostro eureka risponderà un grido di dolore universale.
B. Brecht, Vita di Galileo, Einaudi, 1994
È stato scritto che quando la letteratura guarda alla scienza si verifica sempre un dialogo rischioso e inquietante, perché l’una incontra nell’altra la figura duplice dell’antitesi e dell’integrazione. Osservando il problema dal punto di vista della tradizione letteraria del Novecento europeo si potrebbe addirittura sostenere che questo sistema speculare di corrispondenze imperfette, fatto di scambi, rovesciamenti, fratture e simmetrie, fra linguistica, retorica e visioni del mondo, si sia risolto di fatto in una catena di esperienze discontinue, dove risultano prevalenti le posizioni individuali, le ipotesi di rottura o comunque le influenze a distanza e a lungo termine fra la prassi teorica e sperimentale delle scienze naturali e l’ermeneutica delle scienze dell’uomo. E in effetti, in un percorso del genere risulterebbe deformante sia ignorare i tratti comuni fra un’esperienza e l’altra, sia partire dal presupposto di una coerenza assoluta fra i processi gnoseologici e le prassi sperimentali di scienza e letteratura, che certo restano due attività ben distinte fra loro, configurandosi anzi come “due diversi statuti conoscitivi”: uno, la scienza, tendenzialmente centripeto, cioè portato a ricondurre tutto ciò che le è ignoto nell’alveo di norme e leggi aspiranti a una validità universale, l’altro, la letteratura, incline a rappresentare l’imprevisto, il caso limite, a convertire i fatti oggettivi in soggettività, come afferma Andrea Battistini in Letteratura e scienza a confronto.
È bene limitarsi allora a un discorso schematico e per sommi capi nel tentativo di presentare solo alcune esperienze esemplari e concrete di questo complesso rapporto di frontiera, precisando che tutto il nostro percorso si svolgerà all’interno della dimensione letteraria, considerando cioè le trasformazioni e i transiti della cultura scientifica all’interno di opere di invenzione e di critica, senza affrontare il problema altrettanto complesso dei valori estetici attribuibili al pensiero scientifico nelle sue diverse forme di espressione o quello propriamente epistemologico del ruolo svolto dall’immaginazione pura nel procedere della ricerca sperimentale e teorica, fra logica della scoperta e psicologia della ricerca.
Le ragioni di un paradosso
Friedrich Dürrenmatt , in un saggio aforistico intitolato Ventun punti sui “Fisici”, scritto a commento di una sua commedia del 1962, in cui tre personaggi pazzi, credendosi Einstein, Newton e Möbius, cadono in preda a un grottesco gioco del caso che li porterà a commettere ciascuno un omicidio cruento, delinea il quadro ellittico di una logica del paradosso in cui, pur in una sostanziale distinzione dei ruoli, la scrittura letteraria si accomuna in modo stringente, e apparentemente inequivocabile, all’attività degli scienziati. Ecco la parte centrale di questo ragionamento fulminante, i “punti” dal 12 al 19, che costituiscono una sorta di sillogismo ironico e frammentato sul rapporto fra la fisica e la letteratura, in questo caso rappresentata dalla commediografia: “Gli autori drammatici, come i logici, non possono evitare il paradosso; neppure i fisici, come i logici, possono evitare il paradosso; un dramma per i fisici deve essere paradossale; non può avere per oggetto il contenuto della fisica, ma unicamente i suoi effetti; il contenuto della fisica riguarda i fisici, i suoi effetti tutti gli uomini; ciò che riguarda tutti non può essere risolto da tutti; ogni tentativo individuale di risolvere ciò che riguarda tutti è destinato a fallire; nel paradosso si rivela la realtà”. Da avversario convinto dell’isolamento reciproco fra ricerca scientifica ed esperienza umana, e quindi dubbioso davanti alle pretese specialistiche e quasi esoteriche delle nuove prassi ipertecnologiche, Dürrenmatt difende il diritto di occuparsi di scienza anche da parte di chi non è iniziato alla vita di laboratorio, affermando anzi la necessità di trovare un significato comune ai fatti scientifici, pena la rottura insanabile del rapporto fra l’intelligenza umana e la vita delle cose.
La tradizione letteraria svizzera, cui appartiene l’autore dei Fisici, si è da sempre mostrata particolarmente aperta alle ragioni della scienza, portando alla ribalta anche altri autori assai sensibili a questi temi, fra cui è giusto ricordare almeno l’architetto narratore Max Frisch , che nel romanzo Homo faber (1957), esplora con umanesimo scettico il rapporto fra arte e prassi tecnologica, rappresentando un uomo fiducioso nella tecnica, l’ingegnere Walter Faber, il tipo del calcolatore privo di fantasia, schiacciato dal destino e dai rapporti affettivi. La posizione di Dürrenmatt risulta assai significativa perché non nasce solo da convinzioni personali ma anche da un tacito confronto con il pensiero di un altro maestro della letteratura europea, Bertolt Brecht, lo scrittore tedesco forse più sensibile al problema della verità e anch’egli uomo di teatro. Nella Vita di Galileo (Leben des Galilei, 1938-1955), Brecht mette in scena la vicenda dell’abiura scelta dal grande scienziato per avere salva la vita. Brecht muove da una riflessione sul rapporto fra ricerca scientifica e potere, per poi esprimere le sue perplessità sulla vasta problematica della perdita di umanità contenuta in un progresso indiscriminato e cieco che non tenga nel dovuto conto i bisogni più autentici dell’individuo e delle collettività. E non a caso Brecht riscrive più volte la Vita di Galileo, modificandola sotto l’influsso delle innovazioni tecnologiche messe in atto durante la seconda guerra mondiale. Nell’interpretazione brechtiana, il ricatto imposto alla scienza dalla cultura dominante non è solo il segno di una negazione della verità, che ne esce tradita e mistificata, ma diventa la rappresentazione di un conflitto fra saperi, di una battaglia fra visioni del mondo che a volte richiede una vera e propria astuzia dell’intellettuale.
Se è vero, però, che davanti al paradosso in cui “si rivela la realtà” le soluzioni univoche non solo sono destinate a fallire ma possono addirittura rivelarsi pericolose, come è possibile, allora, mantenere un testo letterario aperto alla tradizione scientifica quando esso è forzatamente impossibilitato a parlare le lingue della scienza? Come possono gli scrittori confrontarsi con l’universo microscopico e macroscopico della complessità scientifica, soprattutto dopo l’irrompere del paradigma probabilistico e “controintuitivo” della fisica di Planck, Einstein e Fermi, dopo il sopravvento della genetica, della chimica e delle altre scienze della vita, innalzate nel dopoguerra a nuovi livelli sperimentali grazie alla decriptazione delle basi informative del DNA da parte degli americani Watson e Crick? E farlo, come si chiede un altro specialista acuto, il ginevrino Jean Starobinski, non significherebbe accontentarsi di una traduzione oltremodo approssimativa delle equazioni e delle ipotesi provvisorie di una ricerca sperimentale in costante revisione o peggio di un’alterazione inconsapevole dei codici scientifici e dei loro significati?
Positivismo, romanzo e nuova fisica
Secondo Isaiah Berlin, l’unione o il divorzio fra le scienze naturali e gli studi umanistici non dovrebbe mai essere inteso come un confronto fra “due culture”, ma piuttosto come un rapporto fondante che si ritrova all’interno delle “molte culture” tramandateci dalla storia, ovvero come un confronto necessariamente pluralistico, definito dalla “capacità umana di concepire più di un modo per categorizzare la realtà”. Nell’Europa moderna, il modello di questa dialettica aperta fra saperi umanistici e scientifici viene offerto soprattutto dalla tradizione tedesca e da quella inglese. Con la pubblicazione nel 1883 a Berlino dell’Introduzione alle scienze dello spirito, del filosofo e letterato Wilhelm Dilthey, si impone all’attenzione di tutti – e rimarrà attiva per quasi un secolo – la fondamentale distinzione fra “scienze della natura” e “scienze dello spirito”, introdotta dallo studioso con l’intento di trovare un punto di riconoscimento reciproco fra le diverse forme di esperienza e gli atteggiamenti di indagine. Gli inglesi intanto hanno avviato un lungo dialogo sulle difformità fra scienza, poesia e romanzo, cominciato nel secondo Ottocento addirittura con una polemica che vede opposti due amici, il darwiniano Thomas Huxley, promotore della ragione scientifica fra evoluzionismo e ricerca positivista, e il maggiore critico dell’epoca vittoriana, Matthew Arnold, convinto fautore dell’integrazione fra le due esperienze cognitive, e poi proseguito fino alla nuova spaccatura determinata nel 1959 (trad. it. 1964) dal pamphlet di Charles P. Snow, Le due culture, che suscita aspre polemiche su scala mondiale, subendo un netto rifiuto, in particolare, dal grande critico “tradizionalista” Frank Raymond Leavis.
Tuttavia, a osservare la storia dei rapporti fra scienza e letteratura nel XX secolo, un singolare primato spetta all’Italia. Certo, già nell’Ottocento l’intelligenza critica di Francesco De Sanctis ha osservato in un discorso su La scienza e la vita (1872) che il gusto della sperimentazione positivista ha introdotto il “laboratorio” anche in letteratura e in arte, ma proprio alla data inaugurale del secolo, l’anno 1900, è addirittura un caposcuola della nostra narrativa moderna, Luigi Pirandello, a riprendere apertamente il discorso pubblicando sul “Marzocco” di Corradini, Morasso e Gargano, un saggio dal titolo Scienza e critica estetica, in seguito ristampato all’interno del volume di saggi Arte e scienza uscito nel 1908 parallelamente al grande saggio sull’Umorismo . La posizione di Pirandello è di grande apertura: egli rifiuta le modalità positiviste di approccio al fatto letterario, eccessive nel loro psicologismo e nel mettere in campo quasi esclusivamente un’idea di scienza intesa come studio di casi patologici, degenerati e devianti – quella stessa che aveva invece contato molto per Zola nel Romanzo sperimentale. Ma il vero obiettivo di Pirandello è l’idealismo estetico di Benedetto Croce appena reso pubblico attraverso la memoria accademica sulle Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, che è appunto del 1900 e che verrà poi ampliata nell’Estetica del 1902. Se la visione crociana riduce tutto “all’equazione: intuizione = espressione”, assimilabile “all’equivalenza di causa ed effetto nel mondo fisico”, secondo Pirandello ogni fenomeno poetico nasce invece dall’incontro di “funzioni e potenze antitetiche”, per questo la scienza naturale può risultare utile per comprendere quelle leggi a cui un romanziere finisce per sottostare anche senza rendersene conto. A dire la verità il rapporto di Pirandello con la scienza e con la tecnica si svolgerà soprattutto nello spazio sfumato delle proiezioni psicologiche e dei sentimenti individuali, arrivando al massimo, in romanzi come i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, a testimoniare un’inquietudine per la tecnologia della nuova macchina, un po’ come avviene, ma con spirito entusiasta, nell’esaltazione futurista della macchina e della sua travolgente pienezza percettiva.
Nonostante l’ostacolo epistemologico del pensiero crociano, nel periodo fra le due guerre, i due massimi romanzieri italiani del tempo, Italo Svevo e Carlo Emilio Gadda, mostreranno entrambi di possedere una genuina sensibilità scientifica. Rielaborando il grande tema novecentesco della malattia, lo Svevo della Coscienza di Zeno (1932) introduce nel suo romanzo, in particolare nell’ultimo capitolo, idee tratte dalle sue libere esperienze di conoscitore di Darwin e dell’evoluzionismo, chiudendo il romanzo con riflessioni quasi profetiche sugli “ordigni” della civiltà tecnologica, sull’inquinamento e sulla conseguente separazione fra uomo e natura. Carlo Emilio Gadda, invece, ingegnere di professione, formatosi all’interno di una tradizione squisitamente scientifico-applicativa come quella dell’ingegneria e della cultura lombarda risalente al modello di Carlo Cattaneo, si porta dietro per tutta la vita l’idea che la letteratura debba nutrirsi di ragioni, categorie, modi, proposte del nuovo discorso scientifico, per esercitare una funzione che egli chiama “galileiana”. E in effetti, vocaboli e metafore scientifiche, nozioni teoriche, teoremi ed espliciti riferimenti al lavoro degli scienziati sono reperibili già nelle pagine leibniziane della Meditazione milanese, stese intorno al 1928, e poi in un saggio straordinariamente precoce su Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche (1929), per non dire del mondo entropico delle cose rappresentato nei disegni milanesi dell’Adalgisa (1944), con in più il controcanto ironico di formule, calcoli e note scientifiche, prima di approdare al probabilismo complesso, del suo capolavoro narrativo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1945-1957).
In un clima ben più favorevole rispetto a quello italiano si svolse il dialogo fra letteratura e scienza all’interno della letteratura in lingua tedesca, che, non a caso, può contare sulla grande eredità del pensiero di Goethe. Come spiega il romanziere viennese Hermann Broch, in un saggio dal titolo eloquente di Unità di conoscenza scientifica e conoscenza poetica, l’aspirazione al conoscere di impronta goethiana è un esempio probabilmente incomparabile, un modo di fare che “ha qualcosa di demoniaco”, ma la sua sintesi meravigliosa fra la “conoscenza immediata dell’irrazionale” e la “purificazione razionale e metodologica” della scienza ha contribuito ad ampliare straordinariamente la sfera dell’arte e della letteratura, proprio perché la letteratura vi trova un ruolo che presuppone e favorisce il suo compenetrarsi di spirito scientifico pur nel rispetto dell’autonomia dell’arte. Questa visione bifronte, conclude Broch, indica che “il compito della conoscenza scientifica è di penetrare nella totalità del mondo mediante un numero infinito di progressi razionali infinitamente piccoli avvicinandosi eternamente a essa senza mai raggiungerla; il compito della conoscenza artistica è di lasciare intuire il ‘residuo di mondo’ inattingibile per via scientifica, quel resto di realtà che tuttavia esiste, che tuttavia è saputo”. Sarà con La morte di Virgilio che Broch raccoglierà la sfida di trasporre in un romanzo, non a caso diviso in quattro parti corrispondenti ai quattro elementi, acqua, fuoco, terra ed etere (ovvero ciò che nella chimica odierna si direbbe gas), questo rapporto oscuro e quasi irrazionale con la materia.
Nella cultura della “grande Vienna”, sullo sfondo dell’empirismo storico-critico di un filosofo della scienza come Ernst Mach, e poi del neopositivismo logico di Rudolf Carnap e del Circolo di Vienna, si sta svolgendo anche l’esperienza di Robert Musil, un romanziere che come Broch può contare su una solida preparazione scientifica, essendo laureato in ingegneria. Già nel suo primo romanzo I turbamenti del giovane Torless (1906), Musil si sofferma acutamente sul divario sussistente fra l’esperienza e la parola (dedicando pagine straordinarie all’analisi delle sensazioni fisico-percettive del protagonista adolescente) per arrivare poi a toccare il tema sconvolgente dell’irrealtà della matematica attraverso il problema dei numeri immaginari. Musil intende fondere poesia e scienza, portando la logica esatta della scienza anche nell’ambito dell’anima, ma proiettando insieme la conoscenza poetica negli ambiti apparentemente ordinati della scienza. A questi problemi è dedicata la sua opera maggiore, scritta negli anni del declino definitivo dell’Austria imperiale e rimasta incompiuta, L’uomo senza qualità (1930-1942), che qualcuno ha definito un’odissea ironica nel caos del mondo moderno, dalla scienza all’arte, dal linguaggio, all’amore, all’utopia politica. Ancora diverso, ma non meno profondo il caso di uno dei più importanti poeti lirici dell’Europa di metà Novecento, il berlinese Gottfried Benn, la cui vita pubblica viene irrimediabilmente segnata da un periodo (assai breve per la verità) di vicinanza al nazismo. Medico sifilopatologo di professione, Benn esordisce con poesie dominate da visioni di macabre anatomie di corpi malati ma giunge in seguito a elaborare una vera e propria teoria filosofica della poesia, esemplificata al suo massimo livello dalle Poesie statiche (Statische gedichte, 1948), dove la staticità è da intendere anche nel senso elettrodinamico del termine. Ma le sue inquietudini scientifiche si esprimono esplicitamente soprattutto nelle opere in prosa, da Romanzo del fenotipo (1944), ai saggi raccolti nello Smalto sul nulla, all’autobiografia di medico e poeta Doppia vita. La figura di Benn permette anche di notare la prevalenza del paradigma medico nella cultura letteraria della Germania, avviata dal Thomas Mann della Montagna incantata (1924) con i lunghi dialoghi di Hans Castorp rinchiuso in sanatorio, e proseguita fra le due guerre dall’opera del romanziere Alfred Döblin, che dalla sua prospettiva di medico e scrittore ebreo tedesco vede nella scienza un interlocutore necessario per “lo spirito dell’epoca naturalistica” chiarendo però che a volte sono l’arte e la letteratura a essere un passo più avanti, a dover lottare con convinzioni che affondano le loro radici nelle scoperte del passato.
Insieme con Broch, Musil, Gadda e Döblin, il romanziere più competente del secolo in materia scientifica è probabilmente l’inglese Aldous Huxley (1894-1963), costretto ad abbandonare il sogno di una vita da ricercatore e medico a causa di un disturbo alla vista che lo rende quasi cieco. Ma il saggista delle Porte della percezione (The doors of perception, 1954) e di Paradiso e inferno (Heaven and hell, 1956), nonché autore del romanzo di fantascienza antiutopica Il mondo nuovo (Brave new world, 1932), almeno finché è in vita non viene mai molto considerato, scontando anzi giudizi negativi a causa del suo stile freddo, cinico ed erudito. Sempre nella letteratura inglese un carattere più lirico e fantasmagorico e meno mitico-simbolico si trova in alcune opere di Virginia Woolf. In una delle sue opere più mature Le onde (The Waves, 1931), Woolf affronta il problema della visione della materia come puro movimento ritmico, sciogliendola in vibrazioni di echi e suoni, in un pulviscolo di immagini e punti luminosi, in una “pioggia incessante di innumerevoli atomi”.
La commistione dei codici
La scienza, però, non offre solo una storia di scoperte, di ipotesi e di rivoluzioni ma anche un metodo pratico, una logica operativa. In Francia, negli anni Venti è stata la ragione speculativa del poeta Paul Valéry ad avviare un dialogo con la scienza come principio d’ordine quasi matematico, tanto che, come suggerisce il critico Albert Thibaudet, certe sue composizioni poetiche si sarebbero potute ridurre a una notazione algebrica. Lo spirito geometrico di Valéry trova una sua precoce codificazione nella sua Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci (Introduction à la méthode de Leonard de Vinci, 1919 ma scritta nel 1894) e verrà per certi versi sviluppato a distanza di molti anni e con spirito più sistematico e umoristico dalle ricerche dell’OuLiPo, fondato nel 1960 dagli scrittori Raymond Queneau, Georges Perec e dal matematico François le Lyonnais. Attivo fino al 1973, l’Ouvroir de Littérature Potentielle (Opificio di letteratura potenziale) si propone di creare un sorta di tecnologia matematico-letteraria, o meglio, come spiega Queneau in una conferenza tenuta durante un seminario di linguistica quantitativa del 1964, “di proporre agli scrittori delle nuove strutture, di natura matematica, o di inventare dei nuovi procedimenti meccanici e artificiali, che contribuiscano all’attività letteraria, facendo da sostegno all’ispirazione e aiutando la creatività”. L’obiettivo, insomma, è di esaurire tutto il potenziale verbale e semantico offerto dalla lingua con esperimenti pirotecnici di combinatoria linguistica. Nascono così opere come i Centomila miliardi di poemi (Cent mille miliards de poèmes, 1961) di Queneau o romanzi come La vita: istruzioni per l’uso (La vie: mode d’emploi, 1978) di Perec. E oltre alle opere ricordate, va qui senz’altro menzionata un’altra importante opera poetica di Queneau, la Piccola cosmogonia portatile (Petite cosmogonie portative, 1951), in cui si uniscono il virtuosismo della tecnica letteraria e l’enciclopedismo scientifico e filosofico che identificano l’autore.
La letteratura del secondo Novecento, insomma, tende ad appropriarsi della scienza e dei suoi linguaggi misti senza frapporre trasformazioni intermedie, eseguendo semplicemente un salto di campo. Tanto che oggi all’interno del mondo della scienza si registra un tipo di malumore quasi opposto rispetto a quello che per esempio affligge Charles Percy Snow ne Le due culture, il quale indica la causa della rottura del dialogo fra letterati e scienziati nell’indifferenza dei primi. Al contrario, ciò che fa discutere oggi è il libero sovrapporsi delle conoscenze e dei linguaggi, la loro confusione in una sorta di patchwork polilogico, ludico e indeterminato, simile a un dialogo protratto ma fondato su una serie di fraintendimenti o perlomeno di paradigmi fortemente innovativi rispetto alla divisione tradizionale dei saperi. Molti protagonisti del canone filosofico e letterario novecentesco, da Lacan a Julia Kristeva, da Frederic Jameson a Jean-François Lyotard, da Gilles Deleuze a Jacques Derrida, retrocedendo fino a Henri Bergson e a tutto il bergsonismo, hanno fatto un uso spesso molto libero di nozioni, immagini e procedimenti scientifici. Tanto che nel 1996, due fisici teorici, l’americano Alan Sokal e il belga Jean Bricmont, sottopongono questi usi alla verifica inflessibile del calcolo osservando numerosi travisamenti, errori, abusi e oscurità e intendendo, quindi, che la scienza non possa essere trattata come un testo, come una riserva di “grandi temi sintetizzabili in poche parole”, perché le teorie scientifiche “non sono racconti” ma “trame complesse” i cui i termini differiscono sempre e in modo molto sottile dal loro significato comune.
Anche una delle voci più alte della coscienza letteraria europea, l’italiano Primo Levi, sente la sua condizione “dimidiata” fra il mestiere primario dell’uomo di scienza, del chimico, e quello secondario di scrittore e “testimone”. Alla metà degli anni Sessanta, Levi sceglie di avviare una ricerca parallela rispetto alla sua opera di testimonianza sui campi di concentramento. Prima con le Storie naturali (1966) e con i racconti di Vizio di forma, usciti nel 1971, poi con l’autobiografia scientifica del Sistema periodico (1975), Levi arriva a confrontarsi sempre più a fondo, da scrittore, con il problema dell’operatività sulla materia. Nel Sistema periodico ogni elemento della tavola di Mendeleev corrisponde a una storia (cromo, zinco, vanadio, nichel ecc.) attraverso cui il narratore fornisce un’immagine del lavoro di trasformazione della materia svolto dal chimico, preludendo già alla svolta “etnografica” – come la definisce un lettore del calibro di Lévi-Strauss – della Chiave a stella (1978), il romanzo in cui la meccanica dei metalli e dell’elettricità si integra alla vita dell’operaio protagonista, Tino Faussone. In Lilìt e altri racconti (1981) e in alcune sezioni de I sommersi e i salvati, del 1986, si assiste infine a un abbattimento progressivo della barriera fra animato e inanimato, a un continuo amalgama fra l’organico e il tecnologico, a un processo di mescolanze che un narratore della generazione successiva come Daniele Del Giudice, anch’egli osservatore acuto del lavoro scientifico (si ricordano tra i suoi romanzi Lo stadio di Wimbledon e Atlante occidentale), ha definito “la narrazione di una curiosissima ‘antropochemiozoologia’”. La ricerca di Levi fra letteratura e scienza, realizza così quella linea di ricerca letteraria che l’autore indica fin dai tempi di Se questo è un uomo come la sua grande intuizione conradiana, cioè l’idea di “un’avventura umana nel mondo della tecnologia”.
L’opera di Levi rende dunque visibile in modo straordinario come durante gli anni Sessanta e Settanta la situazione sia mutata radicalmente. La scissione fra le conoscenze scientifiche e i linguaggi letterari ancora denunciata fra il 1949 e il 1951 dai due critici italiani più attenti alla tradizione scientifica contemporanea, Giacomo Debenedetti e Gianfranco Contini, sembra essersi rovesciata velocemente nell’euforia di uno scambio libero fra i codici, nella sovrapposizione dei campi in una sorta di patchwork polilogico e indeterminato. Parallelamente alla ricerca di Levi è stata soprattutto l’opera di Italo Calvino a mettere in gioco queste trasformazioni culturali attraverso un vero e proprio caos combinatorio di soluzioni narrative, che rivestono un’importanza particolare nel progetto delle Cosmicomiche (1965, ampliate fino al 1984). In questi particolari racconti scientifici Calvino non realizza solo una sovrapposizione di paradigmi scientifici nel discorso narrativo. Con la creazione di un’entità invisibile e ironica come Qfwfq, Calvino introduce nel mondo invisibile degli strati infinitesimali della materia, del tempo e del cosmo, la prospettiva di un osservatore non umano, in grado, però, di fornire una serie di dati comprensibili sugli elementi, proprio come avviene nella prassi della ricerca scientifica da quando si è determinata la separazione tra strumento e osservatore, per cui gli scienziati non lavorano direttamente con le sostanze materiali ma perlopiù con delle loro rappresentazioni virtuali. Calvino, come in fondo anche Levi nei suoi racconti, coglie nelle Cosmicomiche il senso di questa delimitazione dei campi e degli oggetti, della costruzione di involucri che impediscono la collisione fra l’alterità ritualistica e informatizzata delle operazioni scientifiche e la sfera delle regole d’azione di tutti gli altri, di ciò, insomma, che il filosofo tedesco Hans Blumenberg ha definito una volta l’“esotismo” dei fenomeni esibiti dalla teoria e dalla scienza contemporanea.