Scienza egizia. La conoscenza normativa
La conoscenza normativa
di Joachim Friedrich Quack
Gli Insegnamenti sono uno dei generi letterari tra i più tipici e meglio definibili dell'Antico Egitto. Sono testimoniati con certezza al più tardi nel Medio Regno (2000-1630), anche grazie alla conservazione di manoscritti databili a quest'epoca. In alcuni testi sono presenti attribuzioni ad autorevoli maestri dell'Antico Regno (2750-2190), ma non è ancora certo in quale misura queste datazioni siano attendibili e se in generale l'Antico Regno abbia prodotto testi letterari in senso stretto.
La tipica situazione descritta in questi testi è quella di un padre che istruisce il figlio nel momento in cui questi giunge a un punto importante nella propria formazione e carriera professionale; a volte l'insegnamento è di carattere generale e le circostanze non sono ulteriormente specificate.
Questi Insegnamenti contengono essenzialmente consigli e ammonimenti per seguire una buona condotta; i singoli dettagli, però, cambiarono significativamente nel corso di un lungo processo evolutivo; a mano a mano che si producevano mutamenti nella storia del pensiero egizio, mutava infatti la posizione sociale delle autorità didattiche e di conseguenza mutavano i temi più importanti da prendere in considerazione.
Nelle loro istanze morali, gli Insegnamenti sono vicini al genere letterario delle autobiografie, che ne riprendono i valori, riformulandoli come se fossero esortazioni, constatazioni generali, oppure, più di frequente, presentandoli sotto forma di virtù praticate dal narratore.
Un concetto di importanza centrale nel pensiero egizio è la Maat, la mitica piuma assunta a simbolo della verità e della giustizia ma che non si riferisce semplicemente a quest'ultima, dal momento che simboleggia anche un sentimento di generale solidarietà, nonché il mantenimento della stabilità cosmica.
Nei testi che, a torto o a ragione, sono attribuiti all'Antico Regno, sono i principi e i visir a svolgere la funzione di autorità didattica. I contenuti sono per lo più pragmatici; in particolare, nell'Insegnamento di Djedefhor, ritenuto il più antico, sono trattati i bisogni elementari da soddisfare nel corso di una vita: il matrimonio, la procreazione di un figlio, la tempestiva costruzione di una tomba con la certezza che le funzioni funerarie siano espletate da sacerdoti appositamente incaricati, la scelta di concubine per assicurarsi una numerosa discendenza e ottenere una forte stirpe.
L'Insegnamento di Kagemni, la cui parte iniziale con il nome dell'autore non si è conservata, attribuisce notevole importanza all'esercizio della continenza, soprattutto nel mangiare e nel bere.
Una delle vette della cultura egizia è rappresentata dall'ampio Insegnamento di Ptahhotep, che nell'arco di 36 massime e un proemio espone un'ampia casistica di situazioni. In questo testo sono descritti in modo già compiuto i fondamentali valori egizi della moderazione, del silenzio e del giusto trattamento anche dei dipendenti. Sullo sfondo è chiaramente riconoscibile un sistema politico-sociale in cui ciascuno occupa il proprio posto, al quale deve adeguare il proprio comportamento. Di questo testo è celebre anche l'epilogo che tratta della necessità da parte dei figli di ascoltare e di ubbidire.
I testi sapienziali del Medio Regno hanno invece una tipica dimensione più direttamente politica, dal momento che sostengono concretamente gli interessi della dinastia al potere, consigliando modelli di comportamento socialmente desiderabili. La cerchia di persone cui questi testi sono destinati si espande nella misura in cui aumentano gli strati della popolazione inclusi nell'amministrazione dello Stato. In una serie di tre insegnamenti sono illustrate le diverse possibili carriere. L'Insegnamento di Kheti (o Satira dei mestieri) è indirizzato ai principianti, ai quali si cerca di rendere appetibile il faticoso apprendimento dell'arte della scrittura; l'insegnamento che l'uomo impartisce a suo figlio mostra le possibilità di successo dei funzionari di basso rango, mentre l'Insegnamento lealista si rivolge ai funzionari di alto rango che occupano posizioni chiave.
Soltanto nel Medio Regno è testimoniata la presenza di insegnamenti regali, in cui un faraone si rivolge ai suoi successori. L'Insegnamento di Amenemhat I (1960 ca.) è probabilmente postumo, essendo stato redatto subito dopo l'uccisione del sovrano, e ha come scopo precipuo la legittimazione del diritto al trono dei successori. È ancora veramente problematico stabilire in questo breve lavoro il collegamento tra gli elementi didattici e lo sfondo autobiografico. È invece meglio conservato l'Insegnamento per Merikara, attribuito a un re del Primo Periodo Intermedio (2070 ca.), ma probabilmente redatto non prima del 1950. Esso tratta dettagliatamente del comportamento da assumere in caso di ribellioni interne, dei successi e degli errori commessi durante il regno del padre, come pure di questioni religiose che, al contempo, procurano una sovrastruttura teologica favorevole all'immagine del sovrano. Quest'ultimo si distingue per le generose ricompense elargite ai sudditi fedeli, ma anche per le severe punizioni inflitte a tutti coloro che si ribellano.
Per la prima volta nel Nuovo Regno compare una serie di composizioni volte espressamente a soddisfare le esigenze della lezione scolastica e che pertanto non possono essere annoverate tra gli insegnamenti in senso stretto. I due testi di insegnamento più completi denotano posizioni relativamente diverse. L'Insegnamento di Ani (Quack 1994), degli inizi dell'epoca ramesside (1300 ca.), riguarda principalmente le preoccupazioni e i problemi quotidiani di un impiegato di rango medio o inferiore, cui sono elargiti numerosi consigli che, sebbene a volte siano di dubbia moralità, portano al successo nella vita: in particolare, si raccomanda di non distribuire denaro agli sconosciuti, ma d'investirlo in modo da farlo fruttare. Questo testo è caratterizzato da un inconsueto epilogo, stilato nella forma di un dialogo tra padre e figlio. Il figlio mette in discussione il valore dell'insegnamento paterno, sulla base dell'argomentazione che un bambino non sarebbe in grado di comprendere intellettualmente gli ammonimenti esposti e che al massimo avrebbe potuto ripeterli a memoria come un pappagallo. Inoltre, sempre secondo questa critica, per ottenere successo nella vita andrebbe invocata la misericordia divina.
L'Insegnamento di Amenemope, che risale forse alla tarda epoca ramesside (1100 ca.) o alla XXI dinastia (1080-945), rappresenta uno dei punti più alti della religiosità egizia. In esso il successo e la ricchezza terreni sono ricondotti alla benevolenza e alla misericordia divine. Questo testo è diventato famoso perché alcuni dei suoi precetti sono serviti da modello ai Proverbi biblici, in particolare alle 30 massime della sezione Proverbi, 22, 17-24, 22 della Bibbia.
Gli Insegnamenti che risalgono all'Età Tarda sono caratterizzati soprattutto da un cambiamento dei modelli compositivi. Si fa sempre meno ricorso al modello fino ad allora prevalente, quello delle massime utilizzate per esprimere unità di pensiero. La prima tappa di questa evoluzione è segnata dall'Insegnamento del papiro Insinger, tramandatoci nelle diverse scritture di epoca tolemaica e romana, ma che alcuni dettagli linguistici inducono a datare a epoca saitica (VIII-IV sec.). In esso è ancora mantenuto, come nell'Insegnamento di Amenemope, un ordine in sezioni numerate, ma l'articolazione interna di queste unità, anche se mantiene un modello compositivo, è relativamente più libera e associativa. Si tratta di un testo caratterizzato da un alto livello di astrazione, al quale corrisponde una terminologia estremamente appropriata, soprattutto nell'ambito dei valori morali, e nella descrizione dei tipi di persone. Sono messi particolarmente in risalto il carattere ideale dell'uomo saggio e timoroso di Dio, così come la fede nella ricompensa.
Un papiro del Museo di Brooklyn, probabilmente di tarda epoca saitica, mostra però un notevole superamento della forma fino ad allora in uso, sebbene sia ancora riconoscibile la struttura compositiva. Uno dei temi centrali del testo è il rapporto tra il padrone e il suo subalterno. La fede nel destino e nei suoi effetti è relativamente sottolineata. Il testo riporta la più antica formulazione della massima: "non fare ad altri quello che non vuoi venga fatto a te" (papiro Brooklyn 47.218.135,5,7 seg.). Inconsueta è l'introduzione, mal conservata, che evidentemente conteneva un elogio del re.
Infine, l'ambientazione dell'Insegnamento di Ankhsheshonqi si colloca in epoca saitica, anche se forse si è posteriormente combinato con l'originario corpus di massime. Questo insegnamento mostra una successione di singole frasi che non hanno alcun collegamento tra loro e che tutt'al più in alcuni casi rivelano mere associazioni lessicali. Vi sono contemplate tutte le possibili situazioni della vita, tra le quali sono messi in rilievo gli interessi pratici di un piccolo funzionario. Si avverte talvolta uno spirito pragmatico, a tratti cinico.
I testi sapienziali tardi, benché se ne supponga una relazione, almeno parziale, con analoghi testi greci ed ebraici, non sono stati ancora oggetto di analisi dettagliate sotto il profilo cronologico.
Nel complesso, gli Insegnamenti non erano di certo concepiti come disposizioni normative vincolanti, ma descrivevano un ambito di comportamenti ritenuti accettabili e promettenti dalla società egizia. In questo modo, se da un lato contribuivano alla continuità della civiltà, dall'altra erano sufficientemente trasformabili in modo da potersi adattare alle nuove condizioni.
Valori etici e norme rituali
Un quadro d'insieme dei valori etici dell'Antico Egitto trova espressione in due generi letterari. Il primo è rappresentato dalle autobiografie ideali, nelle quali dei privati cittadini alla fine della vita si fermano a osservare la propria esistenza e, con frasi relativamente convenzionali, sottolineano di aver praticato la virtù e di aver evitato i vizi; un accento particolare è posto sugli aiuti prestati a coloro che appartengono agli strati più deboli della società. Questo genere di affermazioni rientra nel patrimonio più antico della letteratura egizia. Sebbene non vi fossero norme precise su quali affermazioni bisognasse usare, i testi in questione forniscono nel loro complesso un'immagine davvero dettagliata di quello che in Egitto era considerato il giusto comportamento morale.
Al riguardo, un buon esempio di come questa condotta eticamente corretta nei fatti fosse richiesta quale norma per l'esercizio del potere ci è offerto dal racconto dell'Oasita eloquente, datato al Medio Regno (1900 ca.). Dopo essere stato derubato dei suoi beni, un contadino rivolge un'arringa ai superiori del malfattore, illustrando con nove lunghi e abili discorsi l'importanza del comportamento virtuoso; alla fine, egli non soltanto ottiene la restituzione dei propri beni, ma è riccamente risarcito con il passaggio alle sue dipendenze del malfattore con tutti i suoi averi.
La seconda forma di codificazione dei principî etici era in rapporto con la credenza, notevolmente sviluppata in Egitto, dell'esistenza di un giudizio oltremondano. Se nell'Antico Regno si credeva che, nell'aldilà, un uomo potesse rivolgere agli dèi lamentele specifiche sul conto di un'altra persona, nella speranza di un giudizio favorevole, in epoca più tarda si affermò la convinzione in base alla quale, dopo la morte, ogni uomo dovesse rispondere delle sue azioni terrene dinanzi a un collegio di giudici. I primi evidenti indizi di questa credenza sono presenti nell'Insegnamento per Merikara, che mette in guardia dal commettere azioni sconsiderate ricordando l'inevitabile sentenza di giudici severi. Almeno a partire dal Nuovo Regno (1540) la seduta del tribunale fu collegata all'atto del pesare. S'immaginava che il cuore, sede del sapere e della coscienza, fosse soppesato con una piuma (in egizio Maat), simbolo della verità. Un passo codificato come formula 30b del Libro dei morti aveva la funzione d'impedire al cuore di testimoniare contro il suo proprietario; questa formula era scritta su un amuleto a forma di scarabeo, che andava inserito nel corpo del defunto al posto del suo cuore.
Di carattere specifico è la Confessione negativa dei peccati dal capitolo 125 del Libro dei morti, testimoniato a partire dal 1500 ca. Importante in questo testo è il fatto che il defunto debba sottoporsi a un esame del tribunale per non essere mangiato dalla Grande Divoratrice. Nell'ambito di una specie di rituale di discolpa, si afferma che la persona in questione non ha commesso una lunga serie di azioni proibite. Più che principî etici fondamentali, sia l'Oasita eloquente che la Confessione negativa contengono numerosi casi concreti. Oltre ad affermazioni moraleggianti di carattere generale, in esse troviamo anche il tema della purezza sacerdotale e cultuale, come pure l'etica tipica dell'ambiente dei funzionari. Il fatto che tali esigenze morali siano state a lungo considerate valide ci viene testimoniato da una traduzione in demotico dell'antico testo del papiro 140 della Bibliothèque Nationale, realizzata in epoca romana.
Oltre a questo genere di giudizio a cui venivano sottoposti gli uomini dopo la morte, Diodoro (Bibliotheca, I, 92) ce ne descrive un secondo: durante la cerimonia funebre, il defunto era condotto su un lago in un viaggio rituale nel corso del quale ciascuno aveva la possibilità di muovere accuse contro di lui. Se l'accusatore poteva provare ciò che stava affermando, al defunto sarebbe stato negato il diritto alla sepoltura; se, invece, le accuse fossero state confutate o si fossero dimostrate false, i parenti lo avrebbero commemorato come si conveniva. Nelle fonti egizie questa concezione emerge in un brano dell'Insegnamento del papiro Insinger, oltre che in alcuni capitoli dei papiri funerari Rhind e, per accenni, nel rituale di imbalsamazione del toro Api. Quest'ultimo ripropone il motivo dell'attraversamento di un lago, ma al posto delle eventuali accuse e delle giustificazioni morali, prevede la recitazione di testi rituali di protezione e di annientamento dei nemici. In un capitolo dei Testi dei sarcofagi, si possono trovare i precedenti della cerimonia descritta da Diodoro, anche se al posto della giustificazione morale è richiesta una conoscenza iniziatica.
In Egitto, l'idea del tribunale oltremondano ebbe un grande impatto morale. Anche se era possibile cercare di sfuggire alla sentenza negativa grazie alla conoscenza delle formule di discolpa, l'immagine degli incorruttibili e obiettivi giudici della morte manteneva una grande efficacia. Troviamo un'espressione estrema di questa immagine nella Storia di Setne e Siosiri, scritta in demotico. Questi due personaggi assistono al dispendioso funerale di un uomo ricco e alla misera sepoltura di un povero; successivamente, in occasione di una visita nell'aldilà, i due vengono tuttavia a sapere che il ricco, a causa dei suoi vizi, deve sopportare terribili torture e che il suo sontuoso corredo funebre gli è stato sottratto per essere donato all'uomo povero ma virtuoso. Questa storia presenta un nesso con la parabola neotestamentaria del ricco Epulone (Luca, 16, 19-31). In generale, gli Egizi idearono rappresentazioni molto sviluppate dei supplizi infernali riservati ai malfattori, che poi influenzarono la concezione dell'inferno della cristianità.
È ancora controversa l'origine della raccolta di norme con le dichiarazioni di innocenza della prima forma del tribunale oltremondano, forse derivata dalle formule contenute nelle autobiografie ideali sopramenzionate. L'opinione prevalente vuole, tuttavia, che essa sia scaturita dalle norme relative alla purificazione dei sacerdoti. Queste norme si presentavano in due forme. Di solito, all'entrata dei templi antichi vi erano iscrizioni che esortavano i sacerdoti a svolgere correttamente il loro servizio e a non rendersi colpevoli di mancanze da un punto di vista morale; così, da un lato si poneva l'accento sul valore della purezza corporale e, dall'altro lato, si metteva in guardia dal commettere infrazioni contro il patrimonio del tempio. Simile per contenuti, ma formulato come giuramento, è un testo probabilmente connesso all'iniziazione dei sacerdoti, noto soprattutto da una versione greca (Merkelbach 1968).
Un esempio eloquente di cosa s'intendesse come norme di purezza valide non soltanto per i sacerdoti, ma per tutti coloro che desideravano entrare nel tempio, è fornito da un'iscrizione di epoca romana presente nel tempio di Esna. A mano a mano che ci s'inoltrava nel tempio, si richiedeva un'astinenza sessuale sempre più prolungata. Era necessario lavarsi, radersi, tagliarsi le unghie e indossare abiti nuovi. L'accesso al tempio era precluso a molte categorie di persone, tra cui gli epilettici e i lebbrosi, ma anche gli asiatici; alle donne, poi, era vietato anche soltanto avvicinarsi alla costruzione.
In epoca romana, anche i maghi, soprattutto se specializzati in determinate tecniche, come la mantica o il contatto diretto con gli dèi, dovevano attenersi alle regole sacerdotali relative alla purezza e all'astinenza. Ciò dimostra l'influsso della tradizione anche nei casi in cui determinate funzioni erano trasferite dal contesto ufficiale del tempio a una sfera invisa alle autorità romane.
Oltre alle norme di purezza predisposte specificatamente per i sacerdoti in servizio al tempio, vi erano prescrizioni generali dello stesso tipo rivolte ai fedeli. Già nelle tombe dell'Antico Regno si trovano esortazioni analoghe, in cui si proibiva al visitatore di entrare sporco, malato o infestato da parassiti, di danneggiare la tomba o le sue decorazioni, pena la condanna del tribunale divino. Tali ammonimenti erano rinforzati con maledizioni.
Tipicamente egizi sono poi i divieti, scritti in forma di elenco, che si riferiscono a determinati comportamenti, al mangiare, ai maltrattamenti di animali, ecc., e che non si estendevano all'intero territorio ma soltanto a una determinata provincia. Come testimoniano le fonti classiche, in alcuni casi si verificavano conflitti sanguinosi tra i diversi distretti (nomoí), perché in uno di essi si commettevano atti che nell'altro erano considerati sacrileghi.
Il Manuale del tempio
I resti di un ampio manuale templare, la cui stesura originaria risale al Medio Regno (2000-1630), si conservano in numerosi papiri, in gran parte inediti, di Età Tarda (712-332); di questo manuale abbiamo anche frammenti di una versione demotica e di una greca. Si tratta essenzialmente di una definizione del tempio egizio ideale, dal punto di vista sia dell'impianto architettonico sia delle attività cultuali, amministrative ed economiche.
Il testo inizia con un capitolo storico contenente i decreti regi che risalgono, come sembra, ai sovrani dell'Antico Regno e che riguardano la costruzione e il restauro del tempio. Oltre ai re Djeser e Cheope, si fa menzione del celebre architetto delle grandi piramidi, Imhotep. Mentre è ancora incerta l'assegnazione di questi argomenti alla composizione originaria, successivamente si raggiunge un ambito in cui la sequenza è relativamente certa. Il principe Djedefhor della IV dinastia (2640-2520) ritrova un antico decreto della II dinastia che si riferisce al restauro del tempio avvenuto dopo una carestia. Seguono la descrizione della cerimonia di fondazione e quella, particolarmente dettagliata, dell'impianto architettonico, che teoricamente dovrebbe valere per ogni tempio. In quest'ultima, l'assenza di misurazioni esatte lascia un certo spazio a possibili creazioni individuali. Sono descritti non solo gli ambienti di culto e i settori di rappresentanza, ma anche le parti destinate alle attività produttive e all'immagazzinamento. Nei dintorni del tempio si trovano una collina e un lago sacro, collegato al Nilo da un canale. La lista delle divinità da collocare nel tempio precede chiaramente l'esposizione della costruzione delle cappelle. Considerata nel suo insieme, la descrizione architettonica rende conto soltanto della posizione degli ambienti l'uno rispetto all'altro e occasionalmente delle loro dimensioni. Le eventuali decorazioni sono lasciate alla libertà d'invenzione; soltanto in un caso si specifica che le immagini dei re devono essere orientate verso l'interno e con ogni probabilità si tratta di statue e non di rilievi.
La parte che riguarda i sacerdoti e gli inservienti del tempio contiene innanzitutto alcune note di carattere generale. Rientra in questo contesto un giuramento che i sacerdoti devono prestare in occasione dell'ordinazione, in cui dichiarano di non aver mai commesso colpe gravi e di voler osservare in futuro precise regole morali e di purificazione. Per alcune cariche sacerdotali è annotato il guadagno percepito e si specifica come, in caso di morte, saranno mantenuti moglie e figli.
Diversi gruppi di persone con tare fisiche o difetti caratteriali non potevano entrare a far parte del personale addetto al tempio. La statura eccessiva, l'albinismo, il colore rosso dei capelli, l'alcolismo, la tendenza al furto e alla ribellione ai superiori, erano considerati caratteri negativi in quanto affini a quelli di Seth e Apofi. Negli ambiti cultuali di particolare riservatezza, soprattutto in quelli connessi alle celebrazioni del dio Osiride, erano previste speciali autorizzazioni d'ingresso per pochi individui selezionati.
I doveri di servizio di ogni sacerdote e inserviente del tempio erano stabiliti in disposizioni molto lunghe e dettagliate, la cui redazione rispecchiava probabilmente un ordine gerarchico, dall'alto verso il basso. Principio di base dell'organizzazione era il sistema della phylḗ, in base al quale quattro diverse phylaí di sacerdoti, ciascuna composta da uno o più membri di rango adeguato a un determinato ufficio, si alternavano mensilmente. Alcune cariche, per esempio il 'sovrintendente alla città' e il 'soprastante ai profeti', erano escluse da questi turni, avendo presumibilmente carattere di servizio permanente.
Le norme che riguardavano i doveri connessi a un determinato tipo di servizio non entravano nel merito dell'esecuzione di singoli rituali, ma si limitavano a fornire indicazioni generiche, del tipo: "egli è colui che rende Sekhmet tranquilla" (in relazione al Rituale per placare Sekhmet): ciò che aveva importanza era infatti essenzialmente il sapere pratico e soprattutto la definizione delle sfere di competenza.
I detentori delle cariche più prestigiose avevano una loro statua esposta nel tempio; ciò valeva in particolare per il sovrintendente alla città e per il soprastante ai profeti. A quest'ultimo competeva la sorveglianza del personale del tempio, in base alla quale i diligenti andavano premiati e i negligenti puniti. Nel caso in cui fosse stato commesso un crimine, le persone potevano essere interrogate, arrestate e subire la confisca dei beni; i casi più difficili erano portati in giudizio nella Residenza regale. Sono degni di nota i doveri dei sacerdoti di Sekhmet (veterinari) e dell'incantatore di scorpioni. I sacerdoti in questione dovevano essere in grado di riconoscere, nel corso della macellazione, gli animali infetti e non adatti al consumo, e dovevano saper distinguere, in base a speciali caratteristiche, gli animali considerati sacri, la cui macellazione era proibita. L'incantatore di scorpioni aveva il compito di recitare le formule magiche che proteggevano da serpenti e animali selvatici, di respingere con l'ausilio della magia i venti ostili durante la processione delle barche e infine, durante le cerimonie cultuali quotidiane, di scacciare i serpenti.
Sono menzionati anche gli artigiani del tempio, attivi nella cosiddetta 'casa dell'oro', il cui compito era quello di scolpire correttamente le statue. Il disegnatore stabiliva le decorazioni dei tabernacoli basandosi su progetti precostituiti o su album di modelli e una volta all'anno, secondo scadenze prefissate, rinnovava i colori delle pitture del tempio; inoltre, sotto la guida del sacerdote lettore e dei collaboratori della biblioteca templare, elaborava la forma di nuove immagini di culto da realizzare; infine, insieme ad altri artigiani, era impegnato nel 'Rituale di apertura della bocca', che doveva dare la vita e le facoltà percettive alle statue, oltre che alle mummie dei defunti.
Il tempio, che abbiamo or ora descritto nella sua architettura e nelle sue attività cultuali e amministrative, era in primo luogo una costruzione ideale il cui concreto modello di riferimento va riconosciuto nel tempio principale della residenza di Menfi, che è andato perduto. Anche se la maggior parte degli altri edifici di culto si attestò su un livello più modesto quanto ad allestimento architettonico e a entità numerica del personale, questo tempio esercitò una grandissima influenza sull'architettura templare, specialmente per i templi delle capitali dei distretti; testimonia della sua importanza nella cultura egizia, perlomeno nell'Età Tarda, il gran numero di manoscritti pervenutici su di esso.
Normative dell'amministrazione civile
Le dettagliate descrizioni dei doveri sacerdotali contenute nel Manuale del tempio fanno ipotizzare l'esistenza di un'opera altrettanto particolareggiata riguardante l'amministrazione civile e militare. Sfortunatamente disponiamo di un solo testo che può essere considerato pertinente a un'opera del genere, le cosiddette Istruzioni per il visir (van den Boorn 1988). Diverse copie di questo testo, che stilisticamente presenta evidenti affinità con l'elenco delle norme sacerdotali, sono state ritrovate nelle tombe di visir della XVIII e XIX dinastia (complessivamente 1540-1194); tuttavia è probabile che abbia conosciuto diverse fasi redazionali e che, sulla base di un'analisi stilistica e concettuale, debba farsi risalire a un'opera del tardo Medio Regno, vale a dire del XVIII-XVII secolo.
Il testo da un lato illustra il diritto cerimoniale per quel che concerne il visir, ossia le prescrizioni che riguardano il suo abbigliamento, le formule di cortesia e l'assegnazione dei posti a sedere in base al rango; dall'altro lato, stabilisce le competenze e i doveri d'ufficio del visir e dei suoi messaggeri. I diversi ranghi dell'amministrazione sono collegati a lui, almeno nella forma di controlli supplementari.
Anche un capitolo del papiro geografico di Tanis, in cui ai funzionari sono assegnati i rispettivi posti nella sala del trono, può essere considerato una testimonianza del modo con cui era stabilito il rango nelle cariche civili. I titoli che di volta in volta indicavano la "destra" o la "sinistra" corrispondevano sicuramente all'usanza, nota grazie alla descrizione delle udienze di corte presenti nei racconti demotici, secondo la quale i principi, i generali e tutti i cortigiani dovevano stare ai propri posti nella sala del trono e si mettevano al centro quando dovevano pronunciare un discorso.
Ci si aspetterebbe che nell'Egitto faraonico esistessero leggi scritte: sfortunatamente le fonti sono lacunose e non disponiamo al riguardo che di poche allusioni indirette. Quali testimonianze dirette del sistema amministrativo egizio si conservano numerosi decreti, in parte in originale, ma più spesso riportati in documenti di altro genere o, ancora, imitati in testi letterari e religiosi.
di Michel Chauveau
È noto che la maggior parte della documentazione demotica consiste di atti legali, quali contratti, giuramenti, ricevute, ecc., la cui redazione formale e il cui contenuto giuridico presentano una notevole omogeneità. Una continuità così stabile per un periodo di diversi secoli presuppone una codificazione preesistente. Dato che la documentazione faraonica anteriore alla diffusione della scrittura demotica nel VII sec. non offre nulla di simile, è probabile che questa diffusione sia stata accompagnata dall'adozione di una norma giuridica codificata, frutto dell'attività legislativa di uno o di diversi faraoni successivi a questo periodo.
I testi di cui disponiamo per definire l'origine e la natura di questa codificazione sono poco numerosi. In primo luogo abbiamo dei resoconti di udienze effettuate davanti ai laokrítai, cioè davanti ai tribunali costituiti da sacerdoti-giudici che, sotto i Tolomei (332-30), erano incaricati di applicare il diritto locale egizio. Per inciso, nel corso dei processi, le cui minute si sono così conservate, potevano essere invocati testi di leggi nelle argomentazioni dell'una o dell'altra delle parti. Così, secondo il resoconto di un processo tenutosi ad Assyut nel 170 a.C., la parte querelante menziona tre volte una legge designata come "la legge dell'anno 21" (Thompson 1934, p. 13, n. 16). Poiché di questa legge sono citati due estratti diversi, il testo originale doveva essere piuttosto lungo. Stando al contenuto degli estratti, si può supporre che questa legge garantisse gli interessi della donna sposata e dei suoi figli nel quadro di un contratto detto 'di alimentazione'; il primo estratto considera il caso del divorzio e di un nuovo matrimonio e il secondo stabilisce l'obbligo del consenso della sposa e dei figli nel caso di alienazione dei beni da parte del marito.
Anche un secondo papiro dello stesso tipo, di origine tebana, riproduce due estratti di una legge, uno concernente la nullità delle azioni intentate contro una persona deceduta senza lasciare eredi, l'altro il regolamento di successione ab intestato in assenza di eredi diretti (Thissen 1994, pp. 286-287). Al contrario di quella invocata nel processo di Assyut, la legge da cui sono stati estratti questi due brani è priva di ogni riferimento specifico.
Al di là di queste rare citazioni, le leggi demotiche ci sono note attraverso raccolte di carattere pratico che, benché non costituiscano un vero 'codice legale' nel senso moderno del termine, riproducono regole e leggi che i sacerdoti dei templi egizi dovevano applicare nell'esercizio delle funzioni attribuite loro in base alla tradizione, tra cui quelle di notaio e di giudice. I papiri demotici che ci hanno trasmesso tali raccolte sono tutti di epoca tolemaica (332-30). Va tuttavia notato che un papiro di epoca romana, del II sec. d.C., conserva una traduzione greca di una di queste raccolte (Rea 1978; Pestman 1985) e che dunque costituisce una dimostrazione di come l'antico diritto egizio poteva ancora servire da riferimento per i funzionari locali che amministravano la giustizia, in un tempo in cui il demotico non era più in uso come lingua giuridica. Questi testi si presentano essenzialmente come una sequenza di direttive destinate ai professionisti del diritto civile ‒ giudici, notai o avvocati ‒ per risolvere i litigi fra privati, regolare le successioni, redigere i contratti, ecc.
Fino a ora sono state pubblicate quattro di queste raccolte, più o meno frammentarie. La prima è stata identificata da coloro che ne hanno curato la pubblicazione come un Codice di procedura civile, designazione giustificata dal contenuto del frammento più importante, conservato a Berlino, che tratta delle condizioni di validità delle azioni e dei ricorsi fondati sull'esecuzione dei contratti scritti (Spiegelberg 1929; Seidl 1962, pp. 3-7). Si nota la presenza di un'unica disposizione di circostanza che prescrive la nullità in giudizio di tutte le azioni concernenti i fatti anteriori al primo mese del ventesimo anno di un sovrano, il cui nome non è menzionato. Piuttosto che vedere in essa l'introduzione di una forma di amnistia attuata da uno dei Tolomei, ci si può chiedere se tale disposizione non faccia piuttosto parte integrante del testo originale che fissava in questo modo una data limite per la sua applicazione retroattiva (Chauveau 1991, p. 123 n. 31).
Nel 1938-39 fu scoperto a Ermopoli un ampio frammento del più importante trattato di giurisprudenza che l'Egitto ci abbia tramandato (Mattha 1975). I fatti trattati nelle dieci colonne che si sono conservate concernono gli affitti di terreni agricoli, le locazioni di beni immobili, diversi problemi inerenti la vendita di case, le pensioni alimentari, l'esercizio del diritto di proprietà, i conflitti derivanti da proprietà comuni e la spartizione dell'eredità nei casi di successioni senza testamento. In ogni sezione si trova l'esposizione di diversi casi di liti fra privati e le norme che i giudici dovevano seguire per risolverle, così come i modelli dei contratti da redigere secondo la natura delle transazioni considerate. La mancanza di uno schema nettamente definito, l'assenza di un sistema di numerazione e di chiare divisioni tra le diverse sezioni non consentono a colui che utilizza questo manuale di fare facilmente riferimento a esso. Ciò che viene chiamato Codice di Ermopoli sembra dunque essere una compilazione di estratti piuttosto che l'esemplare di un manuale autorizzato. Questi estratti erano forse tratti o, piuttosto, adattati da un testo canonico, strutturato nel modo in cui lo sono i codici moderni e la cui esistenza sembra dimostrabile sulla base di numerosi indizi (Allam 1986; Mélèze-Modrzejewski 1986).
Così, il testo del Codice di procedura civile si presenta come la tredicesima parte di un'opera che ne conteneva 43 (col. II, 1-2; Seidl 1962, p. 4). Un frammento di un altro manuale giuridico reca in fondo alla pagina l'indicazione "44°" (Tait 1991). Poiché sembra poco probabile che il papiro di cui faceva parte questo frammento si componesse realmente di 44 colonne o più, si può supporre che questa numerazione rinvii alla divisione di un codice originale.
Infine, un'ultima opera dello stesso genere prevedeva la citazione di testi ufficiali introdotti dalla formula: "[legge] scritta nell'anno x". Su questa base è possibile dedurre l'esistenza di una raccolta di leggi classificate cronologicamente (Chauveau 1991, pp. 119-122). L'assenza di nomi regali associati a queste date ‒ come nel caso della legge dell'anno 21 citata nel processo di Assyut ‒ indica che esse dovevano riferirsi al regno di uno stesso sovrano legislatore, che perciò era inutile menzionare. È probabile che questo re fosse Amasi (570-526), contemporaneo alla diffusione del demotico in tutto l'Egitto e presentato da un famoso passo di Diodoro (Bibliotheca, I, 94-95) come uno dei grandi legislatori dell'Egitto. Lo stesso sovrano è peraltro menzionato in un frammento purtroppo molto mutilo del Codice di procedura civile, in relazione a una legge emessa nell'anno 29 del suo regno (Seidl 1963, p. 10). Il corpus di leggi pubblicato da Amasi doveva in realtà completare altre raccolte di redazione più antica, classificate in modo diverso, senza dubbio per materie. È per questo che il processo di Assyut fa allusione all'"ottavo volume della Legge d'Egitto chiamato 'il capitolo delle dilazioni'", così come a una legge particolare designata come "la sesta" (Thompson 1934, p. 53).
Le circostanze in cui queste diverse raccolte sono state composte emergono da uno dei testi che si trovano sul verso del papiro della Cronaca demotica (Spiegelberg 1914, pp. 30-32; Allam 1986, pp. 65-66; Mélèze-Modrzejewski 1986, pp. 18-19). Secondo questo documento, scritto in epoca tolemaica, Dario avrebbe dato l'ordine, nell'anno terzo del suo regno (519 a.C.), di convocare gli uomini più saggi e più competenti del paese ‒ capi militari, sacerdoti e scribi ‒ al fine di riunire "le leggi precedenti dell'Egitto fino all'anno 44 del faraone Amasi" (col. c, 10-11). Si può notare che questa precisa menzione dell'ultimo anno completo del regno di Amasi rafforza l'ipotesi di una classificazione cronologica adottata nella compilazione della sua legislazione.
Nessuno dei vari testi di giurisprudenza di cui disponiamo sembra essere una copia di questo codice legale, della cui esistenza ci informa il 'verso' della Cronaca demotica. Per risolvere le liti usuali, i professionisti del diritto avevano inoltre bisogno di opere a carattere pratico, che esponessero la casistica delle procedure da seguire secondo le diverse situazioni che si potevano verificare, piuttosto che di una raccolta di leggi di portata generale che sarebbe stata inapplicabile nella pratica quotidiana. Il modo in cui sono esposti questi differenti casi particolari rivela tuttavia uno sforzo di sistemazione e un livello di astrazione analogo a quello che si trova in certi trattati medici o matematici egizi, e non è certamente un caso che il verso del papiro contenente il Codice di Ermopoli sia occupato proprio da una raccolta di problemi matematici.
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